DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [7]
[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]
TRATTATO VIII.
CAPO XVII.
Che non abbiamo da mettere la nostra confidenza ne’ medici né nelle medicine, ma in Dio, e che dobbiamo conformarci alla volontà sua non solo in ordine all’infermità, ma anche in ordine a tutte le altre cose che sogliono accadere in essa.
Quel che s’è detto dell’infermità si ha da intendere ancora delle altre cose che sogliono occorrere nel tempo di essa. S. Basilio dà una dottrina molto buona per quando siamo infermi (D. Basil, in reg. fusius disp. 55). Dice, che talmente abbiamo da valerci dei medici e delle medicine, che non mettiamo in ciò tutta la nostra fiducia; il che non avendo fatto il re Assa, per ciò la sacra Scrittura ne lo riprende: Nec in infirmitate sua quæsivit Dominum, sed magis in medicorum arte confìsus est (II. Paralip. XVI, 12). Non abbiamo d’attribuire a questo tutta la cagione del guarire, o non guarire dall’infermità; ma abbiamo da mettere tutta la nostra fiducia in Dio, il quale alcune volte vorrà darci la sanità col mezzo di queste medicine, ed altre volte no. E così quando ci mancherà il medico e la medicina, dice S. Basilio, che né anche abbiamo perciò da sconfidarci della sanità; perché, siccome leggiamo nel sacro Evangelio, che Cristo nostro Redentore alcune volte risanava colla sola volontà (nel qual modo risanò quel lebbroso che gli disse: Domine, si vis, potes me mundare (Matth. VIII, 8.): Signore, se tu vuoi, mi puoi mondare; ed Egli rispose: Volo: mundare (ibid. 3): Voglio: sii mondo, altre volte risanava applicando qualche cosa come quando fece il loto collo sputo, ed unse gli occhi del cieco, e gli comandò che andasse a lavarsi nella natatoria, o fontana di Siloe (Joan IX, 2), ed altre volte lasciava gli infermi nelle loro infermità, e non voleva che guarissero, ancorché spendessero tutte le facoltà loro in medici e medicine (Marc, V, 26); così anche adesso, alcune volte Dio dà la sanità senza medici e senza medicine, per mezzo della sola volontà sua; alcune altre le dà col mezzo delle medicine; e alcune altre, benché uno chiami e consulti con molti medici, e gli siano applicati grandi rimedi, Dio non gli vuol dare la sanità; acciocché con questo impariamo a non metter la nostra fiducia ne’ mezzi umani, ma solamente in Dio. Siccome il re Ezechia non attribuì la sua guarigione a quella massa di fichi che Isaia pose sopra la sua piaga (IV. Reg. XX, 7), ma a Dio, così tu quando guarirai dall’infermità, non hai da attribuirlo ai medici né alle medicine, ma a Dio, che è quegli che risana tutte le nostre infermità. Etenim neque herba, neque malagma sanavit eos: sed tuus. Domine, sermo, qui sanat omnia (Sap. XVI, 12): Che non sono le erbe né gl’impiastri quei che guariscono, ma Dio. E quando non guarirai, né anche ti hai da lamentare de’ medici né delle medicine; ma hai da attribuire ogni cosa a Dio, il quale non vuol darti la sanità, ma vuole che stia infermo. Similmente quando il medico non ha conosciuta l’infermità, ovvero ha fatto errore nel medicare (cosa che accade assai spesso anche a gran medici e in gran personaggi), hai da pigliar quell’errore per un effetto e adempimento della volontà di Dio, e così ancora la trascuraggine e negligenza e il mancamento dell’infermiere: onde non hai da dire, che per lo tal mancamento fatto teco ti sia tornata la febbre; ma ogni cosa hai da pigliare come venuta dalla mano di Dio, e dire: È piaciuto al Signore che mi sia cresciuta la febbre e che mi sia venuto il tale accidente. Perciocché è cosa certa, che quantunque relativamente a quei che ti governano questo sia stato errore; nondimeno relativamente a Dio è stato effetto e adempimento della sua volontà, atteso che rispetto a Dio non succede cosa alcuna a caso. Pensi tu, che il passare delle rondinelle e l’acciecare col loro sterco il santo Tobia fosse a caso? non fu a caso, ma una molto particolare disposizione e volontà di Dio per darci in questo santo uomo un raro esempio di pazienza, come nel santo Giob: e così lo dice la divina Scrittura: hanc autem tentationem permisit Dominus evenire illi, ut posteris daretur exemplum patientiæ ejus, sicul et sancti Job (Tob. I, 12.). E l’Angelo gli disse poi: Quia acceptus eras Deo, necesse fuit, ut tentatio probaret te (Ibid. XII, 13): Per provarti, Dio ti ha permesso questa tribolazione. – Nelle Vite dei Padri si racconta dell’abbate Stefano (De abb. Steph. refert etiam D. Dor. doctr. 7), che essendo infermo volle il compagno fargli una frittatella, e pensandosi di farla con olio buono, la fece con olio di seme di lino, che è molto amaro, egliela diede. Stefano, tosto che l’ebbe sentita, ne mangiò un poco, e tacque. Un’altra volta gliene fece un’altra nel medesimo modo, e gustandola e non volendola mangiare, il compagno gli disse: Mangia, Padre, che è molto buona: e fattosi ad assaggiarla egli stesso per indurlo a mangiare, sentita l’amarezza, cominciò ad affannarsi e a dire: Io sono omicida. Allora gli disse Stefano: Non ti turbare, figliuolo, che se Dio avesse voluto, che tu non errassi in pigliar un olio per un altro, non l’avresti fatto. E di molti altri Santi leggiamo, che pigliavano con grande conformità e pazienza i rimedi che si facevano loro, ancorché fossero contrari a quello che ricercava la loro infermità. Ora in questa maniera abbiamo noi altri da pigliar gli errori, le trascuraggini e le negligenze sì del medico, come dell’infermiere, senza lamentarci dell’uno né incolpar l’altro. Questa è una cosa nella quale si scopre e si dimostra grandemente la virtù di un uomo: onde edifica grandemente un Religioso infermo il quale piglia con tranquillità d’animo e con allegrezza ogni cosa come venuta dalla mano di Dio, e si lascia guidare e governare dai Superiori e dagli infermieri, dimenticandosi, e deponendo totalmente ogni cura e sollecitudine di se stesso. Dice S. Basilio: Se hai confidata l’anima tua al Superiore, perché, non gli confidi ancora il tuo corpo? Se hai posta nelle mani di lui la salute eterna, perché non v’hai da mettere ancora la temporale (D. Basil, in reg. fusius disp. reg. 48)? E poiché la Regola ci dà licenza di deporre allora ogni pensiero del nostro corpo, e ce lo comanda (3 p. Const. c. 2, litt. G); dovremmo stimar grandemente questa cosa e valerci di così giovevole licenza. Al contrario dà molto mala edificazione il Religioso infermo, quando ha gran cura di sé, e di quel che gli hanno da dare, e come glielo hanno da dare, e se lo servono a puntino; e quando no, sa molto ben lamentarsi, e ancora mormorare. Dice molto bene Cassiano: L’infermità del corpo non è impedimento alla purità del cuore, anzi le serve d’aiuto, se si sa pigliare come dee essere pigliata. Ma guardati, dice (Cass. lib. 5, de inst. renun. c.7), che l’infermità del corpo non passi all’anima: che se uno s’inferma in questa maniera, e piglia occasione dall’infermità di far la volontà sua, e di non essere ubbidiente e rassegnato; allora l’infermità passerà all’anima, e farà che l’infermità spirituale dia più da pensare al Superiore, che la corporale. Non per esser uno infermo che lasciar di mostrarsi Religioso, né pensare, che non vi sia più Regola per esso, e che può mettere ogni sollecitudine per pensare alla sua sanità e al buon governo del suo corpo, e dimenticarsi di quel che concerne il suo profitto. – L’infermo, dice il nostro S. Padre, dimostrando la sua umiltà e pazienza, non meno procuri di dare edificazione nel tempo dell’infermità a coloro che lo visiteranno, e seco converseranno e tratteranno, che quando era sano, per maggior gloria di Dio (Reg. 50 Summa). S. Gio. Crisostomo sopra quelle parole del Profeta, Domine, ut scuto bonæ voluntatis tuæ coronasti nos, trattando, come finché dura questa nostra vita, sempre v’è battaglia: Sempre, dice, abbiamo d’andar armati per essa; et ægroti, et sani: morbi enim tempore hujus maximæ pugnæ tempus est; quando dolores undique conturbant animam; quando tristitiæ obsident; quando adest diabolus incitans, ut acerbum aliquod verbum dicamus (D. Chrys. in Psal. V, 13): Il tempo dell’infermità è tempo molto proprio da star bene armati e ben preparati per combattere, quando da una banda i dolori ci turbano, la tristezza ci assedia, e il demonio, presa da ciò l’occasione, c’incita e stimola a parlare con impazienza e a lamentarci soverchiamente: e così allora è tempo di esercitare e mostrar la virtù. Per fin Seneca disse colà (Sen. ep. 78), che l’uomo forte ha occasione di esercitare la sua fortezza non meno nel letto mentre patisce infermità, che nella guerra combattendo contro i nemici; perché la principal parte della fortezza consiste più nel soffrire che nell’assalire: e così il Savio disse, che è migliore l’uomo paziente che il forte: Melior est patiens viro forti, et qui dominatur animo suo, expugnatore urbium (Prov. XVI, 32).
CAPO XVIII.
Si conferma quel che s’è detto con alcuni esempì.
Si legge della santa vergine Gertrude, che una volta le apparve Cristo nostro Redentore, il quale nella mano destra portava la sanità e nella sinistra l’infermità, e le disse, che s’eleggesse quel che voleva: al che ella rispose: Signore, quel che io desidero di tutto cuore, è, che voi non guardiate alla volontà mia, ma che facciate in me quello che sia per risultare a maggior gloria e gusto vostro ((3) Blos. c. 11 monil. spir.). Si racconta di un uomo devoto di san Tommaso Cantuariense (Marulus lib. 5, c. 4, et Jacob de Varagine), che essendo infermo andò al sepolcro del Santo a chiedergli, che pregasse Dio per la sua sanità; e la conseguì. Ritornando poi sano alla sua patria, si pose a pensar fra se stesso, che se l’infermità gli era conveniente per salvarsi, a che effetto desiderava la sanità? E gli fece tanta forza questa ragione, che ritornato al sepolcro, pregò il Santo, che chiedesse per lui a Dio quello che gli era più spediente per salvarsi; e così Dio gli rimandò l’infermità; ed esso se ne stette molto consolato con essa, conoscendo che quello era ciò che più gli conveniva. Il Surio nella vita di S. Bedasto Vescovo mette un altro esempio simile d’un uomo cieco, il quale nel giorno della transazione del Corpo di questo santo Vescovo desiderò grandemente vedere le sue sante Reliquie, e conseguentemente d’avere la vista per tal effetto. La conseguì dal Signore, e vide quello che egli desiderava; e ritrovandosi colla vista, tornò a far orazione, che se quella vista non gli era conveniente pel bene dell’anima sua, gli fosse restituita la cecità: e fatta questa orazione, ritornò cieco come prima. Narra S. Girolamo (D. Hieron. ep. ad Castr. cæcum), che essendo santo Antonio abbate chiamato da S. Atanasio vescovo alla città d’Alessandria, per aiutarlo a confutare e ad estirpar le eresie che ivi regnavano, Didimo, il quale era un uomo eruditissimo, ma cieco degli occhi corporali, trattò con sant’Antonio molte cose delle sacre Scritture, di maniera tale che il Santo restava ammirato dell’ingegno e della sapienza sua. E dopo aver trattato seco di queste cose, gli domandò, se si attristava per esser cieco; ma egli taceva, non bastandogli l’animo di rispondere per vergogna: finalmente domandato la seconda e la terza volta, confessò ingenuamente, che ne sentiva tristezza: allora il Santo gli disse: Mi meraviglio, che un uomo tanto prudente e saggio quanto tu sei, s’attristi e si dolga di non aver quello che hanno le mosche, le formiche e i vermicciuoli della terra; e non si rallegri d’avere quello che solo i Santi e gli Apostoli meritarono d’avere. Dal che si vede, dice S. Girolamo, che è molto meglio aver gli occhi spirituali che corporali. – Nell’Istoria dell’Ordine di S. Domenico racconta il P. F. Ferdinando del Castiglio (Chron. Ord. Praìd. 1 p. 1. 1, c. 49), che stando S. Domenico in Roma, visitava una donna inferma, afflitta, e gran serva di Dio, la quale s’era ritirata in una torre alla porta di S. Giovanni Laterano, e soleva il benedetto Padre confessarla molte volte e amministrarle il santissimo Sacramento. Questa donna si chiamava Bona, ed era la vita sua tanto conforme al nome, che come buona Dio l’ammaestrava in aver allegrezza ne’ travagli e quiete nella morte. Pativa un’infermità gravissima nelle mammelle che erano già incancherite e piene di vermi; di maniera tale che per qualsivoglia altra persona sarebbe stato tormento intollerabile, eccetto per essa che lo sopportava con pazienza mirabile e con rendimento di grazie. Per vederla S. Domenico tanto inferma e tanto approfittata nella virtù, l’amava grandemente: e un giorno dopo averla confessata e comunicata, così inspirato dal Signore, volle vedere quella sì stomacosa e terribil piaga; il che ottenne da lei, sebbene con qualche difficoltà. Quando Bona si scoprì e il Santo vide la marcia, il canchero e i vermi che bollivano, e la sua pazienza ed allegrezza, ebbe compassione di lei; ma più desiderio delle sue piaghe che de’ tesori della terra; e la pregò istantemente, che gli desse uno di quei vermi come per reliquia: non volle però la Serva di Dio darglielo, se prima non le prometteva di restituirglielo; perché già era arrivata a gustar tanto di vedersi mangiar viva, che se alcuno di quei vermi le cadeva in terra, lo rimetteva nel suo luogo; e così su la sua parola glie ne diede uno che era ben grandicello e con un capo nero. Appena il Santo l’ebbe nelle mani, che si convertì in una bellissima perla, e. i Frati ammirati dicevano al lor Padre, che non gliela restituisse; l’inferma all’incontro domandando il suo verme diceva, che le restituissero la sua perla: e subito che le fu data, tornò alla prima forma di verme, e la donna lo ripose nelle mammelle ove s’era generato e si nutriva: e S. Domenico fatta orazione per essa, e datale la sua benedizione col segno della Croce, la lasciò, e si partì: ma calando giù per la scala della torre, caddero alla donna le mammelle incancherite coi vermi, e a poco a poco andò crescendo la carne, e fra pochi giorni fu sana affatto; raccontando a tutti le cose meravigliose che Dio operava per mezzo del suo Servo. – Nella medesima Istoria si narra (Chron. Ora. Præd. 1 p. lib. 1, c. 83), che trattando fra Reginaldo con S. Domenico di pigliare l’abito della sua Religione, ed essendo già deliberato di farlo, cadde infermo d’una febbre continua a giudicio dei medici mortale. Il Padre S. Domenico prese molto a cuore la sua sanità, e faceva per esso continua orazione a Dio Signor nostro, e così l’infermo, come lui, chiamavano la Madonna santissima in suo aiuto con molta divozione e sentimento. Stando ambedue occupati in questa domanda, entrò nella stanza di Reginaldo la sacratissima Regina del cielo con una chiarezza e splendore in estremo grado meraviglioso e celeste, accompagnata da due altre beate Vergini, che parevano santa Cecilia e santa Caterina martire, le quali s’accostarono insieme colla sovrana Signora al letto dell’infermo; il quale ella come Regina e Madre di pietà consolò, dicendogli: Che cosa vuoi che io faccia per te? ecco che io vengo a veder quel che domandi: dimmelo, e ti sarà dato. Restò sorpreso e confuso Reginaldo per così rara e celeste visione, e dubbioso di quello che gli convenisse fare, o dire; ma una di quelle Sante ch’erano in compagnia della Madonna, lo cavò presto presto da quella perplessità, dicendogli: Fratello, non chiedere cosa alcuna: mettiti totalmente nelle sue mani, che molto meglio saprà Ella dare che tu domandare. L’infermo s’appigliò a questo consiglio, come tanto prudente e accorto ch’egli era, e così rispose alla Vergine: Signora, io non domando cosa alcuna: non ho altra volontà che la tua; in essa e nelle tue mani mi metto. Le stese allora la sacra Vergine, e prendendo dell’olio che a questo effetto portavano quelle due Sante che le servivano di corteggio, unse Reginaldo nel modo che si suol dare l’Estrema Unzione, e fu di tanto grande efficacia il tatto di quelle sacre mani, che subito restò libero dalla febbre e sano, e così ristorato di forze corporali come se non fosse mai stato infermo. E quel che è più, insieme con quella sublime grazia gliene fu fatta un’altra maggiore nella virtù dell’anima, che da quell’ora innanzi non sentì mai più movimento sensuale né disonesto nella sua persona per tutta la vita sua in nessun tempo, luogo, né occasione. – Nell’Istoria Ecclesiastica si narra (Hist Eccl. p. 2, lib. 6, cap. 2), che fra le persone che fiorivano in quel tempo era molto illustre un tal Beniamino, il quale aveva dono da Dio di risanare gl’infermi senz’altra medicina che col solo tatto delle sue mani, ovvero ungendoli con un poco d’olio e facendo orazione sopra di essi. E con questa grazia di risanare altri, ebbe egli stesso una grave infermità d’idropisia per la quale si gonfiò tanto, che non poteva uscire dalla sua cella se non isgangheravan la porta; e così se ne stette dentro di essa per lo spazio di otto mesi, finché morì, sedendo in una sedia molto larga, ed ivi guarì molte infermità, senza lamentarsi né attristarsi di non poter rimediare alla sua propria; e a quei che gli avevano compassione recava conforto e diceva: Pregate Dio per l’anima mia, e non vi curate del corpo; che anche quando era sano non mi serviva per cosa alcuna. Nel Prato Spirituale (Prato spir. c. 10) si racconta d’un Monaco chiamato Bernabeo, al quale essendo accaduto, che per istrada se gli ficcò in un piede uno stecco, o scheggia di legno, non volle per alcuni giorni cavarsela, né esser medicato della ferita, per aver occasione di patire qualche dolore per amor di Dio. E si dice, che soleva dire a quei che lo visitavano, che quanto più patisce e si mortifica l’uomo esteriore, tanto più l’interiore si vivifica e fortifica. – Nella Vita di S. Pacomio il Surio racconta d’un Monaco chiamato Zaccheo, che con tutto che stesse infermo d’epilepsia, o malcaduco, non rimetteva punto del rigore della sua solita astinenza, ch’era in pane solo con sale; né meno cessava di far le orazioni che costumavano di fare gli altri Monaci sani, andando a Mattutino e alle altre Ore; il resto del tempo nel quale cessava dall’ orazione, si occupava in fare stuoie, sporte e corde; e per la ruvidezza di quell’erba, della quale le tesseva, aveva le mani tanto guaste e crepate, che sempre gli scorreva il sangue dalle crepature di esse; il che faceva per non istare ozioso; e la notte prima di dormire era solito di meditare qualche cosa della sacra Scrittura, e poi farsi il segno della Croce sopra tutto il corpo: fatto questo si riposava fin all’ora del Mattutino, al quale, come si è detto, si levava, durando in esso e in orazione fino a giorno. Cosi teneva distribuito il tempo questo santo infermo, e questi erano i suoi ordinari esercizi. Accadde una volta, che andò da lui un Monaco, il quale veggendogli le mani tanto guaste, gli disse, che se le ungesse con olio, che non avrebbe sentito tanto dolore delle crepature di esse. Lo fece Zaccheo, e non solo non se gli mitigò il dolore, ma se gli accrebbe molto più. Essendo poi andato a vederlo S. Pacomio, e raccontandogli egli quello che aveva fatto, il Santo gli disse: Pensi tu forse, o figliuolo, che Dio non veda tutte le nostre infermità, e che se gli piace, non le possa risanare? e quando non fa questo, ma permette che patiamo dolori sino a che piace a Lui, per qual fine credi tu che lo faccia? se non acciocché lasciamo a Lui tutta la cura di noi altri e in esso solo mettiamo ogni nostra fiducia? lo fa anche per bene e utilità delle anime nostre, acciocché possa dipoi accrescerci la mercede e il premio eterno per questi brevi travagli ch’Egli ci manda. Con questo si compunse grandemente Zaccheo, e gli disse: Perdonami, Padre, e prega Dio che mi perdoni anch’esso questo peccato di poca confidenza e conformità alla volontà sua e questo desiderio di guarire. E partitosi Pacomio, digiunò per penitenza di colpa così leggiera tutt’un anno, con tanto rigido digiuno, che non mangiava se non di due in due giorni, ed anche allora molto poco e piangendo. Soleva poi il gran Pacomio raccontare questo cosi notabile esempio a’ suoi Monaci, per esortarli alla perseveranza nel travaglio, alla fiducia in Dio, e a far conto de’ piccoli mancamenti.