DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [4]
[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]
TRATTATO VIII.
CAPO X.
Della paterna e particolar provvidenza che Dio ha di noi altri, e della figlial confidenza che abbiamo da avere noi altri in Lui.
Una delle maggiori ricchezze e tesori che godiamo noi altri che abbiamo fede, è il sapere la provvidenza tanto particolare e tanto paterna che Dio ha di noi, mentre siam certi, che non ci può venire né succedere cosa alcuna che non sia ordinata da Lui e che non passi per le sue mani. E così disse il Profeta: Domine, ut scuto bonæ voluntatis tuæ, coronasti nos (Psal. V, 13.): Signore, ci hai circondati e custoditi colla tua buona volontà, come con uno scudo fortissimo. Siamo circondati per ogni parte dalla buona volontà di Dio, sicché non può entrare in noi cosa alcuna, se non passi prima per essa: e così non abbiamo di che temere; perché eEgli non lascerà entrare né arrivare a noi cosa alcuna, se non sia per maggior bene e utilità nostra. Quoniam abscondit me in tabarnaculo suo: in die malorum protexit me in abscondito tabernaculi sui (Ps. XXVI, 5), dice il reale Profeta. Nella parte più intima del suo tabernacolo e del suo gabinetto segreto ci tiene Dio nascosti; ci tien custoditi sotto le sue ali: e in un altro luogo dice ancora più di questo: Abscondes eos in abscondito faciei tuæ (XXX, 212). Ci nasconde il Signore nella parte più nascosta e più difesa della sua faccia, che sono gli occhi; nelle pupille di essi ci nasconde ; e così un’altra lettera dice : In oculis faciei tuæ. Dio ci considera come pupille degli occhi suoi, acciocché così si verifichi bene quello che dice in altro luogo lo stesso santo Profeta: Custodi me, ut pupillam oculi (Ibìd. XVI , 8): e quello che disse Egli stesso per Zaccaria: Qui teligerit vos, tanget pupillam oculi mei (Zach. II, 8): come pupille degli occhi suoi siamo custoditi sotto la sua protezione. Chi toccherà voi altri, dice Dio, toccherà me nella luce degli occhi. Non si può immaginare cosa più rara né più preziosa, né da stimarsi e desiderarsi più di questa. Oh se finissimo di conoscere e d’intender bene questa cosa, quanto protetti ed aiutati ci sentiremmo, e quanto animati e consolati staremmo in tutte le nostre necessiti travagli! Se di qua un figliuolo avesse padre molto ricco e potente, e molto intimo e favorito del Re; quanta confidenza e sicurezza non avrebb’egli, che in tutti i negozi che gli occorressero non gli fosse mai per mancare il favore e la protezione di suo padre? Ora con quanta maggior ragione abbiamo d’avere questa confidenza e sicurezza noi altri, considerando, che abbiamo per Padre quegli nelle cui mani sta tutta la podestà del cielo e della terra, e che non ci può avvenir cosa alcuna senza che passi prima per le sue medesime mani? Se una sì fatta confidenza ha un figliuolo in suo padre, e con essa se ne dorme quieto; quanto maggiormente dobbiamo averla noi altri in quello che è più Padre che tutti i padri, e in comparazione del quale non meritano gli altri nome di padre? Perciocché non vi sono viscere d’amore che si possano paragonare a quelle di Dio verso di noi, le quali superano infinitamente tutti gli amori che possono essere in tutti i padri terreni. Possiamo ben confidare e assicurarci di tal Padre e Signore, che ciò che ci manderà sarà per nostro maggior bene ed utilità: perché l’amore che ci porta nel suo unigenito Figliuolo non gli lascerà far altro che cercare il bene di coloro per amor de’ quali diede il proprio Figliuolo in potere de’ dolori della croce: Qui etiam proprio Filio suo non pepercit, sed prò nobis omnibus tradidit illum; quomodo non etiam cum illo omnia nobis donam? dice l’apostolo S. Paolo (Ad Rom. VIII, 32): Quegli che ci diede il suo unigenito Figliuolo e l’espose alla morte per noi altri, che cosa non farà per noi? Quegli che ci diede il più, come non ci darà il meno? E se tutti debbono avere questa confidenza in Dio; quanto maggiormente i Religiosi i quali Egli ha ricevuti particolarmente per suoi, e ha dato loro spirito e cuore di figliuoli, ed ha fatto che non curino e lascino i loro padri carnali, e piglino esso per Padre? Che cuore e amor di padre, e che cura e provvidenza terrà Dio di questi tali! Quoniam pater meus et mater mea dereliquerunt me Dominus autem assumpsit me (PS. XXVI, 10). Oh quanto buon Padre t’hai preso in cambio di quello che hai lasciato! Con maggior ragione e con maggior confidenza puoi dir tu: Dominus regit me, et nihil mihi deerit (Ps. XXII, 2): Dio s’ha preso l’assunto e la cura di me e di tutte le cose mie; non mi mancherà niente: Ego autem mendicus sum, et pauper: Dominus sollicitus est mei (Psal. XXXIX, 18): Dio ha una molto amorosa e sollecita cura di me. Chi non si consolerà con questo, e non si liquefarà in amore di Dio? Che voi, Signore, vi abbiate preso l’assunto di me, e abbiate di me tanta cura, come se in cielo e in terra non aveste altra creatura da governare, che me solo? Oh se scavassimo e ci profondassimo bene in quest’amore e in questa provvidenza e protezione tanto paterna e tanto particolare che Dio ha di noi altri! – Quindi ne nasce ne’ veri Servi di Dio una molto cordiale e figlial confidenza in Lui; la quale in alcuni è tanto grande, che non vi è figliuolo nel mondo che in tutte le sue cose confidi tanto nella protezione di suo padre, quanto confidano essi in quella di Dio; perché sanno, che ha verso di loro viscere più che paterne, e ancora più che materne, le quali sogliono esser più tenere, siccome lo dice Egli stesso per mezzo d’Isaia: Numquid oblivisci potest mulier infantem suum, ut non misereatur filio uteri sui? et si illa oblita fuerit, ego tamen non obliviscar tui. Ecce in manibus meis descripsi te: muri tui coram oculis meis semper (Isa. XLIX, 15,16): Qual madre vi è che si dimentichi del suo figliuoletto che è ancora in fasce? e che non abbia cuore per muoversi a pietà di chi di fresco è uscito dalle sue viscere? E se pure sarà possibile, che si dia una madre nella quale cada una tale dimenticanza; in me però, dice il Signore, parlando colla sua diletta Gerusalemme, non cadrà questa giammai; perché ti tengo scritta nelle mie mani e le tue mura stanno sempre dinanzi agli occhi miei; come s’avesse detto: Io ti porto in palma di mano e ti tengo sempre dinanzi a’ miei occhi per proteggerti e difenderti. E per mezzo del medesimo Profeta ci dichiara questo con un’altra similitudine molto tenera ed espressiva: Qui portamini a meo utero (Isa. XLVI. 3). Siccome la donna, quando ha concepito, porta il bambino dentro delle sue viscere, ed essa gli serve di casa, di lettica, di muro, di sostegno e di ogni cosa; così dice Dio che Egli ci porta nelle sue viscere. Con questo i Servi di Dio vivono in tanta confidenza e si tengono per tanto assistiti e protetti in tutte le cose loro, che non si turbano né s’inquietano per qualunque accidente che avvenga loro in questa vita: Et in tempore siccitatis non erit sollicitum (Jer. XVII, 8). Il cuore de’ giusti, dice il profeta Geremia, non patisce sconvolgimenti, né perde la sua quiete né il suo riposo per i vari successi e avvenimenti che accadono, perché sanno essi, che nessuna cosa può avvenire senza volontà del loro Padre, e vivono molto tranquilli e affidati nel suo grande amore e bontà, che disporrà ogni cosa per maggior bene loro; e che tutto quello che torrà loro da una parte, lo restituirà loro da un’altra, con concedere loro qualche altra cosa che sia per essi molto più utile e vantaggiosa. Da questa confidenza tanto ferma e tanto figliale che hanno i giusti in Dio nasce nell’anima loro quella pace, tranquillità e sicurezza grande di cui godono, secondo quello che si legge in Isaia: Et sedebit populus meus in pulchritudine pacis, et in labernaculis fiduciæ, et in requie opulenta (Isa. XXXII,18). Dice, che si riposeranno i suoi figliuoli in una bellissima pace, e ne’ tabernacoli della confidenza, e in un riposo molto compiuto e abbondante di tutti i beni. Ove il Profeta congiunse molto bene la pace colla confidenza; perché dall’una viene conseguentemente l’altra: dalla confidenza Segue la pace; perché chi confida assai in Dio non ha di che temere, né di che turbarsi, poiché ha Dio in suo aiuto, ed esso gli fa spalla in tutto: onde diceva il Profeta: In pace in idipsum dormiam, et requiescam. Quoniam tu, Domine, singulariter in spe constituisti me (Psal. IV, 9, 10): In pace insieme dormirò e riposerò; perché tu, Signore, hai assicurata la mia vita colla speranza della tua misericordia. Di più non solo cagiona gran pace questa confidenza figliale, ma cagiona anche gran gaudio ed allegrezza: Deus autem spei, dice l’apostolo S. Paolo, repleat vos omni gaudio, et pace, in credendo; ut abundetis in spe, et viriute Spiritus sancti (Ad Rom. XV, 13). Quella ferma credenza, che Dio sa quello che fa e che quello che fa lo fa per nostro bene, opera in noi, che non sentiamo que’ tumulti, quelle angosce e quelle inquietudini che sentono quei che guardano le cose con occhi di carne; anzi fa, che stiamo con grande allegrezza in tutti gli avvenimenti: e quanto più uno abbonderà in questa confidenza, tanto più abbonderà in gaudio e allegrezza spirituale: perciocché quanto più si fida ed ama, tanto più resta quieto e sicuro, ch’ogni cosa se gli ha da convertire in bene, né meno di questo può credere né sperare da quella bontà e amore infinito di Dio. Questo faceva star i Santi tanto quieti e sicuri in mezzo a’ travagli e a’ pericoli, che non temevano né gli uomini, né i demoni, né le bestie, né altre creature irragionevoli, perché sapevano, che senza licenza e volontà di Dio non li potevano toccare. E così S. Atanasio racconta del . beato S. Antonio (D. Athanas. de S. Antonio), che gli apparvero una volta i demoni in diverse forme spaventevoli, e in figure d’animali fieri, di leoni, di tigri, di tori, di serpenti e di scorpioni, attorniandolo, e minacciandolo colle loro unghie, denti, ruggiti e fischi formidabili, che pareva, che se lo volessero allora allora inghiottire. E il Santo si burlava di essi, e diceva loro: Se voi aveste qualche forza, basterebbe uno solo di voi altri per combattere contra un uomo; ma perché siete deboli, avendovi Dio tolte le forze, procurate di fare una grande adunanza di canaglia, per farmi con ciò paura. Se il Signore vi ha data podestà sopra di me, eccomi qui, inghiottitemi: ma se non n’avete podestà né licenza da Dio, a che proposito vi affaticate in vano? Nel che si vede bene la pace e la fortezza grande che cagionava in questo Santo il sapere, che non gli potevano far cosa alcuna senza la volontà di Dio, e l’essere Egli tanto conforme ad essa. E di questi esempi ne abbiamo molti nelle Istorie Ecclesiastiche (D. Greg. lib. 3 Dialog. c. 16, ref., aliud simile exemplum). – Del nostro S. P. Ignazio leggiamo un esempio simile nel quinto Libro della sua Vita; e nel secondo Libro (Lib. 5 in Vita N. P. S. Ign. c. 9, et Lib. 2, c. 5) si narra di lui, che navigando egli una volta verso Roma, si levò una tempesta tanto gagliarda, che spezzato l’albero per la forza del vento, e perdute molte sarte, tutti temevano e si preparavano per la morte, parendo, che fosse già arrivata per loro l’ultima ora. E in questo frangente tanto pericoloso, mentre tutti gli altri stavano tremando collo spavento della morte, egli non sentiva timor alcuno: solo gli dava fastidio il parergli di non aver servito Dio tanto quanto era suo debito; ma nel resto non trovava occasione di temere: Quia venti et mare obediunt ei (Matth. VIII, 27): Perché il mare e i venti anch’essi ubbidiscono a Dio, e senza licenza e volontà sua non si levane le onde né le tempeste, né possono affogar alcuno. Or a questa viva e figlial confidenza in Dio, e a questa tranquillità e sicurezza abbiamo da procurare noi altri di arrivare colla grazia del Signore, mediante questo esercizio della conformità alla volontà di Dio, scavando e profondandoci coll’orazione e colla considerazione in questa ricchissima miniera della provvidenza tanto paterna e particolare che Dio ha di noi altri. Io son certo, che nessuna cosa mi può avvenire, e che nessuna me ne possono far gli uomini, né i demonii, né creatura alcuna, più di quello che Dio vorrà e né darà loro licenza. Or facciasi questo in me alla buon’ora, che io non lo ricuso, né voglio altra cosa che la volontà di Dio. Di S. Gertrude leggiamo (Blos. c. 11, monil. spir.), che mai non poterono farla vacillar d’un tantino nella costanza e sicura confidenza che aveva nella benignissima misericordia di Dio, pericolo alcuno, né tribolazione, né la perdita delle cose sue, né altri impedimenti, né meno i peccati e difetti propri; perché certissimamente confidava, che tutte le cose, sì prospere come avverse, erano dalla Divina Provvidenza convertite in suo bene. E una volta il Signore disse a questa santa vergine: Quella sicura confidenza che l’uomo ha in me, credendo, che realmente posso, so e voglio fedelmente aiutarlo in tutte le cose, mi ferisce il cuore, e fa tanta violenza al mio amore, che in un certo modo né posso dall’una parte risolvermi di favorire un uomo tale, per il gusto che sento al vederlo così dipendente da me e per lasciargli questa bella occasione di accrescergli il merito; ma dall’altra parte né meno posso tralasciare di favorirlo, per farla da quel Dio che Io sono, e per soddisfare a quel grande amore che gli porto. Così parlava al modo nostro d’intendere, come chi sia dal suo amore tenuto sospeso tra due partiti, senza sapere a qual si debba risolvere. Di S. Metilde si racconta (Blos, ubi supra), che il Signore le disse: Mi dà gran gusto il vedere, che gli uomini confidino nella mia bontà e molto si promettano di me: perché qualunque avrà in me molto umile confidenza e si fiderà bene di me, sarà da me favorito in questa vita, e nell’altra gli farò più bene di quello ch’Egli merita. Quanto più uno si fiderà e più si prometterà della bontà mia, tanto più otterrà e conseguirà da me: perché è impossibile che l’uomo non ottenga da me quello che santamente ha creduto e sperato d’ottenere, avendolo Io promesso. E per questa ragione giova all’uomo, che, sperando easpettando da me cose grandi, si fidi bene di me. E alla medesima S. Metilde la quale domandò al Signore, che cosa principalmente era ragione che si credesse della sua ineffabile bontà, rispose Egli: Credi con fede certa, ch’Io ti riceverò dopo la tua morte in quella guisa ch’un padre riceve un suo dilettissimo figliuolo; e che non si trovò giammai padre che con tanta fedeltà spartisse la roba sua coll’unico figliuolo, come Io comunicherò teco tutti i miei beni e me stesso. – Chiunque fermamente e con umil carità crederà questo della bontà mia, sarà beato.
CAPO XI.
D’alcuni luoghi ed esempi della sacra Scrittura, i quali ci aiuteranno ad acquistare questa fiducia e figliale confidenza in Dio.
Per la prima cosa sarà bene, che veggiamo l’universale costume che avevano quegli antichi Patriarchi d’attribuir a Dio tutti gli avvenimenti, per qualsivoglia via o mezzo loro venissero. Nel capo quarantesimo secondo del Genesi narra la sacra Scrittura, che ritornandosene via dall’Egitto i fratelli di Giuseppe col grano ivi comprato, e avendo egli ordinato al suo maggiordomo, ch’alla bocca del sacco di ciascuno avesse legato il danaro del prezzo del grano, tale e quale essi l’avevano portato; nel mentre ch’essi se n’andavano proseguendo il lor viaggio, si fermarono in una osteria, e volendo dar da mangiare alle loro bestie del grano che portavano, il primo di essi, aperto il sacco, vide subito la sua borsetta col denaro, e lo disse agli altri; ciascuno de’ quali, aperto il sacco, vi trovò similmente il suo denaro. Dice qui la Scrittura, che turbati fra di loro dissero: Quidnam est hoc, quod fecit nobis Deus (Gen, XLII, 23)? Che cosa è questa che ha fatta Dio con noi? È cosa molto degna d’esser notata, che non dissero: Questo è un inganno che ci è stato ordito; qualche calunnia è qui nascosta: né dissero: Il maggiordomo per trascuraggine ha lasciato il denaro di ciascuno nel suo sacco: né dissero: Forse ha voluto farci limosina del denaro: ma attribuendo ciò a Dio, dissero: E che vuol dir questa cosa che Dio ha fatta con noi? con ciò confessando, che poiché non si muove una foglia d’albero senza volontà di Dio, né anche quella cosa era accaduta se non per divina volontà. E quando essendo andato Giacobbe in Egitto, Giuseppe insieme co’ suoi figliuoli lo andò a visitare; e il vecchio padre gli domandò, che fanciulli erano quegli, egli rispose: Filii mei sunt, quos donavit mihi Deus in hoc loco (Gen. LVIII, 9): Sono figliuoli miei che Dio m’ha dati in questa terra dell’Egitto. L’istesso rispose Giacobbe, quando incontratosi col suo fratello Esaù, questi gli domandò, che fanciulli erano quelli che conduceva seco? Parvuli sunt, quos donavit mihi Deus (Gen. XXXIII, 5): Sono, disse, figliuoli che il Signore m’ha dati. E porgendogli certo presente, gli disse: Suscipe benedictionem, quam attuli tibi, et quam donavit mihi Deus tribuens omnia (ibi, XXXIII, 11): Ricevi questo presente, e lo chiama benedizione di Dio, il cui benedire è far bene; la qual benedizione, dice egli, a me ha compartita quel Signore che è datore di tutte le cose e a tutti. Ancora quando David andava molto adirato a distruggere la casa di Nabal, e Abigaile sua moglie gli uscì incontro con un presente per placarlo, disse David: Benedictus Dominus Deus Israel, qui misit hodie te in occursum meum ne ìrem ad sanguinem (I Reg. XXXV, 32,33): Benedetto sia il Signore Iddio d’Israele il quale t’ha mandata oggi, acciocché incontrandomi tu, io non passassi a spargere il sangue della casa di Nabal; come se detto avesse: Tu non sei già venuta da te stessa; ma Dio ti ha mandata, acciocché io non peccassi: a Lui sono io debitore di questa grazia, Egli ne sia Iodato. Questo era il linguaggio comune di que’ Santi; e così dovrebbe anch’essere il nostro. Ma venendo più al punto, è meravigliosa per questo proposito quell’Istoria del santo Giuseppe (Gen. XXXVII), mentovato di sopra, il quale fu venduto per ischiavo a certi mercatanti dell’Egitto da’ suoi fratelli mossi da invidia, acciocché non venisse a comandar loro e ad esser loro sovrano, secondo quello che s’era sognato; e quel medesimo mezzo ch’essi presero per annientarlo, e per assicurarsi, che non arrivasse a comandar loro, lo prese Iddio per suo mezzo, affine di mettere in esecuzione i disegni della sua divina Provvidenza, e per far che Giuseppe venisse ad esser padrone de’ suoi fratelli e di tutta la terra d’Egitto: e così il medesimo Giuseppe lo disse loro quando si die’ loro a conoscere, ed essi rimasero spaventati ed atterriti del caso: Nolite pavere, neque vobis durum esse videatur, quod vendidistis me in his regionibus: prò salute enim vestra misit me Deus ante vos in Ægyptum… Præmisit queme Deus, ut reservemini super terram, et escas ad vivendum habere possitis (Gen. XLV, 5 et 7.): Non vogliate temere né vi spaventate per avermi voi venduto a chi già mi condusse in questi paesi; perciocché Dio m’ha mandato qua per ben vostre, acciocché abbiate da mangiare e non perisca né abbia fine il popolo d’Israello. Dio, disse, m’ha mandato: Non vestro Consilio, sed Dei voluntate huc rnissus sum: Non è seguito questo per vostro consiglio: sono stati disegni di Dio questi. Num Dei possumus resistere voluntati? Vos cogitastis de me malum: sed Deus vertit illud in bonum, ut escaltaret me, sicut in præsentiarum cernitis, et salvos faceret multos populos (Ibid. L, 19 et 20): Possiamo noi forse resistere alla volontà di Dio? Voi altri pensaste per questi mezzi di farmi male, ma Dio me lo convertì tutto in bene, come al presente vedete. Ora chi con questo esempio non si fiderà di Dio? chi temerà i disegni degli uomini e le traversie del mondo, poiché veggiamo, che sono tutti tiri accertati che vengono dalla mano di Dio? e che i mezzi ch’essi pigliano per perseguitarci e farci male, Dio li piglia per nostro bene e per nostro accrescimento? Consilium meum stabit, et omnis voluntas mea fiet (Isa. XLVI, 10), dice Egli per mezzo d’Isaia. Girala pure come tu vuoi, che alla fine si ha da adempir la volontà di Dio: ed Egli indirizzerà cotesti mezzi a questo fine. S. Giovanni Crisostomo pondera un’altra particolarità in quest’Istoria al proposito nostro (D Chrys. hom. 63 sup. Gen. XL, 23), trattando come il coppiero di Faraone, dopo essere stato rimesso nel suo ufficio, si dimenticò del suo interprete Giuseppe per due anni intieri, avendolo egli ricercato tanto caldamente, che si ricordasse di lui e che intercedesse per lui presso Faraone. Pensi tu, dice il Santo, che fosse a caso questa dimenticanza? Non fu a caso, ma fu consiglio e disegno di Dio, il quale voleva aspettare il tempo opportuno e la congiuntura più propria per cavare dal carcere Giuseppe con maggior onore e gloria: perché se il coppiero si fosse ricordato subito di lui, forse coll’autorità sua l’avrebbe liberato subito alla muta, come suol dirsi, senza, che fosse stato né veduto né udito da Faraone; ma perché Iddio Signor nostro pretendeva che non uscisse dalla prigione in questo modo, ma con grande onore e autorità, per ciò permise che l’altro si dimenticasse per due anni di lui, acciocché così arrivasse il tempo de’ sogni di Faraone; e allora ad istanza del Re, costretto dalla necessità a ciò ordinare, uscisse egli con quell’onore e gloria con cui uscì ad esser padrone di tutta la terra d’Egitto. Sa Dio molto bene, dice S. Gio, Crisostomo, da quel sapientissimo artefice ch’Egli è, quanto tempo ha da star l’oro nel fuoco e quando s’ha da cavar fuori. – Nel primo Libro de’ Re abbiamo un’altra Istoria nella quale risplende grandemente la provvidenza di Dio in cose molto particolari e minute. Dio aveva detto al profeta Samuele, che gli avrebbe mostrato chi aveva da essere Re d’Israele, acciocché l’ungesse; e gli aggiunse: Hac ipsa hora, quæ nunc est, cras mittam virum ad te de terra Benjamin, et unges eum ducem super populum meum Israel (I. Reg. IX, 16): Domani a quest’ora medesima ti manderò quello che hai da ungere per Re, che era Saulle: e il modo nel quale glielo mandò fu questo. Si smarriscono le asinelle di suo padre, il quale dice al figliuolo, che vada a cercarle. Prende seco Saulle un garzone, e se ne vanno per quelle campagne e colline, e non possono trovar indizio né vestigio alcuno di esse; onde Saulle voleva ritornarsene, per parergli che tardassero troppo e che il padre sarebbe stato in pena per essi; ma il garzone gli disse: Non ce n’abbiamo da tornar a casa senza delle nostre asine. In questa terra vi sta un uomo di Dio (che era il profeta Samuele); andiamo da lui, ch’egli ci darà contezza di esse. Con quest’occasione vanno a trovar Samuele, al quale, quando essi furono arrivati, disse Dio: Ecce vir, quem dixeram tibi, iste dominabitur populo meo (ibi, IX, 17); questi è colui ch’io t’aveva detto di mandarti; questo hai da ungere per Re. O giudizi secreti di Dio! Lo mandava il padre a cercar le asinelle; ma Dio lo mandava a Samuele, acciocché fosse unto per Re. Quanto differenti sono i disegni degli uomini dai disegni di Dio! Quanto lontano stava Saulle, e suo padre ancora, da pensare, ch’andava ad esser unto per Re! Oh quanto lontano stai tu molte volte, e il tuo Padre, e il tuo Superiore, da quello che Dio pretende! Da quello che tu pensi meno cava Dio quel ch’Egli vuole. Non si smarrirono quelle asinelle senza volontà di Dio; né fu a caso, che il padre mandasse Saulle a cercarle; né anche fu a caso il non poterle Saulle ritrovare; né il consiglio che diede il giovinetto garzone d’andar a consigliarsi circa di esse col Profeta; ma ogni cosa fu ordinazione e disegno di Dio, il qual prese questi mezzi per mandar Saulle a Samuele, acciocché l’ungesse per Re com’Egli glielo aveva detto. Si pensò tuo padre di mandarti a studiar in Siviglia, o in Salamanca, o in altra Università, acciocché tu riuscissi un gran Dottore e arrivassi di poi ad aver qualche ufficio da poter vivere onoratamente; e non fu così, ma Dio ti mandò colà per riceverti in casa sua e farti Religioso. Si pensava S. Agostino, quando andò da Roma a Milano, d’andare a legger Rettorica; e tal era ancora il pensiero di Simaco, Prefetto della città, che lo mandava; ma non era così; poiché colà Iddio lo mandava da S. Ambrogio, acciocché lo convertisse. Mettiamoci a considerare le varie vocazioni e i mezzi tanto particolari e minuti, e al parer nostro tanto remoti, co’ quali Dio ha tirato alla Religione questo e quello; che certamente questa è cosa di grande ammirazione; perché se non fosse stato per non so che cosetta, o per non so che bagattella che accadde, non ti saresti fatto Religioso: e nondimeno tutte queste cose furono disegni e invenzioni di Dio per trarti alla Religione. E notisi questa cosa così di passaggio per alcuni a’ quali suole alle volte venir tentazione, che la lor vocazione non debba essere da Dio, per esser seguita per mezzo di cosette simili. Questo è inganno del demonio tuo nemico, invidioso dello stato nel quale ti trovi: perciocché è usanza di Dio servirsi di questi mezzi pel fine ch’Egli pretende della sua maggior gloria e del tuo maggior bene ed utilità. Non si muove Iddio in grazia delle asinelle, Numquid de bobus cura est Deo (I. ad Cor. IX, 9)? ma vuole, che per questi mezzi tu venga a regnare come Saulle. Servire Deo regnare est. Quando dipoi il profeta Samuele andò da parte di Dio a riprendere Saulle per quella disubbidienza che aveva commessa in non distruggere Amalec, come Dio gli aveva comandato, dopo averlo ripreso e voltandogli le spalle per andarsene, Saulle lo prese pel manto, acciocché non si partisse, ma lo aiutasse presso Dio: e dice il sacro Testo (I. Reg. XV, 27), che restò in mano di Saulle un pezzo del manto di Samuele, essendosi questo stracciato. Chi non si sarebbe pensato, che lo stracciarsi e staccarsi quel pezzo del manto del Profeta fosse avvenuto a caso, perché Saulle l’aveva afferrato e tirato, e forse perché ancora doveva essere vecchio? è nondimeno avvenne questo per particolar provvidenza e disposizione di Dio; per dimostrare, che quella cosa significava, che Saulle era segregato e privato del Regno in pena del suo peccato: onde vedendo Samuele questo fatto disse a Saulle: Scidit Dominus Regnum Israel a te hodie, et tradidit illud proximo tuo meliori te: Conosci pure da questa divisione del mio manto, che il Signore ha oggi segregato e diviso date il Regno d’Israele, e l’ha dato al tuo prossimo il qual è migliore di te. Nel medesimo primo Libro de’ Re si narra, che una volta Saulle teneva assediato David e i suoi, in modum coronæ (I. Reg. XXIII, 26), intorno intorno e per ogni parte, di maniera tale che già David era fuor di speranza di poterne scappare; e trovandosi egli in quella stretta, arrivò a Saulle un corriere molto in fretta con avviso che i Filistei erano entrati nel paese suo, e saccheggiavano e distruggevano ogni cosa; onde convenne a Saulle levar l’assedio e accorrere alla necessità maggiore, e così David scampò. Non fu già a caso l’entrata né l’invasione de’ Filistei, ma disegno di Dio per liberar in quel modo David. Un’altra volta i Satrapi de’ Filistei scacciarono David dal loro esercito, facendo che il re Achis gli comandasse, che se ne tornasse a casa sua; sebben egli lo menava seco molto volentieri e confidava molto in lui: Sed Satrapis non places, come egli gli disse (I. Reg, XXIX, 6, et c. XXX). Par che fosse a caso quel consiglio de’ Satrapi, e non fu a caso né pel fine ch’essi si pensarono; ma fu particolar provvidenza di Dio; perché ritornato David, trovò, che gli Amaleciti avevano posta a fuoco Siceleg sua terra, e che se n’avevano portate via prigioni tutte le donne e i fanciulli, a minimo usque ad magnum, e le istesse mogli di David, il quale li seguitò e li distrusse, ricuperando tutta la preda e i prigioni, senza mancarne pur uno: il che egli non avrebbe fatto, se i Satrapi non l’avessero scacciato dal loro esercito: e a questo fine ordinò Dio quel consiglio, sebben essi l’ordinavano ad altro effetto. – Nell’Istoria d’Ester risplende anche grandemente questa particolar provvidenza di Dio in cose molto minute e particolari. Quanto strani furono i mezzi che prese Dio per liberar il popolo giudaico dalla crudel sentenza del re Assuero? Per quali mezzi elesse Ester per Regina, scacciando Vasti; e volle, che fosse questa del popolo giudaico, acciocché intercedesse poi per i Giudei? Par che fosse a caso l’intendere Mardocheo il tradimento che gli altri ordinavano al re Assuero, e l’andarglielo a palesare; e che il Re stesse svegliato quella notte e non potesse dormire; e che si facesse portar le Cronache de’ suoi tempi per trattenersi; e che s’incontrasse a leggere quel fatto di Mardocheo: e nessuna di queste cose succedeva a caso, ma per alto consiglio di Dio e per sua special provvidenza, la qual voleva per que’ mezzi liberar il suo popolo. E così lo mandò a dire Mardocheo ad Ester, la quale non ardiva d’entrar a parlare al Re, e si scusava per non esser chiamata: Quis novit, utrum idcìrco ad regnimi veneris, ut in tali tempore parareris (Ether, IV). Chi sa che non fosse questo il fine d’esser tu divenuta Regina, acciocché ci potessi dar aiuto in quest’occasione? – La sacra Scrittura e le Istorie Ecclesiastiche sono piene di simili esempi, acciocché impariamo ad attribuir tutti i successi a Dio e a riceverli come venuti dalla sua mano per maggior bene ed utilità nostra. – Nel Libro delle Ricognizioni di S. Clemente si narra una cosa notabile a questo proposito. Faceva aspra guerra S. Pietro a Simon Mago, e S. Barnaba aveva convertito in Roma S. Clemente, il quale andò a trovar S. Pietro, e datogli ragguaglio della sua conversione, lo ricercò, che l’istruisse nelle cose della Fede; e S. Pietro gli disse: Sei arrivato in buona congiuntura, perché è intimata per domani una pubblica disputa fra me e Simon Mago: ivi ci vedrai ambedue e udrai quel che desideri. Mentre stavano così discorrendo, entrano due discepoli, e dicono a S. Pietro, che Simon Mago mandava per lor mezzo a dirgli, che gli era occorso un impedimento, onde faceva istanza che si differisse la disputa per tre altri giorni; di che S. Pietro si contentò. Partiti coloro, S. Clemente s’attristò molto; e vedendolo S. Pietro tanto attristato, gli disse: Che cosa hai, figliuolo, che ti veggo malinconico? E S. Clemente gli rispose: Padre, ti fo sapere, che mi sono grandemente attristato per vedere, che si è differita la disputa la quale avrei desiderato che si fosse fatta domani. Ora è qui da notare, come in una cosa di sì poco rilievo si mise S. Pietro a far un ben lungo sermone, dicendo: Vedi, figliuolo, fra’ Gentili, quando non si fanno le cose come essi vogliono, si eccita gran tumulto; ma noi altri che sappiamo, che Dio guida e governa ogni cosa , abbiamo d’aver gran consolazione e pace. Sappi, figliuolo, che questo è seguito per tuo maggior bene; perché se la disputa si fosse fatta adesso, tu non l’avresti intesa così bene, e allora l’intenderai meglio; perché in questo mentre t’istruirò io, e così tu poscia ne gusterai assai più e caverai da essa maggior frutto. Voglio conchiudere con un esempio nostro che abbiamo nella Vita del nostro S. P. Ignazio nel quale risplende ancora grandemente questa medesima cosa, ed è intorno all’andata del P. Francesco Saverio alle Indie Orientali (Lib. 2, c. 16 Vite P. N. S. Ign. et in Vita P. S. Francisci Xaverii). Certamente è cosa degna di considerazione il riflettere al modo con cui avvenne che questo sant’uomo andasse alle Indie. Nominò il nostro S. P. Ignazio per questa Missione i Padri Simone Rodriguez e Niccolò Bobadiglia. Il P. Simone stava allora colla quartana; ma con tutto ciò s’imbarcò subito alla volta di Portogallo; e al P. Bobadiglia, che stava faticando nella Calabria, fu scritto, che se ne venisse tosto a Roma, e venne; ma tanto debilitato dalla povertà e da’ travagli e stenti del viaggio, e tanto infermo e malconcio d’una gamba quando arrivò a Roma, che stando in quel medesimo tempo l’Ambasciadore, D. Pietro Mascaregnas, all’ordine per ritornarsene in Portogallo, nè potendo egli aspettare, che il Bobadiglia guarisse, né volendo partirsi senza l’altro Padre che aveva d’andar alle Indie, fu necessario, che in luogo del Bobadiglia con nuova e molto felice elezione fosse sostituito il P. Francesco Saverio, il quale partì subito coll’Ambasciadore alla volta di Portogallo. Dal non essere stato nominato la prima volta il P. Francesco Saverio: ma il P. Bobadiglia, e dall’essere in tanta fretta seguita la partenza di questo dalla Calabria, pare che fosse un caso la sostituzione fatta a lui del Saverio: e pur non fu a caso, ma per alto consiglio di Dio, il quale aveva destinato di fare il Saverio apostolo di que’ paesi. Di più è da notarsi, come dopo che furono arrivati questi due uomini in Lisbona, e veggendosi il gran bene che ivi facevano, pensarono di colà fermarli; ma dopo vario dibattimento, finalmente fu risoluto, ch’uno di essi se ne restasse e l’altro oltre passasse alle Indie. Ecco qui di bel nuovo posto in forse l’affare; ma presso Dio non vi è forse. Toccò finalmente al Saverio di passar alle Indie; perché questa era la volontà di Dio, e così l’aveva la Maestà sua decretato, essendo così espediente pel bene di quelle anime eper maggior gloria sua. Disegnino pur gli uomini quel che vogliono, e conducano i lor disegni per quella strada che più lor piace; che questo stesso piglierà Dio per mezzo da metter in esecuzione i disegni suoi, e per far quello che più convenga a te, al terzo e al quarto, e alla sua maggior gloria. Con questi e altri simili esempi sì della sacra Scrittura, come di quel che ogni giorno veggiamo ed esperimentiamo, tanto in altri, quanto in noi medesimi, abbiamo d’andar stabilendo e stampando nel nostro cuore questa viva confidenza, mediante l’orazione e la considerazione: e in questo esercizio non abbiamo da fermarci sin a tanto che non sentiamo nel nostro cuore una molto amichevole e figlial confidenza in Dio. E sii pur certo, che con quanto maggior confidenza ti getterai nelle braccia di Dio, tanto più sicuro starai: e per lo contrario sin a tanto che non arrivi ad avere questa confidenza figliale, non avrai mai vera pace e riposo di cuore; perché senza essa tutte le cose ti turberanno e ti terranno sempre in rivolta. Non differiamo dunque più il gettarci e l’abbandonarci totalmente nelle mani di Dio, e il fidarci di lui, siccome ce lo consiglia l’apostolo san Pietro: Omnem sollicitudinem vestram projicientes in eum, quoniam ipsi cura est de vobis (I . Petr. V, 7): e il Profeta: Jacta super Dominum curam tuam, et ipse te enutriet (Psal. LIV, 23). Voi, Signore, amaste tanto me, che vi deste totalmente per me in potere de’ crudeli carnefici, acciocché facessero di voi quello ch’avessero voluto: Jesum vero tradidit volunti eorum (Luc. XXIII, 25): che gran cosa sarà ch’io mi dia e mi metta tutto in mani, non già crudeli, ma così pietose come sono le vostre, acciocché facciate di me quello che vi piacerà; essendo io certo, che non farete se non il meglio e quel che a me più conviene? Accettiamo quel progetto e quel patto che fece Cristo Signor nostro con S. Caterina da Siena. Faceva il Signore molte carezze e favori a cotesta Santa, e fra gli altri gliene fece uno molto particolare, che apparendole un giorno le disse: Fitta, cogita tu de me, et ego cogitabo continenter de te: Figliuola, dimenticati tu di te, per pensar sempre a me; e Io penserò sempre a te, e terrò cura di te. Oh che buon patto è questo! Oh che buon cambio! Oh quanto gran guadagno sarebbe questo per le anime nostre! Or questo patto viene a far il Signore con ciascheduno di noi altri. Scordatevi di voi e lasciate da banda i vostri disegni: e quanto più vi scorderete di voi per ricordarvi e fidarvi di Dio, tanto maggior cura terrà Dio di voi. Chi sarà dunque che non accetti un sì amorevole e vantaggioso partito? che è quello appunto che la Sposa dice aver fatto col suo Sposo: Ego Dilecto meo; et ad me conversio ejus (Cant. VII, 10).
CAPO XII.
Di’ quanta utilità e perfezione sia, applicar l’orazione a questo esercizio della conformità alla volontà di Dio; e come abbiamo d’andar discendendo a cose particolari, sino ad arrivare al terzo grado di conformità.
Giovanni Rusbrochio (Rusbr. in fine operum euurum), uomo dottissimo e molto spirituale, riferisce d’una santa vergine, che dando ella conto della sua orazione al suo Confessore e Padre spirituale, il quale doveva essere gran servo di Dio e di molta orazione, e volendo essere ammaestrata da lui, gli disse, che il suo esercizio nell’orazione era circa la Vita e Passione di Cristo nostro Redentore, e il frutto che ne cavava era conoscimento di se stessa e de’ suoi vizi e passioni, e dolore e compassione de’ dolori e de’ travagli di Cristo. E il Confessore le disse, che quella era buona cosa; ma che senza molta virtù poteva uno muoversi a compassione e tenerezza, considerando la Passione di Cristo, in quella guisa che per lo solo amore e affetto naturale che uno porta al suo amico suol muoversi a compassione de’ suoi travagli. Gli domandò la vergine, se il pianger una persona ogni giorno i suoi peccati sarebbe stata vera divozione; ed egli le rispose, che era similmente buona cosa, ma non la più eccellente; perché la cosa cattiva naturalmente cagiona fastidio e dispiacere. Tornò ella a domandargli, se sarebbe stata vera divozione il pensare alle pene dell’inferno ed alla gloria de’ Beati; ed egli le rispose, che né anche quella era la cosa più alta ed eminente; perché la natura istessa da sé abborrisce e ricusa quel che reca pena e dolore; ed ama e cerca quello che le può esser di gusto e di gloria; sicché se le dipingessero una città piena di piaceri e di gusti, la desidererebbe. La santa vergine se n’andò con questo molto sconsolata ed afflitta, per non sapere ache cosa mai avesse potuto applicare il suo esercizio dell’orazione, che fosse stata più grata a Dio; e di lì a poco le apparve un fanciullo molto bello, al quale raccontando ella la sua afflizione, e come le pareva che nessuno la potesse consolare, rispose il fanciullo, che non dicesse tal cosa, che egli poteva e voleva consolarla. Vattene, disse, dal tuo Padre spirituale, e digli, che la vera divozione consiste nell’annegazione e dispregio di se stesso, e nell’intera rassegnazione alla volontà di Dio, sì nelle cose avverse, come nelle prospere, con unirsi fermamente a Dio per amore e conformando interamente la volontà sua alla volontà di Dio in tutte le cose. Andò ella molto allegra, e disse questo al suo Padre spirituale, il quale le rispose: Qui sta il punto e a questo s’ha da applicare l’orazione; perché in ciò consiste la vera carità e l’amor di Dio, e per conseguenza il nostro profitto e la nostra perfezione. – Di un’altra Santa si dice, che le fu insegnato da Dio ad insistere assai nell’orazione del Pater noster in quella domanda : Facciasi, Signore, la volontà tua così in terra come si fa in cielo. E della santa vergine Gertrude si racconta (Ref. Blos. c. 11 Mon. spir.), che inspirata da Dio, disse una volta trecento sessantacinque volte quelle parole di Cristo: Non si faccia, Signore, la volontà mia, ma la tua (Luc. XXII, 42). E conobbe, che quella cosa era grandemente piaciuta a Dio. Imitiamo dunque noi altri questi esempi, applichiamo a questo la nostra orazione, e insistiamo assai in questo. esercizio.Per poterlo noi far meglio e con maggior frutto, bisogna che avvertiamo e presupponiamo. due cose. La prima che la necessità di quest’esercizio è principalmente nel tempo delle avversità e per quando ci. occorrono cose difficili e contrarie alla nostra carne; essendo che in queste occasioni è più necessaria la virtù e allora si dimostra meglio l’amore che ciascuno porta a Dio. Siccome nel tempo di pace il Re mostra quanto bene vuole a’ suoi soldati nelle rimunerazioni e grazie che fa loro, ed essi,nel tempo di guerra mostrano quanto l’amano e stimano nel combattere e in esporsi alla morte per lui; così nel tempo di consolazionee di favore il Re del cielo ci dàa conoscere quanto ci ama; e noi altri nel tempo della tribolazione, molto più che in quello della prosperità e della consolazione, quanto amiamo noi. Dice molto bene il padre maestro Avila (M. Avil. tom. 2, ep. fol. 20), che render grazie a Dio nel tempo delle consolazioni è cosa da tutti; ma il rendergliele nel tempo delle tribolazioni e delle avversità, è propria dei buoni e perfetti. E così questa è una melodia molto dolce e soave alle orecchie di Dio. Vale più, dice egli, nelle avversità un Grazie a Dio, un Sia benedetto Dio, che sei mila ringraziamenti e benedizioni nelle prosperità. E così la divina Scrittura paragona i giusti al carbonchio: Gemmula carbunculi in ornamento auri (Eccli. XXXII,7); perché questa pietra preziosa rende maggior chiarezza e splendore di notte che di giorno. Così il giusto e vero servo di Dio riluce e risplende più e fa migliori mostre di sé nelle tribolazioni e ne’ travagli, che nelle prosperità. Di questo loda tanto la Scrittura sacra il santo Tobia (Tob. II, 44.), perché avendo permesso il Signore, che dopo molti altri travagli perdesse ancora la vista degli occhi, non s’attristò per questo, né si dolse, né perde punto della sua fedeltà e ubbidienza, ma si conservò immobile e tranquillo, ringraziando Dio tutti i giorni della sua vita ugualmente per la cecità che per la vista: come fece ancora il santo Giob ne’ suoi travagli (Giob. I,21). Questo dice S. Agostino che dobbiamo procurare d’imitare noi altri: Ut in cunctis idem sis, tam in prosperis, quam in adversis . Che sii il medesimo e continui ad esser così allegro, sereno nel tempo dell’avversità, come in quello della prosperità: Sicut manus, quæ eadem est, et cum in palmum extenditur, et cum in pugnum constringitur (D. Aug.ad fratr. in Erem. Serm. 4): Siccome la mano è la medesima, e quando sta stretta e tiene il pugno serrato, e quando l’apri e la stendi; così il servo di Dio nell’intimo dell’anima sua ha da esser sempre il medesimo, ancorché nell’esteriore e al di fuori paia che stia angustiato e addolorato. Anche colà si dice di Socrate, che in tutti i casi che gli avvenivano, per avversi e vari che fossero, stava sempre in un medesimo essere: Nec hilariorem quisquam, nec tristiorem Socratem vidit; æqualis fuit in tanta inæqualitate fortunæ usque ad extremum vitæ (De Socrate refert Cic, lib. 13 Tusculan. Quæst.). Non sarà dunque gran cosa, che noi altri Cristiani e Religiosi procuriamo d’arrivar in questo ove arrivò un Gentile. La seconda cosa che bisogna avvertire, è che non basta che abbiamo in generale questa conformità alla volontà di Dio; perché questa così in generale è facile. Chi vi sarà che non dica, che vuole che si adempia la volontà di Dio in tutte le cose? Buoni e cattivi, tutti dicono ogni giorno nell’orazione del Pater nosler. Facciasi, Signore, la volontà tua così in terra come in cielo. Vi bisogna qualche cosa più di questo: è necessario lo sminuzzar bene un tal punto, discendendo in particolare a quelle cose che pare ci potrebbero dare qualche pena se accadessero: e non abbiamo da fermarci sino ad aver vinte e spianate tutte queste difficoltà, e rotte, come suol dirsi, tutte le lance nemiche, e finalmente sin che non vi sia più cosa che vi si frapponga all’unirci e conformarci in ogni cosa alla volontà di Dio; ma abbiamo da far fronte a qualsivoglia cosa che ci possa occorrere (Vide supra tract. 5, c. 18), li né anche abbiam da contentarci di questo; ma dobbiamo procurare di passar più oltre e non fermarci sin a tanto che non proviamo un molto interno gusto e una piena allegrezza al vedere eseguirsi e adempirsi in noi la volontà di Dio, benché sia per noi con travagli, dolori e dispregi, che è il terzo grado di conformità. Imperocché anche in ciò si trovan diversi gradi, uno più alto e più perfetto che l’altro, i quali si possono ridurre a tre principali nel modo che dicono i Santi della virtù della pazienza. Il primo è, quando le cose penose che accadono l’uomo non le desidera né le ama, anzi le fugge; ma le vuole però sopportare, più tosto che far cosa alcuna che sia peccato per fuggirle. Questo è il grado più infimo, e in questa materia è grado che per tutti è di precetto. Quindi quantunque un uomo senta dolore e tristezza per i mali che gli avvengono, e quantunque stando infermo gema e gridi per la veemenza dei dolori, e ancorché pianga per la morte de’ parenti; ben può con tutto questo aver questa conformità alla volontà di Dio. Il secondo grado è, quando l’uomo ancorché non desideri i mali che gli avvengono nè gli elegga, quando però sono venuti gli accetta e li sopporta volentieri, per esser quella la volontà e il beneplacito di Dio. Di maniera che questo secondo grado aggiunge al primo una qualche buona volontà e qualche amore verso la cosa penosa per amor di Dio, e il volerla sopportare, non solo quando vi è obbligo di precetto a sopportarla, ma anche quando il sopportarla sarà più grato a Dio. Il primo grado sopporta le cose con pazienza; questo secondo vi aggiunge il sopportarle di più con prontezza e facilità. Il terzo grado è quando il servo di Dio, per lo grande amore che porta al Signore, non solo sopporta ed accetta di buona voglia i travagli e le cose penose che gli manda, ma le desidera e si rallegra assai in esse, per esser quella la volontà di Dio, come dice S. Luca degli Apostoli, che ibant gaudentes a conspectu concila, quoniam digni habiti sunt prò nomine Jesu contumeliam pati (Act. v, 41). Dopo essere stati frustati con pubblica infamia, se n’andavano molto allegri e festosi, perché erano stati degni di patir ignominie per Cristo. E l’apostolo S. Paolo diceva: Repletus sum consolatione, superabundo gaudio in omni tribulatione nostra (II. ad Cor. VII, 4).Era pieno di consolazione, e dice, che sopprabbondava di gaudio e d’allegrezza fra le catene, le tribolazioni e le avversità. E di questo stesso in cui essi pure si erano mostrati segnalati, scrivendo egli agli Ebrei, ne li loda, dicendo: Et rapinam bonorurn vestrorum cum gaudio suscepistis, cognoscentes vos habere meliorem et manentem substantiam (Ad Hebr. X, 34). Ora a questo grado abbiamo da procurare noi altri di arrivare colla grazia del Signore, che sopportiamo con gaudio ed allegrezza tutte le tribolazioni e avversità che ci verranno, siccome ce lo dice l’apostolo S. Giacomo nella sua Epistòla Canonica: Omne gaudium existimate, fratres mei, cum in tentationes varias incideritis (Jac. I, 2). Ha da essere presso di noi cosa tanto apprezzata e tanto dolce la volontà e il gusto di Dio, che con questo saporetto indolciamo quello che ci verrà d’amaro. Tutti i travagli e disgusti del mondo ci hanno da diventar dolci e saporiti, per esser questa la volontà e il gusto di Dio. E questo è quello che dice S. Gregorio: Si mens in Deum forti intentione dirigatur, quidquid sibi in hac vita amarum sit, dulce æstimat; omne quod affligit, requiem putat; transire et per mortem appetit, ut obtinere plenius vitam possit (D. Greg. Lib. 7, cap. 7). S. Caterina da Siena in un Dialogo che scrisse della perfezione consumata del Cristiano, dice, che fra l’altre cose che il suo dolcissimo Sposo Gesù Cristo Signor nostro le aveva insegnate, questa era una, che la persona si fabbricasse una forte stanza a volta, che era la divina volontà, e si rinchiudesse e dimorasse perpetuamente in essa, né ritraesse giammai da quella né occhio, né piede, né mano, ma sempre vi stesse ritirata dentro come l’ape quando sta nel suo alveare, e come la perla nella sua conchiglia: perché sebbene da principio le sarebbe paruta forse stretta quella stanza, avrebbe nondimeno trovate di poi in essa grandi ampiezze; e senza uscirne se ne sarebbe passata alle eterne mansioni; e in poco tempo avrebbe conseguito quello che fuori di essa non si può conseguir in molto (De S. Cath. Sen. in Vita). Ora facciamo così noi altri, e sia questo il nostro continuo esercizio: Dilectus meus mihi, et ego illi (Cant. II, 16): Il mio diletto per me, ed io per esso. In queste due sole parole vi è un abbondante esercizio per tutta la vita, E così dobbiamo averle sempre in bocca e nel cuore.