DELLA PRESENZA DI DIO [2]
[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]
TRATTATO VIII.
CAPO IV.
Che questa perfetta conformità alla volontà di Dio è una felicità e beatitudine qui in terra.
Chi arriverà ad avere questa intera conformità alla volontà di Dio, pigliando tutte de cose che succederanno come venute dalla sua mano, e conformandosi in esse alla sua santissima e divina volontà, avrà acquistata una felicità e beatitudine qui in terra; perché godrà una pace e tranquillità molto grande, e avrà sempre un gaudio ed un’allegrezza perpetua nell’anima sua, che è la felicità e beatitudine che godono di qua i gran servi di Dio: essendo che, come dice l’Apostolo, Non est regnum Dei esca et potus, sed justìtia, et pax, et gaudium in Spiritu sancto (Ad Rom. XIV. 17): Non istà la beatitudine di questa vita nel mangiare e nel bere, né in darsi ai passatempi e ai diletti sensuali; ma nella giustizia e pace e nel gaudio dello Spirito Santo. Questo è il regno del cielo qui in terra e il paradiso de’ diletti che possiamo di qua godere. E con ragione questa si chiama beatitudine, poiché ci fa in un certo modo simili a’ Beati. Perciocché siccome in cielo non vi sono mutazioni, né certi va e vieni; ma sempre stanno fermi e permanenti i Beati in un essere, godendo Dio; così qui quei che sono arrivati a questa intera e perfetta conformità, che tutto il loro gusto e contento sia il gusto e la volontà di Dio, non s’inquietano, né si turbano colle mutazioni di questa vita, né coi vari accidenti che avvengono, perché la lor volontà e il cuor loro è tanto unito e conforme alla volontà divina, che il vedere, che tutte quelle cose vengono dalla sua mano e che si eseguisce in esse la volontà e il gusto di Dio, fa che i travagli si convertano loro in allegrezza; perché vogliono più tosto ed amano più la volontà del loro Signore, che la propria: e così non vi è cosa che possa turbar questi tali; perché se quelle cose che li potrebbero turbare e attristare, che sono i travagli, le avversità, i disonori, sono ricevute da essi e stimate come grazie e favori particolari, per venir loro dalla mano di Dio e per esser quella la divina volontà; non vi rimane cosa che li possa inquietare, né toglier loro la pace e la tranquillità dell’anima. Questa era la sorgente di quella pace ed allegrezza perpetua nella quale leggiamo che vivevano continuamente quei Santi antichi; un S. Antonio, un S. Domenico, un S. Francesco, ed altri simili: e l’istesso leggiamo del nostro S. P. Ignazio (Lib. 5, c. 5 V i tæ P. N. S. Ign.), e lo veggiamo ordinariamente ne’ gran Servi di Dio. Mancavano forse travagli a quei Santi? non avevano forse tentazioni e infermità come noi altri? non avvenivano forse loro vari e diversi casi? sì certamente, e più scabrosi che a noi altri, perché quei che sono più santi sogliono essere da Dio più provati ed esercitati con cose simili. Come dunque stavano sempre in un medesimo essere? con un medesimo sembiante? con una certa serenità ed allegrezza interiore ed esteriore che sempre pareva che fosse Pasqua per essi? La cagione di ciò era quella che andiamo dicendo; perché erano arrivati ad avere una intera conformità alla volontà di Dio ed avevano posto ogni lor gusto nell’adempimento di essa; e così ogni cosa si convertiva loro in contentezza. Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum (Ad Rom. VIII, 28): — Non contristàbit justum quidquid ei acciderit (Prov., XII, 21). Il travaglio, la tentazione e la mortificazione, ogni cosa si convertiva loro in allegrezza, perché conoscevano, che quella era la volontà di Dio, e questa era tutta la contentezza loro. Già avevano conseguita la felicità e la beatitudine che in questa vita si può godere, onde stavano come in gloria. Dice molto bene a questo proposito S. Caterina da Siena (D. Cath. Sen. In Dial.), che i giusti sono come Cristo nostro Redentore, il quale non perde mai la beatitudine dell’anima, sebben pativa molti dolori e pene: così i giusti non perdono mai questa beatitudine che consiste nella conformità alla volontà di Dio, ancorché abbiano molte avversità; perché sempre dura ed è permanente in essi l’allegrezza e il gusto della volontà e del voler di Dio che s’adempisce in quelle cose. – E questa è una perfezione tanto alta e sublime, che l’apostolo S. Paolo dice che supera ogni senso: Et pax Dei, quæ exuperat omnem sensum, custodiat corda vestra, et ìntelligentias vestras in Christo Jesu (Ad Phil. IV): dice, che questa pace supera ogni senso; perché è un dono di Dio tanto alto e soprannaturale, che non può l’intelletto umano da sé solo comprendere, come sia possibile, che un cuore di carne stia quieto, e pacifico, e consolato nel mezzo de’ turbini e delle tempeste, delle tentazioni e de’ travagli di questa vita. S’assomiglia questa cosa a quella meraviglia del roveto che Mosè vide che ardea e non si abbruciava (Es. III, 2); e al miracolo di quei tre giovanetti che stavano nella fornace di Babilonia, i quali in mezzo del fuoco si conservarono sani ed illesi, lodando Dio. Questo è quello che diceva il santo Giob parlando con Dio: Mirabiliter me crucias (Job. X, 16): Mi tormenti, Signore, mirabilmente; dimostrando da una banda il travaglio e dolor grande che pativa, e dall’altra il gusto e la contentezza grande ch’aveva in patirlo, per esser quella la volontà e il gusto di Dio. Cassiano racconta (Cass. coll. 12, c. 13), che stando un santo vecchio in Alessandria circondato da gran moltitudine d’infedeli che gli dicevano molte maldicenze, egli se ne stava in mezzo di essi come un agnellino, sopportando e tacendo con gran quiete di cuore. Lo schernivano, lo percuotevano, gli davano urtoni, e gli facevano altre gravissime ingiurie, e fra le altre cose gli dissero con ischerno: Che miracoli ha fatti Gesù Cristo? Al che egli rispose: I miracoli che ha fatti sono, che mentre io sto patendo le ingiurie che mi fate, non mi sdegni né m’adiri contra voi altri, né mi turbi con alcuna passione; anzi stia apparecchiato a soffrirne ancora delle altre molto maggiori. Questo è un gran miracolo e una molto alta e sublime perfezione. Dicono gli antichi di quel monte della Macedonia chiamato Olimpo, e l’apporta S. Agostino in molti luoghi, che è di tanto grande altezza, che nella sommità di esso non si sentono venti, né vi cadono piogge né nevi: Nubes excedit Olympus (D . Aug. lìb. de Gen. ad litt. in imperfecto, c. 13, et lib. 3, o. 2, et lib, 1 de Gen. contra Manich, c . 15; Lucan. lib . 2 Pharsalic.). Nemmeno gli uccelli vi possono far nido, perché è tanto alto, che supera questa prima regione dell’aria e arriva alla seconda: e così l’aria è ivi tanto pura e sottile, che non vi si possono né formare né sostentare le nuvole, le quali per ciò hanno bisogno d’aria più densa: e per l’istessa ragione non si possono ivi sostenere su le lor ali gli uccelli, nemmeno vi posson vivere gli uomini, perché essendo l’aria tanto sottile e depurata, non è sufficiente per poter respirare. E di questo diedero notizia alcuni che salivano colà d’anno in anno a far certi sacrifici, ed i quali portavano seco certe spugne bagnate, acciocché mettendosele alle narici potessero condensar l’aria ed essi così respirare. Costoro scrivevano colà su nella polvere certe lettere le quali trovavano l’anno seguente così ben formate e intere come le avevano lasciate; il che non sarebbe potuto accadere, se fossero arrivati colà i venti e le piogge. Or questo è lo stato di perfezione al quale sono ascesi e arrivati quelli che. hanno questa piena conformità alla volontà di Dio. Nubes excèdit Olympus; et pacem summa tenerti. Sono ascesi ed arrivati tanto alto, ed hanno già acquistata una pace così grande, che non vi sono nuvole né venti né piogge che colà giungano, né vi sono uccelli di rapina che insidiino né predino la pace e allegrezza del loro cuore. S. Agostino sopra quelle parole, Beati pacifici, quoniam filii Dei vocabuntur (D. Aug. lib. 1 de serm. Dom. in monte c. 8, in Matth. v. 9), dice, che perciò Cristo nostro Redentore chiama i pacifici, beati e figliuoli di Dio, perché non è in essi cosa che resista né contraddica alla volontà di Dio; ma in ogni cosa si conformano ad essa come buoni figliuoli, i quali in tutte le cose procurano d’assomigliarsi al padre, non avendo altro volere, né altro non volere, che quello che il Padre vuole, o non vuole. Questo è uno de’ più elevati e principali punti che siano nella vita spirituale. Chi arriverà a pigliare tutte le cose che gli avverranno, tanto grandi quanto piccole, come venute dalla mano di Dio, e a conformarsi in esse alla divina volontà sua, di maniera che tutto il suo gusto sia il gusto di Dio e l’adempimento della sua santissima volontà, questo tale ha trovato il paradiso qui in terra: Factus est in pace locus ejus, et habitatio ejus in Sion (Ps. LXXV, 3). Questo tale, dice S. Bernardo (D. Bernard. In sentent.), potrà con ogni sicurezza e fiducia cantar quel Cantico del Savio: In his omnibus requiem qucesivi, et in hæreditate Domini morabor (Eccli. XXIV, 11); perché ha trovato il vero riposo e il pieno e compiuto gaudio che da niuno gli potrà esser tolto. Ut gaudium vestrum sit plenum — Et gaudium vestrum nemo tollet a vobis (Jo. XVI, 24 et 22). Oh se finissimo una volta di metter ogni nostra contentezza nell’adempimento della volontà di Dio, che la volontà nostra fosse sempre la sua e il nostro gusto il suo! Che non avessi io, Signore, altro volere, ed altro non volere, che quello che volete, o non volete voi, e che questa fosse la mia consolazione in tutte le cose: Mihi autem adhærere Deo bonum est, ponere in Domino Deo spem meam (Ps. LXXII, 27). Oh quanto buona cosa sarebbe per l’anima mia unirmi a Dio in questo modo! Oh quanto felici saremmo, se stessimo sempre tanto uniti a lui, che in ciò che facciamo, o patiamo, non riguardassimo altra cosa, se non che stiamo adempiendo la volontà di Dio, e questa fosse ogni nostra contentezza e ricreazione! Questo è quello che dice quel santo uomo: Quegli al quale Dio è ogni cosa, e tutte le cose riferisce a Dio, e vede ogni cosa in Dio, può essere stabile di cuore, e starsene con somma pace in Dio (Thom. A Kemp. Lib. 1, c. 3, n. 2).
CAPO V.
Che in Dio solo si trova contentezza, e chi la metterà in altra cosa non potrà avere contentezza vera.
Quelli che mettono la contentezza loro in Dio e nella sua divina volontà, godono una contentezza ed allegrezza perpetua; perché come stanno appoggiati a quella ferma colonna della volontà di Dio, partecipano di quella immutabilità della volontà divina; e così stanno sempre fermi ed immobili in un medesimo essere. Ma quelli che stanno attaccati alle cose del mondo e in esse tengono posto il cuore e la contentezza loro, non possono avere contentezza vera né durabile; perché camminano insieme con queste cose, e dipendono da esse; e cosi stanno soggetti alle mutazioni delle medesime. Il glorioso S. Agostino dichiara questo molto bene sopra quelle parole del profeta David, Concepii dolorem, et peperit iniquitatem, dicendo: Non enim poterit làbor finiri, nisi hoc quisque diligat, quod invito non possit auferri (D. Aug. in Ps. VII, 15). Tieni per certo, che fino a che non metterai la tua contentezza in quella cosa che da niuno ti può esser tolta contra tua voglia, sempre starai con ansia e con affanno. Leggiamo del nostro P. Francesco Borgia, che arrivato che fu a Granata col corpo dell’Imperatrice, quando si ebbe da far la consegnazione di esso, aprirono la cassa di piombo nella quale stava riposto; e scoprirono la sua faccia, la quale era tanto mutata, tanto brutta e contraffatta, che metteva orrore a quei che la guardavano. Questa cosa cagionò in lui tanto sentimento, che toccandogli Dio il cuore con quel sì gran disinganno del mondo, fece questo fermo proponimento: Io mi risolvo, o mio Dio, di non più servire padrone che mi possa mancare (Lib. 1, c. 7 Vita; P. Franc., de Borgia ). Ora pigliamo noi altri questa risoluzione la quale è molto buona. Io fo proponimento, Signore, di non mettere per l’avvenire il mio cuore in cosa che mi possa mancare, in cosa che possa aver fine, né in cosa che da altri mi possa esser tolta contra mia voglia: perché altrimenti non potremo avere vera contentezza: Nam cum ea diliguntur, dice S. Agostino, quos possumus contra voluntatem amittere, necesse est, ut prò iis miserrime laboremus (D. Aug. ubi supra): perché se tieni posto il tuo amore e la tua affezione in quella cosa che ti può esser tolta contra tua voglia, senza dubbio quando ti sarà tolta ne sentirai dolore. Questa è cosa naturale, non lasciarsi senza dolore quello che si possiede con amore: e quanto maggiore sarà l’amore, tanto maggiore sarà il dolore: onde confermando questa medesima cosa in un altro luogo il medesimo Santo dice: Qui vult gaudere de se, tristis erit. Se tu metti la tua contentezza nel tal ufficio, o nella tale occupazione, o nello stare nel tal luogo, o in altra cosa simile, cotesta contentezza ti potrà esser tolta facilmente dal Superiore, e così non vivrai mai contento. Se metti la tua contentezza nelle cose che sono secondo la volontà tua, o nell’adempimento di essa, elle si mutano facilmente; e quando bene non si mutassero esse, ti muti tu stesso; perché quello che oggi ti piace e ti gusta, domani ti dispiace e ti disgusta. Se non lo credi, vedilo in quello stolto popolo degl’Israeliti, che favoriti da Dio col miracoloso isquisitissimo cibo della manna, se ne infastidirono e domandarono altro cibo; e vedendosi in libertà, tornarono subito a desiderare la servitù, e sospiravano per l’Egitto e per gli agli e le cipolle che mangiavano colà, e molte volte desiderarono di tornarvi. Non avrai mai contentezza, se la metterai in queste cose: Qui autem de Deo vult gaudere, semper gaudebit; quia Deus sempi ternus est: Ma chi metterà tutta la sua contentezza in Dio e nell’adempimento della sua divina volontà, vivrà sempre contento; perché Dio è sempiterno, mai non si muta, sempre resta e dura in un essere. Dunque, vis habere gaudium sempiternum? dice il Santo, admire Hit, qui sempiternus est: Vuoi tu avere un gaudio e una contentezza perpetua e sempiterna? metti il tuo cuore in Dio che è sempiterno (S. Aug. tract. 24 in Jo.). Lo Spirito santo assegna questa differenza tra l’uomo sciocco e l’uomo savio e santo: Stultus sicut luna mutatur; homo sanctus in sapientia manel sicut sol (Eccli. XXVII, 12). Lo sciocco si muta come la luna, oggi crescente, domani calante: oggi lo vedrai allegro, domani malinconico; ora d’un umore, e tra poco di un altro; perché tien posta la sua contentezza nelle cose del mondo mutabili e transitorie; e così si muove al muoversi di esse, e va variando al variare de’ loro successi. Nel flusso e riflusso de’ suoi affetti, appunto come il mare, va colla luna, ed è lunatico. Ma l’uomo giusto e santo è permanente come il sole, sempre di un istesso tenore e in un medesimo essere: non sono in esso né crescenze né scemamenti. Il vero servo di Dio sempre sta allegro e contento; perché ha riposta la sua contentezza in Dio e nell’adempimento della sua santissima volontà che non può mancare né gli può da alcuno esser tolta. Si dice di quel santo abbate chiamato Deicola, che sempre andava ridendo; e domandato per qual cagione, diceva, Christum a me tollere nemo potest (Abb. Deicol. In Vit. Patr.): Sia quel che si voglia essere e venga quello che vuol venire, che nessuno può togliermi Dio. Quest’uomo aveva trovata la vera contentezza; perché l’aveva posta in cosa che non gli poteva mancare e che da nessuno gli poteva esser tolta. Facciamo dunque così noi altri: Exultate, justi, in Domino (Psal. XXXII, 1). S. Basilio sopra queste parole dice: Avvertite, che il Profeta non dice, che vi rallegriate nell’abbondanza delle cose temporali, nemmeno nella vostra molta abilità ed ingegno, non nelle molte lettere e nei grandi talenti che avete, né che vi rallegriate nella buona sanità e nelle grandi forze corporali, nemmeno nell’esser in molta riputazione e in molta stima presso gli uomini; ma che vi rallegriate nel Signore, e che mettiate tutta la vostra contentezza in Dio e nell’adempimento della sua santissima volontà; perché questa sola cosa è quella che sazia; e tutto il rimanente non può dare soddisfazione né vera contentezza (D. Basil. 8 in eumdem Ps.). S. Bernardo in un Sermone che fa sopra quelle parole di S. Pietro, Ecce nos reliquimus omnia etc., va dichiarando e provando molto bene questa cosa, e dice: Anima rationalis ceteris omnibus occupavi potest, repleri omnino non potest (2 (2) D. Bern. in Matth. XIX, 27): Tutte le altre cose fuori di Dio possono bensì occupar l’anima e il cuore dell’uomo, ma non lo possono saziare; possono provocare e stuzzicare la fame, ma non levarla: Avarus non implebitur pecunia (Eccle. v, 9): come appunto accade all’avaro il quale, per detto del Savio, ha gran fame di denari; ma abbiane quanti ne può avere, non si sazierà mai: e il medesimo è di tutte le altre cose del mondo, che non potranno giammai saziare l’anima nostra. E ne rende la ragione S. Bernardo con dire: Sai perché le ricchezze e tutte le cose del mondo non ci possono saziare? Quia non sunt naturales cibi animæ (D. Bernard., tract. de dil. Deo c. 3 in fine); perché non sono cibo naturale né proporzionato dell’anima. Siccome l’aria e il vento non sono cibo naturale né proporzionato del nostro corpo, e ti rideresti, se vedessi che un uomo, morto di fame si mettesse colla bocca aperta all’aria, come un camaleonte, pensando di potersi con quello saziare e sostentare, e lo terresti per pazzo; così non è minor pazzia, dice il Santo, il pensare, che l’anima razionale dell’uomo, la qual è spirito, si abbia da saziare colle cose temporali e sensuali: Inflari potest, satiari non potest: Si può gonfiare come un otre coll’aria, ma saziarsi è impossibile; perché non è questo il suo cibo. Dà a ciascuno il suo nutrimento proporzionato, al corpo cibo corporale, e allo spirito spirituale; Panis namque animai justitia est, et soli beati, qui esuriunt illam; quoniam ipsi saturabuntur (Idem sup. Illa verba, Ecce nos reliquimus omnia). Il pane dell’anima, il suo cibo naturale e proporzionato, è la giustizia la virtù; e così solamente quei che hanno fame e sete di questa giustizia saranno beati, perché essi saranno saziati. Il beato S. Agostino dichiarando tuttavia più questa ragione ne’ suoi soliloqui, e parlando dell’anima ragionevole, dice: Facto est capax majestatìs tua!, ut a te solo, et a nullo alio, possit impleri (D. Aug. c. 30 Solil.): Facesti, Signore, l’anima ragionevole capace della tua maestà, di maniera tale che nessun’altra cosa la possa appagare né saziare, se non tu. Quando l’incavo e l’incastro di un anello è fatto alla misura di qualche pietra preziosa, nessun’altra cosa che ivi si metta vi sta bene, né finisce di riempier quel vacuo, se non quella pietra preziosa alla cui misura fu fatto: e se l’incavo è triangolare, nessun’altra cosa rotonda lo potrà empire. Ora l’anima nostra fu creata ad immagine e similitudine della santissima Trinità, con un vacuo e un incavo nel nostro cuore capace di Dio e proporzionato per ricever in sé l’istesso Dio. E così è impossibile ch’altra cosa possa riempiere questo vacuo, che il medesimo Dio. – Tutta la rotondità del mondo non basterà ad empierlo. Fecisti nos, Domine, ad te, et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te (Idem, lib. 1 Confess. c. 1): Ci facesti, Signore, per te; e così non si può quietare il nostro cuore né aver riposo, se non in te. – È molto buona questa cosa, e si dichiara molto bene con quella similitudine che comunemente si suol portare dell’ago, o frezzetta dell’oriuoletto portatile da sole. La natura di quest’ago, dopo essere stato toccata colla pietra calamita, è di volgersi e guardare verso la tramontana; perché Dio gli diede questa naturale inclinazione: e vedrai quanto sta inquieto quell’ago, e quante volte si gira e si rigira, sin a tanto che si drizzi colla punta a tramontana, e come fatto questo subito si ferma. Or così Dio creò l’uomo con questa naturale inclinazione e risguardo a Lui come a sua tramontana ed ultimo fine: onde finché non metteremo il nostro cuore in Dio, sempre staremo, come l’ago suddetto, mobili e inquieti. A qualsivoglia di quelle parti mobili del cielo che guardi quell’ago, non si quieta; e subito che guarda ad un punto del cielo che non si muove, rimane fisso ed immobile: così mentre metterai gli occhi e il cuore nelle cose del mondo mutabili e transitorie, non potrai aver quiete né contentezza: mettilo in Dio, e l’avrai. – Questo ci dovrebbe muovere grandemente a cercar Dio, ancorché non fosse per altro che per nostro proprio interesse; perché tutti desideriamo d’aver contentezza. Dice S. Agostino : Scimus, fratres, quoti omnis homo gaudere desiderat; sed non omnes ibi quærunt gaudium, ubi oportet inquivi (D. Aug. serm. 20 de Sanct.): Sappiamo bene, Fratelli miei, che ogni uomo naturalmente desidera contentezza e quiete, e la procura quanto può, perché non ne può viver senza; ma tutto il discernimento, o inganno degli uomini sta nell’affrontare a mettere gli occhi e il cuore nella contentezza vera, o nel mettergli in quella che è apparente e falsa. L’avaro, il lussurioso, il superbo, l’ambizioso e il goloso, tutti desiderano aver contentezza; ma uno mette la sua contentezza nel posseder molte ricchezze; l’altro negli onori e nelle dignità; l’altro nel mangiare e banchettare; l’altro ne’ piaceri disonesti: non hanno affrontato a mettere la contentezza loro ove l’avevano da mettere, e così non la troveranno mai; perché tutte queste cose e quanto è nel mondo, non basta a saziare l’anima né a darle contentezza. E così S. Agostino dice: Quid ergo per multa vagaris, homuncio, quærendo bona animæ tuæ et corporis tui? Ama unum bonum, in quo sunt omnia bona, et sufficit: desidera simplex bonum, quod est omne bonum, et satis est. Idem de Spir, et Anima , c»p, 64.): A che fare ti stracchi, uomicciuolo, cercando queste cose di qua? se vuoi avere sazietà e contentezza, ama Dio, e questo basta; perché in esso stanno tutti i beni, ed Egli solo è quegli che può saziare ed empiere il desiderio del tuo cuore. Benedic, anima mea, Domino, qui replet in bonis desiderium tuum (Psal. CII, 1, 5). Benedetto, lodato e glorificato ne sia Egli in eterno. Amen.
CAPO VI.
Si dichiara per un altro verso come il conformarci alla volontà di Dio è mezzo per aver contentezza.
Il glorioso S. Agostino, sopra quelle parole del Salvatore, Quodcumque petieritis Patrem in nomine meo , hoc faciam (D. Aug. tract. 73 in Jo.; Jo. xiv. 13). Qualsivoglia cosa che domanderete al mio Padre in mio nome, vi sarà da me conceduta, dice che non deve uno cercar pace e quiete per la via di far la volontà propria e di conseguire quel che appetisce; perché non è questo il suo bene né quello che gli conviene; anzi questo sarebbe forse male per esso; ma ha da procurare di accomodarsi semplicemente in quel bene, o in quel meglio che Dio gli manda, e questo è quello che ha da chiedere a Dio: Quando enim nos delectant mala, et non delectant bona; rogare debemus pótius Deum, ut delectent bona, quam ut concedantur mala: Se non trovi gusto nell’adempimento della volontà di Dio, che è il vero bene, ma il tuo gusto e appetito ti porta a cercare l’adempimento della tua volontà, hai da chiedere e porger suppliche a Dio, che non ti conceda quello che tu vuoi, ma che ti dia gusto nell’adempimento della sua divina volontà, che è il tuo vero bene e quello che ti conviene. E porta a questo proposito quel fatto che si legge ne’ Numeri (Num. XI, 4), quando i figliuoli d’Israello s’infastidirono della manna del cielo che Dio mandava loro, e desiderarono e domandarono carne, che Dio soddisfece al desiderio loro; ma costò loro molto caro, perché, Adhuc esca? eorum erant in ore ipsorum, et ira Dei ascendit super eos. Et occidit pingues eorum, et electos Israel impediva (Ps. LXXVII): Dio li castigò, facendo una grande uccisione d’essi. È cosa chiara, ch’era migliore la manna del cielo che Dio mandava loro, che la carne da essi desiderata e che le cipolle e gli agli dell’ Egitto per i quali sospiravano; onde non dovevano dimandar queste cose a Dio, dice il Santo, ma sì bene, che risanasse loro il palato, acciocché avessero avuto buon gusto del cibo celeste, e così non avrebbero avuto a desiderare altro cibo; poiché nella manna avevano tutte le cose e tutti i sapori che potevano desiderare (Sap. XVI, 20). Nell’istesso modo quando tu stai colla tentazione, o colla passione, ed hai il gusto corrotto e guasto, sì che non gusti della virtù né del bene, ma come infermo appetisci cose cattive e nocive; non t’hai da regolare col tuo appetito, né hai da volere che s’adempisca quel che desideri; perché questo non sarà mezzo per aver contentezza, ma per aver di poi maggior disgusto e maggiore inquietudine e scontentezza. Quello che hai da desiderare e da domandar a Dio, è che ti risani il palato e ti dia gusto nell’adempimento della santissima volontà sua, ch’è il bene e quello che ti conviene; e in questo modo verrai a conseguire la vera pace e la vera contentezza. S. Doroteo (D. Doroth. Doctr. 9) va in questo per un’altra strada, o per dir meglio, dichiara questa cosa in un altro modo, e dice, che colui il quale conforma in ogni cosa la volontà sua a quella di Dio, di maniera che non ha altro volere, né altro non volere che quello che Dio vuole, o non vuole, viene in questo modo a far sempre la sua propria volontà e ad aver sempre molta pace e quiete. Poniamo esempio nell’ubbidienza, e con ciò resterà dichiarato quel che vogliamo dire, e faremo, come suol dirsi, d’un viaggio due servigi. Diciamo comunemente a quei che vogliono essere Religiosi e camminare per la strada dell’ubbidienza: Avvertite, che qui nella Religione non avete da fare la volontà vostra in cosa alcuna; e S. Doroteo dice: Andate pure alla Religione, che in essa potete ben fare la volontà vostra: io vi darò un mezzo da poter fare tutto il giorno la vostra volontà non pur lecitamente, ma santamente e con gran perfezione. Sapete come? Qui propriam non habet voluntatem, suam ipsius semper agit voluntatem: Il Religioso che è vero ubbidiente, e non ha propria volontà, sempre fa la volontà sua, perché fa sua la volontà altrui: Et sic, nolentes propriam explere voluntatem, invenimur illam semper explevisse: Procurate voi che la volontà vostra non sia altra che la volontà del Superiore; e così tutto il giorno andrete eseguendo la vostra volontà, e con gran perfezione e merito: perché in questa maniera io dormo quanto voglio; perché non voglio dormire più di quello che è ordinato dall’ubbidienza: e mangio quel che voglio; perché non voglio mangiar più di quello che mi è dato: e fo l’orazione, la lezione e la penitenza che voglio; perché in tutto questo non voglio se non quello che dall’ubbidienza è tassato e ordinato: e così in tutto il resto. Di maniera che il buon Religioso, non volendo fare la volontà sua, viene a far sempre la sua volontà: e perciò stanno tanto allegri e contenti i buoni Religiosi. Quel far sua la volontà dell’ubbidienza li fa star sempre contenti ed allegri. In questo sta tutto il punto della facilità o difficoltà della Religione, e da questo dipende l’allegrezza e la contentezza del Religioso. Se ti risolvi di lasciare la tua propria volontà e di pigliare per tua la volontà del Superiore, ti si farà molto facile e soave la Religione, e vivrai con gran contento e allegrezza. Ma se hai altra volontà differente da quella del Superiore, non potrai vivere nella Religione. Due volontà differenti non sono compatibili in un solo. Ancora con non avere noi altri se non una volontà sola, pure perché abbiamo un appetito sensitivo che contraddice alla volontà e alla ragione, abbiamo da fare a difenderci da esso, non ostante che questo appetito sia inferiore e subordinato alla nostra volontà; or che sarebbe, essendoci due volontà, ciascuna delle quali pretendesse essere la padrona? Nemo potest duobus dominis servire (Matth. VI, 24): Nessuno può servire a due padroni. La difficoltà della Religione non istà tanto nelle cose e nei travagli che sono in essa, quanto nella ripugnanza della nostra volontà e nella apprensione della nostra immaginazione: questa è quella che ci rende le cose pesanti e difficili. Questo si conoscerà molto bene dalla differenza che esperimentiamo in noi altri quando abbiamo tentazioni e quando non ne abbiamo; perché quando stiamo senza tentazioni, veggiamo che le cose ci si fanno facili e leggiere; ma ti verrà una tentazione e ti si caricherà addosso una tristezza e malinconia grande; e allora quel che ti soleva esser facile ti diventa molto difficile, e ti pare di non poter portare sì gran peso, e che per farlo bisogna che si congiunga il cielo colla terra. Non istà la difficoltà nella cosa, poiché è la medesima ch’era prima; ma nella tua mala disposizione: come quando l’infermo abborrisce il cibo, non istà il male nel cibo, che questo è buono e ben condito, ma nel cattivo umore dell’infermo, il quale fa che il cibo gli paia cattivo e di mal sapore: così è qui nel caso nostro. Questa è la grazia che Dio fa a quei che chiama alla Religione, il dar loro gusto e sapore nel seguire la volontà altrui. Questa è la grazia della vocazione, colla quale il Signore ci ha fatti di miglior condizione che i nostri fratelli rimasi colà nel mondo. Chi ti diede cotesta facilità in lasciare la volontà tua e in seguir quella di un altro? chi ti diede un cuor nuovo per abborrire con esso le cose del mondo e per gustare del ritiramento dell’orazione e della mortificazione? non sei già nato con questo; no certamente, ma più tosto col contrario: Sensus enim, et cogìtatio humani cordis in malum prona sunt ab adolescentia sua (Gen. VIII, 21). Questa è stata grazia e dono dello Spirito santo: Egli fu quegli che come buona madre ti pose nelle poppe del mondo l’aloe, acciocché ti diventasse amaro quello che prima ti era dolce; e pose mele soavissimo nelle cose della virtù e della Religione, acciocché ti diventasse saporito e soave quello che prima ti pareva amaro e di mal sapore: Domine, qui me custodisti ab infantia, qui abstulistì a me amorem sæculi, diceva già quella gran Santa (In Vita B. Agat. et Eccl. in Off. ejus sol.): Ti rendo, Signore, infinite grazie, perché mi hai custodita ed eletta fino dalla mia fanciullezza e perché hai levato via dal mio cuore l’amor del secolo. Ah! che non è gran cosa quella che noi altri facciamo nel renderci Religiosi; ma è bensì molta e grandissima la grazia che Dio ci ha fatta nel tirarci alla Religione e nel far che gustiamo della manna del cielo, mentre gli altri gustano e si trattengono cogli agli e colle cipolle dell’Egitto. Alle volte mi metto a considerare, come quei del mondo si svestono della volontà loro e fanno propria la volontà altrui per i loro guadagni e interessi, cominciando dal primo personaggio che sta al lato del Re, sino all’ultimo staffiere e all’ultimo mozzo di stalla. Mangiano, come essi stessi dicono, secondo la fame altrui, dormono secondo l’altrui sonno, e sono tanto assuefatti a questo, ed hanno fatta talmente lor propria la volontà altrui, che gustano di quella maniera di vivere e la tengono per trattenimento: Et Mi quidem, ut corruptibilem coronam accipiant; nos autem incorruptam (1 Cor. IX, 25). Or che gran cosa è. Che noi altri gustiamo di un modo di vivere tanto ben ordinato, quanto è quello della Religione, e facciamo propria la volontà del Superiore, la quale è migliore che la nostra? Se quelli per un poco di onore e di interesse temporale si fanno tanto propria la volontà altrui, che arrivano ad avere per gusto e per trattenimento il seguirla e il fare della notte giorno e del giorno notte; che gran cosa è, che noi facciamo questo per amor di Dio e per acquistare la vita eterna? Risolviamoci dunque di far nostra la volontà del Superiore, e in questo modo faremo sempre la volontà nostra, e vivremo molto contenti ed allegri nella Religione, e sarà la nostra allegrezza e il nostro gusto molto spirituale. Ritorniamo ora al nostro intento e applichiamo questo al nostro proposito. Facciamo nostra la volontà di Dio, conformandoci ad essa in tutte le cose, e non avendo altro volere, o non volere, che quello che Dio vuole, o non vuole ; e in questa maniera verremo a far sempre la propria volontà nostra e a vivere con gran contento e allegrezza. Chiara cosa è, che se tu non vuoi se non quel che Dio vuole, si farà la volontà tua; perché si farà quella di Dio, che è quello che tu vuoi e desideri. Insino Seneca seppe dir questo (1 Seneca in præfat. lib. 3 nat. quæst.). La più alta e più perfetta cosa che sia nell’uomo, dic’egli, è saper sopportare con allegrezza i travagli e le avversità, e tollerar tutto quello che succede, come se di sua propria volontà il tutto gli succedesse; perché l’uomo è obbligato a volere così, sapendo che questa è la volontà divina. Oh! quanto contenti vivremmo, se accertassimo bene a far nostra la volontà di Dio e a non voler mai se non quello che Egli vuole; non solo perché sempre si farà la volontà nostra, ma ancora e principalmente per vedere, che sempre si fa e si adempie la volontà di Dio che tanto amiamo. Che sebbene abbiamo ancora a valerci di quel tanto che ora si è detto; nondimeno in questo poi dobbiamo finalmente venire a fermarci, e in questo abbiamo da mettere ogni nostra contentezza, nel gusto e soddisfazione di Dio, e nell’adempimento della santissima e divina volontà sua: Omnia quæcumque voluit Dorninus, fecit, in cœlo, et in terra, in mari, et in omnibus abyssis ( Ps. CXXXIV, 9): Tutte le cose che il Signore ha voluto, ha fatte, e farà tutte quelle che vorrà; e può fare quanto può volere, come dice il Savio: Subest enim tibi, cum volueris, posse (Sap. XII, 18): Né vi è chi glielo possa impedire, né chi gli possa resistere: In ditione enim tua cuncta sunt posita, et non est qui possit tuœ resistere voluntati (Esther XIII, 9); — Voluntati ejus quis resistit (Ad Rom. IX, 19)?