L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (10)

R. P. CHAUTARD D. G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (10)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B. 8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALETORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE QUINTA

Alcuni principi ed avvisi per la vita interiore

1.

Alcuni consigli agli uomini di azione per la vita interiore

CONVINZIONI:

Lo zelo non è efficace se non gli si unisce l’azione di Gesù Cristo.

Gesù Cristo è l’agente principale, e noi non siamo altro che i suoi strumenti.

Gesù Cristo non benedice le opere in cui l’uomo confida soltanto nei propri suoi mezzi.

Gesù Cristo non benedice le opere sostenute unicamente dall’attività naturale.

Gesù Cristo non benedice le opere in cui lavora l’amor proprio invece dell’amore divino (P. Desurmont, C. SS. R).

Guai a chi si rifiuta alle opere a cui Dio lo chiama.

Guai a chi s’intromette nelle opere senza assicurarsi della volontà di Dio.

Guai a chi nelle opere vuole comandare, senza dipendere veramente da Dio.

Guai a chi nell’esercizio dell’azione non adopera i mezzi di conservare o di ricuperare la vita interiore.

Guai a chi non sa coordinare la vita interiore con la vita attiva, in modo che questa non danneggi l’altra.

PRINCÌPI:

Principio. — Non bisogna darsi all’azione per pura attività naturale, ma bisogna consultare Dio per potersi rendere la testimonianza che si agisce sotto l’ispirazione della sua grazia e secondo la manifestazione moralmente sicura della sua volontà.

Principio. — È cosa imprudente e dannosa il rimanere troppo a lungo in un periodo di eccessive occupazioni che metterebbero l’anima in uno stato incompatibile con gli esercizi essenziali della vita interiore; allora è il caso, soprattutto per i sacerdoti e i religiosi, di applicare, anche alle opere più sante, il precetto: Erue eum et proiice abs te (Strappalo e gettalo lontano da te (MATT. V, 29). ).

Principio. — Un regolamento che stabilisca l’impiego abituale del tempo, fatto d’accordo con un sacerdote prudente, di vita interiore e di esperienza, si deve imporre anche con la violenza se occorre, all’eccesso sregolato della vita attiva.

Principio. — Per il profitto proprio e per quello degli altri, bisogna prima di tutto coltivare la vita interiore: quanto più si è occupati, tanto più si abbisogna di questa vita. Dunque tanto più se ne deve avere la sete e si devono adoperare i mezzi perché questa sete non sia uno di quei desideri sterili di cui satana si serve per addormentare le anime e mantenerle nell’illusione.

Principio. — Se l’anima si trova per caso, e davvero per volere di Dio, molto occupata e perciò nella morale impossibilità di prolungare le sue pratiche di pietà, essa possiede un termometro infallibile il quale le dice se DAVVERO si mantiene nel fervore. Se davvero essa ha sete di vita interiore, se con tutta la sua buona volontà prende tutte le occasioni per compierne le pratiche essenziali, può starsene tranquilla e deve fare assegnamento sicuro su grazie affatto speciali che Dio serba per lei: essa vi troverà la forza sufficiente per progredire nella vita spirituale.

Principio. — Fintantoché l’uomo di azione non arriva a mantenersi nel raccoglimento e nella dipendenza dalla grazia che lo devono accompagnare dappertutto, si trova in uno stato insufficiente di vita interiore. Per tale raccoglimento necessario, non occorre nessuno sforzo: basta uno sguardo abituale che venga più dal cuore che non dalla mente, uno sguardo sicuro, giusto, penetrante, per vedere se si rimane nell’azione sotto l’influenza di Gesù.

Avvisi PRATICI:

1° Bisogna scolpirsi bene in mente che senza il Regolamento sopra accennato e senza la ferma volontà di attenervisi abitualmente, e particolarmente riguardo all’ORA DI ALZARSI rigorosamente fissata, l’anima NON PUÒ avere una vita interiore.

2° Stabilire come base della vita interiore, come elemento indispensabile, la meditazione del mattino. Santa Teresa dice: « Colui che è già ben deciso di fare a qualunque costo la mezz’ora di meditazione del mattino, è già a metà strada». Senza la meditazione si avrà quasi necessariamente una giornata di tepidezza.

La Messa, la Comunione, la recita del Breviario, le funzioni liturgiche sono miniere incomparabili di vita interiore, le quali si devono sfruttare con fede e con fervore sempre crescenti.

L’esame particolare e l’esame generale devono avere per scopo, come la meditazione e la vita liturgica, l’abitudine della Custodia del cuore con la quale si mette in pratica l’unione del Vigilate e dell’Orate. L’anima attenta a ciò che passa nel suo interno e alla presenza della Santissima Trinità in lei, acquista l’istinto di ricorrere a Gesù in ogni circostanza, ma soprattutto quando vede il pericolo di dissiparsi o di indebolirsi.

5° Di qui nasce un bisogno di pregare continuamente con le comunioni spirituali e con le giaculatorie cosi facili, quando si vuole, anche in mezzo alle occupazioni più assorbenti, e così piacevoli a variare, adattandole agli speciali bisogni del momento presente, alle circostanze attuali, ai pericoli, alle difficoltà, alla stanchezza, alla delusione ecc.

6° Un devoto studio della Sacra Scrittura e specialmente del Nuovo Testamento deve trovare posto ogni giorno, o almeno più volte alla settimana, nella vita di un sacerdote. — La lettura spirituale del pomeriggio è un dovere quotidiano che un’anima generosa non tralascia mai. La mente ha bisogno di mettersi dinanzi alle verità soprannaturali, ai dogmi che generano la pietà e alle conseguenze morali che ne derivano e che tanto facilmente si dimenticano.

7° In conseguenza di questa custodia del cuore che ne sarà come la preparazione remota, la confessione settimanale sarà certamente fatta con sincera contrizione, con vero dolore e con fermo proponimento sempre più leale e risoluto.

8° Gli esercizi spirituali una volta all’anno sono utilissimi, ma non bastano: il ritiro mensile, di un giorno intero, o almeno di mezza giornata, impiegata davvero per rimettere l’anima in equilibrio, è quasi indispensabile per l’uomo di azione.

2.

La meditazione, elemento indispensabile della vita interiore, e perciò dell’apostolato

Un vago desiderio di vita interiore concepito dopo la lettura rapida di un volume, non darebbe NESSUN RISULTATO.  Bisogna che questo desiderio sia fissato con una risoluzione precisa, viva e pratica.  – Molte persone di azione mi hanno domandato che rendessi loro facile il mezzo di effettuare il loro proposito di vita interiore, esponendo alcune risoluzioni generali. Il rispondere a tali desideri vuol dire aggiungere una specie di appendice a questo volume.  Vi rispondo tuttavia volentieri, persuaso che da una parte l’uomo di azione, o sacerdote o secolare, non avrà certo davvero fatto profìtto dalla lettura di ciò che precede, se non è ben deciso di dedicare ogni mattina un po’ di tempo alla meditazione, e che d’altra parte il sacerdote, se vuole progredire nella vita interiore, non può fare a meno di valersi della vita liturgica e di esercitarsi nella custodia del cuore.  Mi pare cosa più pratica l’adottare per questi tre punti la forma di risoluzione personale. Non pretendo d’insegnare un nuovo metodo di meditazione, ma cercherò di estrarre il midollo dai metodi migliori.

RISOLUZIONE DI MEDITAZIONE (1):

(1) Ciascuna di queste tre risoluzioni dev’essere meditata lentamente o, meglio ancora, divisa in più meditazioni: una semplice lettura non basta per trarne profitto.

Voglio essere fedele alla meditazione del mattino.

a) Questa fedeltà è necessaria?

SACERDOTE, io intesi negli esercizi spirituali della mia ordinazione, questa grave parola: Sacerdos alter Christus! Compresi allora che se non vivo specialmente di Gesù, non sono un sacerdote secondo il suo cuore, non sono un’anima sacerdotale.

SACERDOTE, io devo vivere nell’intimità di Gesù; Egli lo vuole da me: Iam non dicam vos servos.. Vos autem dixi amico (Non vi chiamerò più nervi, ma amici – Giov. XV, 15). – MA LA MIA VITA CON GESÙ principio, mezzo e fine, si sviluppa in quella misura in cui egli è la LUCE della mia ragione e di tutti i miei atti interni ed esterni, 1’AMORE che regola tutti gli affetti del mio cuore, la mia FORZA nelle prove, nelle lotte, nel lavoro e I’ALIMENTO di quella vita soprannaturale che mi fa partecipare della stessa vita di Dio.  Ora questa vita con Gesù, ASSICURATA CON LA MIA FEDELTÀ ALLA MEDITAZIONE, senza questa è moralmente IMPOSSIBILE.  Oserò io oltraggiare con un rifiuto il cuore di Colui che mi offre questo mezzo di vivere della sua amicizia!  Un altro aspetto importante, benché negativo, della necessità della mia meditazione è questo: secondo l’economia del disegno divino, essa è EFFICACE contro i pericoli inerenti alla mia debolezza, alle mie relazioni con il mondo, a quei dati miei obblighi. Se faccio la meditazione, sono come rivestito di un’armatura di acciaio e INVULNERABILE ai dardi nemici i quali mi colpirebbero CERTAMENTE senza la meditazione. Perciò molte colpe che non avverto o avverto appena, mi saranno imputate nella loro causa. O meditazione o gravissimo pericolo di dannazione per il sacerdote che è a contatto con il mondo, dichiarava il pio, dotto e prudente P. Desurmont, uno dei più provetti predicatori di esercizi spirituali agli ecclesiastici. – E il cardinale Lavigerie diceva: «Per l’apostolo non vi è via di mezzo tra la santità, se non acquisita almeno desiderata e cercata (soprattutto con la meditazione quotidiana) e il pervertimento progressivo». – Ciascun sacerdote può applicare alla sua meditazione le parole ispirate dallo Spirito Santo al Salmista: Nisi quod LEX TUA MEDITATIO mea est tunc forte periissem in humilitate mea (Se la tua legge non era la mia meditazione, già sarei perito nella mia miseria – Salmo CXVIII, 92). Ora questa legge arriva fino al punto di obbligare il sacerdote a riprodurre lo spirito di Gesù Cristo.

UN SACERDOTE VALE QUANTO LA SUA MEDITAZIONE. VI SONO DUE CATEGORIE DI SACERDOTI:

1° I sacerdoti la cui risoluzione è tale, che la loro meditazione non sarebbe neppure ritardata da pretesti di convenienza, di occupazioni ecc.; soltanto un caso RARISSIMO di forza maggiore la farà rimandare ad altra mezz’ora del mattino, ma nulla più. Questi veri sacerdoti vogliono ottenere dei risultati buoni dalla loro meditazione e vogliono che questa sia distinta dal ringraziamento della Messa, da ogni lettura spirituale e tanto più dalla composizione di una predica. – Essi hanno la santità efficacemente desiderata e finché perseverano così, la loro salvezza è moralmente assicurata.

2° I sacerdoti che avendo preso soltanto una mezza risoluzione, RIMANDANO e perciò omettono facilmente la loro meditazione, ne snaturano lo scopo oppure non s’impongono nessun vero sforzo per riuscirvi. Ne seguirà una fatale tepidezza, con illusioni subdole, con una coscienza addormentata o falsata… Passo che scivola verso l’abisso.  A quale delle due categorie voglio appartenere! Se esito nella scelta, vuol dire che non feci bene gli esercizi spirituali.  – Tutto si collega insieme: se lascio la mia mezz’ora di meditazione, anche la Messa — perciò la mia comunione — sarà ben presto senza frutti personali e potrà divenire imputabile a colpa; la recita penosa e quasi macchinale del Breviario non sarà più la fervorosa e allegra espressione della mia vita liturgica; poca vigilanza, nessun raccoglimento e perciò nessuna giaculatoria; più nulla, purtroppo, di lettura spirituale; un apostolato sempre meno fecondo; non più esame leale delle colpe, meno ancora l’esame particolare; CONFESSIONI PER ABITUDINE E TALORA DUBBIE… in attesa del SACRILEGIO! – La cittadella sempre meno difesa e abbandonata all’assalto di una legione di nemici: prima sono brecce… ben presto saranno rovine…

b) Che cosa dev’essere la mia meditazione?

ASCENSIO MENTIS IN DEUM (L’ascensione della mente a Dio). « Il salire così, dice san Tommaso, essendo un atto della ragione non speculativa, ma pratica, suppone gli atti della volontà ». Per conseguenza: La meditazione è un VERO LAVORO, specialmente per i principianti. — Lavoro per staccarsi un momento da ciò che non è Dio. — Lavoro per rimanere mezz’ora fissi in Dio e per arrivare a prendere un nuovo slancio verso il bene. — Lavoro certamente penoso da principio, ma che voglio accettare generosamente. — Lavoro che del resto sarà presto coronato dalla più gran consolazione di quaggiù, cioè dalla pace nell’amicizia e nell’unione con Gesù.  La meditazione, dice santa Teresa, non è altro che una conversazione amichevole nella quale l’anima parla intimamente con Colui dal quale si sente amata.

CONVERSAZIONE CORDIALE. Sarebbe un’empietà il supporre che Dio, il quale mi dà il bisogno e talora l’attrattiva di questa conversazione, più che non me la imponga, non voglia poi facilitarmela. Ancorché da molto tempo io l’abbia trascurata, Gesù mi chiama teneramente e mi offre un’assistenza SPECIALE per questo linguaggio della mia fede, della mia speranza e della mia carità che dovrà essere, come dice il Bossuet, la mia meditazione. – Vorrò io resistere a questo invito di un padre il quale chiama anche il prodigo ad ascoltare la sua parola, a trattenersi familiarmente con lui, ad aprirgli il suo cuore e ad ascoltare i suoi palpiti?

CONVERSAZIONE SEMPLICE. Sarò schietto: perciò parlerò a Dio da tiepido, da peccatore, da prodigo o da fervoroso. Con l’ingenuità di un fanciullo esporrò lo stato dell’anima mia e parlerò solo il linguaggio che esprime davvero quello che sono.

CONVERSAZIONE PRATICA. Il fabbro ferraio non mette nel fuoco il ferro per farlo diventare ardente e luminoso, ma per renderlo malleabile: cosi pure la meditazione illumina la mia intelligenza e riscalda il mio cuore unicamente perché l’anima mia diventi malleabile, per poterla martellare, togliere i difetti o la forma dell’uomo vecchio e darle le virtù o la forma di Gesù Cristo. Dunque la mia meditazione avrà lo scopo di rialzare l’anima mia uno alla santità di Gesù (Bella espressione di Alvarez de Paz, sul fine della meditazione), affinché Egli la possa formare a sua immagine. Tu Domine Jesu, Tu ipse, manu mitissima, misericordissima, sed tamen fortissima FORMANS et PERTRACTANS cor meum (Tu, o Signore Gesù, Tu stesso con mano dolcissima, misericordiosissima, ma tuttavia fortissima, formi e plasmi il mio cuore (S. Agostino).

c) Come farò la meditazione?

Per mettere in pratica e la definizione e lo scopo, seguirò questa via logica: metterò la mia ragione, ma soprattutto la mia fede e il mio cuore, dinanzi al Signore che m’insegna una verità o una virtù; ravviverò la mia sete di conformare l’anima mia con l’Ideale intravveduto; deplorerò quello che vi è in me di contrario a Lui; prevedendo gli ostacoli, mi deciderò di romperli; ma persuaso che da me non posso fare nulla, con le mie istanze otterrò la grazia di riuscirvi.  Come un viaggiatore spossato e ansante, cerco di dissetarmi… Finalmente VIDEO (Video, io vedo; sitio, ho sete; volo, voglio; volo tecum, voglio con te): vedo una sorgente. Ma essa scaturisce da una rupe scoscesa… SITIO: quanto più guardo quell’acqua limpida che mi permetterebbe di continuare il mio viaggio, tanto più si fa vivo il desiderio, nonostante gli ostacoli, di calmare la mia sete… VOLO: a qualunque costo voglio arrivare a quella sorgente e sforzarmi di raggiungerla; ma purtroppo devo constatare la mia incapacità… VOLO TECUM: arriva una guida; non aspetta altro che le mie istanze per aiutarmi; mi porta persino nei passi difficili, e ben presto io posso bere a lunghi sorsi.  – Cosi sgorgano dal Cuore di Gesù le acque vive della grazia.

La mia lettura spirituale della sera, elemento così prezioso di vita interiore, ha ravvivato il mio desiderio di fare la meditazione al mattino seguente… PRIMA DEL RIPOSO vedo sommariamente, ma in modo preciso e vivo, l’argomento della meditazione (Un libro di meditazioni è quasi sempre necessario per impedire alla mente dì vagare nel vuoto. Molti volumi antichi e moderni presentano tutti i caratteri di veri libri di meditazione e non soltanto di lettura spirituale. Ogni punto contiene una verità evidente presentata con precisione, con forza e con brevità in modo che, dopo la riflessione, chiama il colloquio affettuoso e pratico con Dio. – Un solo punto basta per mezz’ora e si deve riassumere in un testo biblico o liturgico o in un’idea principale adatta al mio stato. Prima di tutto conviene scegliere i novissimi e il peccato, almeno una volta al mese, poi la vocazione, i doveri del proprio stato, i vizi capitali, le virtù principali, gli attributi di Dio, i misteri del rosario o un’altra scena del Vangelo e soprattutto della Passione. Nelle feste liturgiche l’argomento è già chiaramente indicato), come pure il frutto particolare che ne voglio trarre ed eccito dinanzi a Dio il mio desiderio di profittarne.

L’ORA DELLA MEDITAZIONE È GIUNTA (Il Clauso ostio di Gesù m’invita a preferire, per la meditazione, il luogo dove sarò meno disturbato, chiesa, camera, giardino ecc.). Voglio strapparmi alla terra, sforzare la mia fantasia a rappresentarmi una scena viva e parlante che io sostituisco alle mie preoccupazioni, distrazioni ecc. (Per esempio: Gesù che mostra il suo Cuore e dice: Ego sum resurrectio et vita, oppure: Ecco il Cuore che tanto ha amato gli uomini, oppure una scena della sua vita: Betlemme, Tabor, Calvario ecc. Se dopo uno sforzo sincero e breve non si riesce a farsi questa rappresentazione, si passi avanti, e Dio vi supplirà). Rappresentazione rapida e a grandi linee, ma abbastanza efficace da colpirmi e da GETTARMI ALLA PRESENZA di quel Dio la cui attività tutta di amore vuole avvolgermi e penetrarmi. Così eccomi in relazione con un INTERLOCUTORE VIVENTE (La riuscita della meditazione dipende spesso dalla cura con cui si considera l’Interlocutore come vivo e presente, e nel cessare di considerarlo come lontano e passivo, cioè quasi come un’astrazione), ADORABILE e AMABILE.  Cado subito in profonda adorazione, questa s’impone da sé; poi seguono atti di umiltà, di contrizione, di protesta, di dipendenza, e preghiera umile e fiduciosa affinché sia benedetta questa mia conversazione col mio Dio (Bisogna persuadersi bene che per questa conversazione Dio non vuol altro che la buona volontà. L’anima che, assediata dalle distrazioni, ritorna ogni giorno pazientemente e filialmente al suo divino interlocutore, fa una meditazione eccellente: Dio supplisce a tutto).

VIDEO:

COLPITO dalla vostra viva presenza, o Gesù, e libero così dall’ordine puramente naturale, comincerò la mia conversazione col LINGUAGGIO DELLA FEDE, più fecondo che le analisi della mia ragione, e con questo fine leggo o richiamo alla mente con diligenza il punto da meditare, lo riassumo e concentro in esso la mia attenzione.  Siete Voi che mi parlate e che m’insegnate questa verità, o Gesù; voglio dunque ravvivare e accrescere la mia fede su ciò che mi presentate come assolutamente certo, perché fondato sulla vostra veracità. E tu, o anima mia, non cessare di ripetere: Lo CREDO; ripetilo con maggior forza; come il fanciullo che studia la sua lezione, ripeti moltissime volte che tu aderisci a questa dottrina e alle sue conseguenze per la tua eternità… (Così si formano le forti convinzioni e si preparano i doni dello spirito di viva fede e dell’intuizione soprannaturale). O Gesù, questo è vero, è assolutamente vero, e io lo credo. Voglio che questo raggio del sole della Rivelazione sia come il faro della mia giornata; rendete la mia fede ancora più ardente; ispiratemi un forte desiderio di vivere di questo Ideale, e una santa collera per ciò che gli è contrario. Voglio divorare questo alimento di Verità e assimilarmelo.  – Se tuttavia, dopo alcuni minuti passati nell’eccitare la mia fede, rimanessi inerte dinanzi alla verità che mi viene presentata, non insisterò. Vi esporrò filialmente, o buon Maestro, la pena che provo per tale impotenza e vi pregherò di supplire Voi.

SlTIO:

Dalla frequenza e soprattutto dalla forza dei miei atti di fede, vera partecipazione a un raggio dell’Intelligenza divina, dipenderà il grado dell’esultanza del mio cuore, il LINGUAGGIO DELLA CARITÀ AFFETTIVA. Nascono infatti da sé, o eccitati dalla volontà, GLI AFFETTI, fiori che l’anima mia di fanciullo getta dinanzi a Gesù che le parla; sono adorazione, riconoscenza, amore, gioia, attaccamento alla volontà divina e distacco da tutto il resto, avversione, odio, timore, sdegno, speranza, abbandono. Il mio cuore sceglie uno o più di questi sentimenti, se ne penetra, ve li esprime, o Gesù, e ve li ripete mille volte, teneramente, lealmente, ma con semplicità.  Se la mia sensibilità mi dà aiuto, lo accetto perché può giovare, ma non è necessario. Un affetto calmo ma profondo è più sicuro e più fecondo delle commozioni superficiali; queste non dipendono da me e non sono mai la misura della vera ed efficace meditazione. Quello che è sempre in mio potere e che importa più di tutto, è lo sforzo per scuotere il torpore del mio cuore e per fargli dire: Mio Dio, io voglio unirmi a Voi; voglio annientarmi dinanzi a Voi; voglio cantare la mia gratitudine e la mia gioia di compiere la vostra volontà; non voglio più mentire con dirvi che vi amo e che detesto tutto ciò che vi offende ecc.  Benché mi sia lealmente sforzato, può darsi che il mio cuore rimanga freddo e che esprima fiaccamente i suoi affetti. Vi dirò allora ingenuamente, o Gesù, la mia umiliazione e il mio desiderio; volentieri prolungherò i miei lamenti, persuaso che gemendo così dinanzi a Voi per la mia sterilità, acquisto un diritto speciale ad unirmi in modo efficacissimo, benché aridamente, ciecamente e freddamente, agli affetti del vostro divin Cuore.  Come è bello, o Gesù, l’Ideale che io scorgo in Voi! Ma la mia vita è essa in armonia con questo Esemplare perfetto! Io compio questa ricerca sotto il vostro sguardo profondo, o Interlocutore divino, che ora tutto Misericordia, sarete tutto Giustizia quando vi troverò al giudizio particolare in cui con un solo sguardo Voi scruterete i motivi segreti dei più piccoli atti della mia vita. Vivo io di questo Ideale! Se morissi in questo momento, o Gesù, non trovereste che la mia condotta ne è la contraddizione! Su quali punti, o buon Maestro, desiderate che io mi corregga! Aiutatemi a scoprire gli ostacoli che m’impediscono d’imitarvi, le cause interne o esterne e le occasioni prossime o remote delle mie cadute. Alla vista delle mie miserie e delle mie difficoltà, il mio cuore è costretto ad esprimervi, o mio Redentore adorato, confusione, dolore, tristezza, amaro rimpianto, sete ardente di fare meglio, offerta generosa e illimitata del mio essere: volo piacere Deo in omnibus («Voglio piacere a Dio in tutte le cose». Con queste parole il Suarez riassume i frutti di tutti i trattali ascetici. Questi atti del Sitio dispongono l’anima alla risoluzione di non rifiutare nulla a Dio).

VOLO:

Faccio un passo innanzi nella scuola del VOLERE.

È il LINGUAGGIO DELLA CARITÀ EFFETTIVA. Gli affetti hanno fatto nascere in me il desiderio di correggermi; ho veduto gli ostacoli; ora tocca alla mia volontà il dire: Voglio rialzarmi. O Gesù, il mio ardore nel ripetervi questo voglio, deriva dal mio fervore nel ripetere: credo, amo, mi pento, detesto.  Se qualche volta questo VOLO non viene fuori con quella forza che desidero, o mio diletto Salvatore, deplorerò questa debolezza della mia volontà et invece di perdermi di coraggio, non mi stancherò di ripetervi quanto desidero di partecipare alla vostra generosità nel servizio del Padre celeste. Alla mia risoluzione generale di lavorare per salvarmi e per amare Dio, unisco quella di applicare la mia meditazione alle difficoltà, alle tentazioni e ai pericoli della giornata. Ma avrò cura soprattutto di rifondere con amore più vivo la RISOLUZIONE (È meglio tenere la stessa risoluzione per interi mesi, o da un ritiro all’altro. L’esame particolare, in forma di breve colloquio col Signore, completa la meditazione e, constatando un progresso o un regresso, facilita in modo straordinario l’avanzamento nella perfezione) che è oggetto del mio esame particolare (difetto da combattere o virtù da praticare); la rinforzo con motivi che attingerò dal Cuore del Maestro e da buon stratega stabilisco i mezzi che ne possano assicurare l’esecuzione, prevedo le occasioni e mi preparo alla lotta. Se intravvedo un’occasione speciale di dissipazione, d’immortificazione, di umiliazione, di tentazione, una decisione grave ecc., mi dispongo per quel momento alla vigilanza, all’energia e soprattutto all’unione con Gesù e al ricorso a Maria. – Se cado ancora, nonostante queste precauzioni, che abisso però tra queste cadute di sorpresa e le altre! Lungi da me lo scoraggiamento, perché so che Dio è glorificato dal mio continuo ricominciare per divenire più risoluto, più diffidente di me stesso, più assiduo nel supplicarlo: solo a questo prezzo avrò la riuscita.

VOLO TECUM:

Obbligare uno storpio a camminare diritto è meno assurdo che il pretendere di riuscire senza di Voi, o mio Salvatore (sant’Agostino). Perché le mie risoluzioni sono rimaste senza frutto, se non perché l’omnia possum non è derivato dall’in eo qui me confortat (Io posso tutto in Colui che mi conforta – Filipp. IV, 13)? Arrivo dunque al punto della mia meditazione, che sotto certi aspetti è il più importante: la SUPPLICA O LINGUAGGIO DELLA SPERANZA. – Senza la vostra grazia, o Gesù, io non posso nulla. Per nessun titolo io non merito questa vostra grazia, ma so che le mie istanze, ben lungi dall’annoiarvi, stabiliscono la misura del vostro aiuto, se esse rispecchiano la mia sete di essere vostro, la diffidenza in me stesso e la mia confidenza illimitata, pazza, direi, nel vostro Cuore. Come la Cananea, mi prostro ai vostri piedi, o Bontà infinita, con la sua insistenza, tutta di speranza e di umiltà, vi chiedo non qualche briciola, ma una vera partecipazione a quel banchetto di cui avete detto: Il mio cibo è di fare la volontà del Padre mio. – Divenuto, per mezzo della grazia, membro del vostro Corpo mistico, io partecipo della vostra vita e dei vostri meriti e prego per mezzo vostro, o Gesù. O Padre Santo, io prego per il Sangue divino il quale chiede misericordia: potrete voi respingere la mia preghiera?È il grido del mendico quello che io innalzo a Voi, o ricchezza inesauribile: Exaudi me quoniam inops et pauper sum ego (Esauditemi perché sono povero e bisognoso – Salmo LXXXV). Rivestitemi della vostra forza e nella mia debolezza glorificate la vostra potenza. La vostra bontà, le vostre promesse e i vostri meriti, o Gesù, la mia miseria e la mia fiducia sono i soli titoli della mia supplica per ottenere, mediante la mia unione con Voi, la custodia del cuore e la forza durante questa giornata. Se sopravviene un ostacolo, una tentazione, un sacrificio da imporre a una delle mie facoltà, il testo o il pensiero che io prendo come mazzetto spirituale, mi farà respirare il profumo di preghiera che ha circondato le mie risoluzioni, e di nuovo in quel momento innalzerò il grido della supplica efficace. Quest’ABITUDINE, frutto della mia meditazione, ne sarà pure la pietra di paragone: a fructibus cognoscetis.

*

Quando arriverò a VIVERE DI FEDE e di SETE ABITUALE di Dio, allora soltanto il lavoro del VIDEO sarà presto soppresso; Il SITIO e il VOLO verranno da sé fin dal principio della meditazione la quale trascorrerà nel produrre affetti e offerte, nel confermare la mia volontà risoluta e poi nel mendicare da Gesù direttamente, o per mezzo di Maria Immacolata, degli Angeli o dei Santi, una più intima e più costante unione con la Volontà divina.

 Il santo Sacrificio mi aspetta: la meditazione mi vi ha preparato. La mia partecipazione al Calvario, in nome della Chiesa, e la mia comunione saranno come una continuazione della mia meditazione (1). Nel mio ringraziamento estenderò le mie domande per gl’interessi della Chiesa, per le anime a me affidate, per i defunti, per le opere a cui attendo, per i parenti, amici, benefattori, nemici ecc.  La recita delle diverse ore del mio caro Breviario, in unione con la Chiesa, per lei e per me, le frequenti e fervide giaculatorie, le comunioni spirituali, Tesarne particolare, la visita al SS. Sacramento, la lettura spirituale, il rosario, Tesarne generale ecc. verranno a segnare la mia via, a ravvivare le mie forze e a conservare lo slancio preso al mattino, affinché nulla nella mia giornata sfugga all’azione del Signore. In seguito a tale slancio, il ricorso frequente prima, e poi abituale a Gesù direttamente o per mezzo di Maria, farà cessare le contraddizioni tra la mia ammirazione per la sua dottrina e la mia vita di emancipazione, tra la mia pietà e la mia condotta.

*

Devo qui mettere un freno al mio cuore che, nel suo desiderio di giovare davvero agli uomini di azione, vorrebbe consacrare qui una risoluzione speciale all’ESAME PARTICOLARE. Ma cedendo a tale desiderio, temerei di aumentare troppo questo volume. Eppure dalla lettura di Cassiano, di parecchi Padri della Chiesa, come pure di sant’Ignazio, di san Francesco di Sales e di san Vincenzo de’ Paoli, risulta che l’esame particolare e l’esame generale sono corollari obbligatori della meditazione e si connettono con la custodia del cuore. – L’anima, d’accordo con il suo direttore, si è risoluta a prendere di mira più direttamente, nella sua meditazione e nel corso della giornata, quel tale difetto o la tale virtù, sorgente principale di altri difetti o virtù.  Sono molti i cavalli che tirano il cocchio; l’occhio li vigila tutti costantemente; ma nel centro della squadriglia ve n’è uno che esige maggiore sollecitudine da parte di chi li guida. Infatti se quel cavallo corre troppo a destra o troppo a sinistra, fa sviare tutti gli altri.  L’analisi dell’anima per mezzo dell’esame particolare, per constatare se vi è progresso o regresso o stato stazionario sopra un punto ben determinato, non è altro che un elemento della custodia del cuore.

(1) La meditazione è il braciere dove si ravviva la custodia del cuore.  Con la fedeltà alla meditazione saranno vivificati tutti grll altri esercizi di pietà. L’anima acquisterà a poco a poco la vigilanza e lo spirito di orazione, ossia l’abitudine di ricorrere di più e con più frequenza a Dio.  L’unione con Dio nell’orazione produrrà l’unione intima con Lui, anche durante le occupazioni più assorbenti.  L’anima che vive cosi unita con Dio con la custodia del cuore, attirerà sempre di più sopra di sé i doni dello Spirito Santo e le virtù infuse, e forse Dio la chiamerà ad un grado di orazione più elevato.

L’ottimo libro Les Voies de l’oraison mentale (le vie dell’orazione mentale di Dom VITAL LEHODEY – ed. Lecoffre), stabilisce con precisione ciò che si richiede per l’ascensione dell’anima attraverso i diversi gradi di orazione e dà le regole per discernere se un’orazione superiore sia davvero un dono di Dio o un frutto dell’illusione.  Prima di parlare dell’orazione affettiva, primo grado delle orazioni più elevate a cui Dio ordinariamente chiama soltanto le anime arrivate alla custodia del cuore per mezzo della meditazione, il P. RIGOLEUC, S. J., indica nel libro cosi pregevole delle sue (Œvres spirituelles (Avignone, 1843, pag. 17 e segg.) dieci maniere di trattenersi con Dio quando, dopo una seria prova, uno si trovi nell’impossibilità morale di fare la meditazione sull’argomento preparato il giorno prima. Riassumiamo il pio autore.

1* MANIERA: Prendere un libro spirituale {(uovo Testamento o Imitazione di Cristo) — leggere a intervalli alcune righe — meditare un poco su quanto si ò letto, cercare di penetrare il senso e imprimerlo nella mente.

— Trarne qualche santo affetto, amore o pentimento ecc., e proporsi di praticare all’occasione tale virtù.

Evitare di leggere o di meditare troppo. — Fermarsi a ogni pausa finché la mente trova un colloquio piacevole e utile.

2* MANIERA: Prendere alcune parole della Scrittura o qualche preghiera vocale, per esempio il Pater, l’Ave o il Credo, pronunziarla, fermarsi a ciascuna parola e trarne diversi sentimenti di pietà in cui uno si fermerà finché vi trova gusto.  Alla fine domandare a Dio qualche grazia o virtù, secondo l’argomento meditato. Non fermarsi troppo, con noia e disgusto, su una parola, ma quando non si trova più di che trattenervi, passare tranquillamente ad un’altra.

— Quando uno si sente tocco da qualche buon sentimento, vi si fermi finché dura, senza darsi pensiero di andare innanzi. — Non è necessario fare atti sempre nuovi, ma basta talora stare dinanzi a Dio pensando in silenzio alle parole già meditate, oppure gustando il sentimento da esse prodotto nel cuore.

3* MANIERA: Quando l’argomento preparato non dà materia sufficiente, fare atti di fede, di adorazione, di ringraziamento, di speranza, di amore ecc., dando loro l’estensione che si vuole e fermandosi alquanto su ciascuno per gustarlo.

4* MANIERA: Quando non si sa più meditare né produrre affetti (impotenza e sterilità), protestare dinanzi a Dio, che si ha l’intenzione di fare tanti atti, di contrizione per esempio, quante sono le volte che si respira o che si fanno passare i grani del rosario tra le dita o che si pronuncerà con la bocca una breve preghiera.  Rinnovare di quando in quando tale protesta e, se Dio dà qualche altro buon sentimento, accettarlo con umiltà e trattenersi in esso.

5* MANIERA: Nelle pene e nelle aridità, se si è impotenti a pensare o ad agire, abbandonarsi generosamente al dolore senza inquietarsi né fare sforzi per uscirne, senza fare altri atti che questo dell’abbandono di sé nelle mani di Dio, per soffrire quella prova e tutte le altre che vorrà mandarci.  Oppure unire la propria preghiera all’Agonia di Gesù nel Getsemani e al suo abbandono sulla croce. — Persuadersi che si è crocifissi con Gesù e animarsi, con il suo esempio, a rimanervi e a soffrire costantemente fino alla morte.

6* MANIERA: Esame del proprio interno. — Riconoscere i propri difetti, le passioni, le debolezze, le infermità, l’impotenza, la miseria, il nulla.  — Adorare i giudizi di Dio riguardo allo stato in cui uno si trova. — Sottomettersi alla sua santa volontà. —- Benedire Dio egualmente sia per i castighi della sua giustizia, sia per i favori della sua misericordia. — Umiliarsi dinanzi alla sua infinita Maestà. — Fargli sincera confessione delle proprie infedeltà e peccati, e chiedergli perdono. — Ritrattare i propri giudizi falsi e i propri errori. — Detestare tutto il male che si è fatto e proporre di emendarsi per l’avvenire.  Tale meditazione è assai libera e ammette ogni sorta di affetti; si può fare in ogni tempo, soprattutto dopo qualche caso inaspettato, per sottomettersi al castighi della giustizia di Dio, o dopo il trambusto dell’azione, per rimettersi nel raccoglimento.

7* MANIERA: Viva rappresentazione dei Novissimi. Considerarsi nell’agonia, tra il tempo e l’eternità, — tra la vita passata e il giudizio di Dio.  — Che cosa vorrei aver fatto? — Come vorrei essere vissuto? — Pena che se ne sentirà. — Ricordare i peccati, i disordini, gli abusi deUa grazia. — Come si vorrebbe essersi diportati in quelle date occasioni. — Proporre di rimediare efficacemente a ciò che si ha ragione di temere. Figurarsi di essere sepolti, in putrefazione, dimenticati da tutti — dinanzi al Tribunale di Gesù Cristo — nel Purgatorio — nell’Inferno.  Quanto più viva sarà la rappresentazione, tanto maggior profitto si farà da tale meditazione. È necessaria questa morte mistica, per spogliare l’anima dalla carne e per risuscitare, cioè per liberarsi dalla corruzione del vizio; bisogna passare da questo purgatorio, per giungere al godimento di Dio in questa vita.

8* MANIERA: Applicazione della mente a Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento. Salutare Gesù Sacramentato con tutto il rispetto che richiede la sua presenza reale, unirsi a Lui e a tutte le sue divine operazioni nell’Eucaristia dove non cessa di adorare, lodare, amaro suo Padre in nome di tutti gli uomini e nello stato di vittima.  Concepire il suo raccoglimento, la sua vita nascosta, lo spogliamento di tutto, la sua obbedienza, la sua umiltà ecc. — Eccitarsi a imitarlo e proporsi di farlo all’occasione.  Offrire Gesù Cristo al Padre, come unica vittima degna di Lui, per mezzo della quale noi possiamo rendergli omaggio, riconoscerne i benefici, soddisfare alla sua giustizia e obbligare la sua misericordia a soccorrerci. Offrire a Lui se stessi, l’essere, la vita, l’impiego. Presentargli un atto di virtù che si propone di fare, qualche mortificazione che si vuole praticare per vincersi, e ciò per gli stessi fini per cui Gesù si sacrifica nel Santissimo Sacramento. — Fare tale offerta con un ardente desiderio di accrescere quanto è possibile la gloria che Egli dà al Padre in questo augusto Mistero.  Terminare con la comunione spirituale.

Meditazione eccellente, soprattutto per la visita al Santissimo Sacramento. Rendersela familiare perché la nostra felicità in questa vita dipende dalla nostra unione con Gesù Sacramentato.

9° MANIERA: Essa si fa in nome di Gesù Cristo. — Eccita la nostra fiducia in Dio e ci fa entrare nello spirito e nei sentimenti di Nostro Signore.  Si fonda sul fatto che noi siamo alleati del Figlio di Dio, suoi fratelli, membri del suo Corpo mistico; che Egli vuole cederci tutti i suoi meriti e lasciarci tutte le ricompense che suo Padre gli deve per le sue fatiche e per la sua morte. Questo è ciò che ci rende capaci di onorare Dio con un culto degno di lui e ci dà il diritto di trattare con Dio e di esigere in certo modo le sue grazie come per giustizia. — Noi non abbiamo tale diritto come creature, meno ancora come peccatori, perché vi è sproporzione infinita tra Dio e la creatura, e opposizione infinita tra Dio e il peccatore. Ma come alleati del Verbo incarnato, come suoi fratelli, come suoi membri, possiamo presentarci con fiducia a Dio, trattare familiarmente con Lui e obbligarlo ad ascoltarci benignamente, ad esaudire le nostre suppliche e a darci le grazie, per motivo della nostra alleanza e della nostra unione con suo Figlio.  Presentarsi dunque a Dio per adorarlo, amarlo, lodarlo per mezzo di Gesù Cristo che opera in noi, come Capo nelle sue membra, e che c’innalza con il suo spirito ad uno stato divino; — domandargli qualche favore per i meriti di suo Figlio e a questo fine rappresentargli i servizi a Lui resi dal Figlio diletto, la sua vita, la sua morte, i suoi patimenti la cui ricompensa appartiene a noi, per la donazione che Egli ci fece.

Recitare l’Ufficio divino con questo spirito.

10* MANIERA: Semplice attenzione alla presenza di Dio e meditazione su questa. Prima di mettersi a meditare sull’argomento preparato, mettersi alla presenza di Dio senza accogliere altro pensiero e senza eccitare altro sentimento che quello del rispetto e dell’amore di Dio, ispirato dalla sua presenza. — Accontentarsi di stare cosi dinanzi a Dio in silenzio in questo semplice riposo della mente, finché se ne prova gusto. — Poi meditare secondo la maniera solita.  È bene incominciare cosi tutte le meditazioni ed è utile il fare altrettanto dopo ciascun punto. — Riposare cosi in questa semplice attenzione su Dio. — Cosi ci stabiliamo nel raccoglimento interno; — ci avvezziamo a fissare la mente in Dio e ci prepariamo a poco a poco alla contemplazione. — Ma non fermarsi cosi per pura pigrizia e per non volersi dare la pena di meditare.)

https://www.exsurgatdeus.org/2020/09/09/lanima-dellapostolato-11/

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO. “S.S. PIO X – “HÆRENT ANIMO”

Questa esortazione apostolica di SS. S. Pio X era un tentativo per portare i Sacerdoti ed il clero tutto a considerare la loro dignità, il loro dovere apostolico e la responsabilità davanti all’Altissimo nel loro ruolo fondamentale nel portare anime al cielo. Purtroppo i suoi paterni ed amorevoli solleciti a nulla sono valsi se poi quello stesso clero a cui si rivolgeva ha tradito vergognosamente la dottrina ed il compito che la Chiesa, Dio permettendo, aveva loro assegnato, sfociando nell’apostasia aperta della setta della “sinagoga di satana” costituitasi dopo il Vaticano II a perdizione delle anime salvate dai meriti e dal Sangue del Redentore. Basta rileggere questo documento per capire che gli aderenti della setta vaticano-modernista usurpante i sacri palazzi dell’urbe e dell’orbe, nulla hanno a che vedere con il clero che il Signore, tramite la sua unica Chiesa, la Cattolica Apostolica Romana, aveva desiderato costituire onde portare le anime riscattate con il Sacrificio della Croce all’eterna salvezza. – La lettera si commenta da sé, tale ne è le forza e la chiarezza dottrinale. Speriamo che possa essere finalmente attuata dal nuovo clero che il Signore personalmente verrà a ristabilire, una volta distrutto con il soffio della sua bocca, l’anticristo ed i suoi adepti indovuti, come “bestia” ingannatrice di fedeli ignoranti ed infingardi nelle cose dottrinali, nei “luna park” e nei “centri commerciali” della “spelunca latronum” vaticana. A noi “pusillus grex” il compito di resistere “fortes in fide” davanti ai falsi segni mirabolanti dei servi dell’anticristo [i falsi sacramenti e le sacrileghe benedizioni], e pregare per la salvezza delle anime riscattate dal Signore Nostro.

ESORTAZIONE APOSTOLICA

”HÆRENT ANIMO”

DI S. S. SAN PIO X

“SULLA SANTITÀ SACERDOTALE”

IN OCCASIONE DEL 50° ANNIVERSARIO DEL SUO SACERDOZIO

AL CLERO CATTOLICO

MOTIVI E INTENTI

Scopo dell’esortazione.

L’avvenire della Chiesa dipende dalla qualità degli Ecclesiastici.

Abbiamo scolpite nella mente e ci riempiono di salutare timore le parole dell’Apostolo agli Ebrei (XIII,17), che, inculcando loro il dovere dell’ubbidienza verso i superiori, affermava con tutta la sua autorità: “Essi vegliano come responsabili che dovranno render conto delle anime vostre”. Se questa sentenza riguarda tutti quelli, che hanno nella Chiesa una qualunque preminenza, principalmente riguarda noi, che, benché impari a tanto officio, abbiamo nella Chiesa la suprema autorità. Quindi notte e giorno senza posa non ci stanchiamo di meditare e di tentare tutto quanto interessa l’incolumità e la prosperità del gregge affidatoci da Dio. Fra queste preoccupazioni una più delle altre ci sta a cuore, ed è che i sacerdoti siano tali, quali li esige la dignità del loro ministero, poiché a nostro avviso, per questa via principalmente, possiamo nutrire liete speranze dell’avvenire della religione. Così, non appena saliti al Soglio pontificio, benché, volgendo uno sguardo all’universalità del clero, scorgessimo in esso molteplici titoli di lode, tuttavia non potemmo non esortare con ogni studio i nostri venerandi fratelli, i Vescovi dell’orbe cattolico, che in nulla ponessero tanta perseveranza e tanta cura, quanto nel formar Cristo in quelli che a formar Cristo negli altri sono destinati. Né ci sfugge lo zelo e l’attività, che dispiegano nell’educare il clero alla virtù, del che ci torna dolce non tanto di render loro una pubblica lode, quanto di esprimere i sensi della più viva riconoscenza.

Stimolo ai ferventi ed ai meno ferventi.

Se non che, mentre per una parte ci allieta il vedere che, per tali cure dei Vescovi, già molti ecclesiastici si mostrano accesi di un sacro fuoco, che risuscita o ravviva in essi la grazia di Dio ricevuta nell’imposizione delle mani nella sacra ordinazione, per l’altra ci resta ancora a lamentare che alcuni altri, in diverse regioni, non sono così esemplari, che i fedeli cristiani, volgendo gli occhi in loro, quasi in uno specchio, siccome a guida, possono conformare se stessi al loro esempio. A questi vogliamo aprire il nostro cuore con questa lettera, come il cuore di un padre palpitante di ansiosa carità nel cospetto del figlio infermo. Per un tale veemente amore, aggiungiamo a quelli dei Vescovi i nostri ammonimenti; i quali, benché indirizzati specialmente a ridurre a miglior consiglio i fuorviati e giacenti in letargo, tuttavia possono, come è nostro vivo desiderio, essere anche agli altri di stimolo. Noi additiamo la via, seguendo la quale, ciascuno deve sforzarsi ogni giorno più di riuscire, secondo la chiara espressione dell’Apostolo, “uomo di Dio” (1 Tm 6,11), e di corrispondere alla giusta aspettazione della Chiesa. Nulla diremo di non mai udito da Voi, o di nuovo per chicchessia, ma cose, le quali conviene che ognuno si rammenti: e Dio ci infonde la speranza che la nostra voce sia per produrre notevole buon frutto. Questo è il nostro desiderio: “che vi rinnovelliate… nello spirito della vostra mente, e vi rivestiate dell’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità” (Ef.  IV, 23-24): e sarà questo il più bello e il più gradito dono, che Ci possiate offrire nel cinquantesimo del nostro sacerdozio. E mentre noi, “contriti di anima e umiliati di spirito” (Dn III, 39), ripenseremo in Dio i passati anni del nostro sacerdozio; espieremo in certo qual modo i nostri umani mancamenti, dei quali Ci abbiamo a pentire, ammonendovi con paterna cura, “onde camminiate in maniera degna di Dio, piacendo a Lui in tutte le cose” (Col 1,10). Ed in una simile esortazione non miriamo semplicemente alla vostra utilità, ma al vantaggio generale dei fedeli cattolici, che da quella non si può separare. Poiché tale non è il sacerdote che possa essere buono o cattivo semplicemente per sé, ma l’esempio della sua vita non è a dire di quali conseguenze sia fecondo sull’indirizzo della vita dei fedeli. Ove è un sacerdote veramente buono, qual tesoro è veramente largito dal cielo!

LA SANTITÀ DEL SACERDOTE

La santità, dote prima della vita sacerdotale.

L’esempio deve precedere la parola.

Diamo principio, diletti figli, alla nostra esortazione, con l’incitarvi a quella santità, che è richiesta dalla dignità del vostro grado. Poiché chi è insignito del sacerdozio, non per sé soltanto, ma per gli altri ancora ne è insignito: “Ogni pontefice scelto tra gli uomini, è preposto a pro degli uomini a tutte quelle cose che riguardano Dio” (Eb. V, 1). Il medesimo pensiero volle esprimere Cristo, quando, a significare quale sia il fine dell’azione sacerdotale, li paragonò al sole ed alla luce del mondo, sale della terra. Ognuno sa che sale e luce Egli è principalmente per l’ufficio che ha di distribuire il pane della verità cristiana; ma chi è che ignori che un tale ammaestramento non approda a nulla, se il sacerdote non consacri con l’esempio le cose insegnate con la parola. Gli uditori con irriverenza sì, ma non a torto obietteranno: “Professano di conoscere Dio e lo rinnegano coi fatti” (Tt I, 16); e respingeranno la dottrina, né fruiranno della luce del sacerdozio. Ond’è che Cristo, forma viva del sacerdote, insegnò prima con l’esempio e poi con le parole: “Principiò Gesù a fare, e poi ad insegnare” (At 1,1). Parimenti se gli si levi la santità a nessun titolo il sacerdote sarà più sale della terra: poiché ciò che è corrotto e contaminato non può servire a conferire la purezza; e, donde esula la santità, conviene che abiti la contaminazione. Perciò Gesù, continuando la medesima figura, chiama tali sacerdoti sale insipido, “che non è più buono a nulla se non ad esser gettato via e calpestato dalle genti” (Mt V, 13).

LA SANTITÀ DEI SACRI UFFICI

L’altezza della vocazione e i Sacri Uffici per se medesimi esigono la santità.

Quanto si è fin qui detto riceve nuova luce, quando si pensa che noi esercitiamo l’ufficio sacerdotale non già a nostro nome, ma nel nome di Gesù. “Così, dice l’Apostolo, ognuno consideri noi come ministri di Cristo e dispensatori de’ misteri di Dio” (1 Cor IV, 1); “siamo davvero adunque ambasciatori di Cristo” (2 Cor V, 20). Proprio per questo motivo Cristo ci ascrisse non al numero dei suoi servi, ma degli amici: “Non vi chiamerò già più servi… Ma vi ho chiamati amici, perché tutto quello che intesi dal Padre mio, l’ho fatto sapere a voi… Io ho eletto voi, e vi ho destinati, che andiate e facciate frutto” (Gv XV, 16). È quindi nostro ufficio di rappresentare la persona di Cristo e di condurre la missione da lui affidataci in maniera che ci sia dato di raggiungere il fine, che Egli ha di mira. E poiché “il bramare e schivare le cose medesime, questo è il pegno più fermo d’amicizia”, siamo tenuti, come amici, a nutrire i medesimi sentimenti, che sono in Cristo Gesù, che è “santo, innocente, immacolato, impolluto” (Eb VII, 26): come suoi ambasciatori, dobbiamo conciliare gli uomini alla sua dottrina ed alla sua legge, non senza osservarle prima noi stessi: come partecipi della sua autorità nell’alleggerire le anime dalle catene della colpa, conviene che poniamo ogni studio nell’evitare di caricarci noi di tali catene. Ma più come suoi ministri nell’augusto sacrificio che, con perenne prodigio, si rinnova per la vita del mondo, dobbiamo avere la medesima disposizione di animo, con la quale Egli sull’ara della croce si offrì ostia immacolata a Dio. Poiché, se in antico, quando non esisteva che un’ombra e figura del vero Sacrifizio, si esigeva nei sacri ministri tanta santità, quale non è giusto che si esiga, ora che la vittima è Cristo?

Due splendidi moniti di san Giovanni Crisostomo e di san Carlo Borromeo.

“Quanto dunque non conviene che sia più puro chi fruisce di un tal Sacrifizio? Di quale raggio solare non deve essere più splendida la mano, che divide questa carne, la bocca che è saziata dal fuoco spirituale, la lingua che rosseggia di questo sacramentissimo sangue?”. Assai opportunamente san Carlo Borromeo nei discorsi al Clero così inculcava: “Se ci ricordassimo, dilettissimi fratelli, quante e quanto preziose cose abbia poste Dio nelle nostre mani, quale stimolo non sarebbe per noi questa considerazione a farci condurre una vita degna di ecclesiastici! Che cosa non pose Iddio nelle mani, quando vi pose il proprio suo Figlio unigenito, come Lui eterno ed a Lui eguale? Nella mano mia pose i tesori suoi, tutti i Sacramenti e le grazie: pose le anime che gli sono care come la pupilla e che nell’amore preferì a se stesso, che redense con il suo sangue; nelle mie mani pose il cielo che io posso aprire e chiudere agli altri… Come mai dunque potrò io essere così ingrato a tanta degnazione ed amore da peccare contro di Lui, da offenderlo nell’onore, da inquinare questo corpo che è suo, da macchiare questa dignità e questa vita al suo ossequio consacrata?”.

AVVERTIMENTI DELLA CHIESA

Avvertimenti della Chiesa nel conferire gli Ordini ai suoi Chierici.

Ad ottenere nei suoi sacerdoti questa santità di vita, la Chiesa mira con assidue e non mai interrotte cure. A tal fine furono istituiti i Seminari: dove, se coloro che costituiscono le speranze della Chiesa devono essere educati nelle lettere e nelle scienze, nello stesso tempo, tuttavia, e più ancora lo devono essere sino dai più teneri anni ad una sincera pietà verso Dio. Inoltre, nel mentre promuove i candidati ai gradi

sacri con non brevi intervalli, non pone fine mai, come madre amorosa, alle esortazioni, che impartisce intorno al conseguimento della santità. Richiamiamoci queste tappe gioconde. Non appena ci ascrisse nella sacra milizia, volle che dichiarassimo secondo il rito: “Il Signore è la porzione della mia eredità e del mio calice; tu sei quegli che a me restituirà la mia eredità” (Sal XV, 5). Con le quali parole, commenta san Girolamo, si ammonisce “il chierico, affinché egli, che è parte del Signore o ha per sua parte il Signore, si diporti così che Egli possegga il Signore e sia dal Signore posseduto”. Quanto gravi parole rivolge poi la Chiesa ai novelli suddiaconi! Dovete considerare attentamente quale obbligo oggi di vostra spontanea volontà assumete…; quando avrete ricevuto quest’Ordine, non vi sarà più possibile di volgere indietro i passi; ma dovrete servire in perpetuo a Dio, e mantenere, con la sua grazia, la castità. E infine: se finora foste tardi alla Chiesa, d’ora innanzi dovete essere assidui; se finora foste sonnolenti, d’ora innanzi vigilanti…; se finora disonesti, d’ora innanzi casti… Riflettete di chi vi si affida il servizio! E per i promuovendi al diaconato così prega la Chiesa per mezzo del Vescovo: ”Abbondi in essi la bellezza di ogni virtù, l’autorità modesta, la pudicizia costante, la ferma purità dell’innocenza e l’osservanza della spirituale disciplina. I suoi precetti risplendano nella loro vita, affinché dall’esempio della loro castità il popolo si ecciti a imitarli santamente”. Ma più commovente ancora è l’ammonizione rivolta a coloro che devono essere iniziati al sacerdozio: “Con grande timore a così alto grado si deve salire, ed allora bisogna accertarsi che una celeste sapienza, illibati costumi e lunga osservanza della legge di Dio distinguano gli eletti a tale dignità… Sia il profumo della vostra vita diletto della Chiesa di Cristo, affinché con la parola e con l’esempio edifichiate la casa della famiglia di Dio”. E più di ogni cosa ci stimola la grave sentenza, che si aggiunge: “Siate all’altezza di ciò che amministrate (imitamini quod tractatis)”; il che concorda col precetto di san Paolo: “Affine di rendere perfetto ogni uomo in Cristo Gesù” (Col 1, 28).

Padri e Dottori confermano che il Sacerdote deve essere un cielo tesissimo.

Poiché questa dunque è la mente della Chiesa riguardo alla vita sacerdotale, non potrebbe riuscire ad alcuno di meraviglia, che tale sia la consonanza delle voci dei Padri e dei Dottori intorno a questo punto così che sembrino peccare di ridondanza. Ma, se con retto giudizio li osserviamo, ci apparirà evidente come altro non dicano che il vero e il giusto. Il loro giudizio si può brevemente esporre così: tanta differenza è tra il cielo e la terra; e quindi guardi bene il sacerdote che la sua virtù non solo non sia tocca neppure dall’ombra delle più gravi colpe, ma neppure delle più lievi. A tal riguardo il Concilio di Trento fece suo il pensiero di quegli uomini venerandi, quando ammonì i chierici di fuggire anche i leggeri mancamenti, che in loro sarebbero massimi: massimi non già in sé, ma per ragione di chi li commette, al quale più ancora che all’edifizio sacro, conviene quel detto: “Alla casa tua, (o Signore), si conviene la santità” (Sal XCII. 5).

NATURA DELLA SANTITÀ SACERDOTALE

In che consiste la santità.

Il fondamento voluto da Cristo sta proprio nelle virtù “passive”.

Ed ora è da vedere in che cosa consista una tale santità, della quale il sacerdote non può esser privo senza grave vergogna; poiché se alcuno ne ignora o male ne intende l’essenza, si trova in grande pericolo. C’è chi crede, anzi chiaramente professa, che il merito del sacerdote consista semplicemente nel sacrificarsi tutto al bene degli altri; per cui neglette quasi del tutto quelle virtù, che mirano al perfezionamento individuale (le così dette virtù passive), dicono che si deve porre ogni studio per conseguire ed esercitare quelle virtù che chiamano attive. Questa è dottrina indubbiamente fallace e rovinosa. Intorno ad essa così si esprime, con la consueta sapienza, il nostro predecessore di felice memoria: “Che le cristiane virtù non siano opportune a tutti i tempi non può cadere in mente se non a chi si sia scordato delle parole dell’Apostolo: “Coloro che Egli previde, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figliol suo” (Rm VIII, 29). Cristo è maestro ed esemplare di ogni forma di santità, al cui esempio è necessario che si modellino tutti quanti vogliono essere accolti nel regno dei cieli. Ora Cristo non muta col passare dei secoli; ma è il medesimo “ieri, e oggi; ed è sempre Lui anche nei secoli” (Eb XIII, 8). Quindi agli uomini di tutti i tempi è rivolta quella parola: “Imparate da me, che son mite e umile di cuore” (Mt XI, 29); in ogni tempo Cristo ci si presenta “ubbidiente sino alla morte” (Fil II, 8); e vale per tutte le età la sentenza dell’Apostolo: “Quei che sono di Cristo hanno crocifisso la loro carne co’ vizi e con le concupiscenze” (Gal V, 24).

La “conditio sine qua non” è l’abnegazione di sé.

Condanna dei metodi propri nel mondo.

I quali documenti sono rivolti a ciascheduno dei fedeli, in modo tutto speciale riguardano i sacerdoti: essi, più che gli altri, devono prendere come a sé rivolte le parole, che il medesimo nostro predecessore con apostolico zelo aggiunge: “Ed oh! fossero più numerosi i cultori di tali virtù, a imitazione dei santi delle passate età: i quali con l’umiltà, l’ubbidienza, la mortificazione di sé, furono potenti in opere e in parole, con indicibile vantaggio non solo della religione, ma dello stato e della civiltà”. Dove cade opportuno osservare come il sapientissimo Pontefice fa menzione speciale della mortificazione che con evangelica parola diciamo: abnegazione di sé. Poiché, di qui specialmente, dipende, o diletti figli, la forza e la virtù e il frutto del ministero sacerdotale; al contrario dalla negligenza di questa virtù, nasce tutto quanto nei costumi e nella vita del sacerdote può offendere gli occhi e sconcertare gli animi dei fedeli. Poiché l’agire a solo scopo di turpe lucro, l’ingolfarsi negli affari mondani, l’aspirare ai primi gradi e sprezzare i più modesti, il condiscendere alla carne e al sangue col troppo affetto ai parenti, il soverchio studio di piacere agli uomini, il porre la fiducia del proprio successo nell’umana destrezza della parola: tutte queste cose derivano dalla negligenza del precetto di Cristo e dal respingere la condizione, che egli ci pose: “Chi vuol venir dietro a me rinneghi se stesso” (Mt XVI, 24).

DALLA SANTITÀ I FRUTTI DEL MINISTERO

L’abnegazione di sé e la vita interiore sono però male intese se trascurano i gravi doveri di apostolico ministero.

Nel mentre inculchiamo così vivamente questo dovere dell’ecclesiastico, non possiamo non avvertire nel medesimo tempo che il sacerdote deve vivere santo non per sé solo; poiché egli è il lavoratore, che Cristo “mandò a lavorare nella sua vigna” (Mt XX,1). È dunque suo officio di svellere le male erbe, seminare quelle buone e fruttifere, innaffiare, badar bene che l’uomo nemico non vi semini fra mezzo la zizzania. Perciò deve il sacerdote stare in guardia, affinché indotto da un malinteso desiderio della sua perfezione interiore, non trascuri alcune di quelle parti del suo ministero, che spettano al bene dei fedeli. Tali sono la predicazione della parola di Dio, l’ascoltare le confessioni, l’assistere gli infermi e specialmente i moribondi, l’istruire gli ignoranti nelle cose di fede, il consolare gli afflitti, il ricondurre i fuorviati, l’imitare in ogni cosa Cristo, “il quale passò la sua vita facendo del bene e sanando tutti coloro che erano oppressi dal diavolo” (At X, 38).

La base insostituibile: la santità e l’unione con Dio.

Certo, vi stia scolpito in mente l’insigne ammonimento di san Paolo: “Non è nulla né colui che pianta, né colui che innaffia, ma è Dio che dà il crescere” (1 Cor III, 7). Voi potete ben gettare i semi camminando e piangendo, voi potete ben coltivarli con ogni fatica; ma che germoglino e diano i desiderati frutti, è opera del solo Dio e del suo potentissimo intervento. Di più, non bisogna dimenticare che altro non sono gli uomini se non istrumenti, dei quali si serve Dio per la salute delle anime; e che per conseguenza devono essere idonei ad essere maneggiati da Dio. E ciò in qual maniera? Crediamo dunque che Dio si muova a servirsi di noi; per propagare la sua gloria, in vista di una nostra eccellenza o capacità congenita o acquisita? Non già, poiché sta scritto: “Le cose stolte del mondo elesse Dio per confondere i sapienti: e le cose deboli del mondo elesse Dio per confondere i forti; e le ignobili cose del mondo e le spregevoli elesse Dio e quelle che non sono per distruggere quelle che sono” (1 Cor 1,27-28). Una cosa sola assolutamente serve per unire l’uomo a Dio, a renderlo a Dio grato, e ministro non indegno delle sue misericordie: la santità della vita e del costume.

L’unica scienza che vale – L’esempio del Santo Curato d’Ars.

Quando manchi al sacerdote questa, che solo costituisce la sovraeminente scienza di Gesù Cristo, gli manca ogni cosa. Poiché senza questa scienza la stessa vastità di una raffinata cultura (che pure noi medesimi con ogni cura ci studiamo di promuovere per il Clero) e la stessa destrezza e solerzia negli affari, quand’anche potessero essere di qualche frutto alla Chiesa o ai singoli fedeli, non raramente tuttavia sono a loro causa deplorevole di detrimento. Ma quanto possa nel popolo di Dio intraprendere e condurre a termine chi sia ornato di santità, anche nell’infimo grado della gerarchia, ce lo dicono numerosi esempi tratti da ogni età della storia; basti ricordare tra i recenti il Curato d’Ars, Giovanni Battista Vianney, al quale siamo lieti di avere noi medesimi decretato gli onori dei Beati. La santità sola ci rende quali ci richiede la nostra vocazione divina, uomini cioè crocifissi al mondo, e ai quali il mondo è crocifisso; uomini che camminano “vivendo nuova vita” (Rm IV, 4), i quali, secondo l’avviso di san Paolo (2 Cor VI, 5-7) nelle fatiche, “nelle vigilie, nei digiuni, con la castità, con la scienza, con la mansuetudine, con la soavità, con lo Spirito Santo, con la carità non simulata; con le parole di verità”, si manifestino veri ministri di Dio: che unicamente tendano alle cose celesti e si studino con ogni zelo di rivolgere al cielo le anime degli altri.

IL SUSSIDIO DELLA PREGHIERA.

La preghiera indispensabile sussidio della santità.

Esempio e precetti di Cristo.

Ma poiché, come nessuno ignora, la santità in tanto è frutto della nostra volontà, in quanto questa è sostenuta dalla grazia di Dio, Dio provvide largamente a che non mai avessimo a patire difetto, purché lo si voglia, del dono della grazia; e questa si ottiene in primis con la preghiera. Non vi è dubbio che tra la preghiera e la santità intercorre tale relazione che l’una non può sussistere senza l’altra. Quindi corrisponde pienamente alla verità quella sentenza del Crisostomo: “Io penso senz’altro che riesca a tutti evidente, come è impossibile, senza il sussidio della preghiera, viver virtuosamente” e acutamente concluse sant’Agostino: ” Veramente sa viver bene chi sa pregar bene”. E tali insegnamenti Cristo medesimo consacrò con la sua parola e più ancora col suo esempio. Poiché, per raccogliersi nella preghiera, si ritirava solitario nei deserti o saliva sulle montagne; passava le intere notti in questo esercizio; era assiduo al tempio; che, anzi, anche se circondato dalle turbe, levati gli occhi al cielo dinanzi a tutti pregava; e infine, confitto alla croce, fra i dolori della morte, con alto grido e lacrime volse al Padre l’ultima preghiera.

Il pericolo dell’abitudine e del ridurre le preghiere.

Il continuo bisogno di preghiera per sé e per il popolo.

Teniamo quindi come cosa certa e definita che il sacerdote, per sostenere degnamente il grado e ufficio, deve essere dedito in maniera esimia alla preghiera. Troppo sovente c’è da dolersi che egli si dedichi alla preghiera più per abitudine che per zelo, che a certe ore stabilite salmeggi con sonnolenza o preferisca preghiere piuttosto brevi o pochine, né poi consacri più alcun frammento della giornata a parlar con Dio, innalzandosi piamente alle cose del cielo. Mentre invece il sacerdote più di tutti gli altri deve obbedire al precetto di Cristo: “Si deve sempre pregare” (Lc XVIII, 1); conformandosi al quale san Paolo tanto inculcava: “Siate perseveranti nell’orazione vegliando in essa, e nei rendimenti di grazie” (Col IV, 2): “Orate sine intermissione” (1 Ts V, 17). E invero quante occasioni si offrono di elevarsi a Dio ad un’anima desiderosa della propria santificazione non meno che della salute degli altri! Le angustie interiori, la forza e insistenza delle tentazioni, la povertà di virtù, la piccolezza e sterilità delle nostre fatiche, i difetti e le negligenze frequenti, infine il timore dei giudizi divini, tutti questi sono stimoli a farci piangere dinanzi a Dio, col vantaggio di arricchirci di meriti al suo cospetto, oltre che di aver impetrato la grazia, l’aiuto divino. Né solamente per noi dobbiamo piangere. Nella colluvie di colpe che ovunque si diffonde, a noi specialmente si addice di pregare e muovere la divina pietà e di insistere presso Cristo, prodigo benignissimamente di ogni grazia nel mirabile sacramento dell’altare: Perdona, Signore, perdona al tuo popolo.

NECESSITÀ DELLA MEDITAZIONE

Necessità e vantaggi provenienti dalla meditazione.

Caposaldo principalissimo del profitto della virtù è il dedicare ogni giorno una parte del nostro tempo alla meditazione delle cose eterne. Non vi è sacerdote che se ne possa esimere, senza grave nota di negligenza e detrimento dell’anima sua. San Bernardo scrivendo ad Eugenio III, suo antico discepolo ed allora divenuto Romano Pontefice, con franchezza e viva apprensione lo ammoniva a non mai lasciare la quotidiana meditazione delle cose divine, e a non ammettere, per dispensarsene, alcun pretesto di occupazioni, benché molte e gravissime ne porti con sé il supremo apostolato. E diceva di aver appunto gravi motivi di rivolgergli tali avvertimenti per i sommi vantaggi di questo esercizio quali egli così sapientemente enumerava: “La meditazione purifica la sorgente da cui nasce, cioè l’intelletto. Poi regola gli affetti, indirizza gli atti, corregge i difetti, riforma i costumi, eleva e ordina la vita: in una parola conferisce la scienza delle divine e delle umane cose. La meditazione chiarisce le cose confuse, colma le lacune della mente, rannoda le idee sparse, scruta i segreti, investiga la verità, esamina il verosimile, mette a nudo la finzione e la menzogna. Essa preordina le azioni da compiersi, essa chiama a rendiconto le già compiute affinché nulla resti nella mente di incorretto e di ambiguo. Essa fa presentire nella prosperità la sfortuna, nella sfortuna evita il troppo impressionarsi, e questo è infusione di fortezza, quello di prudenza”. Questo compendio delle grandi utilità, che la meditazione per sua natura produce, ci dice quanto sia non solamente salutare, ma pure necessaria.

La meditazione salvaguardia del fervore e contro i pericoli del mondo.

Poiché, sebbene i vari uffici del sacerdozio siano augusti e venerandi tutti, la forza dell’abitudine fa sì che i destinati ad essi non vi mettano quella religiosa attenzione come si conviene. Di qui venendo meno a poco a poco il fervore è facile il passo alla negligenza e fino al fastidio delle cose più sacre. Aggiungasi la necessità che si impone al sacerdote, di convivere “in mezzo ad una nazione prava” (Fil II, 15); così che, sovente, nello stesso esercizio della carità pastorale, egli ha da temere stiano nascoste le insidie dell’antico serpente. Quanto è facile che anche i cuori religiosi si velino di mondana polvere! Appare quindi quale e quanta necessità vi sia di tornare ogni giorno alla contemplazione delle cose del cielo, affinché la mente e la volontà si rafforzino contro le seduzioni del mondo. Di più è compito del sacerdote di conseguire una certa facilità di assurgere e di raccogliersi nelle cose celesti, lui che deve intendersi delle cose celesti, insegnarle ed inculcarle ai fedeli; lui che deve condurre un tenore di vita in una sfera superiore alla umana, così che egli compia secondo Dio con lo spirito e la guida della fede quanto esige il suo ministero. Ora nulla più che la meditazione quotidiana è efficace a produrre e mantenere questa disposizione, questa quasi naturale unione con Dio; cosa che a ognuno, che abbia discernimento, è così ovvia che non vale la pena di ragionarne di più.

DANNI DEL TRASCURARE LE MEDITAZIONI

Triste quadro dei danni che nascono in chi trascurasse la meditazione.

Una triste conferma di quanto si è detto ci esibisce la vita di questi sacerdoti, che fanno poco conto della meditazione delle cose divine o del tutto l’hanno in fastidio. Tu vedi in loro illanguidito quell’inestimabile tesoro, mondani, seguaci di mere vanità, intrattenersi in frivolezze, accostarsi alle sacre cose tiepidi, gelidi e forse indegni. Dapprima, quando era in loro recente il carisma dell’unzione sacerdotale, preparavano lo spirito diligentemente alla recita dei salmi per non essere simili a chi tenta Dio; fissavano il tempo a ciò più opportuno, e il più remoto ritiro, si industriavano di scrutare i sensi segreti delle cose divine, lodavano Dio, gemevano, esultavano, effondevano lo spirito col Salmista. E ora invece qual cambiamento! Quasi più nulla resta in essi di quell’ardente pietà, che un tempo dimostravano per i divini misteri. Quanto diletti erano allora quei tabernacoli! L’anima esultava di trovarsi intorno alla mensa del Signore e di chiamare ad essa in gran folla i devoti. Prima della celebrazione dei sacri misteri quale mondezza! quali preghiere partite dall’anima desiderosa! E quanta riverenza nel modo di trattare le cose sante: quale decoro nell’eseguire le auguste cerimonie, quale effusione di grazie dal profondo del cuore e come felicemente diffondevasi nel popolo il soave profumo di Cristo!… “Richiamate, ve ne preghiamo, o figli diletti, richiamate alla memoria quei primi giorni” (Eb X, 32), allora l’anima era fervorosa perché nutrita del cibo della santa meditazione.

Da respingersi l’eventuale scusa o vano pretesto di essere troppo assorbito nell’azione.

Non manca fra quelli che hanno a fastidio o trascurano di “riflettere in cuor loro” (Ger XII, II), non manca chi riconosca la povertà dell’anima sua, ma poi se ne scusi col pretesto di essersi dedicato interamente alle esigenze sempre più attive e dinamiche del ministero, ad utilità degli altri. Ma si ingannano miseramente. Poiché, non avvezzi a parlar con Dio, quando parlano di Dio agli uomini o impartiscono consigli intorno alla vita cristiana, sono privi di ispirazione divina; così che la parola di Dio è in essi quasi morta. La loro voce, per quanto dotta e feconda, non imita la voce del buon pastore, che le pecorelle ascoltano salutarmente; poiché strepita con inutile pompa di parole che si perde nel vuoto ed è anzi fertile talora di dannoso esempio, non senza vergogna della religione e scandalo dei buoni. Né altrimenti accade negli altri settori della vita attiva: poiché nessun vantaggio di solida utilità ne ricavano o per lo meno non dura che breve ora, mancando la rugiada celeste che scende invece copiosissima sulla orazione di colui che si umilia” (cf Sir XXXV, 21).

Gravi conseguenze per chi mostrasse disprezzo della preghiera.

E qui non possiamo non dolerci vivamente di coloro che, trascinati dal soffio di pestifere novità, non si vergognano della loro mentalità contraria alla vita interiore e reputano quasi perduta l’ora consacrata alla meditazione e alla preghiera. Funesta cecità! Volesse il cielo che raccogliendosi una buona volta in se stessi si accorgessero finalmente a quale abisso conduce questa negligenza e disprezzo della preghiera! Di qui germoglia la superbia e la caparbietà; dalle quali maturano troppo amari frutti, che il paterno cuore rifugge dal rammentare quanto desidera di recidere completamente. Ascolti Iddio i nostri voti, e, benignamente riguardando i fuorviati, effonda tanto largamente sopra di essi lo “spirito di grazia e di orazione” (Zc XII, 10), che, a comune allegrezza, piangendo il loro errore, ritornino sulla male abbandonata via e cautamente la seguano per l’avvenire. Come già l’Apostolo (Fil 1, 8), ci sia testimone Dio come li amiamo tutti nelle viscere di Gesù Cristo!

ECCITAMENTI ALLA MEDITAZIONE

La meditazione, segreto per operare con criterio e zelo.

Ad essi dunque e a voi tutti figli nostri, sia scolpita in mente la nostra esortazione, che è quella di Cristo Signore: “State attenti, vegliate e pregate” (Mc XII, 33). Principalmente nella sua meditazione ognuno ponga la sua industria: e risvegli tutta la sua fiducia in Dio, sovente pregando: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc XI, 1). Né di lieve incitamento a meditare deve esser per tutti questo speciale motivo, che dalla meditazione nasce quella particolare luce di consiglio e quella speciale energia di virtù che si esigono nella cura delle anime, opera sopra tutte difficilissima. Qui cade opportuno, ricordare la pastorale esortazione di san Carlo: “Intendete, o fratelli, che nulla è così necessario a tutti gli ecclesiastici come l’orazione mentale la quale precede tutte le nostre azioni, le accompagna e le segue: canterò, dice il profeta, e ben studierò e intenderò (cf Sal C, 2). Fratello, se amministri i Sacramenti, medita su quello che fai; se celebri la Messa, medita sul Sacrificio che offerisci; se salmeggi, medita a chi parli e di che cosa; se guidi le anime, medita da qual Sangue sono state redente”.

Mediti su Cristo chi è “alter Christus”.

Perciò con ogni ragione la Chiesa ci impone di ripetere frequentemente quelle sentenze di Davide: “Beato l’uomo che medita nella legge del Signore; vi perdura con diletto, di giorno e di notte; tutto quello che egli farà avrà prospero effetto” (Sal 1,1-3). E alla meditazione ci sia di stimolo anche il pensiero che il sacerdote è un altro Cristo; e, se è tale per partecipazione di autorità, non dovrà essere tale per imitazione delle opere sante? “Sia dunque nostra somma premura di meditare sulla vita di Gesù Cristo”.

UTILITÀ DELLE SACRE LETTURE

Utilità della lettura spirituale soprattutto delle Sacre Scritture.

Con la meditazione quotidiana delle cose divine conviene che il Sacerdote unisca la lettura di più libri, specialmente di quelli che sono divinamente ispirati. Così san Paolo prescriveva a Timoteo: “Attendi alla lettura” (1 Tm IV, 13). Così san Girolamo, ammaestrando Nepoziano intorno alla vita sacerdotale, inculcava: “Non deporre mai dalle tue mani il libro della sacra lettura”; e ne soggiungeva questo motivo: “Impara ciò che devi insegnare; ottieni quella sincera sapienza, che è nutrita di verace dottrina, affinché con essa tu possa esortare gli altri e ribattere gli avversari”. Quanto grande è il vantaggio di quei sacerdoti che hanno questa costante abitudine: con quale unzione predicano Cristo e, anziché blandire gli uditori, come li spingono al meglio e li innalzano a celesti desideri!

I santi libri sono veri amici.

Ma pure eccovi un’altra prova, e che fa proprio al caso vostro, della verità del consiglio di san Girolamo: “Sempre fra le tue mani sia la sacra lettura”. Chi non sa quanto grande sia sull’anima dell’amico la forza persuasiva dell’amico, che candidamente ammonisca, consigli, riprenda, ecciti, rimuova dall’errore? “Beato chi trova un vero amico” (Sir XXV, 12); “chi lo trova ha trovato un tesoro”! (Sir VI, 14). Ora dobbiamo avere nel numero dei nostri fedeli amici i libri di lettura spirituale. Essi ci ammoniscono gravemente intorno ai nostri doveri ed ai precetti della legittima disciplina, risuscitano nell’anima i richiami celesti prima soffocati e repressi, ci rinfacciano i propositi non mantenuti, scuotono la coscienza addormentata in un pericoloso ottimismo; mettono in luce le tendenze meno corrette che vorrebbero star dissimulate; scoprono i pericoli che sogliono sorprendere i malaccorti. E tutti questi buoni uffici prestano con una tale e tacita benevolenza, che non solo ci si mostrano amici, ma i migliori nostri amici. Poiché li abbiamo quando ci piace, quasi al nostro fianco, pronti ad ogni ora alle nostre necessità interiori; la loro voce non è mai acerba, il loro consiglio non è mai determinato da volgari interessi, la parola non mai vile o bugiarda. Sono molti ed insigni gli esempi della salutare efficacia delle devote letture; ma nessuno sovrasta a quello di sant’Agostino, i cui meriti eminenti verso la Chiesa presero da esse inizio ed auspicio: “Tolle, lege; tolle, lege… Prendi, leggi; prendi, leggi… Afferrai (le lettere di Paolo Apostolo), le apersi e lessi in silenzio… Si diffuse nel mio cuore come una luce di sicurezza, svanirono tutte le tenebre del dubbio”.

Guardarsi da letture non ben discriminate.

Invece di sovente accade ai nostri tempi che ecclesiastici si lascino a poco a poco annebbiare la mente dalle tenebre del dubbio e seguano le oblique vie del mondo, e ciò specialmente perché, negletti i sacri e divini libri, si danno ad altre letture di ogni genere di libri e giornali infetti di errori pestiferi blandamente insinuatisi. Siate guardinghi, o diletti figli, non vi fidate ciecamente della vostra provetta età, né lasciatevi illudere dal pretesto di conoscere il male e così poter meglio provvedere al bene comune. Non si passino quei limiti, che stabiliscono sia le leggi della Chiesa, sia la prudenza e la carità verso se stessi; poiché una volta imbevuti di questi veleni, non possiamo più sfuggirne le funeste conseguenze.

L’ESAME DI COSCIENZA

Non si ometta l’esame di coscienza.

Ma i vantaggi della lettura spirituale e della meditazione delle cose celesti riusciranno, senza dubbio, per il sacerdote più copiosi, quando egli abbia un mezzo con cui possa distinguere se davvero fu messo in pratica e santamente, quanto fu oggetto di lettura e meditazione. Viene a proposito un eccellente insegnamento del Crisostomo, rivolto specialmente al Sacerdote: “Ogni sera, prima di abbandonarti al sonno, fa’ un po’ di processo alla tua coscienza, esigi da essa il rendiconto, e se fra il giorno ti appigliasti a cattivi partiti… sbarbicali dalla radice e determina per essi un castigo”. Quanto ciò sia conveniente e fruttuoso per il progresso nella cristiana virtù, i più sapienti maestri di spirito luminosamente confermano coi loro ottimi ammonimenti. Ci piace di riferire quello insigne, che ho tolto dagli insegnamenti di san Bernardo: “Curioso indagatore della tua irreprensibilità, esamina la tua vita con quotidiana diligenza. Osserva attentamente di quanto progredisci o indietreggi. Studia di conoscere te… Poni davanti agli occhi tuoi tutte le tue mancanze. Costituisci te in giudizio dinanzi a te, quasi dinanzi ad un’altra persona; e così deplora e colpisci te stesso”.

PATERNI LAMENTI

Grande frutto se si usasse in questo esame la premura che pongono gli uomini nei loro affari. Anche su questo punto sarebbe veramente vergogna che si verificasse quel detto di Cristo: “I figli di questo secolo sono più prudenti dei figli della luce” (Lc XVI, 8). Ognuno vede con quanta solerzia essi attendano ai loro affari; come di sovente facciano e rifacciano i calcoli del dare e dell’avere: con quale scrupolosa meticolosità facciano i loro conti e tirino le somme, come lamentino le perdite patite ed eccitino se stessi con accaniti sforzi per risarcirle. E a noi, a cui forse arde in cuore la brama di vane onorificenze, di accrescere il patrimonio della famiglia, di acquistar solo fama e gloria di scienziati, invece languidamente e con noia trattiamo l’affare massimo e sommamente arduo, che è la nostra santificazione. Giacché appena raramente ci raccogliamo per scrutare la nostra anima, che per conseguenza si copre di sterpi al pari della vigna del pigro, della quale sta scritto: “Passai pel campo di un infingardo, e per la vigna di un uomo stolto, e vidi come tutto era pieno di ortica, e le spine l’avevano coperta quanto ella è grande, e la muraglia intorno era rovinata” (Prv. XXIV, 30-31).

L’esame costante e ben fatto rinvigorisce l’anima, trascurato la mette in pericolo.

La cosa si fa più grave per la frequenza dei mali esempi, che ne circondano, insidiosi estremamente alla virtù sacerdotale; così che è necessario camminare sempre più guardinghi e far più apertamente violenza. Ora l’esperienza ci dice che colui, il quale esercita una censura frequente e severa sopra i suoi pensieri, parole e azioni, è più energico sia nell’odio e nella fuga del male, e sia nell’amore e nello studio del bene. Né meno ci dice l’esperienza quali danni gravissimi siano d’ordinaria conseguenza per chi evita quel tribunale, ove siede giudice la giustizia e sta accusata e accusatrice la coscienza. Invano cercheresti in lui quella circospezione, dote così lodevole del buon Cristiano, di evitare anche le minori colpe e imperfezioni e quel delicatissimo scrupolo che dovrebb’essere pregio speciale del sacerdote, che si fa paventare della benché minima offesa recata a Dio.

Danni di chi trascurasse la frequente confessione.

Che anzi la negligenza e la trascuratezza di sé giunge fino all’oblio dello stesso sacramento della penitenza: del quale nulla ci diede Cristo, nella sua estrema bontà, che fosse più salutare all’umana miseria. Non si può negare ed è degno di acerbo pianto, il caso non raro di chi mentre, fulminando e terrorizzando dal pulpito, trattiene con la sfolgorante sua eloquenza gli altri dal peccare, nulla tema per sé di tutto ciò, e si indurisca nella colpa; di chi esorta e stimola gli altri, che siano solleciti a detergere col sacramento le macchie dell’anima, e lui stesso sia in ciò tanto restio e negligente e vi frapponga intervalli di più mesi; di chi sa cospargere le altrui ferite di olio e di vino, e giaccia poi egli ferito lungo la via, né si dia pensiero di invocare la mano medicatrice del fratello che gli passa vicino. Ahi! quali tristi conseguenze ne vennero e vengono tuttora, indegne al cospetto di Dio e della Chiesa, perniciose al popolo cristiano, indecorose per il ceto sacerdotale!

Nulla più lagrimevole della corruzione dei buoni.

Quando, diletti figli, mossi da dovere di coscienza, noi volgiamo la mente a questi gravi inconvenienti, ci si riempie l’anima di amarezza e ne erompe una voce di lamento: guai al sacerdote che non sa mantenersi all’altezza del suo grado, e disonora infedelmente il nome santo di Dio, che deve santificare. Nulla è più lagrimevole della corruzione dei buoni: “Grande è la dignità dei sacerdoti, ma grande è pure la loro rovina, se peccano; rallegriamoci dell’esservi saliti, ma paventiamo di caderne precipitosamente; perché più grande che la gioia di avere raggiunto le altissime vette, è l’afflizione di essere precipitato di lassù!”. – Guai dunque al sacerdote che vive dimentico di sé, lascia la preghiera, respinge il pascolo delle devote letture; che non torna mai sopra se stesso per ascoltare la voce della coscienza che lo accusa. Né le ferite sanguinanti dell’anima sua, né i pianti della madre Chiesa potranno richiamare in sé il disgraziato, affinché non lo colpiscano quelle terribili minacce: “Acceca il cuore di questo popolo, e instupidisci le sue orecchie e chiudi a lui gli occhi, affinché non avvenga che coi suoi occhi egli vegga, e oda coi suoi orecchi, e col cuore comprenda e si converta, ed io lo sani” (Is VI, 10). Questo triste augurio allontani Dio misericordioso da ciascheduno di voi, o diletti figli, Dio, che vede il nostro cuore scevro da qualsiasi amarezza verso chicchessia, ma soltanto mosso all’estremo da carità di padre e di pastore: “Qual è invero la nostra speranza, o il gaudio, o la corona di gloria? Non lo siete voi forse dinanzi al Signore nostro Gesù Cristo?” (1 Ts II, 19).

DOVERI ATTUALI

In tempi tristi il sacerdote deve splendere nella virtù.

Lo vedete del resto da voi medesimi, quanti e dovunque siate, in quali tristi tempi, per arcano consiglio di Dio, si trovi oggi la Chiesa. Osservate ancora e meditate quale sacro dovere vi incombe di assistere e soccorrere nelle sue angustie quella Chiesa, che vi insignì di una sì onorevole dignità. Quindi nel clero ora più che mai è necessaria una più che mediocre virtù, sincera così da essere un modello, viva, operosa, prontissima a fare e patire ogni cosa per Cristo. Nulla vi è che più ardentemente noi desideriamo per voi tutti e singoli, invocandolo da Dio con ferventissime preghiere. In voi dunque fiorisca la continenza con intemerato fulgore, ornamento esimio del nostro ceto; per la cui grazia il sacerdote come è fatto simile agli Angeli, così presso il popolo cristiano è reputato degno di ogni onore e coglie più copiosi i frutti del suo ministero.

Ubbidienza inconcussa ai Vescovi e alla Sede Apostolica.

Sia in voi perenne e schietta la riverenza e ubbidienza, promessa con solenne rito a coloro, che il Divino Spirito costituì reggitori della Chiesa; e soprattutto l’ossequio giustissimamente dovuto a questa Sede Apostolica congiunga a lei ogni giorno più con strettissimi vincoli le vostre menti e i vostri cuori.

Splenda la carità per tutti: ma speciale e zelante essa sia per i giovinetti.

Brilli in ognuno la carità che non cerca in nulla se stessa, così che rintuzzati gli stimoli dell’invidia e dell’ambizione propri dell’umana natura, i vostri sforzi cospirino unanimemente, con emulazione fraterna, all’incremento della gloria di Dio. “Una gran turba quanto mai numerosa e degna di pietà, di malati, di ciechi, di zoppi, di paralitici” (Gv V, 3), aspetta i soccorsi della vostra carità; e specialmente vi aspettano folte schiere di adolescenti, cara speranza della patria e della religione, circondati da ogni parte da insidie e da pericoli morali. Siate alacri nel bene, benemeriti di tutti, non solo con l’impartire la sacra catechesi che di nuovo e con maggior vigore vi raccomandiamo, ma prestando ogni altro possibile aiuto di consiglio e di interessamento. Alleviando, difendendo, medicando, pacificando: questa sia la vostra mira e quasi la vostra sete, di guadagnare e di condurre anime a Cristo. Oh! i nemici di Dio come laboriosi, come infaticabili, come impavidi agiscono e si danno attorno, per rovinare irreparabilmente le anime!

La carità della Chiesa non conosce limiti, né teme per le persecuzioni.

Specialmente per questa prerogativa della carità, la Chiesa cattolica è lieta e orgogliosa del suo clero, che annuncia il Vangelo della cristiana pace, che apporta salute e civiltà fino alle nazioni selvagge; ove per le sue apostoliche fatiche, non raramente consacrate col sangue, il regno di Cristo ogni giorno più si dilata e la santa Fede splende di sempre nuove palme. Che se, o diletti figli, all’effusione della vostra carità corrisponda l’astio, la contesa, la calunnia, come suole avvenire, non vogliate soccombere allo scoraggiamento, “non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene” (2 Ts III, 13). Abbiate dinanzi agli occhi le schiere di quei forti, insigni per numero e per meriti, che dietro le orme degli Apostoli fra le più scabrose torture per il nome di Cristo, “se ne andavan contenti” (At V,41), “maledetti benedicevano”. Siamo – pensate – figli e fratelli di santi, i nomi dei quali splendono nel libro della vita, le cui glorie annuncia la Chiesa: “Non si imprima questa macchia alla nostra gloria” (1 Mac IX,10).

SUSSIDI DELLA GRAZIA

Sussidi della grazia sacerdotale: gli esercizi spirituali e il ritiro mensile.

Riacceso ed accresciuto nelle file del clero lo spirito della grazia sacerdotale, avranno un valore ed una esecuzione molto più efficace con la grazia di Dio, i nostri propositi di restaurare tutte quante le altre cose in Cristo. Perciò ci piace di aggiungere a tutto quanto si è detto alcune norme sicure, ossia indicare i sussidi opportuni a custodire ed alimentare la grazia medesima. Primo fra di essi a nessuno ignoto, ma del quale non tutti stimano degnamente la efficacia, è il pio ritirarsi dell’anima a compiere gli esercizi spirituali; se è possibile fatto annualmente o per conto proprio, o piuttosto in unione con altri, il che suole recare più largo frutto, regolandosi secondo le prescrizioni dei Vescovi. Già noi medesimi lodammo convenientemente l’utilità di questa istituzione quando pubblicammo alcune regole ad essa relative per la disciplina del clero romano. Né sarà meno vantaggioso alle anime un consimile ritiro mensile di poche ore, in privato o in unione con altri, il qual pio costume siamo lieti di veder invalso in più luoghi, favorito dai Vescovi stessi che talora presiedono al ritiro.

Vantaggi delle Mutue e più ancora dei Convegni e Unioni del Clero.

Un’altra raccomandazione ancora ci sta a cuore ed è una maggiore coesione tra i sacerdoti, quale si conviene a fratelli, consolidata e regolata dall’autorità del Vescovo. È senza dubbio cosa lodevole che i Sacerdoti si uniscano in società per procurarsi uno scambievole sussidio nelle avversità, per tenere alto il prestigio e i diritti della classe e del ministero contro gli assalti degli avversari e per altri fini del genere. Ma più ancora giova che si associno a scopo di perfezionarsi nella conoscenza delle scienze sacre, e specialmente confermarsi nel santo proposito della vocazione e di promuovere la salute delle anime, con unanimità di sforzi e di iniziative.

Auspicabile e fruttuosa la vita in comune del clero.

Ci attestano gli annali della Chiesa di quali copiosi frutti fosse fecondo un tal genere di associazioni nei tempi che i sacerdoti convenivano frequentemente a vita comune. Perché non si potrebbe richiamare in vita qualcosa di simile anche in questa nostra età, sia pure avendo riguardo ai luoghi e agli uffici vari? Non si potrebbero sperare i frutti antichi a tutto gaudio della Chiesa? Né del resto mancano società di simil genere, munite dell’approvazione dei sacri pastori; tanto più utili quanto più presto i giovani preti vi si aggreghino fin dal principio del loro sacerdozio. Noi medesimi ne promuovemmo una, durante il nostro ministero vescovile, e ne sperimentammo la bontà: e quella e le altre ora facciamo oggetto di singolare benevolenza. Di questi sussidi della grazia sacerdotale e degli altri, che la prudente vigilanza dei Vescovi suggerisce a seconda della opportunità, abbiate stima e ricavatene profitto affinché ogni giorno più “camminiate in maniera conveniente alla vocazione a cui siete stati chiamati” (Ef IV, 1), onorando il vostro ministero e compiendo in voi la volontà di Dio, che è la vostra santificazione.

FAUSTI VOTI

Ardenti preghiere per il Clero.

Questi sono i principali nostri pensieri e le cose, che ci stanno maggiormente a cuore; perciò levati gli occhi al cielo, sovente ripetiamo sopra tutto al clero le parole supplichevoli di Cristo nostro Signore: “Padre Santo… santificali!” (Gv XVII, 11-17). Ed è per noi una gioia l’avere molti dei fedeli di ogni ceto, che si uniscono a noi in questa preghiera, appassionatamente solleciti del bene vostro e della Chiesa; ed è pure gradito balsamo al nostro animo che non poche sono le anime di più generosa virtù, le quali non solo nei sacri chiostri, ma altresì in mezzo al mondo per la stessa causa vanno a gara nell’offrirsi a Dio perenni vittime votive. Accolga il sommo Dio le pure e preziose loro preci in profumo di soavità, né rigetti le umilissime preci nostre, clemente e provvido, Egli, come imploriamo, ci esaudisca; e dal Cuore sacratissimo del diletto suo Figlio diffonda sopra tutto il clero tesori di grazia, di carità e di ogni virtù.

Ringraziamenti per il Giubileo sacerdotale – Ricambio per “Mariam, Reginam Cleri” –

Benedizione finale

In ultimo ci è caro rendervi grazie sincere, o diletti figli, degli auguri fausti che ci offriste in occasione del nostro Giubileo sacerdotale: e poniamo i nostri voti per voi sotto il patrocinio della Vergine Madre, Regina degli Apostoli, affinché si verifichino appieno. Ella col suo esempio insegnò alle felici primizie del sacerdozio come, coll’esempio di lei, dovessero perseverare, concordi nella preghiera, per essere rivestiti della virtù dall’alto; virtù, che assai più copiosa impetrò ad essi con le sue preghiere, e accrebbe e fortificò col consiglio, perché le loro fatiche fossero coronate dai più lieti successi. Desideriamo intanto, diletti figli, che la pace di Cristo esulti nei vostri cuori col gaudio dello Spirito Santo, auspice l’Apostolica Benedizione che con amantissimo animo vi impartiamo.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 4 agosto del 1908, sesto del nostro Pontificato.

PIUS PP. X

DOMENICA XIV DOPO PENTECOSTE (2020)

XIV DOMENICA DOPO PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Le Lezioni dell’Officio di questa Domenica sono spesso prese dal Libro dell’Ecclesiastico (Agosto) o da quello di Giobbe (Settembre). Commentando il primo, S. Gregorio dice: «Vi sono uomini così appassionati per i beni caduchi, da ignorare i beni eterni, o esserne insensibili. Senza rimpiangere i beni celesti perduti, i disgraziati si credono felici di possedere i beni terreni: per la luce della verità, non innalzano mai i loro sguardi e mai provano uno slancio, un desiderio verso l’eterna patria. Abbandonandosi ai godimenti nei quali si sono gettati si attaccano e si affezionano, come se fosse la loro patria, a un triste luogo d’esilio; e in mezzo alle tenebre sono felici come se una luce sfolgorante li illuminasse. Gli eletti, invece, per cui i beni passeggeri non hanno valore, vanno in cerca di quei beni per i quali la loro anima è stata creata. Trattenuti in questo mondo dai legami della carne, si trasportano con lo spirito al di là di questo mondo e prendono la salutare decisione di disprezzare quello che passa col tempo e di desiderare le cose eterne ». — Quanto a Giobbe viene rappresentato nelle Sacre Scritture come l’uomo staccato dai beni di questa terra: «Giobbe soffriva con pazienza e diceva: Se abbiamo ricevuti i beni da Dio, perché non ne riceveremo anche i mali? Dio mi ha donato i beni, Dio me li ha tolti, che il nome del Signore sia benedetto ». — La Messa di questo giorno si ispira a questo concetto: Lo Spirito Santo che la Chiesa ha ricevuto nel giorno di Pentecoste, ha formato in noi un uomo nuovo, che si oppone alle manifestazioni del vecchio uomo, cioè alla cupidigia della carne e alla ricerca delle ricchezze, mediante le quali può soddisfare la prima. Lo Spirito di Dio è uno spirito di libertà che rendendoci figli di Dio, nostro Padre, e fratelli di Gesù, nostro Signore, ci affranca dalla servitù del peccato e dalla tirannia dell’avarizia. « Quelli che vivono in Cristo, scrive S. Paolo, hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e bramosie. Camminate, dunque, secondo lo Spirito e voi non compirete mai i desideri della carne, poiché la carne ha brame contro lo Spirito e lo Spirito contro la carne: essi sono opposti l’uno all’altra » (Ep.).  Nessuno può servire a due padroni, dice pure Gesù, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, ovvero aderirà all’uno e disprezzerà l’altro. Voi non potete servire a Dio e alle ricchezze ». « Chiunque è schiavo delle ricchezze, spiega S. Agostino – e si sa che sono spesso fonte di orgoglio, avarizia, ingiustizia e lussuria –  è sottomesso ad un padrone duro e cattivo. (« Forse che questi festini giornalieri, questi banchetti, questi piaceri, questi teatri, queste ricchezze, si domanda S. Giovanni Crisostomo, non attestano l’insaziabile esigenza delle tue cattive passioni? » – 2° Nott., V Domenica di Agosto che coincide qualche volta con questa Domenica). Dio non condanna la ricchezza ma l’attaccamento ai beni di questa terra e il loro cattivo impiego). Tutto dedito alle sue bramosie, subisce però la tirannia del demonio: certamente non l’ama perché chi può amare il demonio? ma lo sopporta. D’altra parte non odia Dio, poiché nessuna coscienza può odiare Dio, ma lo disprezza, cioè non lo teme, come se fosse sicuro della sua bontà. Lo Spirito Santo mette in guardia contro questa negligenza e questa sicurezza dannosa, quando dice, mediante il Profeta: Figlio mio, la misericordia di Dio è grande » (Eccl., V, 5 ),— (Queste parole sono prese dal 1° Notturno della V Domenica di Agosto, che coincide qualche volta con questa Domenica: « Non dire: la misericordia di Dio è grande, egli avrà pietà della moltitudine dei miei peccati. Poiché la misericordia e la collera che vengono da Lui si avvicinano rapidamente, e la sua collera guarda attentamente i peccatori. Non tardare a convertirti al Signore e non differirlo di giorno in giorno: poiché la sua collera verrà improvvisamente e ti perderà interamente. Non essere inquieto per l’acquisto delle ricchezze, poiché non ti sopravviveranno nel giorno della vendetta ») – … ma sappi che « la pazienza di Dio t’invita alla penitenza » (Rom., II, 4). Perché chi è più misericordioso di Colui che perdona tutti i peccati a quelli che si convertono e dona la fertilità dell’ulivo al pollone selvatico? E chi è più severo di colui che non ha risparmiati i rami naturali, ma li ha tagliati per la loro infedeltà? Chi dunque vuole amare Dio e non offenderlo, pensi che non può servire due padroni; abbia egli un’intenzione retta senza alcuna doppiezza. Ed e così che tu devi pensare alla bontà del Signore e cercarlo nella semplicità del cuore. Per questo, continua Egli, io vi dico di non avere sollecitudini superflue di ciò che mangerete e del come vi vestirete; per paura che forse, senza cercare il superfluo, il cuore non si preoccupi, e che cercando il necessario, la vostra intenzione non si volga alla ricerca dei vostri interessi piuttosto che al bene degli altri » (3° Nott.). Cerchiamo dunque, prima di tutto il regno di Dio, la sua giustizia, la sua gloria (Vang., Com.); mettiamo nel Signore ogni nostra speranza (Grad.), poiché è il nostro protettore (Intr.); è Lui che manda il suo Angelo per liberare quelli che lo servono (Off.) e che preserva la nostra debole natura umana, poiché senza questo aiuto divino essa non potrebbe che soccombere (Oraz.). L’Eucarestia ci rende Dio amico (Secr.) e, fortificandoci, ci dà la salvezza (Postcom.). Cerchiamo, dunque, prima di tutto di pregare nel luogo del Signore (Vers. dell’Intr.) e di cantarvi le lodi di Dio, nostro Salvatore (All.); poi occupiamoci dei nostri interessi temporali, ma senza preoccupazione.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXXIII: 10-11.

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice in fáciem Christi tui: quia mélior est dies una in átriis tuis super mília.

[Sei il nostro scudo, o Dio, guarda e rimira il tuo Consacrato: poiché un giorno passato nel tuo luogo santo vale più di mille altri].

Ps LXXXIII: 2-3

V. Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit, et déficit ánima mea in átria Dómini.

[O Dio degli eserciti, quanto amabili sono le tue dimore! L’ànima mia anela e spàsima verso gli atrii del Signore].

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice in fáciem Christi tui: quia mélior est dies una in átriis tuis super mília.

[Sei il nostro scudo, o Dio, guarda e rimira il tuo Consacrato: poiché un giorno passato nel tuo luogo santo vale più di mille altri].

Oratio

Orémus.
Custódi, Dómine, quǽsumus, Ecclésiam tuam propitiatióne perpétua: et quia sine te lábitur humána mortálitas; tuis semper auxíliis et abstrahátur a nóxiis et ad salutária dirigátur.

[O Signore, Te ne preghiamo, custodisci propizio costantemente la tua Chiesa, e poiché senza di Te viene meno l’umana debolezza, dal tuo continuo aiuto sia liberata da quanto le nuoce, e guidata verso quanto le giova a salvezza.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal V: 16-24

“Fratres: Spíritu ambuláte, et desidéria carnis non perficiétis. Caro enim concupíscit advérsus spíritum, spíritus autem advérsus carnem: hæc enim sibi ínvicem adversántur, ut non quæcúmque vultis, illa faciátis. Quod si spíritu ducímini, non estis sub lege. Manifésta sunt autem ópera carnis, quæ sunt fornicátio, immundítia, impudicítia, luxúria, idolórum sérvitus, venefícia, inimicítiæ, contentiónes, æmulatiónes, iræ, rixæ, dissensiónes, sectæ, invídiæ, homicídia, ebrietátes, comessatiónes, et his simília: quæ prædíco vobis, sicut prædíxi: quóniam, qui talia agunt, regnum Dei non consequántur. Fructus autem Spíritus est: cáritas, gáudium, pax, patiéntia, benígnitas, bónitas, longanímitas, mansuetúdo, fides, modéstia, continéntia, cástitas. Advérsus hujúsmodi non est lex. Qui autem sunt Christi, carnem suam crucifixérunt cum vítiis et concupiscéntiis.”

[“Fratelli: Camminate secondo lo spirito e non soddisferete ai desideri della carne. Perché la carne ha desideri contrari allo spirito, e lo spirito contrari alla carne: essi, infatti, contrastano tra loro, così che non potete fare ciò che vorreste. Che se voi vi lasciate guidare dallo spirito non siete sotto la legge. Sono poi manifeste le opere della carne: esse sono: la fornicazione, l’impurità, la dissolutezza, la lussuria, l’idolatria, i malefici, le inimicizie, le gelosie, le ire, le risse, le discordie, le sette, le invidie, gli omicidi ecc. le ubriachezze, le gozzoviglie e altre cose simili; di cui vi prevengo, come v’ho già detto, che coloro che le fanno, non conseguiranno il seguiranno il regno di Dio. Frutto invece dello Spirito è: la carità, il gaudio, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la mansuetudine, la fedeltà, la modestia, la continenza, la castità. Contro tali cose non c’è logge. Or quei che son di Cristo, han crocifisso la loro carne con le sue passioni e le sue brame”].

Omelia I

[[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

I DUE PADRONI

L’Epistola, come quella della domenica scorsa, è tratta dalla lettera ai Galati. Anche dopo il Battesimo che libera dalla servitù della legge, c’è nell’uomo un complesso di desideri e di tendenze, che cercano di sottrarlo allo Spirito di Dio. La carne e lo spirito sono tra loro opposti. Dalle opposte opere che ne seguono, parecchie delle quali sono qui enumerate da S. Paolo, l’uomo può giudicare se è diretto dalla carne o dallo Spirito. Se è diretto dallo Spirito, la legge, che è fatta per gli uomini carnali, non ha nulla che fare con lui, che, da vero Cristiano, affligge la propria carne con tutte le sue passioni. Gli uomini, come tutti vedono, si lasciano guidare da due padroni, dei quali:

1. Uno, spodestato, maligno, menzognero.

2. L’altro, grande e potente, pieno di bontà, veritiero.

3. Uno ci procura la dannazione, l’altro la vita beata.

I.

La carne ha desideri contrari allo spirito, e lo spirito contrari alla carne. È una verità che si è manifestata subito dopo la caduta del primo uomo. Da allora, la concupiscenza che cerca di trascinare al male, e la ragione, che guidata dalla grazia dello Spirito Santo cerca il bene, non fu più possibile l’accordo. E l’uomo si trovò a dover scegliere tra due regni; il regno della carne e il regno dello spirito; e si ebbero da una parte i seguaci di Dio e dall’altra i seguaci di satana.Chi è Satana, che comanda ai seguaci della carne? È un superbo umiliato sotto la potente mano di Dio. Voleva essere simile all’Altissimo, e fu da Lui precipitato dalla gloria del cielo nei tormenti dell’inferno, e vi fu precipitato senza speranza di riacquistare il posto perduto. Invidioso della felicità degli uomini, non cerca che la loro rovina: tutta la sua opera è devastatrice. Nel paradiso terrestre distrugge la felicità dei nostri progenitori. Accende nel cuore di Caino l’invidia, e lo spinge al fratricidio. Entra nel cuor di Giuda, e gli fa compiere l’orribile tradimento. Se gli fosse concesso il potere procurerebbe agli uomini tutte le calamità.Bugiardo e ingannatore per eccellenza promette quel che non darà mai. Promette a Eva un innalzamento tale da renderla simile a Dio. Ed Eva, dando retta alla parole di satana, precipita nel fondo di ogni miseria. Il paradiso terrestre è cangiato in valle di lagrime. Si accosta a Gesù Cristo che digiuna nel deserto. Condottolo su un alto monte gli mostra tutti i regni della terra, e gli dice:« Io ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché a me sono stati dati e li dò a chi voglio. Se tu, dunque, prostrandoti mi adorerai tutto sarà tuo »(Luc. IV, 6-7). Con tanta franchezza assicura di poter disporre di regni chi, spodestato di tutto, è stato relegato nel baratro infernale.E con menzogne continue si presenta agli uomini. Ti darò la pace nelle ricchezze, dice all’avaro. Ti darò la felicita nei piaceri, dice al voluttuoso. Non romperti la testa nel pensare a Dio e al suo servizio, e io ti darò una vita senza turbamento, dice all’indifferente. Non voler star dietro agli altri, — dice al vanitoso e al superbo —, e io ti darò gli onori; non perdonare al tuo nemico e ti darò la dolcezza della vendetta. Percorri la via larga: — dice alla gioventù — divertimenti e baldorie siano i compagni dei tuoi giorni, e io riempirò il tuo cuore di ebbrezza. E l’esperienza insegna che la pace, la felicità, l’ebbrezza, i beni che egli offre ai suoi seguaci non possono essere diversi da quelli che ha procurati ai nostri progenitori. Quanti credono alle sue promesse, debbono poi fare la costatazione di Eva: «Il serpente mi ha ingannata» (Gen. III, 13).

2.

Se vi lasciate guidare dallo Spirito non siete sotto la legge. – Quando ci lasciam guidare non dalla carne, ma dalla ragione, illuminata e corroborata dallo Spirito Santo, siamo superiori alla legge, le cui minacce non sono più per noi, e abbiamo quel che la legge non può dare: la facilità di compiere ciò che ci vien comandato. Il vivere secondo lo spirito è il dovere di ogni Cristiano, il quale deve lasciarsi guidare non dalle promesse di satana, ma dallo Spirito di Dio, che è un padrone che ci ama, e che non vuole ingannarci. Egli è un padrone grande e potente. Egli, sì, può dire: «Mio è il mondo e tutto quanto lo riempie» (Ps. XLIX, 12). « Poiché egli disse una parola e le cose furono fatte; diede un comando, e tutto fu creato» (Ps. XXXII, 9) «Questi è il nostro Dio, e nessun altro starà al paragone con lui» (Baruch, III, 36). Nessuno può stargli al paragone non solamente in fatto di grandezza e di potenza, ma anche in fatto di bontà. Invero, «della bontà del Signore è piena la terra » (Ps. XXXII, 5). E la sua bontà si manifesta in modo particolare verso quelli che lo seguono. Non li chiama neppure col nome di servi, ma col nome di amici, perché essi sono i suoi intimi, messi a parte delle sue intenzioni e dei suoi disegni (Joan. XV, 15). La sua parola, come dice la S. Scrittura, «è purgata col fuoco» (II Re, XXII, 31). Come è puro e schietto un metallo messo al fuoco, così è pura e schietta la sua parola, che non inganna nessuno. Ai suoi seguaci non si rivolge con false promesse, non colorisce l’impresa nascondendo le difficoltà. Dichiara apertamente che per seguir Lui bisogna condurre una vita di sacrifici e di rinunce. «Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me» (Matth. X, 38). « Sarete in odio a tutti per causa del nome mio » (Matth. X, 23). « In Verità, in verità vi dico, che piangerete e gemerete voi: ma il mondo godrà: voi invece sarete in tristezza » (Joan. XVI, 20). Son parole rivolte agli Apostoli e ai discepoli, e in loro a tutti quelli che intendono seguirlo da vicino. Egli inculca la penitenza, esalta la povertà, elogia il pianto, chiama beati quei che soffrono persecuzioni per la giustizia. Previene tutti che «angusta è la porta e stretta la via che conduce alla vita» (Matth. VII, 14). Quando scoppia una guerra, buona parte della gioventù, che non conosce la guerra che dalle descrizioni entusiastiche dei libri o dai discorsi fioriti dei propagandisti, s’infiamma d’entusiasmo, e parte cantando le fiere canzoni. Ma quando esperimenta che la guerra non è una passeggiata né una partita al gioco, confessa che s’immaginava tutt’altro. Chi si mette a seguir Dio, non può dire d’essersi ingannato. Gesù Cristo ha parlato molto chiaro. La sua parola ciascuno la trova nel Vangelo. «Il Vangelo è specchio di verità; non lusinga nessuno, non seduce alcuno ».

3.

Sono poi manifeste le opere della carne : esse sono: la fornicazione, l’impurità, la dissolutezza, la lussuria, l’idolatria, i malefici, le inimicizie, le contese, le gelosie, le ire, le risse, le discordie, le sette, le invidie, gli omicidi, le ubriachezze, le gozzoviglie e altre cose simili. Sono queste le opere che quel pessimo padrone che è il demonio domanda ai suoi seguaci. E la conseguenza? La fa notare subito S.Paolo: Vi prevengo, come v’ho già detto, che coloro che le fanno, non conseguiranno il regno di Dio. Ecco la paga che satana ha serbato a coloro che si mettono al suo servizio. Ha fatto sperar loro beni e delizie, e alla fine si sono trovati privi de beni celesti e immersi nell’amarezza eterna. Sulla terra poche gioie e non intere, perché finite sempre col disgusto e nel turbamento della coscienza. Nell’altra vita nessun bene e mali interminabili. Ben altrimenti avviene a coloro, che seguono Dio.Le opere di costoro sono: la carità, il gaudio, la pace, la benignità, la bontà, la longanimità, la mansuetudine, la fedeltà, la modestia, la continenza, la castità. Sono opere che costano un po’ di sacrificio al nostro amor proprio e alle nostre tendenze sregolate; ma che non sono senza premio neppur su questa terra. Il gaudio, la pace non si hanno che da chi segue lo spirito. E dopo il gaudio e la pace verrà la ricompensa eterna. Gesù che aveva detto agli Apostoli e ai discepoli : «Voi sarete nella tristezza», ha anche aggiunto : «Ma la vostra tristezza sarà cambiata in gioia» (Joan. XVI, 29). Di coloro che seguono Lui invece di satana, ha detto chiaramente: «Le mie pecorelle ascoltano la mia voce; io le conosco ed esse mi seguono, e io darò loro la vita eterna» (Joan. X, 27-28). Giosuè, avvicinandosi la fine della sua vita, fa giurare dal popolo ebreo fedeltà a Dio. Prima di compiere la cerimonia, tiene un discorso in cui, fatti passare i favori usati dal Signore a Israele, domanda: «Se vi sembra un male servire il Signore vi si dà la scelta: eleggete oggi quel che vi piace; e a chi dobbiate di preferenza servire: se agli dei, ai quali servirono i vostri padri nella Mesopotamia, oppure agli dei degli Amorrei nella terra dei quali abitate: ma io e la mia casa serviremo il Signore. E il popolo rispose… Noi serviremo al Signore, perché Egli è il nostro Dio» (Gios. XXIV, 15-18).Il Cristiano ha davanti agli occhi due padroni, che non può servire simultaneamente. A lui è data la scelta. Questi padroni li conosce bene tutti e due. Uno è un angelo debellato, omicida fin dal principio, principe della tenebre, padre della bugia, giudicato per mezzo della morte di Gesù Cristo, che strappò a Lui le anime. L’altro è il Re dei Re, Signore dei dominanti, via, verità, vita, giudice dei vivi e dei morti. Uno ci impone un giogo insopportabile e vergognoso: l’altro ci sottopone a un giogo leggero e soave; poiché « il giogo di Gesù Cristo non grava sul collo, ma lo orna, non piega a terra i nostri capi ma gli innalza» (S. Massimo, Serm. 75). Uno fa promesse che non può mantenere, perché nessuno può dare quel che non ha, e ci conduce alla dannazione eterna: l’altro mantiene la promessa e ci dà la corona eterna. Purtroppo, «Dio promette il regno ed è disprezzato, il diavolo ci procura l’inferno ed è onorato » (s. Giov. Cris. In Act. Ap. Hom., 6, 3). Non cadiamo noi in tanta stoltezza da preferire il diavolo a Dio. Parrà dolce sul principio servir satana, ma presto verrà il disinganno. Dove non c’è pietà, non c’è felicità. Sembrerà duro sul principio servire il Signore, ma presto esclamerai: « Come sono amabili le tue tende, o Dio degli eserciti » (Ps. LXXXIII, 2) in attesa di passare dalle tende alla patria.

 Graduale

Ps CXVII:8-9
Bonum est confidére in Dómino, quam confidére in hómine.

[È meglio confidare nel Signore che confidare nell’uomo].

V. Bonum est speráre in Dómino, quam speráre in princípibus. Allelúja, allelúja
 

[È meglio sperare nel Signore che sperare nei príncipi. Allelúia, allelúia].

Alleluja

XCIV: 1.
Veníte, exsultémus Dómino, jubilémus Deo, salutári nostro. Allelúja.

[Venite, esultiamo nel Signore, rallegriamoci in Dio nostra salvezza. Allelúia.]

 Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.
Matt VI: 24-33

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Nemo potest duóbus dóminis servíre: aut enim unum ódio habébit, et álterum díliget: aut unum sustinébit, et álterum contémnet. Non potéstis Deo servíre et mammónæ. Ideo dico vobis, ne sollíciti sitis ánimæ vestræ, quid manducétis, neque córpori vestro, quid induámini. Nonne ánima plus est quam esca: et corpus plus quam vestiméntum? Respícite volatília coeli, quóniam non serunt neque metunt neque cóngregant in hórrea: et Pater vester coeléstis pascit illa. Nonne vos magis pluris estis illis? Quis autem vestrum cógitans potest adjícere ad statúram suam cúbitum unum? Et de vestiménto quid sollíciti estis? Consideráte lília agri, quómodo crescunt: non labórant neque nent. Dico autem vobis, quóniam nec Sálomon in omni glória sua coopértus est sicut unum ex istis. Si autem fænum agri, quod hódie est et cras in clíbanum míttitur, Deus sic vestit: quanto magis vos módicæ fídei? Nolíte ergo sollíciti esse, dicéntes: Quid manducábimus aut quid bibémus aut quo operiémur? Hæc enim ómnia gentes inquírunt. Scit enim Pater vester, quia his ómnibus indigétis. Quaerite ergo primum regnum Dei et justítiam ejus: et hæc ómnia adjiciéntur vobis”.

[“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Nessuno può servire due padroni: imperocché od odierà l’uno, e amerà l’altro; o sarà affezionato al primo, e disprezzerà il secondo. Non potete servire a Dio e allo ricchezze. Per questo vi dico: non vi prendete affanno né di quello onde alimentare la vostra vita, né di quello onde vestire il vostro corpo. La vita non vale ella più dell’alimento, e il corpo più del vestito! Gettate lo sguardo sopra gli uccelli dell’aria, i quali non seminano, né mietono, né empiono granai; e il vostro Padre celeste li pasce. Non siete voi assai da più di essi? Ma chi è di voi che con tutto il suo pensare possa aggiuntare alla sua statura un cubito? E perché vi prendete cura pel vestito? Pensate come crescono i gigli del campo; essi non lavorano e non filano. Or io vi dico, che nemmeno Salomone con tutta la sua splendidezza fu mai vestito come uno di questi. Se adunque in tal modo riveste Dio un’erba del campo, che oggi è e domani vien gittata nel forno; quanto più voi gente di poca fede? Non vogliate adunque angustiarvi, dicendo: Cosa mangeremo, o cosa berremo, o di che ci vestiremo? Imperocché tali sono le cure dei Gentili. Ora il vostro Padre sa che di tutte queste cose avete bisogno. Cercate adunque in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia; e avrete di soprappiù tutte queste cose”].

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra il servigio di Dio.

“Nemo potest duobus Domini, servire”

Matth. VI –

Gli uomini gelosi della loro autorità non soffrono che altri ne siano a parte. Un padrone può avere più servi al suo seguito, ma un servo non può avere più padroni. Da che si dichiara per l’uno, egli abbandona l’altro: se rispetta l’uno, dispregia l’altro, dice Gesù Cristo: quindi conchiude questo divin Salvatore, che noi non possiamo servire Dio ed il danaro; tosto che noi ci attacchiamo ad uno di questi padroni, bisogna necessariamente rinunciar all’altro: Non potestis servire Deo, et Mammonæ. No, fratelli miei, noi non possiamo unire il servigio di Dio con quello delle nostre passioni; noi non possiamo seguire nello stesso tempo le massime del mondo, e le massime del Vangelo; se ricerchiamo la sua amicizia, noi incorriamo allora la disgrazia di Dio; siccome al contrario, noi dispiaciamo al mondo, tosto che noi vogliamo piacere a Dio. Se con certi riguardi noi cerchiamo aggiustarci con l’uno e con l’altro, allora noi dispiaceremo a tutti due, perché i precetti e le massime di questi due padroni non possono conciliarsi insieme. Nemo potest etc. Or nell’impossibilità in cui siamo di contentare due padroni nello stesso tempo, qual partito dobbiamo noi prendere? Ma che dico io? V’è forse a deliberare? Qual è il più grande ed il migliore di questi padroni? Non è forse il Signore? A Lui dunque conviene dare la preferenza. Al che vengo io ad esortarvi, fratelli miei, in questa istruzione, ove vi farò vedere i forti motivi che vi obbligano di servir a Dio, ed in qual modo, voi dovete servirlo: due punti importanti che combattono due errori. Gli uni non pensano affatto a Dio, come se non esistesse; gli altri si persuadono falsamente fare tutto ciò che Dio dimanda da essi, mentre non adempiono che ad una parte della legge. Io farò vedere ai primi, che servir a Dio è un obbligo dei più indispensabili: primo punto. Ai secondi, che servir a Dio è un obbligo dei più estesi: secondo punto.

I. Punto Amar Dio, temerlo e servirlo, è il dovere essenziale dell’uomo sopra la terra; è in questo che consiste tutto l’uomo, come dice lo Spirito Santo: Hoc est omnis homo. Tutto ci obbliga ad adempiere a questo dovere, i diritti che Dio ha su di noi, ed il nostro proprio interesse. Iddio è nostro Creatore, il quale non ci ha dato l’essere che per servirlo; Egli è nostro supremo Signore, da cui noi dipendiamo in tutte le cose: qual cosa più giusta che di pagargli il tributo dei nostri omaggi, servendolo fedelmente. Ma oltre il diritto che Dio ha di esigere da noi questi servigi, Egli è un sì buon padrone, che vuol ancora attaccarci a Lui per via delle ricompense che ci promette; siccome ci conosce interessati, così ha fissata la nostra felicità nell’adempimento dei nostri doveri. La giustizia, l’interesse, debbono dunque indurci egualmente a servire al nostro Dio, come al più grande, e al migliore di tutti i padroni, la giustizia per rapporto a Dio e l’interesse per noi medesimi. Siate, fratelli miei, sensibili a questi motivi che meritano tutta la vostra attenzione. – Non era necessario che Dio ci cavasse dal nulla, poteva Egli fare senza di noi, come pure senza tutte le altre creature; quand’anche non ne avesse prodotta alcuna, non sarebbe stato meno felice, meno perfetto, ma avendo stabilito di darci l’essere, Egli non poteva farlo per alcun altro fine che per la sua gloria. Egli ha fatta ogni cosa per se stesso, dunque per se stesso Egli ha fatto l’uomo; perciò tutte le creature pubblicane nel loro linguaggio la gloria del loro autore: i Cieli l’annunziano, dice il Profeta: Cæli enarrant gloriam Dei (Psal. XVIII). E la terra si unisce ai Cieli, dice il Crisostomo, per pubblicare le meraviglie del Creatore. Ciascun giorno, continua il Profeta, insegna a lodar il Signore al giorno seguente, ed ogni notte istruisce la notte seguente nell’arte di cantar le grandezze di Dio. Queste lodi che non sono giammai interrotte, sono un linguaggio intelligibile che si fa intendere sino alle estremità della terra. In una parola, tutte le creature servono a Dio nella loro maniera, manifestando le sue adorabili perfezioni. Le une fanno conoscere la sua bontà, le altre la sua possanza, la sua sapienza, la sua provvidenza. Ma di tutte le creature che sono sopra la terra, non havvene alcuna che possa, e debba glorificare e servir Dio in una maniera così perfetta, come l’uomo, perchè l’uomo solo può conoscere la grandezza di questo Essere supremo che merita tutti i nostri omaggi: l’uomo solo è capace di amare questa bontà infinita che non è conosciuta dalle altre creature. – Che dobbiamo dunque pensare dell’uomo che manca a questo dovere? Ohimè! egli è un mostro nella natura, che si allontana dal fine per cui è creato; si è un più gran disordine che se il sole ricusasse al mondo la sua luce, se la terra diventasse sterile; perciocché siccome Iddio ha fatto il sole per illuminare, la terra per portar frutto, così ha fatto l’uomo per venirne servito e glorificato. È egualmente impossibile all’uomo di essere dispensato da questo dovere che di sussistere senza Dio; or esso dipende necessariamente da Dio, come dal suo primo principio: dunque deve necessariamente tendere a Dio, come a suo ultimo fine, il che non può fare che servendolo, e riferendo a Lui tutte le sue azioni. Egli diverrebbe tanto più colpevole di sottrarsi a quest’obbligo, quanto che Dio per indurvelo ha sottomesse tutte le altre creature al servigio dell’uomo: Omnia subjecisti sub pedibus eius (Psal. VIII). Infatti non è forse per l’uomo, che il sole sparge sulla terra la sua luce ed il suo calore; che la terra produce un’abbondanza di frutti in ogni stagione dell’anno? Non è forse all’uso dell’uomo che sono destinati gli uccelli del cielo, gli animali della terra, i pesci del mare; gli uni per nutrirlo, gli altri per servirlo? Omnia subjecisti. Ah! che l’uomo riempierebbe degnamente questo dovere a riguardo di Dio, se fosse egli così esatto a servirlo, come le creature lo sono a compiere i disegni di Dio ! Ma quanto mai diversamente egli opera? L’uomo solo sembra non aver ricevuto il privilegio della cognizione e della libertà, che per ribellarsi contro l’Autore del suo essere. Eppure qual padrone più grande e più potente! Si fanno gloria nel mondo gli uomini di essere al servizio di coloro che sono attorniati dalla grandezza, sostenuti dalla possanza, accompagnati dalla gloria, favoriti dalla fortuna; gli uni attirati dall’onore di accostarsi loro da vicino, gli altri dai vantaggi che sperano, premurosi sono a gara di dare segni della loro sommissione; con tutto ciò, che sono tutti i grandi della terra, i re, i potentati dell’universo, in confronto del Signore nostro Dio, la cui grandezza è infinitamente superiore a tutte le grandezze umane, solo grande, solo potente, avanti a cui tutte le potenze non sono che debolezza, e un nulla ? Tu solus altissimus in omni terra (Psal. LXXXII). Egli è che mette la corona sul capo dei re e lo scettro nelle loro mani; che può, quando gli piace, rompere quegli scettri e quelle corone. Egli è il Re dei re, da cui i sovrani medesimi si fanno gloria di dipendere; qual onore non è dunque di servire ad un sì gran padrone? Servirlo si è regnare, si è più che comandare a tutto l’universo si: servire Deo regnare est. E quindi, fratelli miei, che ne segue? Che tutto quello che si fa per un sì gran padrone, benché piccolo comparisca, è infinitamente al di sopra di tutto ciò che si può fare di più grande secondo il mondo; che la minima azione di virtù, una breve preghiera ben fatta, la più leggera mortificazione, la più modica limosina supera tutte le azioni di valore, le vittorie le più segnalate, le conquiste dei Regni e degli Imperi; perché tutto ciò che riguarda un Dio infinitamente grande, partecipa in qualche modo dell’eccellenza del suo essere. Che ne segue ancora? Che un vero servo di Dio, fosse pure l’ultimo del mondo, è infinitamente superiore a tutti i potentati. Giudichiamone, fratelli miei, dalla differenza che fassi al giorno d’oggi tra i Cesari e gli Alessandri, quei famosi conquistatori, avanti a cui tutta tremò la terra; ed un Pietro, il quale non era che un povero pescatore: la memoria degli uni si è dissipata colle loro conquiste, e l’altro è divenuto l’oggetto del nostro culto; perciò, il santo re Davide, gloriavasi più della qualità di servo di Dio, che dei titoli del suo regno: servus tuus ego sum (Psal. CXVIII). – O voi che aspirate alla gloria, e che cercate sovente quella che vi fugge, servite al Signore, e voi sarete veramente grandi, poiché Egli è il più grande di tutti i Sovrani. Voi troverete ancora la vostra felicità nel servirlo, perché Egli è il migliore di tutti i padroni. Un padrone che ci lascia tutto il profitto dei nostri servigi, che ci domanda poco per darci molto, che ci promette una felicità infinita per ricompensa, deve senza dubbio essere riguardato come il migliore di tutti i padroni. Ora, così è, fratelli miei, che Dio si diporta a nostre riguardo; qual motivo fortissimo di attaccarci a Lui! No, Iddio non ci domanda verun servigio per suo proprio interesse; ben diverso dai padroni del mondo, i quali non hanno i servi che per bisogno, né li ricompensano che in vista dei vantaggi che essi ne ricavano: Dio non ha bisogno dei nostri servigi, Egli basta a se stesso; egli trova in se stesso la sua gloria e la sua felicità. Se Egli trae la sua gloria dalla sommissione, e dai servigi che esige dalle sue creature, la trarrà eziandio dalle vendette che eserciterà sui trasgressori della sua legge. Per noi soli dunque travagliamo servendolo: ma qual vantaggio, qual felicità troviamo noi nel servigio di Dio? I più veri vantaggi per questa vita, ed una felicità eterna per l’altra. Quali beni in questa vita non ci procura la nostra fedeltà nel servir a Dio? Domandatelo al re Profeta: beati, dice egli, sono coloro che temono il Signore e che camminano nelle vie dei suoi comandamenti: beati omnes qui timent Dominum, qui ambulant in viis ejus ( Ps. CXXVII). Dio benedice i loro lavori; essi ne gusteranno i frutti, e saranno ricolmi di beni: beatus es, et bene tibi erit. Proveranno tutta la tenerezza di un’amabile provvidenza, sempre attenta a provvedere ai loro bisogni. Ce lo assicura Gesù Cristo medesimo nell’odierno Vangelo. Osservate, dice Egli, gli uccelli del Cielo, i quali sebbene non seminino, né mietano, pure non mancano di alimento; mirate i gigli dei campi, che sono meglio adornati che Salomone nella sua gloria; con quanto più forte ragione il Padre celeste avrà egli cura di voi che siete suoi figliuoli, e che gli siete molto più cari che i fiori e gli animali delle campagne? Egli è vero che una prosperità temporale non è sempre la ricompensa della virtù: Dio ne priva qualche volta i suoi servi per far loro conoscere che riserva loro una felicità più soda e più durevole: ma invece di questa prosperità che Dio non accorda ai suoi eletti, Egli sparge su di esse grazie abbondanti che raddolciscono le amarezze onde sono afflitti, che rendono loro facile la strada alla felicità che lo apparecchia nel Cielo; si è un’azione, una pace, una tranquillità d’anima che sorpassa colla sua dolcezza tutte le allegrezze e i piaceri della terra, che fa loro dire che un giorno solo passato nel servizio del “Signore vale più che mille nel servizio del mondo: melior est dies una in atriis tuis super millia (Psal. LXXXIII). Rendete qui testimonianza alla verità, anime sante che ne fate la felice esperienza: qual allegrezza, qual contento non provate dentro di voi medesime, camminando per le vie dei comandamenti del Signore cangereste voi la vostra sorte con quella di tutti i felici del secolo? Rendete voi medesimi, peccatori, testimonianza a quel che dico: in qual giorno di vostra vita avete voi provato maggior contento? Non è forse in quei giorni di salute, in cui avete voi fatta la vostra pace con Dio e che avete impiegati nel servirlo? Al contrario dappoichè siete assoggettati di nuovo a Dei stranieri, ed avete ripigliata la strada delle vostre passioni, da quali pungenti affanni la vostra incostanza non è stata accompagnata? Gustate dunque, e vedete ancora quanto il Signore è soave a coloro che lo servono, voi troverete in Lui un padrone che vi ricompenserà infinitamente al di sopra dei vostri servigi. Ed in vero, non è già del Dio che noi adoriamo, come degli uomini che promettono ai loro servi ciò che essi non possono loro osservare, e che per una bizzarra incostanza sovente mancano alla loro promessa: si affatica taluno, si consuma per rendere loro servigio e si vede frustrato di una speranza, di cui erasi lusingato. E perché mai? Perché gli uomini non conoscono sempre coloro che li servono, e se li conoscono, non sono sempre ben disposti a loro riguardo, o non hanno di che soddisfarli. Finalmente se il mondo ricompensa i suoi servi, egli domanda loro molto per dare poco; non è che dopo molte pene, dopo molti travagli che meritare si possono i suoi favori. Quanto non ci costa per giungere ad una fortuna che ci proponiamo, per soddisfare una passione che abbiamo per il piacere? A che finiscono per l’ordinario tutti i passi che abbiamo fatti, tutta la servitù cui ci siamo assoggettati? Ad un fumo d’onore, ad un bene fragile e caduco, ad un piacere d’un momento che non uguagliano giammai ciò che abbiamo fatto per arrivarvi, o che per lo meno non soddisfano giammai appieno i nostri desideri. Ma quanto i servigi che noi rendiamo a Dio sono diversamente pagati! Così magnifico nei suoi doni, come fedele nelle sue promesse, Egli non lascia alcuno dei nostri servigi senza ricompensa; si è la ricompensa la più certa, la più abbondante, la più durevole; ricompensa la più certa per la cognizione ch’Egli ha dei nostri servigi e per la fedeltà a mantenere le sue promesse. Sommo scrutatore dei cuori, Egli ci tien conto, non solo delle azioni che sono conosciute dagli uomini, ma ancora di quelle che Egli solo conosce. Nulla sfugge ai suoi occhi e alla sua liberalità; gli è egualmente impossibile di mancar alla sua parola, che cessar di essere Dio. Ecco ciò che consolava il grande Apostolo nelle fatiche e nei travagli che soffriva per la gloria di Gesù Cristo: io so, dice egli, con chi ho a fare e a chi ho confidato il mio deposito: scio cui credidi (II Tim. 1). Io aspetto con certezza la corona di giustizia che il giusto Giudice mi ha promessa: reposita est mihi corona justitiæ (2 Tim. 8). Ho detto ricompensa la più abbondante; sia che si consideri in se stessa, sia che facciasi attenzione a quel che Dio ci domanda per meritarla. Qual è questa ricompensa? Si dice tutto, dicendovi che Dio medesimo sarà vostra ricompensa: ero merces tua magna nimis (Gen. XV). Sì, io sono che voglio essere vostra ricompensa, io che sono il sommo bene, capace di contentare tutti i vostri desiderii; si è il mio regno che io vi destino per prezzo dei vostri servigi: ego dispono vobis regnum (Luc. XXII). I re della terra hanno forse giammai portata ad un sì alto grado la loro liberalità? Eh! che sono tutti i regni del mondo in paragone del regno di Dio? Ma che cosa Dio ci domanda, fratelli miei, per darci questa ricompensa così abbondante? Ben diverso dal mondo che domanda poco per dare molto, che ci chiede Egli? Niente che sia superiore alle nostre forze, che non sia anche facile con la grazia che Egli ci dà per adempierlo. Il suo giogo è soave, ed il suo peso leggero: un poco di violenza, un poco di attenzione su di noi medesimi per osservare i suoi comandamenti. Egli è un sì buon padrone che il solo desiderio di piacergli e di soffrire per Lui, ci tiene luogo di merito, allorché non abbiamo altra cosa a presentargli. Un solo bicchiere d’acqua dato per amor suo, una leggera afflizione sopportata con pazienza, avrà la sua ricompensa nel Cielo. Ora, se tutte le tribolazioni della vita non sono degne di essere messe in confronto col peso immenso di gloria che Dio riserba ai suoi eletti, come dice l’Apostolo, non è forse dare per nulla questa gloria il darcela per alcuni momenti di dolori e di patimenti? pro nihilo salvos facies illos (Ps. LV). Possiamo ricusare di comprarla a questo prezzo? Principalmente se facciamo attenzione alla sua durata che è quella di Dio medesimo, vale a dire che non avrà mai fine. Cercate ora un padrone così liberale, così generoso, così magnifico verso i suoi servi, come il Signore lo è a nostro riguardo. Con tutto ciò, fratelli miei, chi sono coloro che si attaccano sinceramente al suo servigio? Ohimè! che il numero dei suoi servi è ben piccolo! Il mondo, benché ingiusto e perfido, trova dei partigiani quanti ne vuole; sebbene rigetti coloro che gli hanno dispiaciuto, e che gli sono divenuti inutili, non si cessa di camminare sotto i suoi stendardi; ed il Dio delle misericordie sempre pronto a ricevere eziandio coloro che l’hanno offeso, che non ha in verun modo bisogno di noi, non vede che dell’indifferenza nella maggior parte degli uomini per ciò che riguarda il suo servigio. O figliuoli degli uomini! e fino a quando insensibili ai vostri veri interessi, trascurerete voi di seguire il partito di un sì buon padrone che ricompensa così bene i suoi servi, per attaccarvi a padroni stranieri che pagano così male i vostri servigi? Voi correte, o ambiziosi, dietro un fumo che vi fugge; avari, voi vi attaccate al vostro denaro che vi cagiona mille inquietudini; voluttuosi, voi abbandonate il vostro cuore ad una creatura che si ride delle vostre compiacenze. Ah! che voi meritate benissimo la trista sorte, di cui vi lamentate! Ma voi ne proverete una molto più trista, allorché separati da quei padroni cui vi servite, voi non troverete più in Dio che un Giudice severo che trarrà la sua gloria dai castighi che vi farà soffrire. Non è forse meglio glorificarlo con l’amore, che con i tormenti, divenendo la vittima delle sue vendette? Ma come bisogna servir Dio?

Il. Punto. Servir Dio, come lo merita; non è solamente rendergli un culto di religione, con cui si riconosce il suo supremo dominio sopra tutte le creature; non v’è alcuno, per poco che sia illuminato dalla fede, o dalla ragione, il quale non faccia a Dio un omaggio delle sua dipendenza. Ma Dio non ha solamente comandato all’uomo di rendergli il culto supremo adorandolo, ha ancora comandato di servirlo: Dominum Deum tuum adorabis, et illi soli servies (Matth. VIII). Servir Dio si è dunque qualche cosa di più che adorarlo, indirizzargli preghiere, rendergli certi omaggi che la Religione ci prescrive; si è ancora dedicarsi intieramente a Lui, dargli la preferenza sopra tutte le cose, consacrargli tutte le sue azioni, adempier in tutto la sua volontà, camminar con allegrezza nella via dei suoi comandamenti. Tale è l’idea generale che voi dovete formarvi alla bella prima del servigio di Dio e che io vi riduco a due punti principali. Convien servire a Dio solo; perché Egli è il più grande di tutti i padroni: illi soli servies. Convien servirlo con allegrezza e fervore, perché Egli è il migliore di tutti i padroni: servite Domino in lætitia (Ps. XCIX). Dio vuol essere servito Egli solo, e con ragione. Egli è il solo Sovrano che abbia diritto di esigere tutti i nostri servigi; Egli non può soffrire rivale alcuno che entri a parte con Lui della gloria che gli è dovuta; sarebbe dunque fargli ingiuria il rapirgliene una parte per darla ad un altro padrone, che a Lui. E come si può unire col servigio di Dio il servigio di un altro padrone, le cui leggi sono interamente opposte a quelle ch’Egli ci ha fatte? Si è unire la luce con le tenebre. Gesù Cristo non può accordarsi con Belial, dice l’Apostolo: quae conventio Christi ad Belial (II Cor. VI)? Se voi prendete dunque il partito di servire al Dio del Cielo, non bisogna servire al servizio del mondo, del demonio, delle vostre passioni: perciocché se voi vi attaccate al servizio di questi padroni; se voi vi lasciate signoreggiare dall’amor delle ricchezze, degli onori e dei piaceri, se voi seguite le massime del mondo corrotto, voi mancherete sicuramente di fedeltà al vostro Dio. Questi ministri stranieri che voi servirete, v’indurranno per piacer loro a molte azioni contrarie alla volontà di Dio. Se attaccate il vostro cuore al danaro, voi commetterete ingiustizie per averne, o non avrete per lo meno quello spirito di povertà che Gesù Cristo ci raccomanda nel suo Vangelo. Se voi date luogo nel vostro cuore all’idolo di una rea passione, voi lo rapite a Dio che deve esserne il padrone assoluto. Finalmente se voi cercate di piacere agli uomini, voi non siete più servi di Gesù Cristo, perché per piacere agli uomini (dico agli uomini profani e perversi), bisogna adottare sentimenti contrari al Vangelo, bisogna essere a parte dei loro piaceri, vendicarsi dei nemici come essi, sostenere le loro pretensioni ingiuste, assoggettarsi ad una infinità di altre leggi contrarie alle leggi del Signore. Invano presenterete voi a Dio dei sacrifici con una mano, mentre coll’altra offrirete dell’incenso a Baal: invano gli indirizzerete preghiere, farete limosine, adempirete certe obbligazioni che la Religione vi prescrive; se voi non rinunciate a quegli impegni che sono per voi un’occasion di peccato; se voi non sacrificate quella passione che vi predomina, Dio riproverà i vostri sacrifici, come riprovò quello di Saul, il quale nello sterminio degli Amaleciti risparmiò il loro Re contro il divieto che Dio gliene aveva fatto: Egli non vi terrà alcun conto della vostra fedeltà a certi punti della legge, se questa fedeltà non è intera. Egli vuol tutto interamente, vale a dire, che ricusargli un sacrificio si è ricusargli tutto: è l’integrità dei nostri servigi che dimanda; e vuole che noi dimentichiamo in qualche modo sino le cose anche necessarie alla vita. Per la qual cosa ci raccomanda nel Vangelo di non metterci in pena ove prenderemo di che cibarci, e di che vestirci, perché la sua divina Providenza si è impegnata a provvederci; Egli vuole le obbligazioni che la Religione vi prescrive ; Egli vuole che il nostro primo pensiero sia di cercare il suo regno e la sua giustizia, e ci promette di darci tutto il restante: quærite primum regnum Dei, et justitiam eius, et hæc omnia adjicentur vobis (Matth. VI). Non già, fratelli miei, che Dio ci comandi per il suo servigio di trascurar le nostre occupazioni, i nostri impieghi, Egli ci permette di dare attenzione agli affari temporali; vuole ancora che noi adempiamo i doveri di un impiego in cui siamo impegnati, ma vuole che lo facciamo con mira di piacergli, vuole che il suo servigio tenga il primo posto tra le nostre occupazioni; Egli ci proibisce tutte quelle che ce ne allontanerebbero, e che sarebbero incompatibili col servigio che gli dobbiamo. Perché dunque, fratelli miei, tanto deliberare sul partito che dovete prendere? Se Baal è vostro Dio, diceva altre volte un Profeta ad un popolo infedele, se esso può rendervi felici, seguitelo pure, ve lo permetto; ma se è il Signore, che merita tutti i vostri servigi, fin a quando esiterete voi di darvi a Lui? usquequo claudicatis in utramque partem (3 Reg. XVIII)? Evvi forse un padrone, da cui abbiate più a sperare, o più a temere che dal Signore vostro Dio? Ohimè! i servigi che gli rendete, sono già sì poca cosa in paragone delle ricompense che vi promette; bisogna ancora rapirgliene una parte per darla a padroni ingrati e perfidi, che non vogliono, né possono rendervi felici? Ah! se voi conosceste la grandezza e la bontà del padrone che servite, ben lungi di dividere con altri l’amore e i servigi che gli dovete, voi fareste al contrario tutti gli sforzi per fare di più di quel che vi domanda, sul timore di non fare tutto ciò che vi prescrive, o per lo meno riparereste col vostro fervore nel servirlo quel che la vostra debolezza non vi permette sovente di fare. No, fratelli miei, non sono le azioni eroiche che Dio domanda da voi, ma è il gran cuore, con cui farete quel che potrete nel vostro stato; Egli ama quei servi che gli danno con allegrezza, come dice l’Apostolo: hilarem datorem diligit (2 Cor. IX); che camminano con piacere nella via dei suoi comandamenti, che facendo minor attenzione a quel che han fatto, che a quel che hanno a fare, si esercitano con applicazione, dice S. Bernardo, nella pratica delle buone opere del loro stato; che lungi dal disanimarsi per le difficoltà che trovansi nella strada della virtù; le superano con coraggio, sono assidui all’orazione, a frequentare i Sacramenti, puntuali a seguire una regola prescritta, tutte queste azioni sono animate da uno spirito interiore; che non si lamentano giammai del rigore della perfezione, né del tempo che bisogna impiegare negli esercizi della vita cristiana; che sono sempre contenti in qualunque stato piaccia alla divina Providenza di collocarli, che non si contentano di evitare le colpe considerabili, ma che si astengono dalle minime apparenze di male; che non cercano, in una parola, in tutte le loro azioni che di fare la volontà di Dio e di piacergli. Tale è, fratelli miei, il carattere dei veri e ferventi servi di Dio; questi sono i fedeli adoratori in ispirito ed in verità, che il Padre celeste domanda, ben diversi da quei servi vili, tiepidi e poltroni, i quali nol servono che con nausea, trovano il giogo del Signore troppo grave, non lo portano, o piuttosto lo strascinano con tristezza, e si lamentano sempre delle difficoltà che trovano nel servigio di Dio, temendo di far troppo, e perdendosi di coraggio al minimo ostacolo che si presenta; essi non s’avanzano, per così dire, che contando i passi nelle vie della salute: voi li vedete or avanzare, or ritornar indietro, facendo più attenzione a quel che hanno fatto, che a quel che hanno a fare; essi credono di essere al termine della loro carriera, mentre appena l’hanno incominciata. Siccome sono più mossi dal loro interesse che da quelli di Dio, non si fanno alcuno scrupolo di cadere in molte colpe veniali che essi si perdonano facilmente e di cui non hanno attenzione di correggersi; fanno l’opera di Dio, ma la fanno trascuratamente, in fretta, e quasi per forza, riguardandola come un peso, di cui sono impazienti di sgravarsi: se pregano, è senz’attenzione e raccoglimento; se frequentano i Sacramenti, non ne ricavano alcun profitto; il solo nome di penitenza gli spaventa; tremano all’avvicinarsi di un digiuno, di una quaresima che trovano troppo lunga, e di cui sono impazienti di veder il fine. Convengono essi nulla di meno che bisogna farsi violenza, mortificarsi per guadagnare il Cielo; ma non vogliono che troppo loro costi; l’amor proprio non vuol perdere i suoi diritti: sono umili, quando non sono dispregiati, sono pazienti quando non sono offesi; casti quando non sono tentati, caritatevoli quando non bisogna incomodarsi per sollevare l’indigenza. Sono essi assaliti da qualche tentazione? non vi resistono che debolmente. Convien fare alcune buone opere? sono le più facili che scelgono, e dove hanno maggior inclinazione. Come fanno essi queste buone opere? sovente per convenienza, per usanza, per una divozione superficiale che un poco di religione loro ispira. Attaccati scrupolosamente a certe pratiche di pietà che si sono prescritte, nutriscono al di dentro passioni segrete che non hanno attenzione di domare; quindi viene che abbandonano facilmente le loro preghiere, la loro lettura, e gli altri esercizi della vita cristiana, tosto che si tratta di farsi violenza per es servi assidui. Gli affari, le compagnie che si presentano, li dissipano subito, e fanno loro abbandonare il servigio di Dio; e dopo essersi fatta violenza qualche tempo, seguono ben presto tutta l’impetuosità delle loro passioni. Non vi riconoscete voi forse, fratelli miei, al ritratto che fatto vi ho dei servi tiepidi e codardi? Se questo è, tremate per voi medesimi, perché siete in uno stato molto pericoloso per la salute; e piacesse a Dio, disse il Signore a quell’uomo che vi rassomiglia, piacesse a Dio che tu fossi freddo e caldo; ma perché tu sei tiepido, io comincio a vomitarti dalla mia bocca: utinam frigidus es ses, vel calidus; sed quia tepidus es, incipiam te vomere ex ore meo (Apoc. III). Qual espressione, fratelli miei! e la comprendete voi bene! Vale a dire che un servo tiepido è a riguardo di Dio come un cibo che lo stomaco più non sopporta. Il cuore di Dio non sopporta più questa creatura, se ne disgusta, non può soffrirla, Egli ama meglio che sia fredda, cioè che sia immersa nell’iniquità e nello sregolamento, perché l’orrore che ella avrebbe della sua condotta, il timore dei castighi la farebbe rientrare nel suo dovere; laddove un’anima tiepida che si acceca sopra il suo stato, che non si crede colpevole, è molto più difficile a convertire; avvezza a commettere colpe leggiere, confonde le mortali con le veniali, cade a sangue freddo nelle une, come nelle altre, allontana da sé le grazie particolari che Dio unisce alla fedeltà nel riempiere i suoi doveri; così abbandonata da Dio, accecata dalle sue illusioni, ella cade di abisso in abisso nell’ostinazione, nell’impenitenza finale, e nella morte eterna. Quanto è a temere questo stato, fratelli miei, e quali sforzi non dovete voi fare per uscirne, se infelicemente siete in esso impegnati, e per preservarvene, se non vi siete ancora? Niun mezzo più sicuro che servir a Dio con fervore: servite Domino in lætitia: Egli è più gran de di tutti i padroni, da cui voi avete il più a temere; Egli è il migliore di tutti i padroni, da cui voi avete più a sperare. Qual cosa più capace di rianimare in voi quello spirito di fervore, con cui Egli esige di essere servito? spiritu ferventes, Domino servientes (Rom. XII). Osservate come i re della terra, i grandi del mondo sono serviti, con qual puntualità si ubbidisce al minimo segno del loro volere. Mirate voi medesimi, come volete essere serviti da coloro che vi sono soggetti. Che direste voi di un servo, il quale non vi ubbidisce che brontolando e fa cesse di mal grado e con negligenza quello che gli co mandate. Come volete voi dunque che Dio vi tratti, se nol servite che in questa maniera? Ah! piuttosto considerate la grandezza del padrone che voi servite, le magnifiche ricompense che vi promette; questa vista v’indurrà a servirlo in tutto, a servirlo con fervore. Questo fervore vi renderà facile Ogni cosa e darà alle vostre azioni anche le più indifferenti un grado di merito per il Cielo. Considerate ancora ciò che Gesù Cristo ha fatto per voi, con qual fervore si è dato egli medesimo per la vostra salute. Quello che voi farete, uguaglierà forse giammai ciò che egli ha fatto per voi? Fate dunque tutte le vostre azioni con uno spirito interiore: spiritu ambulate (Gal. V). Questo fervore si manifesti colla pratica delle virtù, che l’Apostolo chiama i frutti dello Spirito Santo come sono la pazienza, le mansuetudine, la longanimità, la continenza, la castità: a questi segni voi conoscerete che siete i veri servi di Dio. Non riguardate giammai ciò che avete fatto, mentre qualunque cosa abbiamo fatta per Dio, bisogna sempre riguardarci come servi inutili: servi inutiles sumus (Luc. XVII). Non pensate che a quel che vi resta per avanzar sempre di più in più nella via della santità. Siate fedeli a riempiere i vostri più piccoli doveri: distribuite così bene il vostro tempo, che l’orazione, il santo sacrificio, la lettura, la visita al Santissimo Sacramento vi abbiano luogo. Non regolate giammai il servizio di Dio sui vostri affari; ma piuttosto tutti i vostri affari siano regolati, subordinati al servigio del Signore; diportatevi in tutte le vostre azioni in una maniera degna di Dio; siate premurosi per quel che riguarda il suo servigio; dategli con un gran cuore ciò che egli vi domanda: corde magno et animo volenti; egli vi ricompenserà altresì con un amore degno di lui. Così sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps XXXIII:8-9

Immíttet Angelus Dómini in circúitu timéntium eum, et erípiet eos: gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus.

[L’Angelo del Signore scenderà su quelli che Lo temono e li libererà: gustate e vedete quanto soave è il Signore].

Secreta

Concéde nobis, Dómine, quǽsumus, ut hæc hóstia salutáris et nostrórum fiat purgátio delictórum, et tuæ propitiátio potestátis.

[Concédici, o Signore, Te ne preghiamo, che quest’ostia salutare ci purifichi dai nostri peccati e ci renda propizia la tua maestà].

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Matt VI:33
Primum quærite regnum Dei, et ómnia adjiciéntur vobis, dicit Dóminus.

[Cercate prima il regno di Dio, e ogni cosa vi sarà data in più, dice il Signore.]

 Postcommunio

Orémus.
Puríficent semper et múniant tua sacraménta nos, Deus: et ad perpétuæ ducant salvatiónis efféctum.

[Ci purífichino sempre e ci difendano i tuoi sacramenti, o Dio, e ci conducano al porto dell’eterna salvezza].

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (125)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE SECONDA

CAPO IV.

Testimonianza che rendono alla nostra fede i miracoli.

I. Quell’obbligazione che già i filosofi più rinomati imponevano a qualsisia loro uditore novello, di non esaminar le dottrine di quella scuola, ma di approvarle a chius’occhi; con infinito più di ragione potrebbe certamente esigere Dio da qualunque mente creata. Tuttavia, perché egli ama, che i suoi precetti siano dolcissimi, al tempo medesimo che dall’uomo ricerca fede, porge all’uomo argomenti di sommo peso, da fare che agevolmente egli inclini a dargliela, e a riputare la soggezione che si presta in tal atto, non soggezione, ma nobile libertà. Ora fra tutte le apparenze a ciò conducenti, sembra che tengano il primo luogo i miracoli: i quali potrebbero acconciamente chiamarsi una sottoscrizione ed un suggello dell’Altissimo a confermazion de’ suoi detti; senonchè, con dir questo, non si direbbe né anche il tutto; mentre la sottoscrizione ed il suggello d’ogni principe può falsarsi di modo che non si riconosca la falsità: ma non possono di modo già falsarsi i miracoli che non si distinguano gli adulterati da’ veri, come sarà poi mio pensiero di far palese.

I.

II. Convien però qui premettere due verità, molto rilevanti. L’una è della necessità la qual v’era di questa prova miracolosa; l’altra è della sufficienza.

III. La necessità è manifesta. Conciossiachè se il non credere doveva imputarsi a colpa, ed a colpa degnissima di scontarsi nella vita futura con pianti eterni e con pene eterne; chiaramente apparisce, come la fede doveva venir corteggiata da numero così grande di meraviglie, che chi neppure in abito sì solenne la riceveva, non si potesse scusare secondo l’uso, con dir, che quella e ra veramente una principessa celeste, ma andava incognita.

IV. E quindi ancor si comprova la sufficienza: dalla quale a vien che i miracoli sieno il più delle volte nelle divine scritture chiamati segni, perciocché ci significano, che Dio parla. E se essi ci significano, che Dio parla, dunque ci obbligano nel tempo istesso ad udire ciò che egli dice, ed insieme a crederlo, se non vogliamo dimostrarci peggio che aspidi sprezzatori di quella voce tanto autorevole che ci cavò fin dal nulla.

V. Ma perché meglio si penetri questo vero, convien sapere, che cosa propriamente intendasi per miracolo. Miracolo è un effetto, non pure strano, ma superiore a tutta la possanza della natura: il qual però non può avere altra cagione immediata, che Dio medesimo, da cui, siccome furono già stabilite le leggi della stessa natura, così ancora possono talor dispensarsi, con quella autorità sublimissima che compete ad un sommo Legislatore. Pertanto, se questa opera, trascendente i confini di ogni poter creato, si effettui da chicchessia in confermazione di qualche detto, è manifesto, che l’operatore di essa è un mero istrumento della Divinità: la quale se non può essere né ingannata né ingannatrice, mai non sarebbe concorsa, come cagion principale, ad autenticare quel detto, ove fosse falso. Un vero miracolo dunque ha una essenzialissima connessione con la divina veracità, e però contiene una certezza di prova tanto infallibile, che non può convenire a veruna creata testimonianza (Il miracolo, a bene intenderne la genuina natura, va riguardato e nella cagione efficiente, che lo origina, e nello scopo finale, a cui è ordinato. Quanto alla sua origine, esso è tal fatto, che trascende la virtù di qualunque siasi forza creata: è come scrive l’Aquinate, præter ordinem naturæ, cioè sopra, ma non contro natura, in quella guisa che il mistero è sopra, ma non contro ragione. Che se il miracolo è sovrannaturale quanto alla sua cagion efficiente, ciò vuol dire, che Dio solo ne è l’autore diretto od immediato. Ma per qual fine mai Dio opera il miracolo? Non per altro scopo, se non questo, di accertare la verità de’ suoi pronunciati. Divino adunque e nella sua origine e nel suo fine, il miracolo è tessera infallibile della Religione divina). Onde quella religione la quale produrrà legittimamente l’attestazion di un miracolo, ancora che solo, operato a favor di lei, è sicurissima di ottenere la palma sopra dell’altre: sicché il non credere a lei sia l’istesso che il non credere a Dio; e con ciò mostrarsi, non solo inetto, ma stolido; non solo irriverente, ma scellerato.

II.

VI. Si facciano però innanzi tutte le sette, e scendano in questo grande steccato di religione, accompagnate dai loro più famosi prodigi, se dà loro cuore di stare a fronte con la fede cattolica.

VII. Vengano, benché timidi, gl’idolatri, e contino la sanità restituita a due infermi da Vespasiano (V. Spart. Bellarm. de not.), aggiugnendo a ciò, che Claudia, nobile donna, tirò a’ dì loro col suo cingolo al lido una vasta nave, e che certa vergine vestale attinse l’acqua in un vaglio senza versarla. Ma quanto a’ prodigi di Vespasiano, non trovano credenza né anche presso gli storici che li narrano: mentre asserisce Tacito (1. 4. hist.) che l’infermità di quei due, sanati da Cesare, fu per consenso de’ medici giudicata curabile dalle forze della lor arte: e però qual maraviglia, se molto meglio potesse restar curato da Vespasiano per opera de’ diavoli? E quanto a que’ di Claudia e della vestale, oltre a che non eccedeano nemmen essi l’operazione diabolica, convien mirare a che erano indirizzati dalle donne. Non erano indirizzati a provare la verità della religione pagana, ma solamente a difendere se medesime, mentre erano ambo state incolpate a torto di pudicizia violata. Che gran cosa dunque saria, se la provvidenza, a cui è sì gradita la pudicizia, si fosse indotta a volerla anticamente onorare con quel doppio miracolo, il quale da un lato non si ordinava ad autenticare il sacrilego culto de’ vani Dei, e dall’altro valeva a sostenere 1’innocenza tradita, ed a coronarla? Però, come i gentili per testimoni della verità ebbero veri vaticini nelle Sibille; cosi per testimoni della integrità poterono ancor avere veri miracoli nelle loro donne più caste. Che se il cielo ha miracolosamente talora soccorsi i bruti, quando ve ne fu cagion giusta; perché non poté soccorrere ancora gli uomini, benché per altro ingannati nella lor fede? Basta che quei miracoli (se pur sono) non sien diretti a provare una fede tale, perché allora sariano bugiardi.

VIII. Abbattuti i gentili, succedono gli ebrei con animo grande, presupponendo, che a favor loro gridino tutti i miracoli registrati nei libri sacri, e spezialmente gli operati già da Mosè, loro condottiere. Ma questo è quasi un far da corvo spennato, che si vuole adornar di piume non sue. Quella religion loro che consisteva in credere la caduta della natura umana, ed il suo ristabilimento per mezzo di un divino Riparatore, non è diversa, ma è la medesima colla nostra, che crede anch’essa in questo loro Riparatore divino, e l’adora con ogni ossequio. Senonché la loro lo adorava già come Riparatore avvenire, e la nostra lo adora come venuto: onde son ambo a guisa di una stella, medesima nella sostanza, e differente solo di nome.Sono il fosforo che precede il sole di giustizia, e l’espero che lo segue. I patriarchi, i profeti, e tutti quei giusti i quali precorsero la comparsa del Messia, vero sole del mondo, appartengono a Cristo come nunzi e cioè fedeli suoi, che credevano dover Lui venire a salvarli. Gli apostoli, cogli altri veri Cristiani, appartengono a Cristo come seguaci e come fedeli suoi, che’ lo credono già venuto. Ma tutti sono una medesima chiesa nata col mondo. Non convien dunque, che i presenti Giudei faccian da ladri, e da ladri ancora sacrileghi. Convien che mostrino un miracolo vero a loro commendazione, dappoiché i miseri, posto in croce Gesù, negarono a Lui quel culto che noi gli diamo: giacché i prodigi descritti nei libri sacri pruovano bene che doveva venire il Messia, ma non provano già, che non sia venuto, come essi follemente si danno a credere. Anzi il vedere che tra loro, primaché Cristo venisse, abbondavan tanto i miracoli, promettitori di Lui, che a prezzo quasi vilissimo si offrivano a chi li desiderasse, dal più basso del mondo fino al più alto: Pete tìbi signum a Domino Deo tuo in profundum inferni, sive in excelsum supra (Is. VII. 18); e il vedere, che poscia che Cristo venne, altro miracolo non rimase tra loro, che quello della probatica (mancato anch’esso, dappoiché Cristo se ne valse al suo fine di manifestarsi per loro liberatore), dà chiaramente a conoscere ch’è venuto.

IX. Ammutoliscono dunque anch’essi i Giudei, e non avendo replica danno il campo ai maomettani, tuttoché poco vaghi di tal cimento. Viene alla testa di questa sì immonda greggia un falso profeta, il quale protesta con fasto sommo di cedere volentieri a Cristo i miracoli nella decisione del vero, purché a sé riserbi la spada: quasiché le menti si convincessero, se stanno dure, col ferro; e che potesse temere mai di ferite quell’intelletto che non può temere di morte. Vero è, che nel capo sessagesimo quarto dell’alcorano, par che Maometto narri non so che di stupendo, fatto da lui nella luna, che caduta e rotta in due parti, secondo la spiegazion dei suoi espositori (Ap. Bell. I. cit. c. 14) fu dalle mani di lui ricongiunta e riposta in cielo, con tanta gloria, che però i turchi presero poi la luna per loro insegna (Corn. a Lap. in Apoc. c. 13. v. 11). Ma di tal prodigio confessa egli medesimo, che non ebbe altro testimonio da sé, che ne fu l’autore: onde, lasciando che gli dian fede i lunatici pari suoi, proseguiamo innanzi.

X . E perché dalla vera chiesa dì Cristo si sono diramate, o piuttosto disgiunte diverse sette, a guisa di comete, che alcuni stimarono esser fumi usciti dal sole, vengano anch’esse, le moderne, quanto lo antiche, e ci arrechino, per marchio infallibile di essere care al cielo, un miracolo solamente. Tutte unite insieme, pure non apporteranno nulla di vero, ma nemmeno di apparente, operato in confermazione de’ loro errori: mentre quei miracoli stessi i quali le meschine hanno voluto fingere, tornarono finalmente sopra di loro in più grave smacco. È noto ciò che nelle storie si legge in questo proposito, delle tre eresie sì famose de’ nostri tempi, degli anabattisti, de’ luterani, e de’ calvinisti, direi tre capi formatori di un cerbero non favoloso, se fossero veramente uniti in un corpo: ma no, che non sono uniti, mentre fra loro medesimi stanno in guerra.

XI. Nella Polonia un principale anabattista promise alla moltitudine convenuta ad udirlo, che lo Spirito Santo sarebbe sceso visibilmente  dal cielo ad autenticare il novello battesimo a lei proposto. Lo spirito venne, ma non venne dal cielo, né venne santo. Venne bensì bastevole ad attestare la verità. E tale fu un gran demonio, di aspetto terribilissimo, il quale, a vista di ognuno, preso per li capelli quel seduttore, lo levò in alto, e l’affondò di poi nell’acque sacrileghe, finché vi rimase annegato (Boz. de sig. 1. 5. c. 1. in fin).

XII. Di Lutero racconta lo Stafilo, qual testimonio di veduta, che volendosi porre a scongiurare una sua discepola, fidato nella famigliarità che passava tra lui e lo spirito invasator di quella infelice, rimase a un tratto dalle furie di questa così mal concio, che se non rompeva violentemente l’uscio di quella camera, e non fuggiva, era per lasciarvi la vita.

XIII. Né differente fu il pericolo corso, in caso più notabile, da Calvino (H. Bols. in vit. Cal. L. Sur. in Chr. ad an. 1544). Si era maliziosamente accordato l’ingannatore con una vil femminuccia in questo concerto: che il marito di lei si fìngesse morto, e che ella tutta lagrime corresse a trovar Calvino, con supplicarlo, che in confermazion della sua dottrina celeste venisse a risuscitarglielo. Ma non terminossi la favola senza un atto pur troppo vero. Perciocché al primo comando che fè Calvino alla morte finta di restituir quell’uomo alla luce, se lo venne a prendere tosto la morte vera; sicché il miserabile, scosso, straziato, agitato per ogni verso, non si alzò più: tanto che la donna fanatica di cordoglio, pubblicò ad alta voce l’inganno occulto, rimproverandolo al bugiardo profeta con quella libertà che concede a qualsisia più meschino il dolore giusto.

XIV. Di questa fatta sono i miracoli tutti dell’eresie, se si vorrà farne un processo innocente: tanto che ad essi sta bene ciò che ne scrisse infino dai primi secoli Tertulliano, ed è, che dove gli Apostoli, de’ morti ne facevano vivi, i novatori de’ vivi ne fanno morti (Illi de mortuis suscitabant, isti de vivis mortuos faciunt – L. de præscript.). Onde, affinché questi mostrino di dire ornai qualche cosa, ove non possono dirne alcuna che vaglia, convien che si riducano ad affermar con Lutero, che la moltitudine de’ seguaci acquistati in sì poco tempo, è per loro un miracolo sufficiente. Ma certamente il maggior si è, che non muoia subito loro la lingua in bocca a menzogne così sfacciate. Se la moltitudine de’ seguaci rende miracolosa la setta dei luterani, più miracolosa si dovrà dunque stimar quella degli ariani, tanto più ampia, che per poco ammorbò tutto l’universo: e più miracolosa si dovrà stimare anche quella de’ maomettani: a cui come può ardire di stare a fronte il partito dei protestanti in Germania, se neppure ha tanto di grande, rispetto a quelli, quanto ne avrebbe un pigmeo vicino a un gigante? Se Lutero e gli altri a lui simili, predicassero il digiuno, la pazienza, la penitenza, la verginità, l’abbandonamento degli averi, l’annegazione degli appetiti, la soggezione del giudizio orgoglioso, confesso che il numero dei seguaci sarebbe un prodigio sommo, come egli è nella nostra legge: ma che prodigio è mai questo numero, qualora colle parole, e più ancor coll’opere, si consigli di sottomettere la ragione al talento? Quivi la difficoltà non è punto all’ottenere che i seguaci sian molti: è all’ottener piuttosto che sieno pochi. Quando l’arca passò il Giordano, le acque superiori stettero immote, e ciò nel vero fu miracolo grande; le inferiori corsero a seppellirsi dentro il mar morto. Ma ciò che fu? Fu miracolo? No di certo. Fu impeto di natura tendente al basso.

IL SACRO CUORE DI GESÙ (34)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE PRIMA:

La devozione al sacro Cuore secondo la beata Margherita Maria

INTRODUZIONE E BIBLIOGRAFIA

Il culto del sacro Cuore di Gesù, quale è riconosciuto e praticato dalla Chiesa, non si fonda né riposa sulle rivelazioni della beata Margherita Maria, così come la festa del Corpus Domini non si fonda su quelle della beata Giuliana di Mont-Cornillon. Nell’uno, come nell’altro caso, la Chiesa ha riguardato il culto in se stesso e nella sua diffusione ed Èssa si è pronunziata sul culto, senza però pronunziarsi sulle rivelazioni. Tuttavia, le rivelazioni hanno influito molto sul movimento verso la divozione. La beata Margherita Maria, come la beata Giuliana, è stata certamente lo strumento provvidenziale. La divozione al sacro Cuore, quale la Chiesa l’ha accolta e fatta sua, è la stessa che la beata dice di esserle stata rivelata da Gesù, quella ch’essa ebbe missione di propagare. È questo un fatto evidente. La constatazione del fatto, per se stessa, non implica un giudizio fermo e decisivo sulle visioni della beata. Ma obbliga a studiarle da vicino, perché esse dominano tutta la storia della divozione, e perché la divozione si presenta come un fatto storico, quanto e forse più che come una verità teologica. La beata Margherita Maria ha, per dir così, come accesa la fiaccola: questa ha alimentato la divozione, l’ha trasmessa agli altri. Di mano in mano, il culto si è diffuso, fino a divenire un culto cattolico, un culto pubblico nella Chiesa, avente le sue feste e le sue pratiche autorizzate. Altri, prima di lei, avevano avuto la divozione al sacro Cuore ed avevano lavorato per propagarla. Ma il culto, che è divenuto il culto pubblico del sacro Cuore, ha avuto il suo primo focolare nel cuore della beata. – Dunque, per ben conoscere la questione, è necessario, innanzi tutto, di sapere ciò che è la divozione, secondo la beata, e come essa ce la presenta. Solamente dopo aver fatto questo, si può farne la teologia e studiarne lo sviluppo storico. Il nostro lavoro comprenderà dunque tre parti, e cioè:

I. — La divozione al sacro Cuore, secondo la beata Margherita Maria.

II. — La teologia della divozione al sacro Cuore.

III. — Lo sviluppo storico della divozione al sacro Cuore.

Gli scritti della B. Margherita Maria

PARTE PRIMA.

La divozione al sacro Cuore secondo la beata Margherita Maria.

Non sapremmo trovar nulla di meglio, come fonte della divozione al sacro Cuore, che gli scritti della beata; ma è pur vero che sul valore dei testi si fanno delle obiezioni che è bene dilucidare. Così studieremo da prima, con gli scritti della beata alla mano, le grandi apparizioni; queste sono il fondamento e la base di tutto e nulla fa meglio conoscere questa divozione nel suo soggetto e nella sua natura. Esamineremo, di poi, la pratica di questa divozione e le promesse del sacro Cuore, in quel modo stesso che ci vengono presentate dalla beata Margherita Maria, Parrebbe, a prima vista, che si sarebbe dovuto cominciare col parlar della beata e dei personaggi che l’hanno secondata; dare un’idea, per quanto è possibile, della natura delle sue visioni, spiegare qual valore si deve dare a queste manifestazioni soprannaturali e al racconto che ne è stato redatto e accennare tutta la forza che dà, a questi fatti, la circostanza che la Chiesa ha posta sugli altari la veggente e adottato il culto preconizzato da lei. – Ma in tutto questo, molte cose non interessano che indirettamente il nostro soggetto, e quelle che vi han rapporto diretto, saranno trattate a luogo e tempo opportuno. Ci basti, per il resto, di rimandare il lettore alle Vite della santa e ai trattati di teologia.

[Vies de la Bienheureuse Marguerite Marie. L’anno stesso che seguì la morte di Margherita Maria, il Padre CROISET pubblicò nel suo libro: La dévotion au Sacre Cceur de N. S. Jesus Christ, Lyon, 1691, un Abregé de la Vie d’une réligieuse de la Visitation Sainte Marie, de la quelle Dìeu s’est servi pour l’établissement de la dévotion au Sacre Coeur de Jesus Christ, décédée en odoeur de sainteté le 17 octobre de l’année l690. – Egli vi dava ampie notizie degli scritti della beata, e specialmente delle lettere indirizzate a lui stesso. Nelle edizioni susseguenti, il nome di Suor Margherita Maria Alacoque fu dichiarato apertamente. Abrégé è stato ristampatocol libro nel 1895 a Montreuil-sur-Mer, dal Padre FRANCIOSI,secondo l’edizione di Lyon del 1694. Io cito secondo la ristampa.Nel 1729 Monsignor LANGUET DE GERGY, dell’Accademia Francese (al quale successe BUFFON) allora vescovo di Soisson, pubblicava, dopo lunga aspettativa, l’opera sua monumentale: La Vie de la Vénérable Mère Marguerite Marie, réligieuse de la Visitation Sainte Marie. Egli conosceva le contemporanee, lavorava sulle loro memorie, riceveva notizie di ogni specie. Così questa vita è stata la sorgente principale, fino alla pubblicazione delle Visitandine di Paray del 1867. L’abate GAUTEY, arcivescovo di Besancon morto nel luglio 1908, ne ha dato (Parigi 1890) una edizione in 4 °, conforme all’edizione prima, con note, schiarimenti, continuazione. Dopo il 1867, abbiamo ancora di più e meglio. Abbiamo i due volumi pubblicati dalla Visitazione di Paray nel 1867 e ristampati nel 1876, con qualche nuovo documento (il testamento t. I , nota D; le lettere 12 e 100, un pio biglietto, t. I I , avviso 47) col titolo: Vie et Oeuvres de la Bienheureuse Marguerite Marie Alacoque, Parigi, 2 volumi in 8 °. Il II tomo contiene gli scritti. Il volume I comprende, come brano principale, la vita inedita, memoria redatta da due antiche novizie della beata, secondo i loro ricordi e quelli delle altre suore. Esse vi hanno utilizzato, in oltre, e largamente citati, gli scritti della beata, le memorie delle sue due superiore, la Madre de Saumaise e la Madre Greyfié, l’Abrégé del Padre Croiset, ecc.]

La Madre Greyfié, alla quale fu comunicata, nel 1714, la trovò conforme alla verità, non rimpiangendo che di avervi molta parte. Questa memoria servì di fondo principale a Monsignor LANGUET. La citeremo sotto il titolo: Contemporaines. Si trovano ancora nel medesimo volume: la procedura del 1715, la memoria di Crisostomo Alacoque, fratello della beata; qualche altro brano di minore importanza. Monsignor GAUTHEY dette, nel 1915, una terza edizione, Vie et Oeuvres, notevolmente aumentata, con miglioramenti considerevoli, con prefazioni, note, ecc., che ne fanno come un’opera nuova. – Vi sono altre vite, in gran numero. Le più conosciute sono quelle del P. CH. DANIEL, Parigi, 1865; del CUCHERAT, Aùtun, -1865, e Grenoble, 1870; del BOUGAUD, Parigi 1874; di A. HAMON Parigi, ‘1907 delle Visitandine di Paray, Parigi, 1909. – Vedere, per maggiori schiarimenti Les historiens de la Bienheureuse Marguerite Marie – appendice bibliografica, di GAUTHEY, al libro del LANGUET, pag. 621- 646; e Les vies de la B. M. M. di A. HAMON negli Ètudes, 20 giugno 1 9 0 2 , t. XCI, pag. 721 – 742.

Il Sig. HAMON dette, ibid, 1904, una serie di articoli pieni di vedute nuove e penetranti: L a Bienheureuse Marguerite Marie, portrait intime. Pubblicò, nel 1907 una vita della beata, nella quale sono infine utilizzate tutte le risorse nuove.

GLI SCRITTI DELLA BEATA MARGHERITA MARIA

Si può dire con tutta verità che, sia negli scritti, come nella vita della beata, tutto converge direttamente o indirettamente, verso il sacro Cuore. È molto bene perciò, di farsene una idea chiara e precisa, non foss’altro che per ben comprendere le note a pie di pagina. Due questioni ci si presentano:

1. Che cosa abbiamo in fatto di scritti della beata ? —

2. Quanta sicurezza abbiamo, di possedere realmente il testo della beata?

I.

GLI SCRITTI

Inventario con osservazioni circa l’origine e la provenienza.

Essi sono raccolti quasi tutti nella « Vie et Oeuvres ». Qualcuno si trova sparso nel primo tomo delle « Contemporaines » altri occupano il tomo secondo, (A parte i quattro documenti su menzionati, e la modificazione della nota 19, le due edizioni non differiscono che per l’impaginatura. Il testo rimane lo stesso. Noi rimanderemo sempre alle due edizioni, avvertendo che, la prima cifra appartiene alla prima edizione, la seconda, fra parentesi, alla seconda. Quando non verrà indicata che una cifra, resta inteso che le due edizioni concordano) altri, finalmente, non sono stati conosciuti e identificati che dal 1876, e hanno dovuto aspettare, per trovare il loro posto, la terza edizione della Vie et Oeuvres di Mons. Gauthey.

Eccone l’inventario esatto:

Due brevi scritti, conservati dal P. de la Colombière e pubblicati nel diario dei suoi Retraites nel 1684. Benché brevi, però questi scritti dovevano avere una grande influenza sulla propagazione della divozione al sacro Cuore. Ne spiegheremo i motivi. Questi sono:

a) Il racconto di quello che si è convenuto chiamare la grande apparizione del sacro Cuore e che ebbe luogo il 16 giugno 1675. Fu redatto, poco tempo dopo l’apparizione, per ordine del P. de la Colombière. Egli, da parte sua, la trascrisse durante gli esercizi che dette a Londra, nel Febbraio 1677. È questo documento che fu pubblicato in Retraites del detto Padre nel 1684 ; ed è stato di poi riprodotto dal P. Croiset, dal P. Galliffet. e può dirsi, da tutti quelli che hanno scritto sul sacro Cuore. È da notarsi che il racconto della medesima apparizione, che si trova nel Mémoire, autografo della beata, è fatto quasi con le identiche parole e non cambia che sulla fine, molto abbreviata, dalla suddetta. Forse essa ha copiato dal volume stampato. Esiste una copia di questi Retraites e dell’annesso documento, che sembra essere indipendente dal testo stampato. L’ultimo editore del P. de la Colombière, Oeuvres complètes, Grenoble, 1901, l’ha riprodotta come suo testo e la suppone fatta sull’autografo del Padre. Il documento annesso si trova t. VI, p. 118. I l testo è quello della traduzione stampata; le differenze sono minime, una eccettuata. Questa dice peccatore invece di peccatrice, di modo che non sappiamo più se il racconto è fatto da una donna.

1. — Un biglietto misterioso, in cui la beata Margherita Maria dà, al Padre de la Colombière, una direzione per dei casi difficili in cui dové trovarsi. Oeuvres complètes di detto Padre, t. VI, p. 106. Cfr. Contemporaines t. primo p. 97 (128), G. n. 156 p. 139.

2. Gli scritti nei quali ella rendeva conto alla Madre de Saumaise, sua superiora, delle grazie ricevute dal 1672 al 1678, e che le edizioni del 1867 chiamano « Petit mémoire des gràces recues ». Questi scritti si trovano sparsi nelle Contemporaines. Sarebbe stato preferibile peraltro, vederli riuniti e dati integralmente, come pure quelli segnati al n. 9. Cosi ha fatto Monsignor Gauthey, t. II, pag, 119-166.

3. Una memoria sulla sua vita, scritta per ordine del. suo Direttore, il P. Rolin, si trova nell’autografo, t. II. p. 289-337, G. 24, ed è, con le lettere, ciò che meglio ci fa conoscere Margherita Maria. Noi lo citeremo con il titolo: Mémoire, ou mémoire autographe.

4. — Circa 140 lettere, o frammenti di lettere: alle sue due superiore, la Madre de Saumaise e la Madre Greyfié; a diverse religiose della Visitazione, ai suoi due fratelli; a diversi Gesuiti: a religiose e persone pie. – Si hanno ancora gli autografi di varie lettere, ma non ci rimangono, per la maggior parte, che copie o frammenti. – Nella raccolta di Paray la lettera CXXXI (CXXXIII) non sembra essere della beata. Ne è stato pubblicato l’autografo, ma non vi si riscontra la sua scrittura. In quanto alla lettera CXXIII (CXXV) non è che un Avis a una novizia. Nel 1691 il Padre Croiset, aveva citato nel suo compendio della vita della beata Margherita Maria, lunghi e molteplici estratti delle lettere di lei, senza però indicare a chi fossero dirette. Le Contemporaines ne presero motivo per attribuirle dirette al P. Rolin e l’errore ha durato sino ai nostri giorni; ma la scoperta del manoscritto d’Avignone, ha permesso d’identificare il destinatario, che non era altri che il medesimo P. Croiset. Ciò ha fatto luce su molti punti oscuri, benché il manoscritto non sia stato riconosciuto autografo della beata. In ogni modo, contiene dieci lettere copiate integralmente, salvo qualche omissione, che possiamo supporre rare e senza importanza. Giudicando la copia in confronto coll’autografo di una delle lettere, la seconda, conservata alla Visitazione di Bologna, è testuale, salvo le varianti ordinarie. Questa seconda lettera era stata pubblicata, fin dal 1874 nel Messager du Cceur de Jesus, secondo il manoscritto di Bologna. Le dieci lettere del manoscritto di Avignone sono state pubblicate nel Messager nel 1889 e 1890. Furono poi stampate a parte, sotto il titolo di Lettres inédites de la Bienheureuse Marguerite Marie, Tolosa 1890. Ne è stato un po’ ritoccato lo stile e verremo citandole, secondo l’autorità di Mons. Gauthey, che le ha riprodotte su di una copia del manoscritto. Rimane una lettera della quale il P. Croiset cita, p. 57, un lungo frammento. Il contesto e il testo medesimo, sembrano indicare che è degli ultimi anni della beata. Sarà stata diretta al P. Croiset come le altre? Aspettando delle prove che lo confermino o lo neghino, possiamo attenerci a degli indizi che rendono plausibile l’affermativa. Se questo è, pertanto, la raccolta di Avignone non comprenderebbe tutte le lettere dirette al P. Croiset, e non avremmo, in fatto di lettere della beata a dei Gesuiti, che queste sole del P. Croiset. Infine, il P. Letierce h a pubblicato, nel 1891, nel suo Etude sur le Sacre Cceur t. II. p. 539 una lettera scritta a una Orsolina. Egli crede che la beata ne abbia scritte molte altre e spera che possano ritrovarsene ancora. Mons. Gauthey la riproduce, (1. TXXVIII) insieme ad altre sin ora inedite

5. — Avis di direzione, e istruzioni spirituali, dirette per la maggior parte, a novizie. Quattro o cinque sono autografe. Il resto è stato preso su copie manoscritte.

6. Un piccolo libretto di preghiere e pie pratiche, tutto in rapporto al sacro Cuore, scritto per intero di propria mano della beata, il che per altro, non vuol dire che sia tutto di sua composizione.

7. Preghiere e pie’ pratiche della beata, di cui non rimangono che poche copie.

8. — Qualche cantico.

9. Alcune note personali, ma poche. Fra queste, se ne riscontrano alcune distinte con un « per obbedire ». Segnaliamole:

a) Note prese durante i suoi esercizi spirituali di professione (novembre 1672; con le risoluzioni « dettate » da Gesù, e l’offerta di tutta se stessa scritta col proprio sangue. Contemporaines t. I, p. 37 (68) Gauthey n. 74, 76, p. 89, 93.

b) Note prese durante i suoi esercizi del 1678. Contemporaines t. I, pag. 124 (154), Gauthey, n. 292 pag. 276.

c) L’atto col quale Gesù la costituisce erede del suo Cuore, scritta col proprio sangue, 31 dicembre 1678 e altre note. Contemporaines, t. I , pag. 129 (159), Gauthey, n. 190-194 p. 172-174.

d) Note del suo ritiro del 1684, con le sue risoluzioni. Contemporaines t. 1, p. 192 (221), Gauthey, N. 294 sq., pag. 280 sq.

e) Voto di perfezione con le grazie che lo seguirono, 31 ottob. 1686. Contemporaines t. I. pag. 248 (276),.Gauthey,. n. 252-253, p. 234-239.

f) Note sul suo « Ritiro interiore nel sacro Cuore di Gesù, per prepararsi a comparire dinanzi la Santità di Dio ». Contemporaines t. 1, p. 296 (293) Gauthey, n. 302-303, p. 286-289. Questo « Retraite intérieure » durò 40 giorni, cominciando dal 22 luglio 1690; ma le note si arrestano al secondo giorno. Tutti questi documenti si ritrovano, completi e riuniti, nel secondo volume di Mons. Gauthey. sotto il titolo di « Sentiments de ses retraites », p. 185, 204. Le tableau des références, p. 186, ne rende facile la ricerca. Per gli altri documenti veder pure lo stesso. Le tableau des références t. II, p. 774.

10. Diversi frammenti raccolti nelle Contemporaines senz’altra indicazione che quella che assicura l’antichità.Riuniti e completati dal Mons. Gauthey, t. II, pag. 166, 183, sotto il titolo di « Fragments ».

11. La piccola consacrazione che ella univa qualche volta alle sue lettere. Ce, ne rimangono due autografi, in cui si riscontra appena qualche parola di variante. Lettera XIX t. II, p. 98 L . I I V 332 e seg. t. II, 96 (133) G, 4111, 334 d.

12. — Una preghiera del P. de la Colombière, scritta di suo pugno, su di una immagine trovata nel 1894. Fàc-simile nel « Règne du Cœur de Jesus », 2.» edizione, Parigi 1899, t. I, p. 5, G. t. II, pag. 826.

13. — Delle Litanie, in latino, di Santa Chantal, copiate dalla beata. Vedere ibid, t. I V , pag. 496. Non si trovano i n G.

II.

FEDELTÀ DELLA TRASMISSIONE

Abitudine di rimaneggiare i testi. Gli autografi. Ritocchi delle copiste o degli editori. Fedeltà sufficiente e autenticità, meno qualche dettaglio di espressione. Il tono di Margherita Maria.

Le editrici di Paray hanno riprodotto con cura (a parte qualche leggero errore o correzione di dettaglio) gli autografi, quando sono stati conosciuti. Per il resto, hanno dovuto ricorrere ai testi stampati o alle copie manoscritte. Il P. di Galliffet aveva pubblicato le Mémoire della beata; Languet aveva dato molti testi forniti dalle Contemporaines; Croiset aveva inserito nel suo Abrégé lunghi frammenti di lettere: gli editori del P. de la Colombière, avevano unito, alle note di ritiro spirituale, un biglietto della beata, e il racconto della grande apparizione che il Padre aveva trascritto. Ma in quei tempi non venne a nessuno l’idea di pubblicare gli scritti della beata, tali come sono, mancanti di ortografìa e di stile letterario. Ciascuno ritoccava il testo che pubblicava. Si ritoccava perfino copiando; le Contemporaines, accomodavano, a piacer loro, i testi che trascrivevano per le suore o per Mons. Languet; Mons. Languet faceva lo stesso in vista del pubblico. Quando non si faceva per in coscienza, si ritoccavano quasi per istinto. (1) E ciò. si rileva confrontando i testi stampati con gli autografi e anche confrontando i testi stampati fra di loro; non se ne trovano due che si somiglino esattamente. – In compenso però, questo confronto ci prova che i ritocchi non sono che nella forma. Vi si riscontrano delle soppressioni spiacevoli, e delle trasposizioni infelici; ma il pensiero non è stato mai falsato, in sostanza, non sono stati fatti che dei ritocchi di grammatica o di stile. In quanto alle lettere, scritte al P. Croiset, il manoscritto d’Avignone è esatto, meno qualche soppressione. Fra le altre garanzie, abbiamo l’autografo della seconda lettera.

(1) Un tratto, raccontato dalla Madre de Saumaise, ci fa toccare sul vivo con quanta facilità incosciente, si copiavano i testi. Nostro Signore le fece vedere un giorno le croci e le pene interiori che il P. DE LA COLOMBIÈRE soffriva nel paese dove i superiori lo avevano mandato. Essa venne tosto a rendermene conto, presentandomi un biglietto da fargli avere e che conteneva delle cose molto consolanti che Gesù Cristo le aveva dettato. E siccome io ricevei, qualche tempo dopo, delle lettere da questo gran servo di Dio, compresi dalle domande che egli faceva, aver egli gran bisogno che si pregasse per lui. Siccome ciò poteva riferirsi a qualche cosa di cui questa virtuosa suora aveva avuto conoscenza, mi credei obbligata di mandargli il suddetto biglietto, che copiai senza aver fatto parola con alcuno di tutto questo. Nondimeno essa venne a trovarmi e mi disse che, nel copiare, avevo cambiato qualche cosa e che Nostro Signore voleva che ci si attenesse a quello che Egli aveva fatto scrivere. E volendolo io rileggere, per vedere quello che io avevo cambiato, trovai di aveve sostituito qualche parola assai somigliante, ma che aveva pertanto assai minor forza. Contemporaines, t. I, p. 117, (146) riveduto su G. n. 81 – p. 98..

L’edizione di Tolosa è imperfetta, ma ci dà il testo del manoscritto. Quando se ne allontana, lo indica spesso, ma non sempre. La lettera, o frammento di lettera, CXXXII, CXXX1V, dà maggiore incertezza. Lo stile ha una fermezza virile, il tono è di una decisione e una sicurezza molto rare nella beata; lo sviluppo ha una portata e una impronta tutta oratoria. Questi dati e altri ancora fanno pensare al P. de la Colombière. Di più, fra le diverse recensioni si riscontra, con qualche cambiamento di parole, una differenza nell’ordine dei paragrafi e a tutto questo si unisce il vago della designazione del destinatario. Così siamo condotti a domandarci se non avessimo là un’eco della beata, visibilmente fedele, piuttosto che il suono stesso della sua voce. – Si vorrebbe ritrovare in questa lettera quella che il P. de la Colombière dice avere scritto a uno dei suoi amici di Francia, per raccomandargli l’amabile divozione del sacro Cuore e per spingerlo a farsene L’apostolo. Certo, è su quel tono che dovette parlargli. Però le promesse sono di una ampiezza, di una precisione che non s’incontrano in altri scritti della beata avanti gli ultimi anni della sua vita. Di più, il P. Croiset la dà come di Margherita Maria, ciò che non permette più di dubitare. In ogni modo, risulta evidente che le cose espresse e le espressioni medesime, nell’insieme, sono della beata. Questa conclusione, che s’impone per il più dubbio dei documenti, presentatici dalle editrici di Paray, a parte sempre l’eccezione già segnalata della lettera CXXXI (CXXX1I1), s’impone a più forte ragione per tutto il resto. Noi abbiamo negli scritti editi di Margherita Maria, il suo pensiero e, salvo qualche dettaglio secondario, le espressioni sue proprie. – Senza far tante critiche, basta leggere per esserne convinti. Vi sono delle cose che non s’inventano né, s’imitano. Ogni lettore non prevenuto è invaso da quella unzione penetrante e soave dell’ardente carità del Salvatore, che Margherita Maria prometteva agli apostoli del sacro Cuore, in nome di Gesù medesimo. È una delle ragioni che ce la farà citare largamente. A chi, infatti a chi chiederemmo il racconto di queste esperienze intime, se non a quella che le ha provate? Chi può meglio iniziarci alla divozione del sacro Cuore di lei, che l’apprese dallo stesso Gesù, che l’ha vissuta nella sua pienezza, che ha ricevuto missione di propaganda?

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (9)

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (9)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B. – 8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE TORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE QUARTA (2)

Fecondità che deriva all’azione dalla vita interiore

La vita interiore è condizione necessaria perché l’azione sia feconda

d) Dà all’operaio evangelico la vera eloquenza

Intendo parlare dell’eloquenza capace di essere apportatrice della grazia, tanto da convertire le anime e da condurle alla virtù. Già se ne è parlato, e mi limiterò qui a poche parole. Nell’Ufficio di san Giovanni si legge questo responsorio: Supra pectus Domini recumbens, Evangelii fluenta de ipso sacro Dominici pectoris fonte potavit et Verbi Dei gratiam in toto terrarum orbe diffudit [adagiato sul petto del Signore, si abbeverava del Vangelo alla fonte fluente dello stesso sacro petto del Signore e diffuse la grazia del verbo di Dio in tutta la terra].In queste poche parole, che bella lezione per tutti coloro che, o predicatori, o scrittori o catechisti, hanno la missione di diffondere la parola divina! Con quali espressioni la Chiesa scopre ai suoi sacerdoti le fonti della vera eloquenza!  Tutti gli Evangelisti sono egualmente ispirati; tutti hanno uno scopo provvidenziale; tuttavia ciascuno ha la sua eloquenza propria. Più che gli altri, san Giovanni ha l’eloquenza che va alla volontà per la via del cuore dove egli diffonde verbi Dei gratiam. Insieme con le Epistole di san Paolo, il suo Vangelo è il libro preferito dalle anime che trovano la vita di quaggiù vuota di senso, se non sono unite con Gesù Cristo. Di dove viene l’eloquenza affascinante di san Giovanni? Quel gran fiume le cui acque benefiche irrigano tutto il mondo Fluente in loto terrarum orbe diffudit, da quale montagna nasce? È uno dei fiumi del Paradiso, dice il testo liturgico: Quasi unus ex Paradisi fluminibus Evangelista Joannes.  – A che servono le alte montagne e i ghiacciai? Quelle sterminate estensioni di terra, dirà l’ignorante, non sarebbero più utili se si appianassero? Egli non pensa che senza quelle alte cime le pianure e le valli sarebbero sterili come il Sahara: sono infatti le montagne che, per mezzo dei fiumi di cui esse sono i serbatoi, danno la fertilità alla terra. Quell’alta vetta del Paradiso dove nasce la sorgente che alimenta il Vangelo di san Giovanni, altro non è che il Cuore di Gesù: Evangelii fluenta de ipso sacro Dominici pectoris fonte potavit; perché  l’Evangelista, con la vita interiore, udì i palpiti del Cuore dell’Uomo-Dio e l’immensità del suo amore per gli uomini, la sua parola è apportatrice della grazia del Verbo divino: Verbi Dei gratiam diffudit. Così si può dire che gli uomini di vita interiore sono anche essi in qualche modo fiumi del Paradiso. Non soltanto con le loro preghiere e con i loro sacrifici attirano dal Cielo in terra le acque vive della grazia e allontanano o abbreviano i castighi che il mondo si merita, ma attingendo nel più alto dei cieli, nel Cuore di Colui nel quale risiede la vita intima di Dio, quell’acqua viva, la versano in abbondanza sulle anime: Haurietis aquas de fontibus Salvatoris. Chiamati a dare la parola di Dio, la danno con un’eloquenza di cui essi soli posseggono il segreto; è il Cielo che parla alla terra; illuminano, riscaldano, consolano e fortificano. Senza tutte queste qualità insieme riunite, l’eloquenza è incompleta; ma il predicatore non riunisce in sé tutte queste qualità se non vive di Gesù. Sono io davvero di coloro che per dare alla loro eloquenza la forza dell’azione, fanno assegnamento sulla loro meditazione, sulla loro visita al SS. Sacramento e soprattutto sulla loro Comunione o la loro Messa? Se non ècosì, potrò essere un rumoroso cymbalum tinniens, potrò rimbombare come il bronzo, velut aes sonans, ma non sarò il canale dell’amore, di quell’amore che rende irresistibile l’eloquenza degli amici di Dio. Il quadro della verità cristiana esposto da un predicatore dotto, ma di mediocre pietà, può muovere le anime, avvicinarle a Dio, accrescerne anche la fede; ma per penetrarle del sapore vivificante della virtù, bisogna aver gustato lo spirito del Vangelo e, per mezzo della meditazione, averne fatta la sostanza della propria vita (S. Pio X, Exhortatio ad Clerum, 4 agosto 1908). Questa esortazione che il cuore paterno di san Pio X rivolge al ministri di Dio. è un commovente invito alla santità sacerdotale; essa ne espone la necessità e la natura e, con una serie di consigli pratici, insegna i mezzi di acquistarla e di conservarla). Ripetiamo ancora che soltanto lo Spirito Santo, principio di ogni fecondità spirituale, opera le conversioni e diffonde le grazie che determinano a fuggire il vizio e a praticare la virtù. La parola dell’operaio evangelico, penetrata dall’unzione dello Spirito santificatore, diventa un canale vivente che riversa tutta l’azione divina. Prima della Pentecoste, gli Apostoli avevano predicato quasi senza alcun frutto; ma dopo il loro ritiro di dieci giorni, tutti di vita interiore, lo Spirito Santo li invade e li trasforma. I loro primi saggi di predicazione sono vere pesche miracolose. Lo stesso è dei seminatori del Vangelo: per la vita interiore essi sono veri portatori di Cristo; essi piantano e irrigano efficacemente, e allora lo Spirito Santo dà sempre l’incremento. La loro parola è nel tempo stesso semenza che cade e pioggia che feconda: il sole che fa crescere e maturare non manca mai. Est tantum lucere vanum, dice san Bernardo, tantum ardere parum, ardere et lucere perfectum. E poco dopo dice: Singulariter aposiolis et apostólìcis viris dicitur: Luceat lux vestra coram hominibus, nimirum tamquam accensis et vehementer accensis (Serm. de S. Joan. Bapt. Il solo splendore è vanità, il solo calore è poco, lo splendore insieme col calore è cosa perfetta. — Soprattutto agli apostoli e agli uomini apostolici è detto: Risplenda la vostra luce dinanzi agli uomini. Essi infatti devono essere accesi, accesissimi). L’apostolo attinge l’eloquenza evangelica della vita di unione con Gesù per mezzo della meditazione e della custodia del cuore, ma anche della Sacra Scrittura che egli studia e gusta con passione. Ogni parola di Dio all’uomo, ogni frase caduta dalle labbra adorabili di Gesù, è per lui un diamante di cui ammira le facce alla luce del dono della sapienza cosi particolarmente sviluppato in lui. Ma siccome egli apre il libro ispirato soltanto dopo di aver pregato, non solo ammira, ma ne gusta gl’insegnamenti come se lo Spirito Santo li avesse dettati espressamente per lui; perciò quanta unione quando, salito in pulpito, cita la parola di Dio, e quale differenza tra la luce che egli ne fa scaturire, e le ingegnose o dotte applicazioni che ne può trarre un predicatore aiutato dai soli lumi della ragione e di una fede quasi astratta e morta! Il primo mostra la verità viva che avvolge le anime con una realtà che vuole non solo illuminarle, ma vivificarle; il secondo invece non sa parlarne se non come di un’equazione algebrica, certa sì, ma fredda e senza relazione come l’intimo dell’esistenza. Egli la lascia astratta e, per così dire, allo stato di semplice memoriale, o capace appena di eccitare i cuori con quello che si chiama il carattere estetico del Cristianesimo. «La maestà della Scrittura mi sbalordisce; la semplicità del Vangelo mi parla al cuore », confessava il sentimentale Rousseau; ma che cosa importavano alla gloria di Dio queste vaghe e così sterili commozioni f II vero apostolo invece possiede il segreto di mostrare il Vangelo nella sua verità, non solo sempre attuale, ma anche sempre operante e continuamente rinnovata, perché divina, per l’anima che prende contatto con esso. Senza fermarsi a cercare il sentimento, egli con la parola di vita divina arriva fino a quella volontà in cui risiede la corrispondenza alla vera vita. Le convinzioni che produce, generano amore e risoluzione: egli solo possiede la sola eloquenza evangelica. – Non si dà vita interiore completa, senza una tenera divozione a Maria Immacolata, che è per eccellenza il canale di tutte le grazie e specialmente delle grazie più elette. L’apostolo abituato a quel perpetuo ricorso a Maria, senza il quale san Bernardo non può comprendere un vero figlio di questa incomparabile Madre, nell’esporre il dogma sulla Madre di Dio e Madre degli uomini, trova parole che non solo colpiscono e commuovono gli uditori, ma trasmettono anche a loro il bisogno di ricorrere in ogni loro difficoltà alla Dispensatrice del Sangue divino. Egli non ha che da lasciar parlare la sua esperienza e il suo cuore, per guadagnare le anime alla Regina del Cielo e per gettarle, per mezzo di Lei, nel Cuore di Gesù.

e) Perché la vita interiore produce la vita interiore, i suoi risultati sulle anime sono profondi e durevoli.

Bisognerebbe che questo capitolo aggiunto alle prime edizioni, fosse in forma di lettera indirizzata al cuore di ciascuno dei miei confratelli. Abbiamo considerato come le opere dipendano soprattutto dalla vita interiore dell’operaio evangelico; ma la preghiera e la riflessione mi hanno fatto vedere sotto un altro aspetto l’infecondità di certe opere, e credo di essere nel vero formulando questa proposizione: Un’opera non mette radici profonde, non è veramente stabile e non può durare, se l’operaio evangelico non abbia generato delle anime alla vita interiore. Ora questo non gli è possibile, se egli stesso non è molto nutrito di vita interiore.  – Nel capo III della seconda parte, riportavo le parole del canonico Timon-David, sulla necessità di formare in ogni istituzione un gruppo di cristiani ferventissimi i quali esercitino alla loro volta un apostolato sui loro compagni. Chi non vede come sia prezioso tale fermento e come questi collaboratori possano moltiplicare la forza di azione dell’apostolo?Questi non è più solo al lavoro, e i suoi mezzi di azione sono centuplicati. Mi affretterò a ripetere che soltanto l’uomo di azione, che sia di vera vita interiore, possiede abbastanza di vita per produrre altri focolari di vita feconda. Anche le istituzioni laiche riescono a ottenere zelatori capaci di fare propaganda e di esercitare un’autorità per amore dei colleghi, per spirito di corpo e per rivalità; bastano, come leva, il fanatismo o la concorrenza, il settarismo o la vanagloria, l’interesse o l’ambizione. Ma suscitare apostoli secondo il Cuore di Gesù Cristo, apostoli che partecipino della sua dolcezza e della sua umiltà, della sua bontà disinteressata e del suo zelo esclusivo per la gloria del Padre celeste, non è cosa possibile che alla leva dell’intensa vita interiore.  – Finché un’istituzione non abbia potuto dare questo risultato, la sua vita è effimera; quasi certamente essa non sopravvivrà al suo fondatore. La ragione della continuità di certe istituzioni invece, non ne dubito affatto, sta ordinariamente nel fatto che la vita interiore poté produrre la vita interiore. Citerò unesempio: Il sacerdote Aliemand, morto in concetto di santità, fondava a Marsiglia, prima della rivoluzione, L’opera giovanile degli studenti e impiegati. Questa istituzione conserva ancora il nome del suo fondatore e continua, dopo più di un secolo, a godere di una meravigliosa prosperità. Eppure quel sacerdote, per nulla ricco di doni naturali, miope all’eccesso, timido, privo di qualità oratorie, era, umanamente parlando, incapace della prodigiosa attività richiesta dalla sua impresa. I lineamenti irregolari del suo volto avrebbero indotto i giovanetti allo scherno, se non fosse stata la bellezza della sua anima che si rifletteva nel suo sguardo e in tutto il suo contegno; con tale bellezza l’uomo di Dio aveva su quei focosi giovani un’autorità che li dominava e imponeva rispetto, stima e affezione. Il pio Aliemand volle tutto basare soltanto sulla vita interiore e poté formare, nella sua istituzione, un gruppo di giovani dai quali esigeva liberamente, in tutta la misura permessa dalla loro condizione, una vita interiore integrale, un’assoluta custodia del cuore, la meditazione del mattino ecc., insomma la vita cristiana completa, come la intendevano e la praticavano ì Cristiani dei primi secoli. E quei giovani apostoli succedendosi continuarono davvero ad essere, in Marsiglia, l’anima di quella istituzione la quale diede alla Chiesa parecchi Vescovi e le dà ancora tanti sacerdoti, missionari, religiosi e migliaia di padri di famiglia i quali sono in quella città ì migliori appoggi delle opere parrocchiali e formano una falange che non solo è l’onore del commercio, dell’industria e delle libere professioni, ma forma un vero focolare di apostolato. Dico di padri di famiglia, e questa espressione richiama il solito ritornello che si sente un po’ dappertutto: «L’apostolato che è relativamente facile sui giovani, sulle fanciulle e sulle madri di famiglia, diventa spesso impossibile quando vogliamo esercitarlo sugli uomini. Eppure finché non avremo ottenuto che i capi di famiglia diventino non solo Cristiani, ma apostoli anch’essi, l’opera pure così importante della madre cristiana sarà resa vana o effimera, e noi non arriveremo mai a stabilire il regno sociale di Gesù Cristo. Ora in questa parrocchia, in questo sobborgo, in quest’ospedale, in quest’officina, non c’è nulla da fare per ridurre gli uomini ad essere profondamente Cristiani ». – Confessando cosi la nostra incapacità, non ci diamo forse quasi sempre un certificato di insufficienza di quella vita interiore che sola ci farebbe conoscere i mezzi per impedire che tanti uomini sfuggano all’azione della Chiesa? Alle fatiche di una preparazione intensa di prediche capaci di destare la convinzione, l’amore e profonde risoluzioni in cervelli e cuori di uomini, non preferiamo forse il facile trionfo oratorio con i giovani e con le donne? Soltanto la vita interiore ci potrebbe sostenere nelle fatiche della semina, umili e aspre e in apparenza per molto tempo infruttifere; essa soltanto ci farebbe comprendere la potenza di azione che ci darebbe il lavoro della preghiera e della penitenza, e come il nostro progresso nell’imitazione di tutte le virtù di Gesù Cristo moltiplicherebbe l’efficacia del nostro apostolato sugli uomini. Ero così sorpreso di quanto mi si diceva intorno a un circolo militare di una gran città della Normandia, che stentavo a credere a così meravigliosi risultati. Come mai, per esempio, i soldati venivano al circolo assai più numerosi quando vi era una lunga serata di adorazione, per riparare alle bestemmie e ai disordini della caserma, che non quando si faceva un concerto musicale o una rappresentazione in teatro? Ma dovetti cedere all’evidenza, e cessò anche lo stupore quando mi fu descritto fino a che punto l’Assistente ecclesiastico comprendeva il santo Tabernacolo, e quali apostoli aveva saputo formare vicino a questo. – Dopo tale esempio, che cosa dovremmo pensare di certi apostoli per i quali il cinematografo, il palcoscenico, l’acrobatismo formano quasi il programma di un quinto vangelo per la conversione dei popoli? L’uso di tali mezzi, in mancanza di altri, per attirare i giovani o per allontanarli dal male, otterrà certamente un risultato, ma per lo più quanto limitato ed effimero! Dio mi liberi dal raffreddare lo zelo dei cari confratelli che non possono concepire né adottare un altro metodo e intravvedono già (come provai io pure da giovane sacerdote inesperto) i loro oratori deserti, se consacrano un tempo più breve a preparare quelle ricreazioni moderne che sono ai loro occhi condizione sine qua non della riuscita. Mi limito dunque a metterli in guardia contro il pericolo di dare una parte troppo larga a quei mezzi e auguro loro la grazia di capire la tesi del canonico Timon-David del quale già ho riferito una conversazione. – Un giorno (avevo allora appena due anni di sacerdozio) quel prete venerando era obbligato, alla fine della conversazione, a dirmi molto fraternamente, ma non senza un po’ di pietà: «Non potesti portare modo; soltanto più tardi, quando sarete più avanti nella vita interiore, mi comprenderete meglio. Oggi, tutto ben considerato, non potete fare a meno di adoperare tali mezzi: adoperateli dunque tranquillamente, in mancanza di altri. Per me, io tengo benissimo i miei giovani operai e impiegati e ne attiro dei nuovi, benché da noi non ci sia quasi altro che quei giochi antichi e sempre nuovi i quali, mentre non costano nulla, riposano l’anima con la loro stessa semplicità. Guardate, soggiunse poi argutamente, vi feci vedere sul solaio gli strumenti musicali che io pure da principio consideravo come indispensabili; ecco che viene appunto verso di noi la nostra fanfara di oggi: voi ne giudicherete». Poco dopo infatti sfilava dinanzi a noi una squadra di quaranta o cinquanta ragazzi dai dodici ai diciassette anni. Che fracasso! Chi si sarebbe potuto trattenere dal ridere alla vista di quella schiera strana che lo sguardo sereno del vecchio canonico fissava con soddisfazione? «Osservate, mi disse, colui che cammina all’indietro alla testa della squadra e che agita la sua bacchetta come un direttore d’orchestra e poi la porta comicamente alle labbra a guisa di clarino: è un sottufficiale in licenza, uno dei nostri migliori zelatori. Per quanto può, fa la comunione quotidiana, ma soprattutto non tralascia mai la sua mezz’ora di meditazione. Straordinario nel tenere allegri gli altri; questo angelo di pietà si sforza con tutto il suo ingegno perché i giuochi dei mezzani non languiscano; meraviglioso nel trovare i mezzi per il suo scopo, tiene vivo l’entusiasmo di questi giovanetti; ma al suo occhio di aiutante e al suo cuore di apostolo non sfugge nulla». Non potevo trattenere le risa dinanzi a quel gruppo di musici che eseguivano le canzonette più comuni: Un canard déployant ses ailes; As-tu vu la casquette ecc. Al segnale del capobanda si cambiava ritornello; ciascuno degli esecutori simulava uno strumento: gli uni con le mani allargate davanti alla bocca, altri con un foglio di carta che vibrava tra le labbra, alcuni pochi con uno zufolo; ma nella prima fila dei musici v’era un trombone a pompa e una grancassa: il primo fatto con due bastoni all’uno dei quali la mano dava un movimento regolare in su e in giù; la seconda era una vecchia latta da petrolio! I visi raggianti di tutti quei giovanetti mostravano tutto il loro entusiasmo per quel gioco. «Andiamo dietro alla fanfara», mi disse il canonico. Infondo del viale vi era unastatua della Madonna. «In ginocchio, amici — comandò il capobanda — un’Ave maris stella alla nostra buona Madre epoi una posta del Rosario ». Quel piccolo mondo restò prima un minuto in silenzio, poi cominciò a rispondere alle Ave Maria con la stessa divozione che se fosse stato in cappella. Quei piccoli Meridionali, quasi tutti congli occhi bassi, veri folletti pochi minuti prima, si erano improvvisamente trasformati in angeli di Fra Angelico! «Non dimenticate, mi disse lamia guida, che questo è il termometro dell’istituzione: trattenere con divertimenti semplici e allegri i nostri giovani anche di più di vent’anni; ottenereche desiderino di ripigliare qui, nelle loro ore di preghiera e di ricreazione, un’anima da fanciullo; arrivare soprattutto a far pregare, ma pregare davvero, anche in mezzo al gioco: tutti i nostri zelatori mirano a questo». La banda si rialzò per nuovi saggi artistici che echeggiarono nell’ampio cortile. Un momento dopo si giocava animatamente alla barra. Avevo notato che il sottufficiale, alzandosi dopo l’Ave maris stella, aveva sussurrato alcune parole all’orecchio di due o tre i quali subito, allegramente e come obbedendo a un’usanza praticata da tutti, andarono a deporre il camiciotto da ricreazione e in ordine si diressero alla cappella per passarvi un quarto d’ora presso il Divino Prigioniero. « La nostra ambizione, soggiunse allora il canonico Timon- David con profonda convinzione, la nostra ambizione deve mirare alla formazione degli zelatori nei quali l’amore di Dio sia abbastanza intenso perché, quando avranno lasciato l’istituto e abbiano fondato una famiglia rimangano apostoli premurosi di comunicare al maggior numero di anime gli ardori della loro carità. Se il nostro apostolato, continuava il santo sacerdote, mirasse soltanto a formare buoni Cristiani, come sarebbe limitato il nostro ideale! Noi dobbiamo creare legioni di apostoli affinché quella cellula fondamentale della società, che è la famiglia, diventi essa pure un centro di apostolato. Ora soltanto una vita di sacrificio e d’intimità con Gesù, ci darà la forza e il segreto di svolgere integralmente tale programma; soltanto a questa condizione la nostra azione sarà potente nella società, e si adempirà la parola del Maestro: Ignem veni mittere in terram et quid volo nisi ut accendatur? » (Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e che altro voglio se non che si accenda? – Luc. XII, 49).  Solamente molto più tardi, purtroppo, sono riuscito a comprendere il valore delle lezioni viventi del canonico, così profondo nella sua psicologia e nella sua tattica, e sotto lo sguardo di Dio, per il quale i trionfi apparenti non contano nulla, a confrontare i risultati dei diversi mezzi adoperati. Questi mezzi, secondo che sono semplici come il Vangelo o complessi come tutto ciò che è troppo umano, possono servire a valutare un’istituzione e quelli che ne sono l’anima. Contro Golia avevano combattuto invano i forti d’Israele bene armati, e il giovine Davide va contro di lui con una fionda, un bastone e cinque pietre del torrente: l’adolescente non chiedeva di più; ma quel suo: In nomine Domini exercituum (lo vengo a te nel nome del Dio degli eserciti – I Re, XVII, 45), era già di un’anima capace di arrivare alla santità. Oggi si parla molto dei doposcuola laici; ma essi potranno pure avere a loro disposizione somme enormi stanziate ufficialmente dallo Stato, magnifici locali ecc.; i doposcuola della Chiesa, nonostante la loro povertà, non ne dovranno temere la concorrenza, se sono fondati sulla vita interiore e con l’attrattiva di ciò che più di tutto piace al giovane, cioè con il loro ideale, attireranno la parte migliore della gioventù.  Terminerò con un ultimo esempio il quale ci servirà a farci conoscere l’uomo di azione il quale sembra trascinare le anime al Signore fino al punto di farne degli apostoli, ma che in realtà desta soltanto entusiasmi nati dalla simpatia naturale per la sua persona e dall’azione magnetica che egli esercita intorno a sé. I giovani, felici di trattare con una pia persona che li incanta, orgogliosi nel vedere che si occupa di loro, formano intorno a lui come una corte e accettano a gara, ma soprattutto per fargli piacere, le pratiche anche più penose che sembrano il riflesso di una vera divozione.  Una Congregazione di ottime Suore catechiste era diretta da un Religioso di cui fu scritta ultimamente la vita. Quest’uomo di vita interiore disse un giorno a una Superiora locale: «Madre, sarei di parere che la Suora X… lasci almeno per un  anno d’insegnare il catechismo. — Ma padre, come si fa? è la migliore insegnante: i fanciulli accorrono da tutti i sobborghi della città, attratti dai suoi modi meravigliosi. Il toglierla dal catechismo equivale a far disertare quasi tutti quei fanciulli. — Io ho assistito dalla tribuna al suo catechismo, rispose il Padre; essa veramente incanta i fanciulli, ma in maniera troppo umana. Dopo un anno di un secondo noviziato, formata meglio alla vita interiore, essa santificherà l’anima sua e le anime dei fanciulli col suo zelo e col buon uso del suo ingegno; ma attualmente, senza saperlo, essa è un ostacolo all’azione diretta del Signore su quelle anime che si stanno preparando alla prima comunione. Vedo, Madre, che la mia insistenza vi rattrista; ebbene, accetterò una transazione: conosco Suor N… anima di vita interiore, ma d’ingegno limitato; domandate alla vostra Superiora Generale, che ve la mandi per qualche tempo. La prima verrà a incominciare per un quarto d’ora il catechismo, tanto per calmare il vostro timore di diserzione, poi a poco a poco si ritirerà del tutto. Vedrete allora che i fanciulli pregheranno meglio e canteranno più devotamente. Il loro raccoglimento e la loro docilità avranno un carattere più soprannaturale: questo sarà il termometro». Quindici giorni dopo, e la Superiora poté constatarlo, Suor N… faceva da sola il catechismo, eppure il numero dei fanciulli andava crescendo. Era proprio Gesù che insegnava il catechismo, per mezzo di lei; col suo sguardo, con la sua modestia, con la sua dolcezza, con la sua bontà, con la sua maniera di fare il segno di croce, con il suo tono di voce, essa esprimeva Gesù Cristo. Suor X… aveva potuto spiegare con ingegno e rendere piacevole ciò che vi era di più arido, ma Suor N… faceva di più. Certamente essa non trascurava nulla per prepararsi alle spiegazioni e per esporle con chiarezza, ma il suo segreto e quello che dominava nel suo cuore era l’unzione: e appunto con questa unzione le anime si trovano veramente a contatto con Gesù. Ai catechismi di Suor N… vi era assai meno di quelle esplosione rumorose, di quegli sguardi attoniti, di quel fascino che avrebbe potuto destare egualmente la conferenza assai interessante di un esploratore o il racconto commovente di una battaglia. Vi era invece un’atmosfera di attenzione raccolta: quei fanciulli stanno nella sala del catechismo come in chiesa; nessun mezzo umano per impedire la dissipazione o la noia.Qual è dunque l’influenza misteriosa che domina quell’uditorio?Non ne dubito: è quella di Gesù che si esercita direttamente. Infatti un’anima di vita interiore, che spieghi il catechismo, è un’arpa che suona al tocco del divino Artista, enessun’arte umana, per quanto meravigliosa, è paragonabile all’azione di Gesù.

f) Importanza della formazione dei migliori e della direzione spirituale

Ritorno ancora alla conversazione memorabile riferita poc’anzi (2a parte, capo II), che io ebbi con il Rev. Timon-David. Una parola caduta dalle labbra di questo esperto fondatore di opere giovanili, certamente avrà colpito il lettore: usando la parola scultoria emetaforica «stampelle», il venerando canonico riassumeva il suo pensiero sull’impiego di certi divertimenti moderni (teatro, fanfara, cinematografo, giochi costosi e complicati ecc.) per attirare etrattenere i giovani nelle istituzioni giovanili. Tali divertimenti che sono spesso occasione di soverchio strapazzo e di depressione fisica, tendono meno ariposare e a dilatare l’anima o a conservare la buona salute, che non a lusingare la vanità e a sovreccitare la fantasia e la sensibilità. Del resto con questo nome di «stampelle» non si alludeva affatto a quei giochi assai divertenti, benché molto semplici, che riposano lo spirito, fortificano il corpo e furono trovati sufficienti da tante generazioni cristiane. Confrontando, ma senza metterlo abbastanza al tempo giusto, il parere di quel saggio canonico con quello di altri eccellenti direttori di opere giovanili, qualcuno si è potuto domandare se egli non generalizzasse troppo il caso in cui le «stampelle» si potessero sopprimere. Senza parlare delle istituzioni create specialmente a sollievo delle miserie corporali, si possono dividere le altre in due categorie: quelle in cui si vogliono soltanto i migliori, e quelle che escludono soltanto i cattivi. Però supponiamo che in questo secondo caso si cerchi pure di formare un nucleo dei migliori, capaci, con il loro fervore, di far notare dagli altri lo scopo dell’istituzione, quello cioè di condurre tutti i suoi membri a una vita non superficialmente, ma profondamente cristiana; altrimenti si avrà l’Istituzione profana diretta da un parroco, secondo l’espressione maliziosa di un bravo professore il quale, dietro la facciata clericale, sospettava che vi fossero le stesse miserie che si deplorano negli stabilimenti sottratti all’influenza della Chiesa.  I direttori che respingono assai facilmente dalle loro istituzioni i soggetti riconosciuti incapaci di essere messi tra i migliori, applaudono e trovano perfetta la parola «stampelle» per esprimere fino a qual punto essi considerano come secondari certi mezzi di cui sanno fare a meno, o che subiscono quasi loro malgrado. E senza dubbio essi sono tutt’altro che a corto di argomenti per difendere il loro parere. Per essi l’avvenire della società e la restaurazione della patria non può derivare che da un’irradiazione più intensa della santità della Chiesa. Con questo mezzo, essi dicono, più che con conferenze apologetiche, il Cristianesimo si sviluppò così rapidamente nei primi secoli della sua storia, nonostante la potenza dei suoi nemici, le prevenzioni di ogni sorta e la corruzione generale. Essi troncano ogni discussione con risposte di questo genere: Potete citare un solo fatto il quale dimostri che in quel periodo la Chiesa abbia avuto bisogno d’inventare divertimenti per distogliere dalla turpitudine degli spettacoli pagani le anime che doveva guadagnare? Uno di questi direttori, alludendo alla sete di denaro e alla frenesia per il cinematografo, che oggi riscaldano le folle avide di piaceri, mi diceva: Il Panem et circenses dei Romani della decadenza si potrebbe oggi tradurre in Biscottini e cinematografo. Ora prendete per esempio sant’Ambrogio e sant’Agostino, uomini straordinari nell’attirare le anime; si può trovare nella loro vita un solo tratto che ce li mostri come organizzatori di istituzioni che avessero lo scopo di procurare alle loro pecorelle dei divertimenti capaci di far loro dimenticare i piaceri offerti dal paganesimo?— E per convertire Roma tanto intepidita dallo spirito della Rinascenza, dove leggiamo noi che san Filippo Neri abbia avuto bisogno delle «stampelle» che eccitavano il buon umore del Rev. Timon-David! È certo che, tra i fedeli, la Chiesa primitiva, come si è già accennato, seppe formare un incomparabile e numeroso nucleo di persone scelte le cui virtù stupivano i pagani e obbligavano all’ammirazione le anime leali, anche le più prevenute per i loro princìpi, per le loro tradizioni e per i loro costumi, contro la religione cristiana. Le conversioni avvenivano anche in quegli ambienti in cui il sacerdote non poteva penetrare. Dinanzi a queste lezioni del passato, noi dobbiamo domandare a noi stessi se nel nostro secolo non abbiamo una fiducia esagerata non soltanto in certi divertimenti che stordiscono, ma anche in diversi mezzi, pellegrinaggi, feste di parata, congressi, discorsi, pubblicazioni, sindacati, azione politica ecc., prodigati oggi a larga mano e utilissimi, senza dubbio, ma ai quali sarebbe cosa deplorevole dare il primo posto. La predicazione per mezzo dell’esempio sarà sempre la leva principale: exempla tradunt. Le conferenze, i buoni libri, la stampa cristiana e anche i migliori discorsi, tutto deve svolgersi intorno a questo programma fondamentale: Regolare l’apostolato sul popolo PER MEZZO DELL’ESEMPIO di Cristiani fervorosi i quali fanno rivivere Gesù Cristo ed esalano il profumo delle sue virtù. I sacerdoti che, lasciandosi assorbire da funzioni estranee al loro ministero, si dedicano troppo poco a quella che è la principale, cioè la formazione dei migliori per la gran propaganda per mezzo del buon esempio, dovranno dunque stupirsi se nei nostri paesi i tre quarti degli uomini restano immobili nell’indifferenza e non vedono nella Chiesa altro che un’istituzione onorevole, di una certa utilità sociale, e non già la forza prima di ogni esistenza individuale, la chiave di volta delle famiglie e delle nazioni, il gran faro della verità e della vita eterna? Qual è dunque questa religione capace d’illuminare, di fortificare e d’infiammare così il cuore umano? Così dicevano i pagani vedendo i meravigliosi effetti che seppe produrre la Lega silenziosa dell’azione per mezzo del buon esempio. La forza di quella Lega che esisteva tra i primi Cristiani, non le veniva certamente dalla sola pratica del Declina a malo (Salmo XXXVI). La fuga delle azioni condannate dal Decalogo, non sarebbe bastata a far nascere, insieme con l’ammirazione, il forte desiderio d’imitare. Soprattutto con il Fac bonum (Salmo XXXVI) si collega l’Exempla trahunt. Ci voleva tutto lo splendore delle virtù evangeliche quali erano state proposte al mondo nel Discorso della Montagna. Un uomo di Stato, illustre ma incredulo, mi diceva un giorno: «Se la Chiesa sapesse scolpire più profondamente nei cuori il testamento del suo Fondatore: Amatevi a vicenda, diverrebbe la grande potenza indispensabile alle nazioni ». Non si potrebbe fare la stessa riflessione, riguardo a parecchie altre virtù? Con la sua conoscenza profonda dei bisogni della Chiesa, san Pio X aveva spesso delle vedute meravigliosamente giuste. L’ami du Clergé (Prédication, 20 gennaio 1921) ricorda un’importante conversazione del santo Pontefice con un gruppo di cardinali. « Qual è, disse il Papa, la cosa più necessaria oggi per la salvezza della società? — Edificare scuole cattoliche, disse uno. — No. — Moltiplicare le chiese, disse un altro. — Neppure. — Promuovere le vocazioni ecclesiastiche, disse un terzo. — No, no, rispose san Pio X, quello che presentemente è PIÙ necessario, è di avere in ogni parrocchia un gruppo di laici che siamo a un tempo assai virtuosi, illuminati, risoluti e veramente apostoli» (Se si confrontano certi passi della prima Enciclica di san Pio X con diverse parole che disse più tardi, si capisce che, nella conversazione che qui citiamo, egli si attende dal fervore dei sacerdoti la formazione dei nuclei scelti di cui parla, e su questi fa poi assegnamento (più che su tutti gli altri mezzi) per vedere accresciuto il numero dei veri fedeli. Ottenuto questo risultato, sono assicurate le vocazioni sacerdotali, come pure la moltiplicazione delle scuole e delle chiese.  Quando la quantità non dipende dalla qualità è ben grave il rischio di non ottenere altro che uno sfoggio di religiosità chiassosa, vana e ingannatrice). Altri particolari mi permettono di affermare che questo santo Papa, nei suoi ultimi giorni, aspettava la salvezza del mondo soltanto dalla formazione, per mezzo dello zelo dei sacerdoti, di fedeli che fossero fervorosi apostoli con la parola e con l’azione, ma soprattutto con il buon esempio. Nelle diocesi in cui, prima di essere Papa, egli aveva esercitato il ministero, dava minore importanza al registro de statu animarum, che non alla lista dei Cristiani capaci di irradiare con il loro apostolato. Egli giudicava che in qualsiasi ambiente si possono formare dei nuclei di fedeli scelti. Perciò egli CLASSIFICAVA i suoi sacerdoti secondo i risultati che il loro ZELO e la loro CAPACITÀ avesse ottenuto su questo punto. Il parere di questo santo Pontefice dà un’autorità speciale al sentimento dei direttori di istituzioni della prima categoria di cui si è parlato poco fa. Se nella formazione dei migliori consiste la sola e vera strategia per agire sulle masse, dunque il conservare dei soggetti di cui non si abbia seria speranza di renderli migliori, è uno sbaglio, quando con questo si corre il pericolo di abbassare il livello dei migliori, anche fino al punto che siano migliori soltanto di nome. Gli altri direttori che si limitano a scartare i soggetti pericolosi, non sono tuttavia senza argomenti per protestare contro l’espressione «stampelle» con cui si qualificano certi mezzi che ai loro occhi non sono punto i meno efficaci. Essi si difendono con mostrare a quali pericoli sarebbero esposte le anime che non si volessero ricevere nelle loro istituzioni, la necessità di accontentarsi di un numero infimo di reclute se si mirasse soltanto ai migliori, l’atmosfera appestata in cui vivono coloro che essi devono evangelizzare ecc. Sarebbe cosa ingiusta e crudele, essi dicono, il trascurare i più e il voler agire su loro soltanto con l’esempio dei migliori, senza tentare di agire direttamente sui mediocri, non fosse altro che per impedire loro di cadere più in basso e per preparare cosi dei candidati ai gruppi dei migliori. – Con molto rispetto ascoltai queste opinioni diverse di direttori o di direttrici di opere giovanili, persone di perfetta e buona fede e di zelo indiscutibile. Non cercherò di conciliare le opinioni diverse: ma siccome scrivo specialmente per i miei venerati confratelli nel sacerdozio, preferisco domandare a me stesso quale sarebbe la risposta del santo sacerdote Àllemand o quella del Rev. Timon-David, se fossero invitati a mettere d’accordo le due tesi con prendere un giusto mezzo. Il disegno dell’uno e dell’altro era questo: – 1° Trovare, tra le centinaia di giovani Cristiani appartenenti all’istituzione, una minoranza anche minima, capace di desiderare vivamente e di praticare seriamente la vita interiore. – 2° Poi riscaldare, direi quasi fino all’incandescenza, quelle anime, con far loro amare appassionatamente il Signore, con ispirare loro l’ideale delle virtù evangeliche e isolandole più che sia possibile dal contatto degli altri studenti, impiegati, operai ecc., fino a che la loro vita interiore non sia giunta al grado in cui li possa rendere immuni dal contagio. – 3° Finalmente, venuto il momento opportuno, comunicare a questi giovani lo zelo per le anime con il fine di servirsene per meglio agire sui loro compagni. Lo stabilire con precisione quel minimo che i due sacerdoti esigevano dai non ferventi, per conservarli qualche tempo nella loro istituzione, mi porterebbe troppo lontano: preferisco richiamare l’attenzione sulla parte considerevole che essi attribuivano alla direzione spirituale per mettere in opera il loro disegno. Il sacerdote Allemand (La vie et l’esprit de Jean-Joseph Allemand, par l’abbé GADUEL, Paris, Lecoffre), nel dirigere personalmente ciascun giovane, riusciva mirabilmente a destare in lui santi entusiasmi per la perfezione e a convincerlo che la miglior prova di devozione al Sacro Cuore è l’imitazione delle virtù del Modello divino.  – Il canonico Timon-David poi, eccellente confessore, abile nello scoprire e nel curare le piaghe delle anime, era inoltre un eccellente direttore spirituale. Nessuno meglio di lui seppe infiammare i cuori dell’amore alla virtù ed eccitare così i suoi collaboratori a non accontentarsi, nella guida delle anime, dei princìpi della teologia morale propri della vita purgativa, ma a servirsi della direzione per orientarle verso la vita illuminativa. Era impareggiabile la sua sollecitudine per fare dei suoi sacerdoti collaboratori, dei veri direttori di anime. Tutti e due consideravano come insufficienti le brevi esortazioni prima dell’assoluzione settimanale, le loro prediche ai giovani raccolti insieme, l’ordinamento della vita liturgica e persino le loro conferenze, pure così attraenti, fatte ai migliori: essi ritenevano cosa INDISPENSABILE la direzione mensile data a ciascuno in particolare. – Essi erano convinti che, dopo la preghiera e il sacrificio, il mezzo più efficace per ottenere dalla grazia di Dio quelle anime scelte che possono rigenerare il mondo, è l’azione del vero sacerdote per mezzo del suo ministero, ma SPECIALMENTE per mezzo della direzione spirituale. – Usciamo dalla cerchia ristretta delle opere giovanili e abbracciamo con uno sguardo tutto il campo che la Chiesa deve coltivare: istituzioni di ogni sorta, parrocchie, seminari, come pure comunità e missioni. Nessuno è capace di guidarsi da sé: tutti hanno debolezze da vincere, tendenze da regolare, doveri da compiere, rischi da incontrare, occasioni pericolose da evitare, difficoltà da superare e dubbi da rischiarare. Se per tutto questo è necessario un aiuto, tanto più per camminare verso la perfezione. Il sacerdote mancherebbe, e talora gravemente, al suo dovere di dottore e di medico delle anime, se le privasse del grande aiuto supplementare del confessionale, di quell’indispensabile propulsore della vita interiore che si chiama la direzione spirituale. Sono ben da compiangere le istituzioni in cui i confessori, che hanno sempre poco tempo disponibile, prima di assolvere non danno per lo più che una pia ma vaga esortazione che spesso è la medesima per tutti, invece di offrire lo specifico che un medico esperto e laborioso avrebbe saputo scegliere, secondo lo stato di ciascun ammalato. Nonostante la sua fede nell’efficacia del Sacramento, il penitente allora deve quasi considerare il ministro semplicemente come un « distributore automatico » simile a quelli che si vedono talora nelle stazioni ferroviarie, che, introducendo la moneta, vi mettono fuori un pasticcino. – Sono invece privilegiati gli oratori, le scuole, gli orfanotrofi ecc., in cui il confessore conosce l’arte della direzione ed è convinto di dovere PRIMA DI TUTTO praticare l’arte sua, se vuole ottenere che tutte le anime capaci di vibrare per un ideale, si diano risolutamente agli esercizi della vita interiore. Quanti padri e madri di famiglia videro singolarmente accresciuta la loro azione sui loro figliuoli e sui loro amici, perché incontrarono un vero direttore! Quali tesori vi sono da far valere, nell’anima di un fanciullo! È il momento in cui l’albero sta per piegarsi, e spesso definitivamente, o da un lato o dall’altro. Per non aver avuto nei loro anni giovanili una direzione adatta alla loro età e alle loro disposizioni, saranno molti gli adulti che non si potranno più contare tra i bei fiori del giardino di Gesù. Quante vocazioni sacerdotali o religiose avrebbero potuto sbocciare! Talora, anche per parecchie generazioni, in una parrocchia, in una missione, continuerà l’impulso dato da un sacerdote il quale sia stato ben altro che un discreto distributore di assoluzioni. Insieme con Ars, con Mesnil-Saint-Loup, si potrebbero citare altri luoghi, veri focolari di vita soprannaturale, in mezzo all’intiepidimento generale, perché ebbero la fortuna di avere un direttore zelante, prudente e pieno di esperienza. – Fui meravigliato e commosso quando, nel mio viaggio in Giappone, circa quindici anni fa, ebbi la fortuna d’incontrare alcuni membri di numerose famiglie cristiane, scoperte circa mezzo secolo fa presso Nagasaki. Cosa inaudita! Circondati da pagani, obbligati a celare la loro religione, privi di sacerdoti da ben tre secoli, quei fedeli avevano ricevuto dai loro padri non soltanto la fede, ma il fervore. Dove trovare uno slancio iniziale tanto forte da spiegare la potenza e la durata di una trasmissione tanto straordinaria? La risposta è facile: I loro antenati avevano avuto in san Francesco Saverio un meraviglioso direttore di questi nuclei dei migliori. Come mai certi piccoli seminari che mancano di direttori spirituali, potranno essere vivai di futuri sacerdoti? La maggior parte dei loro allievi, per non essere stati indirizzati abbastanza per tempo verso la perfezione, come potranno poi elevarsi sopra la mediocrità, nell’esercizio del loro sacerdozio? Fortunate queste anime che vanno cercando la loro via, se non sono state falsate nel loro desiderio di vita sacerdotale, affascinate dal bagliore delle doti naturali di certi professori dai quali trapelava l’indifferenza per la vita interiore e il disprezzo di una regolare direzione spirituale. La prova che in molte Comunità religiose, di vita attiva e anche di vita contemplativa, molti soggetti vegetano soltanto per mancanza di direzione spirituale, è il mutamento radicale che SPESSO potei costatare in anime tiepide, ritornate al fervore della loro professione dal momento che ebbero finalmente un direttore coscienzioso. Certi confessori sembrano dimenticare che le anime consacrate di cui essi hanno la cura, sono obbligate a tendere alla perfezione e hanno un BISOGNO BEALE di essere aiutate e stimolate per effettuare quei progressi continui a cui si possono applicare quelle parole del Salmo: Ascensione in corde suo disposuit… ibunt de virtute in virtutem (Salmo LXXXIII), e per diventare allora veri apostoli della vita interiore. E anche quanti sacerdoti sarebbero più fervorosi, trovando tutta la loro felicità nella vita eucaristica e liturgica e nel progresso delle anime, se il confessore da loro scelto manifestasse loro la sua vera amicizia, con il suo tatto nel guidarli, con la persuasione, alla direzione mensile, in vista di quella perfezione a cui devono tendere più ancora che i religiosi. Non si vede che parte importante danno gli agiografi al direttore spirituale di quasi tutti coloro dei quali raccontano la vita? E la Chiesa non conterebbe forse un maggior numero di Santi, se le anime generose, le anime sacerdotali e religiose soprattutto, fossero dirette con maggiore serietà? Senza l’intima direzione sacerdotale dei genitori di santa Teresa del Bambino Gesù e, più tardi, senza l’azione diretta dei rappresentanti di Dio su questa eletta dal Signore, la terra riceverebbe forse dal cielo quella pioggia di rose di cui è inondata?  Nei suoi scritti, il P. Desurmont ritorna spesso su questo pensiero: Per certe anime la salvezza è collegata con la santità. O tutto o nulla; o l’amore ardente di Gesù, o il culto del mondo e la direzione di satana; o la santità, o la dannazione.  Non sarebbe dunque cosa temeraria il temere dolorose sorprese, al giudizio particolare, per i sacerdoti i quali, per non avere studiato l’arte della direzione spirituale e per aver scansata la fatica che esige la sua pratica, sono, per certi rispetti, responsabili della mediocrità o anche della perdita delle anime. Amministratori capaci, predicatori eccellenti, pieni di sollecitudine per gli infermi e per i poveri, essi hanno però trascurato quella gran tattica adoperata dal Salvatore, quella cioè di trasformare la società per mezzo dei migliori. Il piccolo drappello di discepoli che Gesù scelse e formò Egli stesso e che poi Io Spirito Santo infiammò, bastò per corniciare la rigenerazione del mondo.  – Salutiamo con rispetto quei Vescovi sempre più numerosi, i quali, dietro l’esempio di san Pio X, giudicano che nei loro Seminari un corso di ascetica e anche di mistica è assai più utile che non le conferenze di sociologia. Per far notare l’importanza della direzione, essi esigono prima di tutto che i seminaristi vi siano fedeli per il loro progresso individuale e che tutti i professori ne abbiano una stima speciale e la dimostrino con il loro irradiamento di vita interiore.  Essi vogliono inoltre che tutti gli aspiranti al sacerdozio imparino quello che si riferisce al Regimen animarum, a quest’arte che dipende da princìpi bene stabiliti e dai saggi consigli vissuti da coloro che l’hanno sperimentata. Soprattutto di questa Ars artium si può dire che il Sapere deve necessariamente essere accompagnato dal Saper fare. – Riguardo la direzione, quante false nozioni e quanti pregiudizi si devono sfrondare, se si consultano gli autori che la Chiesa considera come maestri nella vita spirituale! Certe persone sanno molto bene far deviare la direzione dal suo scopo, se il sacerdote lascia che il suo zelo vada ondeggiando senza bussola, e se non regge il timone con mano ferma. Ora sono sedute di chiacchiere sterili o di moine tenere che lusingano l’amor proprio, oppure, portando al quietismo, diminuiscono la responsabilità personale; ora è una scuola di falsa pietà e di sentimentalismo, in cui si sviluppa il gusto delle emozioni sensibili o quello di una religiosità tutta fatta di divozioni esteriori; ora è una specie di ufficio notarile in cui si fa l’abitudine di venire a consultare per i più lievi incidenti della vita, per gli affari temporali e per le brighe familiari… E quante sono le altre false vie in cui si possono disgraziatamente smarrire e direttori e anime dirette! Il sacerdote deve perciò vigilare perché il carattere della direzione non venga falsato. Tutto deve convergere verso il fine chiaramente tracciato in questa definizione. La direzione consiste nel complesso metodico e regolare dei consigli che una persona, la quale abbia la grazia dello stato, la scienza e l’esperienza (soprattutto il sacerdote), dà a un’anima retta e generosa, per farla progredire verso la soda pietà e anche verso la perfezione. Anzitutto è una PREPARAZIÓNE DELLA VOLONTÀ, di questa facoltà principale che san Tommaso chiama Vis unitiva, la sola, in ultima analisi, in cui risiede l’unione col Signore e l’imitazione delle sue virtù. Il direttore degno di questo nome, si rende conto non soltanto delle cause intime dei mancamenti, ma anche delle diverse inclinazioni dell’anima. Egli ne analizza le difficoltà e le ripugnanze nel combattimento spirituale; fa irradiare l’ideale, prova, sceglie, verifica i mezzi di viverlo, segnala gli scogli e le illusioni, scuote il torpore, incoraggia, riprende e consola, se occorre, ma soltanto per ritemprare la volontà contro lo scoraggiamento o la disperazione. La direzione è ordinariamente legata alla confessione, finché l’anima, conservando ancora qualche attacco al peccato, rimane nella vita purgativa. Ma quando l’anima è seriamente orientata verso il fervore, più facilmente la direzione può diventare distinta dalla confessione. Appunto perché non sia confusa con questa, certi sacerdoti la vogliono dare soltanto dopo l’assoluzione e ordinariamente la danno soltanto una volta al mese a coloro che si confessano ogni settimana. Non è nel programma di questo volume lo sviluppare come si fa la direzione; ma siccome sono persuaso che molti sacerdoti devono prendere con maggiore serietà quest’arte spirituale, sarebbe per me una gran gioia, lo confesso, il tentare di offrire a certi confratelli che non hanno il coraggio di studiare opere voluminose, un sunto breve e pratico di ciò che è stato dato dai migliori intorno a questo argomento (Trattati speciali: La direction spirituelle, del Ven. P. Libermann (CEuvre de Saint-Paul 6, rue Cassetto, Parigi). — L’esprit tfun directeur des àmes, del Sig*. Olier (Poussielgue, Parigi). — La charité sacerdotale, del P. Desurmont (Saint-Famulo, rue Servandone Parigi). — Trattati diversi del Rev. Tixnon-David, indicati a pag. 54. — Les degrés de la vie spiritatile, di Saudreau (Grassin et Richou, Angers). — La pratigue progressive de la Confession et de la Direction e vari altri volumi dello stesso autore sulla Formazione morale e religiosa (Lib. Saint-Paul, Parigi). — Direction des Enfants, di Simon (Téqul, Parigi). Pratique de l’Education, di Monfat (Téqui). — L’éducateur apótre, di Guibert (Gigord, Parigi) ecc. Tra i molti che trattano della Direzione spirituale, vi sono: Cassiano, san Gregorio Magno, san Bernardo, san Bonaventura, san Vincenzo Ferreri, santa Teresa, san Francesco di Sales. san Vincenzo de’ Paoli, sant’Alfonso, san Gerolamo, santa Giovanna F. di Chantal, Bossuet, Fénelon, Dupanloup ecc., nelle loro Lettere. — I PP. Aquaviva, Lallemand, Grou, Scaramelli S. J. — Ribet, L’ascétisìne chrétien (Poussielgue, Parigi). — Meynard, O. P. (Jules, Vie, Parigi). — Mons. Gay. — Saudreau (L’ideal de l’dme fervente; La vote qui méne à Dieu; Manuel de spiritualité). — Schievers C. SS. R., Principe de la Vie spirituelle (Devit, Bruxelles) ecc.  Le opere di educazione o di psicologia pedagogica, come quelle dei PP. Eymieu (Perrin, Parigi) e de la Vaissière, S. J. (Beauchesne, Parigi), del PP. Raymond (Beauchesne) e Noble, O. P. (Lethielleux, Parigi), saranno utilissime ai direttori.  Del resto lo studio serio di La charitè sacerdotale del P. Desurmont o dei Degrés de la Vie spirituelle del Can. Saudreau, forniscono già a qualunque sacerdote del mezzi preziosi per dirigere le anime). Questo compendio non solo faciliterà lo studio e la classificazione delle anime, ma stabilirà con precisione i mezzi preconizzati dal Duc in altum adattato agli stati principali. Ciascun’anima è come un mondo a sé, con le differenze sue proprie; tuttavia ex communibus contigentibus si possono classificare i Cristiani in alcuni gruppi. Mi sembra utile il tentare qui di fare tale classifica, prendendo come pietra di paragone, da una parte il peccato o l’imperfezione, dall’altra la preghiera. Vorrei con questo quadro indurre qualcuno dei miei venerati confratelli a riflettere sulla necessità di uno studio che gli permetterebbe di conoscere le regole pratiche per dirigere ciascun’anima secondo il suo stato. Se per le due prime categorie il sacerdote non può direttamente agire sulle anime, almeno, se egli è un buon direttore, guiderà assai più facilmente i genitori o gli amici a cui sta a cuore di trarre, anche dall’indurimento delle persone che loro sono care e che Dio ancora non ha definitivamente rigettate.

1. INDURIMENTO.

Peccato mortale. — Stagnamento in questo peccato, per ignoranza o per coscienza falsata maliziosamente. — Soffocamento o assenza di rimorsi.

Preghiera. — Soppressione volontaria di qualunque ricorso a Dio.

2. VERNICE CRISTIANA.

Peccato mortale. — Considerato come un male leggero e che facilmente viene perdonato; l’anima vi si abbandona facilmente ad ogni occasione o tentazione. — Confessioni quasi senza dolore.

Preghiera. — Macchinale, senza attenzione e sempre dettata da interesse materiale. — Rari e superficiali riflessioni su se stesso.

3. PIETÀ MEDIOCRE.

Peccato mortale. — Debolmente combattuto. — Fuga meno frequente delle occasioni, ma pentimenti seri e vere confessioni.

Peccato veniale. — Si viene a patti con tale peccato considerato come un male insignificante, e perciò tepidezza di volontà. — Non si fa nulla per prevenirlo né per toglierlo né per scoprirlo.

Preghiera. — Assai benfatta di quando in quando. —Velleità passeggere di fervore.

4. PIETÀ INTERMITTENTE.

Peccato mortale. — Lealmente combattuto. Fuga abituale delle occasioni. — Pentimenti vivissimi. — Penitenze per ripararvi.

Peccato veniale. — Talora deliberato. — Combattuto fiaccamente. — Pentimento superficiale. — Esame particolare senza spirito di regolarità.

Preghiera. — Risoluzione insufficiente di essere fedele alla meditazione che l’anima abbandona quando è nell’aridità oppure è molto occupata.

5. PIETÀ ELEVATA.

Peccato mortale. — Mai. — Al più qualche rarissima sorpresa violenta e improvvisa. Allora spesso il peccato mortale è dubbio ed è seguito da vivo pentimento e da penitenza.

Peccato veniale. — Vigilanza per evitarlo e per combatterlo. — Raramente deliberato. — Pentimento vivo, ma poca riparazione. — Esame particolare regolare, ma che mira soltanto alla fuga dei peccati veniali.

Imperfezioni. — L’anima evita di scoprirle per non doverle combattere, oppure le scusa facilmente. — La rinunzia è ammirata e anche desiderata, ma è poco praticata.

Preghiera. — Fedeltà costante e a qualunque costo all’orazione, spesso affettiva. — Alternative di consolazioni spirituali e di aridità subite con pena.

6. FERVORE.

Peccato veniale. — Non mai deliberato. — Qualche volta per sorpresa o con semi-avvertenza. — Pentimento vivo e riparazione seria.

Imperfezioni. — Non volute, sorvegliate e combattute coraggiosamente, per piacere di più a Dio. — Talora tuttavia accettate, ma seguite subito da pentimento. — Atti frequenti di rinunzia. — Esame particolare che mira al perfezionamento in una virtù.

Preghiera. — Meditazione volentieri prolungata. — Orazione piuttosto affettiva e anche di semplicità. — Alternative di grandi consolazioni e di prove dolorose.

7. PERFEZIONE RELATIVA.

Imperfezioni. — Energicamente prevenute con grande amore — Sopravvengono soltanto con la semi-avvertenza.

Preghiera. — Vita abituale di orazione, anche dandosi all’azione esteriore. — Sete di rinunzia, di annientamento, di distacco e di amore divino. — Fame dell’Eucaristia e del Paradiso. — Grazia infusa di orazione di diversi gradi. Frequenti purificazioni passive.

8. EROISMO.

Imperfezioni. — Soltanto di primo impulso.

Preghiera. — Doni soprannaturali di contemplazione accompagnati talora da fenomeni straordinari. — Purificazioni passive accentuate. — Disprezzo di sé fino alla dimenticanza. — Preferenza dei patimenti alle gioie.

9. SANTITÀ CONSUMATA. Imperfezioni. — Appena apparenti.

Preghiera. — Per lo più unione trasformatrice. — Sposalizio spirituale. — Purificazioni di amore. — Sete ardente di patimenti e di umiliazioni. Sono assai rare le anime che appartengono alle due o anche alle tre ultime categorie; perciò facilmente si comprende che i sacerdoti aspettano l’occasione di avere tali soggetti prima di studiare quello che i migliori autori indicano, perché allora la loro direzione sia prudente e sicura. Ma non si potrebbe scusare quel confessore che, per mancanza di zelo nell’imparare e nell’applicare quello che si riferisce alle quattro categorie della Pietà mediocre, della Pietà intermittente, della Pietà elevata e del Fervore, lasciasse molte anime ammuffire in una triste tepidezza o fermarsi molto sotto quel grado di vita interiore a cui Dio le destinava.

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In quanto ai punti da toccarsi nella direzione dei principianti nella pietà, sembra che si possano ordinariamente ridurre ai quattro seguenti:

1° PACE. — Esaminare se l’anima si trova nella vera pace e non in quella che dà il mondo o che deriva dall’assenza di lotta. Se no, stabilirla in una pace relativa, nonostante le sue difficoltà. Questa è la base di ogni direzione: la calma, il raccoglimento e la fiducia si riferiscono a questo punto.

IDEALE. — Riuniti gli elementi necessari per classificarla e per riconoscerne i lati deboli, le forze vive di carattere e di temperamento e il suo grado di tendenza alla perfezione, cercare i mezzi atti a ravvivare il suo desiderio di vivere più seriamente di Gesù Cristo e di distruggere gli ostacoli che si oppongono allo sviluppo della grazia in lei. Insomma, con questo punto si tende a spingere l’anima a mirare sempre più in alto, sempre excelsior.

3° PREGHIERA. — Informarsi come l’anima fa le sue preghiere, e analizzare particolarmente il suo grado di fedeltà alla meditazione, il suo genere di orazione, gli ostacoli che vi trova e i risultati che ne trae: profitto dei sacramenti, della vita liturgica, delle divozioni particolari, delle giaculatorie e dell’esercizio della presenza di Dio.

4° RINUNZIA. — Studiare su che cosa e soprattutto come si fa l’esame particolare, come si esercita la rinunzia, per odio contro un peccato oppure per amore di una virtù, come si pratica la custodia del cuore, e perciò la vigilanza e il combattimento spirituale, in ispirito di orazione, durante la giornata. A questi quattro punti si può ridurre tutto ciò che vi è di essenziale per la direzione. Si possono esaminare tutti e quattro ogni mese, oppure attenersi alternativamente a uno di essi per non dilungarsi troppo.

Paralizzando così in un’anima gli elementi di morte e ravvivandovi i germi di vita, il sacerdote zelante arriva ad appassionarsi dell’esercizio dell’arte somma della direzione, e lo Spirito Santo di cui è ministro fedele, non gli risparmia quelle consolazioni ineffabili che formano quaggiù una delle grandi felicità del sacerdozio: gliele concede NELLA MISURA CON CUI SI SACRIFICA per applicare alle anime i princìpi che ha studiati. Chi più di san Paolo provò le gioie dell’apostolato? Ma da qual fuoco ardente egli doveva pure essere divorato, per poter scrivere: Per triennium nocte et die non cessavi cum lacrymis monens unumquemque vestrum! (Atti, XX, 31). – « Caro dottore, so che vostro figlio vuol dedicarsi al sacerdozio. Se egli e i suoi confratelli, quando dovranno curare le anime, prenderanno esempio dalla vostra abnegazione e dalla vostra coscienza professionale nel fare le diagnosi e nel prescrivere i rimedi e il regime che devono rendere all’ammalato una florida salute, né ebrei, né massoni, né protestanti non potranno impedire in mezzo a noi i trionfi della fede ». Queste parole piene di ammirazione e di riconoscenza rivolgeva, in mia presenza, un prelato al medico che con duri sforzi era riuscito a strapparlo a una crisi mortale e che poi poco dopo gli restituiva un nuovo vigore.  – L’applicazione della SCIENZA e l’esercizio dell’ABNEGAZIONE saranno certamente benedetti da Dio.  Ma qual potere sovrumano acquisteranno questi due fattori, quando il sacerdote che se ne serve, sarà di quelli che non possono comprendere il loro sacerdozio senza la TENDENZA ALLA SANTITÀ! Egli allora non si può accontentare di rimanere un semplice, benché sicuro, indicatore della via: egli arde di desiderio di essere un vero motore, un trascinatore di anime a cui possa comunicare la vita divina che ribocca in lui. Vi sarebbe una santa rivoluzione nel mondo, se in ogni parrocchia, in ogni missione, in ogni comunità e a capo di ogni associazione cattolica vi fossero dei veri direttori di anime. Allora anche nelle istituzioni, come per esempio gli orfanotrofi, gli asili, i ricoveri, in cui sono raccolti dei soggetti appena passabili, vi sarebbe sempre a base del programma: Formare i migliori e isolarli dai mediocri più che si può, fino a che non siano preparati a un discreto ma ardente apostolato sugli altri. – Chiunque voglia giudicare le istituzioni dai risultati che Gesù ne attende, deve per forza arrivare a questa conclusione: Dovunque si trova un focolare di vera direzione spirituale, non vi è nessun bisogno delle famose «stampelle» per ottenere in abbondanza meravigliosi frutti; mentre l’uso simultaneo, in un’istituzione, di tutte le «stampelle» possibili e più in voga, altro non può fare che mascherare il difetto di tale direzione, ma non mai attenuarne la necessità.  – Quanto più zelanti saranno i sacerdoti nel perfezionarsi nell’arte della direzione e nel dedicarvisi, tanto più si attenuerà ai loro occhi la necessità di certi mezzi esteriori, utili da principio per mettersi a contatto con i fedeli, per attirarli, per raccoglierli, per, interessarli, per trattenerli e per custodirli sotto l’influenza della Chiesa la quale, fedele al suo fine, non può essere pienamente soddisfatta se non quando le anime saranno intimamente incorporate con Gesù Cristo.

g) La vita interiore, con l’Eucaristia riassume tutta la fecondità dell’apostolato

Il fine dell’Incarnazione, eperciò del vero apostolato, è di divinizzare l’umanità: Christus incarnatus est ut homo fieret deus (Gesù Cristo si è incarnato affinché l’uomo diventi Dio – S. Agostino). Unigenitus Dei Filius suæ divinitatis volens nos esse participes naturam nostram assumpsit, ut hommes deos faceret factus homo (2 (2) Volendo che fossimo partecipi della sua divinità, il Figlio Unigenito di Dio prese la nostra natura, affinché, divenuto uomo, egli degli uomini facesse altrettanti dèi – S. TOMM., Uffizio del Corpus Domini). Ora nell’Eucaristia, anzi nella vita eucaristica, cioè nella vita interiore robusta, alimentata al banchetto divino, l’apostolo si assimila la vita divina. Abbiamo la parola perentoria del Maestro, la quale non dà luogo a equivoci: Nisi manducaveritis carnem Filii hominis et biberitis eius sanguinem, non habebitis vitam in vóbis (Se non mangerete la carne del Figliuolo dell’uomo e non berrete il suo Sangue, non avrete in voi la vita – Giov. VI, 54). La vita eucaristica è la vita di GesùCristo in noi, non solamente per l’indispensabile stato di grazia, ma per una sovrabbondanza della sua azione: Veni ut vitam habeant et abundantius habeant (Sono venuto affinché abbiano la vita e l’abbiano abbondantemente – Giov. X, 10). Se l’apostolo deve sovrabbondare di vita divina per poterla dare ai fedeli, e se non ne trova la fonte altrove che nell’Eucaristia, come dunque si potrà supporre l’efficacia delle opere senza l’azione dell’Eucaristia, in coloro che direttamente o indirettamente debbono essere i dispensatori di quella vita per mezzo di tali opere? – Non è possibile meditare sulle conseguenze del dogma della presenza reale, del santo Sacrificio dell’altare, della comunione, senza doverne conchiudere che il Signore volle istituire questo sacramento per fare di esso il focolare di ogni attività, di ogni devozione, di ogni apostolato veramente utile alla Chiesa. Se tutta la Redenzione gravita intorno al Calvario, tutte le grazie di questo mistero sgorgano dall’Altare, e l’operaio della parola evangelica il quale non vive dell’Altare, non avrà altro che una parola morta, una parola che non salva, perché viene da un cuore non abbastanza imbevuto del Sangue redentore. Non senza un profondo disegno Gesù Cristo, subito dopo l’ultima cena, spiega con insistenza e con precisione, con la parabola dalla vite e dei tralci, l’inutilità dell’azione che nonsia animata dallo spirito interiore: Sicut palmes non potest ferre fructum a semetipso, sic nec vos nisi in me manseritis (Come il tralcio non può dare frutto da sé, così neppure voi, se non rimarrete in me – Giov. XV, 4). Ma subito fa vedere di quanto valore sarà l’azione esercitata dall’apostolo il quale vive di vita interiore, della vita eucaristica: Qui manet in me et ego in eo, hic feri fructum multum (Colui che rimane in me e nel quale io rimango, questi porta molto frutto – Giov. XV. 5). Hic, ma soltanto questo; Dio agisce potentemente soltanto per mezzo di lui. Poiché, dice sant’Atanasio, «noi siamo fatti altrettanti dèi dalla carne di Gesù Cristo». Quando il predicatore o il catechista conservano in sè il calore del Sangue divino, quando il loro cuore è acceso del fuoco che consumali Cuore eucaristico di Gesù, come è allora viva, ardente e infiammata la loro parola! Come irradiano intorno a sé gli effetti dell’Eucaristia, per esempio in una scuola, o nella corsia di un ospedale, in un oratorio ecc., coloro che Dio scelse per tali opere, quando ravvivano il loro zelo nella comunione e diventano portatori di Gesù Cristo! – O si tratti dell’abilità del demonio nel mantenere le anime nell’ignoranza, o si tratti dello spirito superbo e impuro che vuole inebriarle di superbia o affogarle nel fango, l’Eucaristia, vita del vero apostolo, fa sentire la sua azione superiore a qualunque altra, contro il nemico della salute. Per mezzo dell’Eucaristia si perfeziona l’amore; questo memoriale vivente della Passione, ravviva nell’apostolo il fuoco divino quando sta per spegnersi; gli fa rivivere il Getsemani, il Pretorio, il Calvario, e gli dà la scienza del dolore e dell’umiliazione. L’operaio apostolico parla agli afflitti un linguaggio che li può fare partecipi delle consolazioni attinte a questa scuola sublime.  Egli parla il linguaggio delle virtù di cui Gesù è sempre il modello, perché ciascuna delle sue parole è come una stilla di sangue eucaristico che cade sulle anime; ma se non riflette così la vita eucaristica, la parola dell’uomo di azione non produrrà altro che un effetto momentaneo; si potranno scuotere le facoltà secondarie e si occuperanno gli accessi della piazzaforte, ma la cittadella, cioè il cuore, la volontà, resterà per lo più inespugnabile. – Al grado di vita eucaristica raggiunto da un’anima, quasi sempre corrisponde la fecondità del suo apostolato. Infatti il segno dell’efficacia di un apostolato è l’arrivare a dare alle anime la sete di partecipare con frequenza e praticamente al banchetto divino; ma tale risultato si ottiene soltanto nella misura in cui l’apostolo stesso vive veramente di Gesù sacramentato. Come san Tommaso d’Aquino che si affacciava al santo Tabernacolo, per trovare la soluzione di qualche difficoltà, anche l’apostolo va a confidare tutto all’Ospite divino, e la sua azione sulle anime è l’attuazione delle sue confidenze con l’Autore della vita.  Il santo Pontefice e padre san Pio X, il Papa della comunione frequente, è anche il Papa della vita interiore: Instaurare omnia in Christo (Restaurare tutte le cose in Gesù Cristo – Efes. I, 10), fu la sua prima parola, rivolta specialmente agli uomini di azione: è il programma di un apostolo che vive dell’Eucaristia e che vede i trionfi della Chiesa proporzionati al progresso che fanno le anime nella vita eucaristica. Perché mai le istituzioni dei nostri giorni, così numerose eppure spesso sterili, perché mai non hanno rigenerato la società! Confessiamolo ancora una volta, esse sono assai più numerose che nei secoli passati, eppure non sono riuscite a impedire che l’empietà facesse una terribile strage nel campo del padre di famiglia; e perché? Perché esse non sono state abbastanza innestate sulla vita interiore, sulla vita eucaristica, sulla vita liturgica ben compresa. Gli uomini di azione che le dirigono, si sono potuti far ammirare per la logica, per l’ingegno e anche per una certa quale pietà, sono riusciti a gettare fasci di luce e a far accettare certe pratiche di divozione: risultato certo non spregevole. Ma perché non attingono abbastanza alla sorgente della vita, non hanno potuto comunicare quel calore che muove le volontà. Invano avrebbero voluto far nascere quelle abnegazioni oscure ma irresistibili, quei fermenti attivi delle masse, quei focolari di attrazione soprannaturale che nessun altro mezzo può sostituire e che senza chiasso, ma senza tregua, comunicano l’incendio intorno a sé e penetrano lentamente, ma sicuramente, in tutte le classi di persone a cui possono arrivare. La loro vita in Gesù era troppo debole per ottenere tali risultati. Nei secoli passati, al contagio del male bastava, per preservarne le anime, opporre una pietà ordinaria, ma al veleno di oggi, di una violenza centuplicata, inoculato dagli allettamenti del mondo, bisogna opporre un siero vivificante assai più energico. Per mancanza di laboratori che sappiano produrre dei contravveleni efficaci, le istituzioni o si sono limitate a procurare il fervore del sentimento, un bel fuoco, ma che si spegne quasi appena acceso, oppure non poterono influire che su infime minoranze. Seminari e noviziati non diedero sciami di sacerdoti, di religiosi e religiose abbastanza inebriati del vino eucaristico; perciò il fuoco che per mezzo di queste anime elette si doveva diffondere sui buoni secolari devoti alle istituzioni, è rimasto latente. Certamente si sono dati alla Chiesa apostoli pii, ma assai raramente le si sono dati operai evangelici che avessero, per la loro vita eucaristica, quella pietà integrale di custodia del cuore e di zelo, ardente, attiva, generosa e pratica, che si chiama vita interiore. Si sente alle volte chiamare buona, eccellente, una parrocchia, perché la gente saluta con garbo il sacerdote, gli risponde con deferenza, gli dimostra una certa simpatia, gli rende anche volentieri qualche servizio quando occorre; ma poi la maggior parte lavorano alla domenica invece di assistere alla Messa, i sacramenti sono abbandonati, regna l’ignoranza della religione, l’intemperanza e la bestemmia, e la morale lascia molto a desiderare. Che pietà! Una parrocchia eccellente! Ma si possono chiamare cristiane quelle persone di vita affatto pagana? Operai evangelici, noi che deploriamo questi tristi risultati, perché non siamo andati di più a quella scuola in cui il Verbo ammaestra i predicatori? Perché non abbiamo attinto di più, nell’intimità con Gesù sacramentato, la parola della vita? Dio non ha parlato per bocca nostra, e doveva essere cosi! Non meravigliamoci più che la nostra parola umana sia rimasta quasi sterile. Noi non ci siamo mostrati alle anime come un riflesso di Gesù e della sua vita nella Chiesa. Perché il popolo credesse in noi, bisognava che intorno alla nostra fronte risplendesse qualche cosa di quell’aureola che illuminava Mosè quando scendeva dal Sinai per ritornare dagli Israeliti; quell’aureola era, agli occhi degli Ebrei, la prova dell’intimità del rappresentante, con Colui che lo mandava. Per la nostra missione bisognava che noi apparissimo non soltanto uomini onesti e convinti, ma che un raggio dell’Eucaristia lasciasse intravvedere al popolo quel Dio vivo al quale nessuna cosa può resistere. Retori, tribuni, conferenzieri, catechisti, professori, noi siamo riusciti imperfettamente, perché non riflettevamo in noi l’intimità divina.  Noi apostoli, che ci lamentiamo del cattivo esito delle nostre fatiche, noi che pure sapevamo che in fin dei conti l’uomo ordinariamente è mosso soltanto dal desiderio della felicità, domandiamo a noi medesimi se gli uomini scorsero in noi quel raggio di felicità eterna e infinita di Dio, che avremmo potuto avere dall’unione con Colui il quale, mentre sta nascosto nel tabernacolo, è pure la gioia della Corte celeste. – Egli, il Maestro, non dimenticava questo nutrimento di gioia indispensabile ai suoi Apostoli: Hæc locutus sum vobis ut gaudium meum sit in vobis et gaudium vestrum impleatur (Vi dico queste cose affinchè la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia perfetta – Giov. XV, 11); così Egli dice subito dopo l’ultima cena, per ricordare fino a che punto l’Eucaristia sarà la sorgente di tutte le migliori allegrezze di quaggiù.  Noi, ministri del Signore, per i quali il Tabernacolo fu muto, la preghiera della consacrazione fredda, l’Ostia un memoriale rispettato ma quasi inerte, noi abbiamo dovuto lasciare le anime nelle loro vie perverse: e come avremmo potuto trarle dal fango dei loro piaceri illeciti! Eppure abbiamo parlato delle gioie della religione e della buona coscienza; ma siccome non abbiamo saputo dissetarci alle acque vive dell’Agnello, abbiamo appena saputo balbettare quando parlavamo di quelle gioie ineffabili il cui desiderio, più efficacemente che le nostre parole terribili sull’inferno, avrebbe spezzato le catene della triplice concupiscenza. In Dio che è tutto amore, le anime, per mezzo nostro, videro più che altro il legislatore severo e il giudice inesorabile nei suoi decreti e rigoroso nei suoi castighi. Le nostre labbra non seppero parlare il linguaggio del Cuore di Colui che ama gli uomini, perché i nostri colloqui con quel Cuore erano assai rari e poco intimi. Non gettiamone la colpa sullo stato di profonda demoralizzazione della società, perché vediamo, per esempio, quello che in parrocchie già scristianizzate poté fare la presenza di sacerdoti giudiziosi, attivi, generosi, capaci, ma soprattutto amanti dell’Eucaristia. Nonostante tutti gli sforzi dei ministri di satana, facti diabolo terribiles, attingendo la forza al focolare della forza, al santo Tabernacolo, questi sacerdoti, disgraziatamente troppo rari, seppero temprare armi invincibili che i demoni insieme congiurati non poterono spezzare.  L’orazione presso l’Altare per loro non fu più sterile, perché divennero capaci di comprendere queste parole’ di san Francesco d’Assisi: L’orazione è la sorgente della grazia; la predicazione è il canale che distribuisce le grazie che abbiamo ricevute dal Cielo. I ministri della parola di Dio sono scelti dal gran Re per portare ai popoli quello che essi stessi avranno imparato e raccolto dalla sua bocca, SOPRATTUTTO PRESSO IL SANTO TABERNACOLO. – Un gran motivo di sperar bene è oggi il vedere una generazione di uomini di azione, i quali non si accontentano più di promuovere comunioni di parata, ma sanno facilitare lo sviluppo delle anime di veri comunicanti.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/09/07/lanima-dellapostolato-10/

DA SAN PIETRO A PIO XII (20)

[G. Sbuttoni: da san Pietro a Pio XII, Ed. A.B.E.S. Bologna, 1953]

IL RISORGIMENTO ITALIANO

PREAMBOLO

Come si giunse alla fine del potere temporale

È chiamato « Risorgimento Italiano » l’ultimo periodo della Storia d’Italia, dal 1815 (anno in cui il Congresso di Vienna assicurò all’Austria la preponderanza in Italia) al 1918, nel quale si compirono i voti degli Italiani con la liberazione di Trento e Trieste. L’Italia al Congresso di Vienna salutò con gioia la fine del dispotismo francese, ma dovette subito ricredersi, quando il Mettermenich, soffocando ogni tendenza nazionale, si propose di ridurre la Penisola ad « espressione geografica ».

Le spietate repressioni produssero un rilevantissimo numero di vittime, ma, invece di soffocare, accesero sempre più vivamente l’idea dell’unità nazionale; idea agitata da Giuseppe Mazzini e dai Neoguelfi. – Mazzini [… Cofondatore mondiale del rito massonico Palladico, oggi: P2 –ndr.-] rappresentava l’azione pronta e subitanea e che aveva peccato di precipitazione. Il Neoguelfismo rinnovava le tendenze riformistiche secondo le tradizioni dell’epoca prerivoluzionaria, e questa politica riformatrice fu detta « neoguelfismo », perché in sostanza ripeteva con altra forma e con altri intendimenti l’idea di appoggiare la salvezza d’Italia alla autorità del Papa. Il vero capo del Neoguelfismo fu l’abate torinese Vincenzo Gioberti. Le speranze dei neoguelfi parvero realizzarsi quando, nel luglio 1846, salì al Papato il card. GIOVANNI MASTAI FERRETTI, con il nome di Pio IX. Egli, Coll’Editto del perdono, cosa nuova in quei tempi, concesse amnistìa ai detenuti politici, poi, inebriato dalle manifestazioni popolari organizzate da Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio, accordò libertà di stampa ed istituì una Guardia Civica ed un consiglio chiamato Consulta di Stato. Il 10 marzo del 1848 accordò, come già avevano fatto altri regnanti, la Costituzione. Ma non avendo, come Padre comune, voluto dichiarare guerra all’Austria, divenne impopolare e società segrete [le solite sette di perdizione che non avevano digerito lo smacco napoleonico – ndr.-] ruppero apertamente, a Roma, contro di lui.

Seguì l’assassinio di Pellegrino. Rossi (16 novembre 1848) e quello di Mons. Palma, segretario del Papa; onde Pio IX, pochi giorni dopo, fuggì, travestito, da Roma e riparò a Gaeta (25 novembre 1848). Ritornò, accolto trionfalmente dai Romani, il 12 aprile 1850. Nell’assenza, del Papa era stata proclamata la Repubblica Romana. Il decennio 1849-1859 fu di intensa preparazione al conseguimento dell’unità italiana. Giunti all’annessione di Venezia, mancava Roma. Nella seduta del 27 marzo 1861 il Cavour [altro affiliato alla setta –ndr.-] aveva proclamato alla Camera il diritto su Roma capitale. Il Ricàsoli, successore di Cavour, ma della stessa obbedienza, per aver Roma con le buone, scrisse una lettera a Pio IX, supplicandolo ipocritamente di accontentare gli Italiani. Non avendo ricevuto risposta dal Papa, che « nel potere temporale vedeva l’unica e sicura garanzia della libertà della Chiesa », fece ripetere alla Camera il voto di annessione del 27 marzo.

Nel 1864 il Minghetti stipulò con il governo francese la « Convenzione dì settembre » con cui la Francia s’impegnava a ritirare le sue truppe da Roma entro due anni, e l’Italia si obbligava a rispettare lo Stato Pontificio e a trasportare la capitale da Torino a Firenze. Torino indignata insorse e ci furono 25 morti ed un centinaio di feriti. Il Minghetti dovette lasciare il governo, il suo successore Lamarmora mantenne i patti, e Pio IX, sempre intransigente, pubblicò il famoso « Sìllabo » con cui condannava i principali errori moderni. – Scoppiato il conflitto franco-prussiano le truppe francesi, che presidiavano Roma, furono ritirate, e quando, dopo il disastro di Sédan, si proclamò la repubblica francese, il ministro Lanza credette di agire. Prima di iniziare le ostilità, mandò a Roma il conte Ponza di San Martino con due lettere, una del re per il Papa, l’altra sua per il card. Antonelli. Ottenuto in risposta un « non possumus», il ministro ordinò al Gen. Raffaele Cadorna [dimostratosi in altre circostanze un incapace] di ricorrere alle armi. Fatta la breccia di Porta Pia [una vigliaccata operata in assenza della guarnigione francese, ma d’altra parte i soggetti erano quelli più vili della loggia … -ndr-], il Papa, dopo una breve e, più che altro, simbolica resistenza, ordinò ai suoi soldati di cessare il fuoco: e i soldati di Vittorio Emanuele entrarono in città. Era il 20 settembre 1870. Il 2 ottobre con un plebiscito Roma fu annessa all’Italia. Il Potere Temporale, dopo quindici secoli e mezzo, era finito; il governo nel 1871 si trasferì a Roma e il re pose la sua sede nel Quirinale. [Questo misfatto l’Italia lo ha cominciato a pagare con due guerre mondiali disastrose, una dittatuta fascista ed una criptomasso-comunista ancora in corso, ed il bello deve ancora arrivare …- ndr.- ]. La camera approvò la « legge delle Guarentigie », mai accettata, perché unilaterale, dal Papa. – La Questione Romana, cominciata ora con Pio IX, ebbe fine con un altro Pio, Pio XI, l’11 febbraio 1929. Abrogata la Legge delle Guarentigie, l’Italia riconobbe la piena potestà del Pontefice sullo Stato della Città del Vaticano; dal canto suo la S. Sede accettò quel dominio ridotto che le si volle dare e così al « regime di separazione tra Stato e Chiesa fu sostituito quello di cooperazione », restando ognuno « con i suoi diritti e con i suoi doveri, con le sue potestà e con i suoi confini). I Patti Lateranensi dell’ 11 febbraio 1929 vennero pure riconosciuti ed accettati dalla nuova [massonica] Costituzione Italiana.

* * *

1 – PIO IX

D. Quando cominciarono i primi moti per l’unificazione d’Italia?

— Durante il pontificato di Gregorio XVI, che durò dal 1831 al 1846.

D. Chi fu il successore di Gregorio XVI?

— Fu Pio IX, che iniziò il suo pontificato con l’amnistia ai colpevoli di ribellione contro lo Stato. Il suo gesto fu applaudito.

D. Continuarono tanto gli applausi?

— Non molto. Cessarono al netto rifiuto ch’egli oppose ai tentativi che le società segrete combinavano per indurlo a dichiarare-guerra all’Austria. Anzi si gridò perfino al tradimento. Per evitare mali maggiori, si rifugiò per 16 mesi a Gaeta, dove continuò alacremente a lavorare per il bene della Chiesa Universale.

D. Che avveniva intanto a Roma?

— L a proclamazione della Repubblica Romana con a capo il triumvirato [massonico] — Mazzini, Saffi, Armellini — i quali, dopo aver dichiarato decaduto il Papa, commisero ogni sorta di ribalderie.

D. Durò molto questo stato di cose?

— Finché, dopo la sconfitta di Novara (23 marzo 1849), gli Austriaci occuparono il Nord dello Stato della Chiesa e i Francesi la città di Roma, nella quale Pio IX rientrò trionfalmente il 12 aprile 1850.

D. A chi attribuì il Papa la protezione goduta durante l’esilio e il ritorno alla capitale?

— Alla Vergine Maria, e in segno di gratitudine l’8 dicembre 1854 ne proclamava solennemente 1′ «IMMACOLATA CONCEZIONE», confermata, quattro anni dopo, dalle prodigiose apparizioni di Lourdes.

2 – L’ATTACCO ALLO STATO PONTIFICIO

D. Chi fu l’anima dell’unificazione d’Italia?

— Il conte di Cavour [burattino del gran maestro massone 33° inglese lord Palmerston] il quale, ottenuto di unirsi alla Francia e all’Inghilterra nella spedizione di Crimea, nel 1856 poté parlare della questione italiana al congresso di Parigi; nel luglio 1858, nel convegno di Plombières, poté concludere l’alleanza con la Francia, ottenendone l’aiuto per l’imminente guerra contro l’Austria, nonché libertà d’azione [cioè di razziare] nell’Italia centrale e meridionale, finché il 14 marzo 1861 fu proclamato il Regno d’Italia.

D. Quale fu la politica del nuovo regno?

— Si mantenne sopra un piano ostile alla Chiesa, da prima con il proporre al Papa la rinuncia alla sovranità territoriale, poi, nel 1866, con la legge che proclamava l’abolizione degli Ordini Ecclesiastici e la confisca dei loro beni.

D. Che scriveva, in seguito a questi fatti, il francese Montalembert?

— A proposito dell’aforisma « Libera Chiesa in libero Stato », rinfacciava a Cavour: « In ogni angolo della vostra dominazione vediamo la Chiesa ostacolata, gli scrittori cattolici incarcerati, i Vescovi esiliati, i giornali cattolici rovinati, i conventi chiusi, le monache strappate alle celle ». Così si verificava il « libera Chiesa… ». [ma gli ordini delle logge erano questi … povero Cavour! – ndr.-)

D. Che avvenne ancora alla fine del 1866?

— Dopo che le truppe francesi abbandonarono Roma, nonostante gl’impegni presi nella convenzione del settembre 1864, Garibaldi, in segreta intesa con il governo, si gettò sullo Stato della Chiesa. La Francia però inviò truppe, che a Mentana sconfissero Garibaldi [… che era un rozzo sanguinario incapace di qualsiasi azione militare degna di questo nome – ndr. -] e Roma restò ancora alla Chiesa.

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (8)

R. P. CHAUTARD D. G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (8)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B.8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE TORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE QUARTA (1)

Fecondità che deriva all’azione dalla vita interiore

La vita interiore è condizione necessaria perché l’azione sia feconda

Facendo astrazione da quella ragione di fecondità che i teologi chiamano ex opere operaio, e considerando soltanto quella che risulta ex opere operantis, ricordiamo che se l’apostolo avvera in sè il Qui manet in me et ego in eo, la fecondità della sua azione voluta da Dio è assicurata: Hic fert fructum muh tum (Colui che rimane in me e nel quale io rimango, porta molto frutto (Giov. XV, 5). Tale è la logica evidente di questo testo, ed è superfluo, dopo questa autorità, il provare la tesi: ci limiteremo a confermarla con i fatti.  Per più di trentanni ebbi modo di seguire da lontano le vicende di due orfanotrofi di giovinette, diretti da due Congregazioni diverse. L’uno e l’altro ebbero un periodo di manifesta decadenza. Perché negarlo! Di sedici orfanelle raccolte tutte nelle stesse condizioni e che avevano lasciato l’istituto appena maggiorenni, tre che erano uscite da uno degli istituti e due uscite dall’altro, in un tempo da otto a quindici mesi, erano passate dalla comunione frequente allo stato più degradante della scala sociale. Delle altre undici una sola era rimasta profondamente cristiana; eppure tutte, alla loro uscita, avevano avuto un collocamento serio.  In uno dei due orfanotrofi, soltanto la superiora fu cambiata undici anni fa, e sei mesi dopo già si vedeva una radicale trasformazione nello spirito della casa.  La stessa trasformazione si vide tre anni dopo nell’altro istituto, perché, restando le stesse superiore e le stesse suore, si era cambiato il loro cappellano. Da quel tempo in poi, neppure una di quelle povere fanciulle uscite maggiorenni dai due istituti fu travolta nel fango da Satana, ma tutte, senza eccezione, sono rimaste buone cristiane. La ragione di tali risultati è molto semplice: alla testa della comunità o nel confessionale non vi era una direzione interiore abbastanza soprannaturale, e ciò bastava a rendere vana o almeno insufficiente l’azione della grazia. L’antica superiora in un caso e l’antico cappellano nell’altro, persone sinceramente pie, ma senza una seria vita interiore, non avevano un’azione profonda e duratura: era una pietà sentimentale, pietà fatta dell’ambiente, pietà a scatti, che consisteva tutta in pratiche e in abitudini, nè poteva lasciare convinzioni profonde, ma dava soltanto un amore senza calore e virtù senza radici. Era una pietà fiacca, tutta apparenza e smorfie o di pura abitudine; una falsa pietà che fa delle buone ragazze incapaci di darvi fastidio, smorfiose che vi sanno fare la riverenza, ma senza carattere e guidate dalla sensibilità e dalla fantasia; pietà incapace di dare un vasto orizzonte di vita cristiana e di formare donne forti, preparate alla lotta, e capace appena di trattenere le povere fanciulle a languire nelle loro gabbie, sospirando il giorno in cui ne potranno uscire. Ecco quanto di vita cristiana avevano potuto far germogliare gli operai evangelici che non conoscevano quasi nulla della vita interiore! In quelle due comunità si cambia una superiora e un cappellano, e subito ogni cosa cambia aspetto. Come è meglio compresa la preghiera e come sono più fecondi i sacramenti! Che contegno diverso in cappella e persino al lavoro e nelle ricreazioni! Cambiamento radicale che è dimostrato dall’analisi e che si vede nella gioia serena, nello slancio, nell’acquisto delle virtù e nel desiderio intenso di vocazione religiosa in alcune di quelle anime. A che cosa si deve attribuire tale cambiamento? La nuova superiora e il nuovo cappellano erano anime di vita interiore! Certamente in molti collegi, convitti, ospedali, patronati e persino in parrocchie, comunità e seminari, l’osservatore attento avrà dovuto attribuire simili effetti alle stesse cause. Ascoltiamo san Giovanni della Croce: « Gli uomini smaniosi di azione, i quali credono di poter sconvolgere il mondo con la loro predicazione e con le altre opere esteriori, riflettano un momento. Essi comprenderanno facilmente che sarebbero assai più utili alla Chiesa e più cari a Dio, senza contare il buon esempio che darebbero, se dedicassero più tempo all’orazione e agli esercizi della vita interiore. « In tali condizioni essi farebbero con un’opera sola UN BENE MAGGIORE e con minor fatica, che non ne facciano con mille altre in cui spendono la loro vita. L’orazione meriterebbe loro questa grazia e otterrebbe loro le forze spirituali di cui abbisognano per produrre tali frutti. Senza di essa, tutto si riduce a un gran chiasso; è il martello che cadendo sull’incudine desta tutti gli echi all’intorno; si fa poco più che nulla, spesso assolutamente nulla o persino del male! Dio ci liberi da una tale anima se avviene che si gonfi di superbia! Invano le apparenze sarebbero in suo favore; la verità è che essa non farà nulla, perché è assolutamente certo che nessun’opera buona si può fare senza la virtù di Dio. Quante cose si potrebbero scrivere a questo riguardo, per coloro che trascurano l’esercizio della vita interiore e aspirano alle opere clamorose, capaci di metterli in vista e di farli ammirare dalla gente! Costoro non conoscono affatto la sorgente di acqua viva, la fonte misteriosa che fa fruttificare tutto!» (Cant. Spirit. str. XXIX.) La vita interiore attira le benedizioni di Dio). Alcune parole di questo Santo sono energiche come l’espressione maledette occupazioni di san Bernardo, citata poco fa. Non si può dire che siano esagerate, se si ricorda che le doti più ammirate da Bossuet in san Giovanni della Croce, sono il perfetto buon senso, lo zelo nel mettere in guardia contro il desiderio delle vie straordinarie per giungere alla santità, e una precisione esatta nell’esprimere pensieri assai profondi.  Proviamoci di studiare alcune delle cause della fecondità della vita interiore. 

a) La vita interiore attira le benedizioni di Dio

Inebriato animam sacerdotum pinguedine et populus meus bonis meis adimplebitur (Impinguerò l’anima dei sacerdoti, e il mio popolo sarà ricolmato dei miei beni – GER. XXXI, 14). Osserviamo come siano legate fra loro le due parti di questo testo: Dio non dice già: Io darò ai miei sacerdoti più di zelo, più d’ingegno, ma dice: Io inebrierò la loro anima. E questo non vuol dire altro che: Io li riempirò del mio spirito, darò loro grazie elette, e così il mio popolo riceverà la pienezza dei miei beni. Dio avrebbe potuto distribuire la sua grazia a suo talento, senza tener conto né della pietà del ministro nè delle disposizioni dei fedeli: così fa nel battesimo dei bambini; ma secondo la legge ordinaria della sua Provvidenza, questi due elementi diventano la misura dei doni celesti. Sine me nihil potestis facete(Senza di me non potete fare nulla (Giov. XV, 5); questo è il principio. Sul Calvario fu sparso il Sangue redentore: in che modo Dio ne assicurerà la prima efficacia? Con un miracolo della diffusione della vita interiore. Non vi era nulla di più limitato, che l’ideale e lo zelo degli Apostoli prima della Pentecoste: lo Spirito Santo li trasforma in uomini interiori, e subito la loro predicazione opera prodigi. Dio non rinnoverà più ordinariamente il miracolo del Cenacolo; lascerà d’allora in poi le grazie della santificazione alle prese con la libera e faticosa corrispondenza della sua creatura; ma fissando con la Pentecoste la data ufficiale della nascita della Chiesa, Egli ci fa capire che i suoi ministri devono premettere la loro santificazione personale alla loro opera di corredentori.  Perciò tutti i veri operai apostolici molto più si attendono dai loro sacrifici e dalle loro preghiere, che non dallo spiegamento di tutta la loro attività. Il P. Lacordaire stava per molto tempo in orazione prima di salire in pulpito e, rientrato nella sua cella, si faceva flagellare. II P. Monsabré, prima di predicare a Notre-Dame, recitava il Rosario intero, in ginocchio, e ad un amico che gliene domandava il perchè, rispondeva scherzando: «Prendo la mia ultima infusione». Questi due religiosi vivevano entrambi di questo principio enunziato da san Bonaventura: I segreti di un apostolato fecondo si attingono assai più ai piedi del Crocifisso, che non nello spiegare belle doti. Manent tria haec: verbum- exemplum et oratio; maior autem his est oratio(Restano queste tre cose: la parola, l’esempio e la preghiera; ma la più grande delle tre è la preghiera), esclama san Bernardo. Parola grave, ma che commenta soltanto la risoluzione presa dagli Apostoli, di lasciare certe opere per potersi applicare soprattutto alla preghiera: Orationi, e soltanto dopo al ministero della parola: Ministerio verbi (Act. VI, 4). Abbiamo noi notato abbastanza, a questo riguardo, l’importanza principale che il Salvatore dà a questo spirito di preghiera? Gettando uno sguardo sul mondo e sui secoli futuri e vedendo la moltitudine delle anime chiamate a godere dei frutti del Vangelo, Egli esclama con tristezza: La messe è abbondante, ma sono pochi i mietitori! Messis quidem multa, operarii autem pauci (Matt. IX, 37). Che cosa propone Egli come mezzo più rapido per propagare la sua dottrina? Domanderà ai suoi discepoli che frequentino le scuole di Atene o che vadano a studiare presso i Cesari di Roma, in che modo si conquistino e si amministrino gl’imperi?… O uomini di zelo, ascoltate il Maestro: egli ci rivela un programma, un principio di luce! Rogate ergo Dominum messis ut mittat operarios in messevi suam (Andate dunque e insegnate… predicate – MATT. X, 7). Non ricorda le organizzazioni sapienti, non i mezzi da procurarsi, non le chiese da fabbricare, non le scuole da aprire: rogate ergo! La preghiera, lo spirito di orazione, questa è la verità fondamentale ripetuta dal Maestro; il resto verrà da sé. Rogate ergo! Se il timido mormorio della supplica di un’anima santa è più capace di suscitare legioni di apostoli, che non la voce eloquente di chi va in cerca di vocazioni con meno di spirito di Dio, che cosa dobbiamo conchiudere? Che lo spirito di preghiera, il quale nel vero apostolo è pari allo zelo, è la ragione principale della fecondità del suo lavoro.  Rogate ergo! Dunque prima di tutto pregate; soltanto dopo, il Signore aggiunge: Euntes docete… prædicate (Andate dunque e insegnate… predicate – MATT. X , 7). Certamente Dio si gioverà di quest’altro mezzo; ma le benedizioni che danno la fecondità al ministero, sono riservate alla preghiera dell’uomo di orazione: preghiera così potente, da far uscire dal seno di Dio gli effluvi ardenti di un’azione irresistibile sulle anime. Anche la gran voce di san Pio X mette in rilievo la tesi di questo modesto lavoro:  Per restaurare ogni cosa nel Cristo per mezzo dell’apostolato dell’azione, ci vuole la grazia divina, e l’apostolo non la riceve se non è unito a Gesù Cristo. Soltanto quando avremo formato Gesù Cristo in noi, potremo facilmente restituirlo alla famiglia e alla società. Dunque tutti quelli che partecipano all’apostolato, devono avere una vera pietà (Enciclica di Pio X ai Vescovi d’Italia, 11 giugno 1905).  Quello che diciamo della preghiera, si applica pure all’altro elemento della vita interiore, al patimento, cioè a tutto quello che urta la natura, tanto dentro che fuori.  Si può soffrire come un pagano, come un dannato o come un santo; ma per soffrire davvero con Gesù Cristo bisogna cercare di soffrire da santo. Allora il dolore serve al nostro profitto personale e all’applicazione del mistero della Passione sulle anime: Adimpleo ea quae desunt passionum Christi, in carne mea, prò corpore eius quod est Ecclesia (Quello che manca al patimenti di Gesù Cristo nella mia carne, io lo compio per il suo corpo che è la Chiesa – Coloss. I, 24). — Impletæ erant, dice sant’Agostino, commentando questo testo, impletæ erant omnes, sed in capite, restabant adhuc passiones Christi in memòrie. I patimenti di Gesù Cristo erano completi, ma soltanto nel capo: mancavano ancora i patimenti di Gesù Cristo nelle sue membra mistiche. Præcessit Christus in capite: il Cristo soffri, ma come capo, sequitur in corpore: ora tocca al suo corpo mistico di soffrire. Ogni sacerdote può dire: Questo corpo sono io; io sono un membro di Gesù Cristo, e quello che manca ai patimenti di Gesù Cristo dev’essere da me completato per il suo corpo che è la Chiesa.  Il dolore, dice il P. Faber, è il più grande dei sacramenti. Questo profondo teologo ne mostra la necessità e ne deduce le glorie, e tutti i suoi argomenti si possono applicare alla fecondità dell’azione per mezzo dell’unione dei sacrifici dell’operaio evangelico con il Sacrificio del Calvario, cioè con la  loro partecipazione all’infinita efficacia del Sangue divino.

b) Rende l’apostolo santificatore col suo buon esempio

Nel discorso della Montagna, il Maestro chiama i suoi Apostoli sale della terra, luce del mondo (MATT. V . 3).  Noi siamo sale della terra nella misura della nostra santità. Il sale insipido a che cosa serve? Ab immundo quid mundabiturt (Da quello che è impuro, che cosa può essere purificata? (Eccl. XXXIV, 4). Non serve che ad essere buttato via e calpestato.  L’apostolo pio invece, vero sale della terra, sarà come un valido agente di conservazione in mezzo a questo mare di corruzione che è la società umana. Faro luminoso nella notte, lux mundi, lo splendore del suo esempio, più ancora che della sua parola, dissiperà le tenebre accumulate dallo spirito del mondo e farà risplendere l’ideale della vera felicità, tracciato da Gesù nelle otto Beatitudini. Ciò che meglio può condurre i fedeli a una vita cristiana è appunto la virtù di colui che ha la missione d’insegnarla; le sue debolezze invece allontanano da Dio in modo quasi irresistibile: Nomen Dei per vos blasphematur inter gentes (Per voi, il nome di Dio è bestemmiato in mezzo alle nazioni – Rom. II, 24). Perciò l’apostolo deve più spesso avere in mano la fiaccola del buon esempio, che non le belle parole sulle labbra e deve egli stesso per il primo praticare esattamente le virtù che va insegnando: Chi ha la missione di dire grandi cose, dice san Gregorio, appunto per questo deve farne di somiglianti (Qui enim sui loci necessitate exigitur summa dicere, hac eadem necessitate compellitur summa monstrare (S. GREGORIO, Pastor, 2 p., c III).  Giustamente si osserva che il medico del corpo può curare i suoi ammalati anche se egli stesso non gode di buona salute: ma per guarire le anime, bisogna avere l’anima sana, perché in questo caso si dà qualche cosa di se stesso. Gli uomini hanno il diritto di essere esigenti verso chi pretende d’insegnare loro a riformare se stessi, e vedono subito se vi è conformità tra la parola e la condotta, oppure se la morale di cui si fa bella mostra non è che una maschera; secondo il risultato del loro esame, essi danno o negano la loro fiducia.  – Qual potenza avrà il sacerdote nel parlare della preghiera, se il popolo lo vede spesso in colloquio con l’Ospite troppo abbandonato del santo Tabernacolo! Come sarà ascoltata la sua parola, se predicando il lavoro, la penitenza, egli stesso è laborioso e mortificato! Quando predicherà la carità fraterna, egli troverà dei cuori attenti se, cercando di diffondere nel suo gregge il buon odore di Gesù Cristo, rispecchierà nella sua condotta la dolcezza e l’umiltà del divino Modello: forma gregis ex animo (Modello del gregge – I PIET. V , 3 ).  Il professore senza vita interiore crede di aver fatto tutto il suo dovere, se svolge unicamente un programma di esame; ma se avesse vita interiore, una frase sfuggita dalle sue labbra o dal suo cuore, una commozione espressa nel volto, un gesto espressivo — che dico? — la sola sua maniera di fare il segno di croce, di dire la preghiera prima o dopo la scuola, fosse pure una lezione di matematica, potrebbero agire sopra i suoi allievi più che una predica.  – La suora dell’ospedale o dell’orfanotrofio possiede un potere e dei mezzi efficaci per far germogliare nelle anime, pure restando prudentemente nel suo campo, un profondo amore di Gesù Cristo e dei suoi insegnamenti. Ma se non ha la vita interiore, non sospetterà neppure quel potere o non riuscirà che a promuovere atti puramente esteriori di pietà e nulla più.  Il Cristianesimo si è diffuso non tanto con frequenti e lunghe discussioni, quanto con lo spettacolo dei costumi cristiani così opposti all’egoismo, all’ingiustizia e alla corruzione dei pagani. Il cardinale Wiseman, nel suo bellissimo libro Fabiola, mostra quanto fosse potente l’esempio dei primi Cristiani sulle anime pagane più maldisposte contro la nuova religione. In quel racconto seguiamo la marcia progressiva e quasi irresistibile verso la luce. I nobili sentimenti, le virtù modeste o eroiche che la figlia di Fabio incontra in certe persone di ogni condizione, s’impongono alla sua ammirazione; ma quale mutamento si opera in lei, quale rivelazione per la sua anima, quando scopre successivamente che tutti coloro dei quali essa ammira la carità, il sacrificio, la modestia, la dolcezza, la moderazione, il culto della giustizia e della castità, appartengono a quella setta che le fu sempre descritta come esecrabile! Da quel momento essa è cristiana.  Terminata la lettura del bel racconto, si è obbligati a dire: Ah! se i cattolici, se i loro uomini di azione avessero almeno un po’ di quello splendore di vita cristiana descritto dall’illustre Cardinale, e che pure non è altro che la pratica del Vangelo! Come sarebbe allora irresistibile il loro apostolato su quei pagani moderni, troppo spesso prevenuti contro il Cattolicesimo dalle calunnie dei settari, dal carattere aspro delle nostre polemiche o da una maniera di rivendicare i nostri diritti, che sembra derivare piuttosto dall’orgoglio ferito, che non dal desiderio di difendere gl’interessi di Gesù! O quanto è potente l’irradiazione esterna di un’anima unita a Dio! Nel vedere il P. Passerat a celebrare la Messa, il giovane Desurmont si decide a entrare nella congregazione del SS. Redentore che deve poi illustrare tanto. Il popolo ha delle intuizioni sicure: se predica un uomo di azione cessa di corrispondere a ciò che da lui si attende, l’opera sua, per quanto abilmente condotta, viene compromessa e forse va a irrimediabile rovina.  Videant opera vestra bona et glorìficent Patrem (Vedano le vostre opere buone e diano gloria al Padre – MATT. V, 16), diceva Gesù Cristo. Il buon esempio è continuamente raccomandato da san Paolo ai due suoi discepoli Tito e Timoteo: In omnibus teipsum præbe exemplum bonorum operum (Mostrati in tutto modello di opere buone – Tit. II, 7). Exemplum esto fldelium in verbo, in conversatione, in charitate, in fide, in castitate (Sii modello ai fedeli nella parola, nella condotta, nella carità, nella fede, nella castità – I Tim. IV, 12). Egli stesso esclama: Quæ vidistis in me, hæc agite (Praticate quello che avete veduto in me – Filipp. IV, 9). Imitatores mei estote sicut et ego Christi (Siate miei imitatori, come io sono imitatore del Cristo (I Cor., XI, 1). E la sua parola di verità si appoggia su quella sicurezza e quello zelo che non escludevano l’umanità e che facevano dire a Gesù Cristo: Quis ex vobis arguet me de peccato? – Chi di voi mi convincerà di peccato? (Giov. VIII, 45).  A tale condizione, seguendo le tracce di Colui del quale è scritto: Cœpit facete et docere (Cominciò a fare e a insegnare – Atti I, 1), l’apostolo diventerà operatium inconfusibilem (Un operaio che non deve arrossire – II Tim. II, 15). Leone XIII diceva: Soprattutto, figli carissimi, ricordatevi che la condizione indispensabile del vero zelo e il pegno migliore di riuscita è la purezza e la santità della vita (Enciclica di Leone XIII, 8 settembre 1899). Un uomo santo, perfetto e virtuoso, dice santa Teresa, fa realmente un maggior bene alle anime, che non molti altri i quali siano soltanto istruiti e di miglior ingegno. – Selo spirito non è regolato da una condotta veramente cristiana e santa, dice san Pio X, sarà difficile muovere gli altri al bene. E soggiunge: Tutti quelli che sono chiamati all’azione cattolica, devono essere uomini di una vita tanto esente da ogni macchia, che possano servire a tutti di esempio efficace (Enciclica di Pio X ai Vescovi d’Italia, 11 giugno 1905).

c) Produce nell’apostolo l’Irradiamento soprannaturale. Quanto è efficace questo irradiamento.

Uno dei più seri ostacoli alla conversione di un’anima è che Dio è un Dio nascosto: Deus absconditus (Is. XLV, 15).

Però, per effetto della sua bontà, Dio si svela in qualche modo per mezzo dei suoi Santi e anche per mezzo delle anime fervorose. Il soprannaturale traspira così agli occhi dei fedeli che scorgono qualche cosa del mistero di Dio.  Che cosa è dunque questa diffusione del soprannaturale? Non sarebbe esso lo splendore della santità, lo splendore dell’influsso divino che la teologia chiama brevemente grazia santificante, o meglio ancora forse il risultato dell’ineffabile presenza delle Persone divine nelle anime da esse santificate! San Basilio non la spiegava diversamente: quando lo Spirito Santo – egli dice – si unisce alle anime purificate dalla sua grazia, le rende più spirituali; come il sole rende più risplendente il cristallo che tocca e penetra col suo raggio, lo Spirito santificatore rende più luminose le anime in cui abita, e per la sua presenza esse diventano come focolari che diffondono intorno a sé la grazia e la carità (De Sp. Sancto, c. IX, n. 23). Questa manifestazione del DIVINO, che appariva in un gesto epersino nel riposo dell’Uomo-Dio, la vediamo in certe anime dotate di una più intensa vita interiore. Le conversioni meravigliose operate da certi Santi con la fama delle loro virtù, le migliaia di aspiranti a vita perfetta, i quali venivano a chiedere di seguirli, dicono chiaramente il segreto del loro silenzioso apostolato. Cosi con sant’Antonio si popolano i deserti dell’Oriente; per opera di san Benedetto sorge la falange innumerevole di Santi religiosi che civilizzano l’Europa; un’influenza non più vista è esercitata da san Bernardo nella Chiesa, sui re e sui popoli; san Vincenzo Ferreri eccita al suo passaggio un entusiasmo indescrivibile di innumerevoli moltitudini e più ancora determina la loro conversione; al seguito di sant’Ignazio sorge quell’esercito di valorosi, un solo dei quali, il Saverio, basta a rigenerare una incredibile quantità di pagani. Soltanto l’irradiamento della potenza di Dio stesso attraverso strumenti umani può spiegare tali miracoli. Che disgrazia quando tra le persone che sono a capo di istituzioni importanti non ve n’è nessuna veramente interiore! Il soprannaturale sembra eclissato, e la potenza di Dio è come incatenata; allora, come c’insegnano i Santi, un paese decade, e sembra che la Provvidenza lasci ai cattivi ogni potere di nuocere. Le anime, non dimentichiamolo, percepiscono come per istinto e senza neppure definire chiaramente quello che provano, questa irradiazione del soprannaturale; perciò vedete come volentieri viene a prostrarsi ai piedi del sacerdote e ad implorarne il perdono, il peccatore che riconosce Dio stesso nel suo rappresentante! E invece dal giorno in cui il concetto integrale della santità cessa di essere l’ideale necessario del ministro di una setta cristiana, questa si trova infallantemente costretta ad abolire la confessione. – Joannes quidem signum fedi nullum (Giovanni non fece nessun miracolo – Giov. X, 41).). Senza fare miracoli, Giovanni attrae le moltitudini. La voce del santo Curato d’Ars era troppo esile per giungere alla folla che si pigiava intorno a lui; ma se poco lo udivano, lo vedevano; vedevano un uomo che portava Dio in sé, e quella sola vista soggiogava i presenti e li convertiva. A un avvocato che ritornava da Ars, fu domandato da che cosa fosse stato colpito, ed egli rispose: Io ho veduto Dio in un uomo. – Ci sia permesso di riassumere tutto con una similitudine un po’ volgare: è noto questo esperimento di fisica: una persona posta sopra un isolatore è messa in comunicazione con una macchina elettrica; il suo corpo si carica di fluido e, se viene toccata, manda una scintilla che dà una scossa a chi la tocca. Lo stesso avviene nell’uomo di vita interiore: quando è staccato dalle creature, si stabilisce tra Gesù e lui una comunicazione incessante, come una corrente continua; l’apostolo diventa un accumulatore di vita soprannaturale condensa in sé un fluido divino che varia e si adatta alle circostanze e a tutti i bisogni del centro in cui agisce. Virtus de illo exibat et sanabat omnes (Usciva da lui una forza che guariva tutti (Lue. VI» 19). Parole ed azioni in lui non sono più altro che effluvi di quella forza latente, ma capace di rovesciare gli ostacoli, di ottenere conversioni, di accrescere il fervore. Quanto più vi sono in un cuore le virtù teologali, tanto più tali effluvi aiutano a far nascere le stesse virtù nelle anime.

CON LA VITA INTERIORE L’APOSTOLO IRRADIA LA FEDE. —

La presenza di Dio in lui è manifesta alle persone che lo ascoltano.  Come san Bernardo del quale si dice: Solitudine cordis circumferens ubique solus erat, egli si isola dagli altri e cosi si forma una solitudine interiore, ma s’indovina che egli non è solo, che ha nel cuore un ospite misterioso e intimo col quale ogni momento egli viene a discorrere, che parla secondo la sua direzione, i suoi consigli, i suoi ordini. Si sente che egli è sostenuto e guidato da lui e che le parole che escono dalla sua bocca sono l’eco fedele di quelle del Verbo interiore: Quasi sermones Dei (I PIET. IV, 11). Allora non apparisce tanto la logica e la forza degli argomenti, quanto piuttosto il Verbo interiore, il Verbum docens che parla per bocca della sua creatura: Verba quæ ego loquor vobis, a meipso non loquor; Pater autem in me manens, ipse facit opera (Le parole che dico a voi non le dico da me; il Padre che dimora in me fa queste opere (Giov. XIV, 10). È un’influenza profonda e duratura, assai più profonda che l’ammirazione superficiale o la divozione passeggera che può far nascere l’uomo privo di spirito interiore. Questi potrà far dire al suo uditore: «Questa cosa sembra vera e importante»; ma questo sentimento è di per sè affatto insufficiente a condurre alla fede soprannaturale e a far vivere di questa fede.  – Fra Gabriele, converso trappista (La vita di questo capitano dei dragoni il quale, nel 1870, nella battaglia di Gravellotte fece voto di ritirarsi nella Trappa, dove volle stare come semplice converso, è narrata nel bel libro Du champ de bataille & la Trappe (Perrin et Cie ed.), nell’esercizio delle umili funzioni di vice-forestieraio, ravvivava la fede di molti visitatori assai più che non avrebbe fatto un sacerdote dotto, ma  il cui linguaggio parla meno al cuore ohe alla mente. Il generale de Miribel veniva talora a trattenersi con l’umile frate e si compiaceva nel ripetere: Vengo a ritemprarmi nella fede.  Non si predicò mai, né si discusse, né si scrissero dotti libri apologetici quanto ai nostri giorni, e forse, almeno considerando soltanto la massa dei fedeli, non fu mai meno viva la fede. Troppo spesso coloro che hanno la missione d’insegnare, sembra che vedano nell’atto di fede un solo atto dell’intelligenza, mentre esso dipende pure dalla volontà; dimenticano che il credere è un dono soprannaturale e che t ra la percezione dei motivi di credibilità e l’atto di fede definitivo corre un abisso. Dio solo e la buona volontà di colui che viene istruito, colmano quell’abisso, ma quanto aiuta a colmarlo il riflesso della luce divina prodotto dalla santità di colui che insegna!

IRRADIA LA SPERANZA. —- L’uomo di orazione non può fare a meno d’irradiare la speranza: la sua fede lo ha stabilito per sempre nella convinzione, che la felicità si trova soltanto in Dio. E allora come è convincente la sua parola, quando parla del cielo, e di quali mezzi dispone per consolare! Il mezzo migliore per farsi ascoltare dagli uomini, è di offrire loro il segreto di portare allegramente la croce che è la porzione di ogni mortale. Insieme con l’Eucaristia, la speranza del cielo racchiude tale segreto. Come è viva la parola confortatrice dell’uomo il quale può, senza mentire, applicare a se stesso il detto: Nostra conversatio in cœlis est! (La nostra conversazione è in cielo – Filipp. III, 20). Altri potrà forse con più parole e con più retorica parlare delle gioie della patria celeste, ma i suoi discorsi saranno senza frutto. Una parola del primo, parola convincente e rivelatrice dello stato dell’anima di chi la dice, varrà a calmare quel turbamento, a confortare quel dolore, a far accettare con rassegnazione una pena straziante. La virtù poi della speranza, dall’uomo interiore si è comunicata irresistibilmente a un’anima che forse non ne era stata mai riscaldata e che stava per cadere nella disperazione.

IRRADIA LA CARITÀ. — L’anima che si vuole santificare, desidera soprattutto di possedere la carità; lo scopo dell’uomo interiore è la compenetrazione di Gesù e dell’anima, il Manet in me et ego in eo. Ipredicatori esperti sono unanimi nel riconoscerlo: se le prime prediche sulla morte, sul giudizio, sull’inferno, sono indispensabili e sempre salutari in un ritiro spirituale o in una missione, la predica sull’amore di Gesù Cristo ordinariamente produce un’impressione ancora più salutare; se è fatta da un vero apostolo capace d’infondere negli uditori i sentimenti che lo animano, essa è di sicuro effetto e opera le conversioni.  Quando si tratta di togliere un’anima dalla colpa o di condurla dal fervore alla perfezione, l’amore di Gesù è la leva più potente. Il Cristiano immerso nel fango del peccato, ma capace di scorgere nel suo simile un amore ardente, acceso alle realtà invisibili, e che d’altra parte consideri la delusione e il vuoto degli amori terreni, incomincia a sentirsi disgustato del peccato; egli ha compreso qualche cosa di Dio, qualche cosa dell’immenso amore di Gesù per la sua creatura; ha sentito in se un sussulto della grazia latente del suo battesimo e della sua prima comunione. Gesù gli si è presentato vivo, perché le tenerezze del suo Cuore trasparivano dal volto e dalla voce del suo ministro. Egli ha intravveduto un altro amore, un amore nobile, puro, ardente, e si è detto: Dunque è possibile quaggiù amare con un amore più forte che quello delle creature. Ancora qualche manifestazione più intima del Dio-Amore per mezzo del suo araldo, e l’anima uscirà dal fango in cui era immersa, e non la spaventeranno più i sacrifici necessari per acquistare il tesoro dell’amore divino a lei quasi sconosciuto prima di allora. Anche senza svolgere di più questo pensiero, già si vede abbastanza quali aumenti di amore, e perciò quale progresso, può il vero pastore assicurare nelle anime già uscite dal peccato o già fervorose. Anche gli uomini di azione non rivestiti del sacerdozio faranno nascere intorno a sé, con la loro carità ardente, la più eccellente delle virtù teologali.

IRRADIA LA BONTÀ. — Lo zelo che non è caritatevole, direbbe san Francesco di Sales, deriva da carità non vera. Un’anima che gusti, per mezzo dell’orazione, la soavità di Colui che la Chiesa chiama bonitatis oceanus (Oceano di bontà), arriva a trasformarsi; ancorché fosse naturalmente portata all’egoismo e alla durezza, tutti questi difetti scompariranno a poco a poco. Nutrendosi di Colui nel quale appare la benignità di Dio sul mondo: benignitas et humanitas apparuit Salvatoris nostri Dei (Apparve la benignità e l’umanità di Dio nostro Salvatore (Tit. III, 4), di colui che è l’immagine, l’espressione giusta della Bontà divina: imago Bonitatis illius (Sap. VII, 26), l’apostolo partecipa alla beneficenza di Dio e sente il bisogno di essere come lui diffusivus.  Un cuore quanto più è unito a Gesù Cristo, tanto più partecipa della prima qualità del Cuore divino e umano del Redentore, della sua Bontà. Indulgenza, benevolenza, compassione, tutto in lui è moltiplicato, e la sua generosità e la sua abnegazione arriveranno fino all’immolazione allegra e magnanima. L’apostolo, trasfigurato dall’amore divino, si attirerà facilmente la simpatia delle anime: in bonitate et alacritate animæ suæ placuit (Piacque per la bontà e l’alacrità dell’anima sua – Eccl. XL, 4); le sue parole e le sue azioni saranno piene di bontà, di una bontà disinteressata che non assomiglia a quella ispirata dal desiderio di popolarità o da un egoismo raffinato.  – Il P. Lacordaire dice: «Dio volle che non si facesse nessun beneficio all’uomo, se non amandolo, e che l’insensibilità fosse sempre incapace di dargli la luce e d’ispirargli la virtù». Infatti se la forza vuole imporsi, noi ci facciamo un vanto nel resisterle; se la scienza pretende di sempre convincere, noi per puntiglio opponiamo delle obbiezioni; ma siccome noi ci sentiamo punto umiliati quando la bontà ci disarma, facilmente cediamo al fascino della sua condotta.  – La piccola suora dei poveri, la piccola suora dell’Assunzione, la Figlia della Carità, potrebbero citare molte conversioni fatte senza discutere, con la sola forza di una bontà instancabile e spesso eroica. – Qui vi è Dio, esclama l’empio e il peccatore dinanzi a tanta abnegazione; io lo vedo questo Dio buono; e buono dev’essere davvero, se il trattare con Lui rende un essere così delicato, capace di calpestare il suo amor proprio e di far tacere le sue più giuste ripugnanze! Questi angeli della terra sono l’espressione vivente di questa definizione del P. Faber: « La bontà è l’effusione di sé negli altri; essere buono vuol dire mettere gli altri al posto di sé. La bontà convertì più peccatori che non lo zelo, l’eloquenza e l’istruzione, e queste tre cose non convertirono mai nessuno, se non c’entrava anche la bontà. In una parola, la bontà ci fa altrettanti dèi, gli uni per gli altri. La manifestazione di tali sentimenti negli uomini apostolici è quella che attira a loro i peccatori e li conduce alla conversione. E soggiunge: La bontà si mostra dovunque il miglior pioniere del Prezioso Sangue… Certamente i terrori del Signore sono spesso il principio di quella sapienza che si chiama conversione, ma bisogna spaventare gli uomini con bontà, altrimenti il timore farà soltanto degl’infedeli… » (Conferenze spirituali). Abbiate il cuore di una madre, dice san Vincenzo Ferreri, sia che dobbiate incoraggiare, sia che dobbiate spaventare, mostrate a tutti le viscere di una tenera carità, e senta il peccatore che essa ispira le vostre parole. Se volete essere utili alle anime, incominciate con ricorrere di cuore a Dio, affinché v’infonda questa carità in cui si riassumono tutte le virtù, affinché per mezzo di essa otteniate lo scopo che vi siete prefisso (Trattato della Vita spirituale, p. II, c. X). Tra la bontà naturale, semplice frutto del temperamento, e la bontà soprannaturale di un’anima apostolica, vi è tutta la distanza che corre tra l’umano e il divino. La prima potrà far nascere il rispetto, anche la simpatia verso l’operaio evangelico, e talora può far deviare verso la creatura un’affezione che era dovuta a Dio; essa non arriverà mai a determinare le anime a fare, davvero per amore di Dio, il sacrificio necessario per ritornare al loro Creatore: soltanto la bontà che deriva dall’intimità con Gesù, può produrre tale effetto.  L’amore ardente per Gesù e la vera direzione delle anime dà all’apostolo tutte le audacie compatibili con il tatto e la prudenza. Un illustre secolare ci raccontava che, conversando egli con san Pio X, si era lasciata sfuggire qualche parola mordace contro un nemico della Chiesa, e che il Papa gli disse: «Figlio mio, io non approvo il vostro linguaggio; per punizione, ascoltate questa storia: Un sacerdote che conobbi molto bene, arrivava nella sua prima parrocchia e credette bene di visitare tutte le famiglie, non esclusi gli ebrei, i protestanti e neppure i frammassoni, e poi annunziò dal pulpito, che ogni anno avrebbe ripetuto la sua visita. Fu un gran chiacchierare tra i suoi confratelli che se ne lagnarono con il Vescovo; questi chiamò subito a sé l’accusato e gli fece un severo ammonimento; ma il parroco modestamente gli rispose: “Monsignore, nel Vangelo vedo che Gesù comanda al pastore di ricondurre tutte le pecorelle all’ovile: oportet illas adducere; e come è possibile ciò, se non si vanno a cercare? Del resto io non transigo mai sui princìpi e mi limito a dimostrare il mio interessamento e la mia carità a tutte le anime, anche traviate, che Dio mi ha affidate. Annunziai dal pulpito tali visite, ma se è vostro desiderio che me ne astenga, degnatevi di darmene il divieto per iscritto, affinché si sappia che io non faccio altro che obbedire ai vostri comandi”. Il Vescovo fu tocco da queste giuste parole e non insistette più. L’avvenire poi diede ragione a quel sacerdote il quale ebbe la gioia di convertire alcuni di quei traviati e obbligò tutti gli altri a rispettare la nostra santa Religione. L’umile parroco è divenuto, per volontà di Dio, il Papa che vi dà questa lezione di carità. Siate dunque intransigente sui princìpi, ma la vostra carità abbracci tutti, anche i peggiori nemici della Chiesa ».

IRRADIA L’UMILTÀ. — Facilmente si comprende come la bontà e la dolcezza di Gesù attirassero le moltitudini; ma si può attribuire lo stesso potere alla sua umiltà? Io non ne dubito.  Sine me nihil potesti» facere (Senza di me voi non potete fare nulla – Giov. XV, 5). L’apostolo, innalzato dal Creatore alla dignità di suo cooperatore, diventerà un agente di operazioni soprannaturali, ma a condizione che vi apparisca solo Gesù. Quanto più egli saprà far scomparire se stesso e diventare impersonale, tanto più Gesù avrà cura di manifestarsi. Ma senza questa impersonalità, l’apostolo pianterà e irrigherà inutilmente: non ne germoglierà nulla!  La vera umiltà possiede un fascino particolare di cui Gesù stesso è la sorgente; essa spira il Divino; allo zelo che spiega l’uomo di azione nel far scomparire se stesso perché appaia soltanto Gesù: Illum oportet crescere me autem minui (Bisogna che egli cresca e che lo diminuisca – Giov. III, 30), corrisponde da parte di Nostro Signore il dono che Egli concede al suo ministro, di guadagnare sempre più i cuori. – Così l’umiltà diventa uno dei più grandi mezzi di azione sulle anime. Credetemi, diceva san Vincenzo de’ Paoli ai suoi sacerdoti, non saremo mai atti a fare l’opera di Dio, se non siamo persuasi che da noi soli siamo più capaci di guastare ogni cosa, che non a riuscire.  Qualcuno forse si meraviglierà perché ritorno così spesso sugli stessi pensieri; a me sembra che soltanto col ripeterli potrò scolpirli nella mente dei miei cari lettori e mostrarne loro l’importanza. Il fare arrogante, il tono di pretensione, non hanno forse spesso la loro parte nella infecondità delle opere?  Il Cristiano «moderno» vuole conservare la propria indipendenza; accetterà di obbedire a Dio, ma solo a Dio; dal ministro di Dio egli non accetterà ordini né direzione e neppure consigli, se non ci vede proprio la firma di Dio! Perciò bisogna che l’apostolo sappia tanto nascondersi e scomparire, con la pratica dell’umiltà che è frutto della vita interiore, da arrivare al punto di non essere più, agli occhi di chi lo vede, altro che il trasparente di Dio e ad avverare in sé la parola del Maestro: Qui maior est vestrum erit minister vester. Vos autem nolite vocari Rabbi… nec vocemini Magistri (Voi non vi tate chiamare Babbi… Non chiamatevi Maestri… Il più grande tra voi sia il vostro servo – MATT. XXIII, 8 e 11). La sola vista dell’uomo interiore diventa un insegnamento della scienza della vita, cioè della scienza della preghiera (Sant’Agostino). E perché? Perché con l’umiltà egli spira la dipendenza da Dio; e questa dipendenza nella quale quell’anima si mantiene continuamente, si manifesta con l’abitudine di ricorrere a Dio in ogni occasione, sia per prendere una decisione, sia per avere conforto in qualche difficoltà, sia soprattutto per ottenere la forza di trionfarne. Nel Comune dei Confessori Pontefici, il sacerdote legge queste parole con le quali san Beda commenta così egregiamente l’espressione Pusillus grex: « Il Salvatore chiama piccolo il gregge degli eletti, sia perché lo paragona alla moltitudine dei reprobi, sia più ancora per causa del suo ZELO APPASSIONATO PER L’UMILTÀ, poiché per quanto numerosa ed estesa sia già la sua Chiesa, vuole tuttavia che essa cresca fino alla fine del mondo NELL’UMILTÀ e giunga cosi al REGNO PROMESSO ALL’UMILTÀ» (Hom. di S. BEDA, Lib. IV, cap. LIV su S. Luca, XII).  Questo testo s’ispira alle gravi lezioni che Gesù dà agli Apostoli quando, per esempio, essi vogliono rivolgere a vantaggi personali la loro vocazione all’apostolato e si mostrano in quell’occasione cosi pieni di ambizione e di gelosia. Voi lo sapete, dice loro, coloro che sembrano regnare sulle nazioni dominano su esse, e i grandi comandano imperiosamente al popolo; ma così non dev’essere tra di voi; chi è il più grande tra voi sia come il più piccolo, e colui che vuol essere il primo diventi il servo di tutti (MATT. XX; Lue. XXII).  Ma, dice Bourdaloue, con questo non viene indebolita l’autorità? Vi sarà sempre abbastanza di autorità in mezzo a voi se vi sarà abbastanza di umiltà, e SE L’UMILTÀ SE NE VA, l’autorità diventa PESANTE E INSOPPORTABILE. Senza la vera umiltà, l’apostolo cadrà in uno dei due eccessi: o di una esagerata indulgenza o, più spesso, in una tendenza al despotismo. Non facciamo qui questione di dottrina: supponiamo che l’apostolo sia abbastanza illuminato da preservare la sua intelligenza da una tolleranza senza limiti e da una durezza di zelo che non piacerebbe a Dio; i suoi princìpi sono perfettamente sani e la sua scienza è giusta. Ciò posto, noi affermiamo che senza l’umiltà l’apostolo non potrà tenere il giusto mezzo tra i due estremi, e nella sua condotta si manifesterà la vigliaccheria o più spesso la superbia.  Oppure, cedendo a una falsa umiltà, sarà pusillanime, lascerà che lo spirito di carità degeneri in debolezza, sarà l’uomo delle concessioni esagerate, delle conciliazioni a qualunque costo, e il suo zelo di conservare intatti i princìpi scomparirà sotto mille pretesti, sotto ragioni di prudenza o sotto calcoli meschini. Oppure lo spirito della natura e la cattiva direzione della volontà metteranno di mezzo la superbia, la suscettibilità, l’Io; di cui odi personali, «autoritarismo», rancori, dispetti, rivalità, antipatie, parzialità, passione, rappresaglie, ambizione, gelosia, un desiderio affatto umano di dominare, calunnie, maldicenze, parole aspre, spirito di corpo affatto mondano, asprezza nel difendere i princìpi ecc.  La gloria di Dio, invece di restare il fine vero alla cui ricerca si nobilitano le nostre passioni, sarà ridotta da questo apostolo alla condizione di mezzo e di pretesto per sostenere, sviluppare e far scusare quelle stesse passioni in ciò che hanno di troppo umano. I più piccoli attacchi alla gloria di Dio, alla Chiesa, solleveranno scatti d’ira in cui lo psicologo vedrà la difesa della personalità dell’operaio apostolico o dei privilegi della sua casta come società puramente umana, assai più che la devozione alla causa di Dio, sola ragione di essere della Chiesa come società perfetta stabilita da Dio. – La sicurezza di dottrina e il retto giudizio non bastano a preservare da tali deviazioni, perché l’apostolo senza vita interiore, e perciò senza vera umiltà, sarà dominato dalle sue passioni. Soltanto l’umiltà, conservandolo nella rettitudine di giudizio e distogliendolo dall’agire per impressione, metterà maggiore equilibrio e stabilità nella sua vita. Unendolo a Dio, essa, per così dire, lo farà partecipe dell’immutabilità divina: così la fragile edera diventa forte e stabile della forza incrollabile della quercia, quando con tutte le sue fibre aderisce al tronco robusto di questa regina della foresta. Dobbiamo dunque ammettere che senza l’umiltà, se non cadremo nel primo eccesso, la nostra natura ci porterà al secondo, oppure andremo ora verso l’uno ora verso l’altro, secondo le circostanze o le passioni. Così si avvererà quello che dice san Tommaso: L’uomo è un essere mutevole; è costante solo nella sua incostanza. Il risultato logico di un apostolato così difettoso sarà o il disprezzo di un’autorità pusillanime, o la diffidenza e spesso l’odio contro un’autorità che non è il riflesso di Dio.

IRRADIA LA FERMEZZA E LA DOLCEZZA. — Molte volte i Santi si scagliarono con forza contro l’errore, lo scandalo e l’ipocrisia, e san Bernardo, l’oracolo del suo secolo, si può citare, mi sembra, come uno dei Santi il cui zelo dimostrò maggiore fermezza. Ma nel leggere attentamente la sua vita, il lettore saprà distinguere fino a che punto la vita interiore avesse reso impersonale quest’uomo di Dio. Egli ricorre alla fermezza soltanto dopo di aver constatato con evidenza l’inefficacia degli altri mezzi; spesso anzi li alterna e, nel suo grande amore per le anime, dopo di aver dimostrato, per rivendicare la dottrina, una santa indignazione e dopo di aver chiesto rimedi, riparazioni, pegni e promesse, lo vediamo darsi subito con dolcezza materna alla conversione di coloro che, per obbligo di coscienza, aveva dovuto combattere. Mentre era senza pietà per gli errori di Abelardo, sapeva farsi amico colui che aveva ridotto vittoriosamente al silenzio.  Quando si tratta dei mezzi da adoperarsi, se la dottrina è fuori di questione, egli si erige a campione per impedire che gli ecclesiastici ricorrano alla violenza. Venuto a sapere che si vuole fare strage degli Ebrei in Allemagna, lascia subito il chiostro per correre in loro difesa e per predicare una crociata di pace. Infatti in un memorabile documento che il P. Ratisbonne ricorda nella sua Vita di san Bernardo, il gran rabbino del paese esprime la sua ammirazione per il monaco di Chiaravalle « senza del quale – egli dice – nessuno di noi non sarebbe rimasto vivo in Allemagna ». E invita le future generazioni degli Ebrei a non dimenticare mai il debito di gratitudine che essi hanno verso il santo Abate. «Noi siamo, diceva san Bernardo in quell’occasione, i soldati della pace, siamo l’esercito dei Pacifici: Beo et paci militantibus. La persuasione, l’esempio, l’abnegazione sono le sole armi degne dei figli del Vangelo».  Soltanto la vita interiore può ottenere questo spirito impersonale di cui è improntato lo zelo di tutti i Santi. – Nel Chiablese, prima della venuta di san Francesco di Sales, tutti gli sforzi cadono a vuoto. I capi del protestantesimo si prepararono a una lotta accanita; la setta si propone persino di uccidere il santo. Ma questi si presenta raggiante di dolcezza e di umiltà; in lui si vede un uomo nel quale l’annientamento dell’Io fa risplendere l’amore di Dio e del prossimo. La storia ci dice i risultati rapidi e appena verosimili di quell’apostolato. Ma egli pure, il dolce san Francesco di Sales, quando fu necessario, seppe dimostrare una inesorabile fermezza: egli non esitò a invocare la forza delle leggi umane per confermare i risultati ottenuti con la soavità della sua parola e con l’esempio delle sue virtù. Così il santo Vescovo consigliava al Duca di Savoia i severi provvedimenti contro la perfidia degli eretici.  I Santi non facevano altro che imitare il Maestro. Nel Vangelo vediamo il Salvatore che accoglie con misericordia i peccatori, amico di Zaccheo e dei pubblicani, pieno di bontà verso gli ammalati, gli afflitti, gli umili. Eppure Egli, la dolcezza e la mansuetudine incarnata, non esita a dar mano alla sferza per scacciare i mercanti dal Tempio. Quanta severità e quanta forza nelle sue espressioni, quando parla di Erode o flagella i vizi degli Scribi e dei Farisei ipocriti! Soltanto in certi rarissimi casi, dopo di aver adoperato invano gli altri mezzi, oppure quando è evidente che questi sarebbero inutili, si può, a malincuore, per evitare lo scandalo e perciò per carità, ricorrere a mezzi che sembrino violenti.  Eccetto questi casi e quando non vi è questione di principi, la mansuetudine deve dominare nella condotta dell’operaio evangelico. Si prendono più mosche, dice san Francesco di Sales, con una goccia di miele, che non con un barile di aceto.  Ricordiamo il biasimo dato da Gesù ai suoi Apostoli quando, urtati e umiliati nella loro dignità umana, e non già guidati da uno zelo puro e disinteressato, volevano ricorrere alla violenza e chiedevano che il fuoco del cielo scendesse sul borgo samaritano che non li voleva ricevere. Voi non sapete, disse loro Gesù, di quale spirito siete (Luc. IX, 55). – Un Vescovo della Francia, la cui fermezza nei principi è citata come modello, visitava ultimamente nella sua città vescovile le famiglie in lutto, in cui la recente guerra aveva fatto qualche vittima. Facendosi tutto a tutti, andò a portare il conforto della sua parola a un calvinista che piangeva il figlio caduto sul campo di battaglia, e gli parlò con cuore commosso. Tocco da questo atto di umile carità, quel protestante diceva poi: « È mai possibile che un Vescovo di famiglia così nobile e così illustre per la sua dottrina, si sia degnato, nonostante la diversità della mia religione, di entrare nella mia modesta casa? Questo suo atto e le sue parole mi sono scese al cuore ». L’industriale presso il quale era impiegato quel calvinista, raccontando il fatto, soggiungeva: «Per me, credo che questo protestante sia già per metà convertito; certamente il Vescovo con la sua dolcezza ha fatto ben più per la sua conversione, che non interminabili e vive discussioni». Quel pastore di anime manifestò la mansuetudine di Gesù; il protestante vide, per così dire, dinanzi a sè il Salvatore, e per forza dovette pensare: Una Chiesa nella quale vi sono Pontefici che rispecchiano cosi eccezionalmente Colui che io ammiro nel Vangelo, dev’essere la vera Chiesa.  – La vita interiore mantiene ad un tempo lo spirito e la volontà al servizio del Vangelo. Né l’indolenza né la violenza ingiustificata fanno deviare la direzione dell’anima che vede e opera secondo il Cuore di Gesù; essa attinge la sua prudenza e il suo ardore unicamente da questo Cuore adorabile: qui sta il segreto della sua riuscita. Invece la mancanza di vita interiore, e perciò la manifestazione delle passioni umane, spiegano tante sconfitte.

IRRADIA LA MORTIFICAZIONE. — Lo spirito di mortificazione è un altro principio fecondatore dell’azione. Tutto si riassume nella Croce. Finché non si sia fatto penetrare nelle anime il mistero della Croce, non si sarà mai fatto altro che appena toccarle leggermente. Ma chi dunque potrà far loro accettare un mistero che ripugna a questo orrore per i patimenti, così naturale alla creatura umana? Soltanto colui che potrà dire col grande Apostolo: Christo confixus sum cruci (Io sono crocifisso insieme con Gesù Cristo – Gal. II, 19). Ne saranno capaci coloro che portano in se stessi Gesù mortificato: Semper mortificationem Jesu in corpore nostro circumferentes ut vita Jesu manifestetur in corporibus nostris (Portando sempre con noi nel nostro corpo la morte di Gesù affinché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale (II Cor. IV, 10). Mortificarsi vuol dire riprodurre il Christus non sibi placuit (Gesù Cristo non ebbe compiacenza di sè (Rom. XV, 3), vuol dire rinunziare a sé in ogni circostanza, arrivare ad amare ciò che non piace, tendere insomma all’ideale di essere una vittima continuamente immolata.  Ora senza la vita interiore non possiamo giungere a svellere dalle radici i nostri più tenaci istinti. Mentre il poverello d’Assisi, attraversando in silenzio le vie della città, predica con la sola sua presenza il mistero della Croce, l’apostolo che non è mortificato invano ripeterebbe lo splendido discorso di Bossuet sul Calvario; il mondo sta così trincerato nello spirito del piacere, che per demolire la sua cittadella non bastano gli argomenti comuni e neppure le idee sublimi: ci vuole la Passione resa come sensibile dalla mortificazione e dal distacco del ministro di Dio. Inimicos crucis Christi, ripeterebbe san Paolo, nemici della Croce quei molti Cristiani i quali nella Religione non vedono altro che un’espressione della moda, un’abitudine di pratiche esteriori tradizionali che si compiono periodicamente con rispetto, si, ma senza che abbiano relazione con l’emendazione della vita, con la lotta contro le passioni e con l’introduzione dello spirito evangelico nei costumi. Questo popolo sembra che mi onori, potrebbe dire il Signore, ma mi onora soltanto a parle, e il suo cuore è lontano da me (MATT. XV, 8). Inimicos crucis Christi, nemici della Croce quei Cristiani effeminati che credono cosa indispensabile il circondarsi di tutte le comodità, il piegarsi a tutte le esigenze del mondo, l’abbandonarsi ai suoi piaceri disordinati, il seguirne appassionatamente tutte le mode, e si sentono urtati da quella parola che essi non comprendono più, ma che pure Gesù Cristo disse per tutti: Se non farete penitenza, perirete tutti egualmente (Luc. XIII, 3, 5). La Croce, secondo l’espressione di san Paolo, per essi è divenuta uno scandalo (I Cor. I, 23). Eppure senza la vita interiore, può l’apostolo produrre Cristiani diversi da questi?  Un numeroso concorso a certe funzioni soddisferà certamente il cuore del vero sacerdote, ma lo lascerà senza entusiasmo, se egli non potrà attribuire tale concorso che all’abitudine, a una fedeltà rispettabile verso certe usanze di famiglia, a certe abitudini che non scomodano per nulla il corso della vita, oppure se ne scoprirà la causa nel piacere di trovare della buona musica, un sontuoso apparato, oppure di assistere a un esercizio di eloquenza di cui si viene ad ammirare soltanto la forma. Almeno, sembrerebbe, non mancherà mai questo entusiasmo allo spettacolo della comunione frequente! Mi viene alla mente un ricordo del mio viaggio negli Stati Uniti: attraversando certe parrocchie, mi sentivo pieno di gioia nell’udire che un bel numero di uomini erano fedeli alla comunione del primo venerdì del mese. «Homo videt in facie, Deus autem in corde (Breviario; L’uomo vede in faccia, ma Dio vede il cuore), mi disse un santo sacerdote di New York; non dimenticatevi che siete in un paese dove il rispetto umano è sconosciuto e dove dappertutto si trova il bluff. Conservate la vostra ammirazione per le parrocchie in cui l’osservatore giudizioso può constatare che le comunioni frequenti manifestano davvero, se non la completa emendazione della vita, almeno sforzi sinceri di vita cristiana e un leale desiderio di non venire a patti con l’intemperanza, con la sfrenata ricerca del denaro e altre cose simili ». – Lungi da me il pensiero di non apprezzare anche le più lievi tracce di vita cristiana; lo scopo di queste parole è piuttosto di deplorare quella triste incapacità, in cui ci potremmo trovare per mancanza di vita interiore, di produrre altro che risultati assai meschini, benché non spregevoli.  Il Signore vuole da noi soltanto il cuore; per conquistarlo, per possedere la nostra volontà, per animarci a seguirlo nella vita della rinunzia, Egli venne a rivelare all’uomo le sublimi verità della fede.  Sarà capace di far nascere questa rinunzia che è base di tutta la perfezione, l’apostolo abituato alla vita interiore che è tutta fondata su l’Abneget semetipsum (Rinneghi se stesso – MATT. XVI, 24); ma ne sarà invece incapace colui che segue troppo da lontano il Salvatore che porta la croce. Nemo dat quod non habet (Nessuno dà ciò che non possiede); essendo egli stesso vile nell’imitare Gesù crocifisso, come potrebbe predicare al suo popolo quella guerra santa contro le passioni, alla quale il Signore ci chiama? L’apostolo disinteressato, umile, casto, è il solo che possa trascinare le anime a lottare contro le onde sempre crescenti della cupidigia, dell’ambizione e dell’impudicizia; soltanto chi conosce la scienza del Crocifisso è abbastanza forte da opporre una diga a quella continua ricerca di agiatezze, a quel culto del piacere che minaccia di sommergere tutto e di rovesciare le famiglie e le nazioni. San Paolo riassume il suo apostolato nel predicare Gesù crocifisso, e siccome egli vive di Gesù e di Gesù crocifisso, è capace di far gustare alle anime il mistero della Croce e d’insegnare loro a viverne. Ai nostri giorni troppi apostoli non hanno più abbastanza di vita interiore, per approfondire questo mistero vivificante, per esserne penetrati e per irradiarlo intorno a sé. Essi nella religione considerano troppo esclusivamente i lati filosofici, sociali o anche estetici, che possono fermare l’attenzione della mente o eccitare la sensibilità e la fantasia; essi sviluppano la loro tendenza a vedere soprattutto nella religione una scuola di poesia sublime, di arte incomparabile. La religione possiede certamente queste qualità, ma il vederla soltanto sotto questi aspetti secondari sarebbe assolutamente un deformare l’economia del Vangelo, mettendo come fine quello che è soltanto un mezzo. È sacrilegio fare un Cristo damerino del Cristo del Getsemani, del Pretorio, del Calvario. Dopo il peccato sono diventate condizioni necessarie della vita la penitenza, la riparazione, il combattimento spirituale, e la Croce di Gesù Cristo lo ricorda in tutte le circostanze. Allo zelo del Verbo incarnato per la gloria di suo Padre, non basta ottenere degli ammiratori, ma occorrono degli imitatori. – Nell’Enciclica del 1° novembre 1914, Benedetto XV invita i veri apostoli a scavare un solco più profondo per strappare le anime all’amore degli agi, all’egoismo, alla leggerezza dei gusti, alla dimenticanza dei beni eterni, e questo equivale a fare appello alla vita interiore dei ministri del divino Crocifisso. Dio che ci diede tanto, vuole che dall’età della ragione il cristiano unisca alla Passione sanguinosa di Gesù, qualche cosa di se stesso, quello che potremmo chiamare il sangue dell’anima sua, cioè i sacrifici necessari per osservare le leggi divine. In che modo il fedele s’indurrà a fare generosamente tale sacrificio di beni, di piaceri, di onori, se non lo attira l’esempio del pastore delle anime, abituato egli stesso allo spirito di sacrificio? Di dove verrà la salvezza della società, si domanda ansiosamente allo spettacolo delle ripetute vittorie del nemico infernale; quando toccherà alla Chiesa il trionfo! È facile rispondere col Maestro: Hoc autem genus non eiicitur nisi per ora-tionem et ieiunium (Questo genere di demoni non si scaccia se non con la preghiera e col digiuno (MATT. XVII, 20). Quando dalle file del sacerdozio e dalla milizia dei religiosi uscirà uno stuolo di uomini mortificati che facciano risplendere in mezzo ai popoli il mistero della Croce, questi popoli, contemplando nel sacerdote o nel religioso mortificato le riparazioni per i peccati del mondo, comprenderanno la Redenzione per mezzo del Sangue di Gesù Cristo. Allora soltanto l’esercito di satana indietreggerà, e non si udrà più attraverso i secoli l’eco terribile del pietoso lamento del Signore oltraggiato che finalmente avrà trovato delle anime riparatrici: Et quæsivi de eis virum qui interponeret sepem et staret opposìtus centra me prò terra ne dissiparem eam, et non inveni (Cercai tra loro un uomo che facesse siepe e che stesse contro di me a favore della terra affinché non la distruggessi, e non lo trovai (EZECH. XXII, 30). Da qualcuno si è voluto ricercare perché mai un solo segno di croce del P. de Ravignan producesse un effetto così magico sugl’indifferenti e persino sugli empi venuti ad ascoltarlo per semplice curiosità; la conclusione delle domande rivolte a molti uditori fu che l’austerità di vita intima del predicatore si manifestava assai vivamente in quel segno di croce che lo univa al mistero del Calvario.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/09/04/lanima-dellapostolato-9/

DA SAN PIETRO A PIO XII (19)

[G. Sbuttoni: da san Pietro a Pio XII, Ed. A.B.E.S. Bologna, 1953]

CAPO VII.

LA RIVOLUZIONE FRANCESE

PREAMBOLO

I precedenti

Dall’assolutismo regio (il re disponeva degli averi e della vita dei sudditi; chiunque poteva essere arrestato con semplice biglietto o « lettres de cachet » firmati anche in bianco e spesso trafficati in modo vergognoso) e dalla disuguaglianza dèi cittadini (il popolo era diviso in tre ordini: NOBILTÀ, CLERO, BORGHESIA; i primi due, esenti da ogni tassa e con tutti i diritti, la borghesia e il basso clero senza diritti e pagavan tutto) ebbe origine la RIVOLUZIONE FRANCESE del 1789. Cominciò essa con l’Assemblea degli Stati Generali e con la presa della Bastiglia (1789) e finì con la proclamazione dell’impero (2-12-1804).

Principali fatti furono:

Assemblea costituente (1789-1791); presa della Bastiglia (14 luglio 1789); notte del 4 agosto; stragi di ottobre; riforme politiche, giudiziarie, finanziarie, economiche; costituzione civile del clero; fuga del re (20 settembre 1791).

Assemblea legislativa (1791-92): stragi del 10 agosto e del mese di settembre 1792; supplizio di Luigi XVI e di Maria Antonietta (1793); ribellione delle province francesi; il regno del Terrore (1793-94); Dittatura di Robespierre. Direttorio (1795-99): guerra alla Germania; vittorie di Bonaparte in Italia (1796); Trattato di Campoformio (1797), spedizione di Egitto (1798).

Consolato (1799-1804); guerra in Italia (Marengo) pace di Luneville (1801) e di Amiens (1802).

Concordato: promulgazione del nuovo Codice civile; Bonaparte console a vita e congiura di Cadoudal; supplizio del duca d’Enghien.

Impero (1804).

1 10 anni compresi tra l’Assemblea Nazionale e il Consolato (1789-1799) hanno sempre avuto dalla storia, anche nostra, esaltazioni ditirambiche. Per chi sappia guardare con i propri occhi, essi sono la rapida monopolizzazione di talune umanissime e giustissime esigenze del popolo da parte di un’audace minoranza, la quale, nel promuovere quelle e assai più gl’interessi di cricca — realizza ed impone, magari in nome della libertà, la più tipica mentalità anticristiana [la setta Massonica degli Illuminati ne è stata notoriamente motore e carburante –ndr.-] di quello che era il proprio secolo: il XVIII. – Nessun incenso può nascondere che la giusta guerra al privilegio si rivelò anche come brutale spogliazione della proprietà ecclesiastica e tumultuario incameramento dei beni monastici, naturalmente a tutto beneficio di una borghesia poco scrupolosa; che la famosa democrazia prese — fra le altre — la forma, imposta anche con la violenza, della « Costituzione Civile del Clero » e della feroce persecuzione contro i « refrattari » (si ricordino le deportazioni alla Guiana, i massacri nel convento di Carmes, i « pontons » della Loira); che il vago e comodo deismo enciclopedico ebbe le sue degne celebrazioni nelle sconce buffonate robespierriane della « dea ragione » e in quelle dei « teofilantropi »; che mai forse bandiera (L. E. F.) copri tanta volontà imperialistica di rapina, con asservimento e distruzione dei valori cristiani e cattolici nel mondo (e qui rientra la cattura e detenzione di Pio VI). E se questi sono appena un vago inizio di spunti storici, come stupirsi che taluni gravi autori possano scrivere che la Rivoluzione Francese è nei suoi motivi ispiratori « naturaliter antichristiana »?

* * *

D. Che cosa fu la Rivoluzione Francese?

— Il più atroce rigurgito di odio contro l’ordine religioso e sociale, contro Dio e i re, le persone e le cose, che s’estese sopra la Francia come lava devastatrice d’un vulcano; e che, invece di aprir la via alla civiltà, fu causa immediata d’incalcolabili rovine e causa remota di tutti gli scompigli e delle sciagure che travagliarono e travagliano le nazioni.

D. Perché mai?

— Perché volle essere la reazione violenta contro il Medio Evo cristiano. Questo equivaleva alla formula: « Dio in tutto, da per tutto e sempre », la Rivoluzione equivalse alla formula: « Senza Dio in tutto, da per tutto e sempre ». Or è evidente che una reazione contro Dio, che è per essenza « amore », non può dare che il più atroce rigurgito di odio.

D. Da che cosa era stata preparata?

— Dalle dottrine anti-ecclesiastiche di Giovanni Wycliff (1830 – 1384), continuate dal boemo Giovanni Huss (1369 – 1415). Definito la « stella mattutina » dei riformati, cioè del Protestantesimo, il quale fu il grande movimento di separazione dalla Chiesa di Roma. Finirono poi di preparare il terreno le false dottrine filosofiche dei secoli XVII e XVIII.

D. Le condizioni di vita della maggior parte del popolo non reclamavano delle riforme!

— Senza dubbio, ed esigevano, in nome della giustizia e della fratellanza, un profondo rivolgimento. Peccato che, invece di svolgersi attraverso le vie legali, si compì mediante la violenza e il sangue.

D. Come si componeva la nazione francese?

— Dei tre « stati »: clero, nobiltà e popolo.

Il clero, diviso in alto, composto di nobili e fornito di enormi ricchezze, immunità e privilegi; e basso, disperso in villaggi poveri a stentarvi la vita; la nobiltà, provvista, come l’alto clero, d’enormi ricchezze, immunità e privilegi, faceva capo alla corte, dove, per il sistema feudalistico, il più rigido assolutismo era la regola di condotta del sovrano e contribuiva a sfruttare il popolo, sovraccarico di imposte, di decime e, contribuzioni di ogni genere.

D. Poteva continuare a tollerarsi un simile stato di cose?

— No; e difatti larghi strati della nobiltà e del clero e lo stesso re, Luigi XVI, sentirono la necessità della revisione.

D. Chi si oppose?

— Il Parlamento.

D. Che cosa convocò allora il re?

— Gli « Stati Generali » , cioè un’assemblea di deputati del clero, della nobiltà e del popolo, che, almeno di nome, temperavano l’assolutismo del re (4 maggio 1789). I deputati del popolo però si proclamarono, il 17 giugno, « Assemblea Nazionale » : ad essi, dietro invito del re, si unirono gli altri due ordini e si ebbe l’« Assemblea Costituente ».

D. In che cosa sì concretarono i lavori dell’Assemblea Costituente?

— Nella « Dichiarazione dei diritti dell’uomo», che abolì tutti i titoli e privilegi feudali, proclamando l’uguaglianza di tutti gli uomini e la libertà di culto, di parola e di stampa.

D. Dove si accentuarono le misure ostili alla Chiesa?

— Nel « Decreto di secolarizzazione dei beni ecclesiastici » con il quale furono incamerati e venduti all’asta i possedimenti della Chiesa;

— nel decreto di « scioglimento di tutti gli Ordini e Congregazioni religiose »; ma il colpo più grave fu

— la « costituzione civile del clero », che colpiva in pieno la sovranità della Chiesa, attribuendo ai comuni la nomina dei parroci e agli elettori dipartimentali l’elezione dei vescovi (= un ritorno dell’investitura laicale).

D. Che cosa impose la Costituente agli ecclesiastici?

— Il giuramento di fedeltà alla nuova costituzione, rifiutato però da due terzi.

D. Che decise il papa Pio VI?

— Condannò la Costituzione civile del clero, vietando ai vescovi, eletti irregolarmente, di esercitare atti di giurisdizione e minacciando scomunica a coloro che non disdicessero il giuramento prestato (1791).

D. Chi infierì di più tuttavia contro la Chiesa?

— L’« Assemblea Legislativa» (1791 – 1792), che costrinse, per mezzo dei Giacobini, estremisti della rivoluzione, gli ecclesiastici a prestare giuramento e questa volta sotto pena d’esilio; soppresse i monasteri tuttora esistenti e vietò di indossare in pubblico l’abito ecclesiastico.

Cominciarono numerose le vittime.

D. Chi successe all’Assemblea legislativa?

— La « Convenzione Nazionale » (1792 – 1795), che proclamò immediatamente la «Repubblica», fece decapitare re Luigi XVI, impose il calendario repubblicano, che aboliva le domeniche e le feste dei Santi, soppresse il culto cristiano, dedicando Nòtre-Dame alla « dea Ragione», impersonata da un’artista lirica.

D. Che cosa venne instaurato in questo periodo?

— Il regime del terrore con le tre belve umane: Danton, Marat e Robespierre, che insanguinarono interamente la Francia, rimanendo infine essi stessi vittime della rivoluzione.

D. Chi, d’altri, colpì la rivoluzione?

— Lo stesso papa Pio VI, che, proclamata per ordine del Direttorio la Repubblica Romana, venne condotto in esilio a Valenza nel Delfinato, dove morì, esclamando: « Perdona loro… ». La salma del Papa, da prima insepolta, fu poi chiusa in una bara di piombo, e solo dopo 122 giorni Napoleone firmò il permesso di seppellirla nel cimitero di Valenza, da dove poi nel 1802 fu portata a Roma e sepolta in s. Pietro.

D. Che aveva detto Napoleone alla morte di Pio VI?

— « È morto l’ultimo Papa! »

D. Fu buon profeta?

— Pare di no. Morto Pio VI il 29 agosto 1799, con sorpresa di tutti il 14 marzo 1800 a Venezia venne eletto Pio VII, che entrò in Roma fra il più grande entusiasmo del popolo il 3 luglio.

D. Che era avvenuto frattanto?

— Dopo la grande vittoria di Marengo, Napoleone, divenuto Primo Console, vide sommamente utile conciliare la Francia con la Chiesa e il 16 luglio 1801 venne firmato il Concordato, che chiuse la più brutta pagina della rivoluzione. Solo che Napoleone, all’insaputa del Papa, aggiunse i 77 Articoli Organici, che alteravano il Concordato, ponendo il clero in balìa del potere civile. Fu inutile la protesta del Papa.

NAPOLEONE E IL PAPA IN LOTTA

D. Che cosa portò in definitiva il Concordato?

— La lotta più furibonda tra Napoleone e il Papa. Il dittatore [massone di alto grado – il segno dell’arco reale era una sua caratteristica – ndr. -] si era fissato di voler sbarazzarsi dell’inerme Potenza, che sfidava i secoli e che costituiva un ostacolo ai suoi piani ambiziosi.

D. Che pretese dal Papa?

— Che, lo incoronasse imperatore in Notre-Dame; per questo il Papa andò a Parigi. Il 2 dicembre 1804 con gesto oltraggioso e superbo Napoleone, anziché ricevere la corona dal Papa, se la pose in capo da sé e circondò il Papa solo di scortesie e di sconvenienze. Si lamentava poi che le popolazioni per veder lui avrebbero fatto una lega, per veder il Papa invece ne avrebbero fatto venti.

D. A che mirò il Papa nel suo viaggio?

— Ad ottenere l’annullamento degli Articoli Organici, ma inutilmente.

D. Ci furono poi altri motivi di attrito?

— Si: il rifiuto del Papa di annullare il matrimonio di Girolamo, fratello di Napoleone; di riconoscere Giuseppe, altro fratello, quale re di Napoli in luogo dell’espulso Ferdinando IV di Borbone.

D. Come reagì Napoleone?

— Scese a Milano a cingere la « corona di ferro » e invase lo Stato Pontificio, facendo occupare Roma.

D. Che faceva intanto il Papa?

— Scrive il Chateaubriand: « Nell’ombra del palazzo romano un prete settantenne, senza neppure un soldato, teneva in scacco l’impero ».

D. Che seguì poi?

— Napoleone, furente per la resistenza del Papa, il 17 maggio 1809, dichiarò lo Stato Pontificio annesso all’impero francese e Roma città imperiale e libera. Il Papa, immediatamente fece affiggere alle porte delle Basiliche la .Bolla di scomunica contro Napoleone e i suoi complici.

D. A che giunse allora Napoleone?

— A far arrestare il Papa e a rinchiuderlo in carcere a Savona e a tentare ogni mezzo per farlo abdicare alla sovranità terrena. Il Papa fu irremovibile.

D. Che fece per ottenere l’annullamento del suo matrimonio con Giuseppina Beauharnais e passare a nozze con Maria Luisa d’Austria?

— Pece condurre a Parigi e tenne sotto controllo tutti i cardinali, nella speranza che, in caso di morte del Papa, avrebbe diretto il conclave a suo piacimento; in secondo luogo avrebbe sentenziato sulla nullità del suo primo matrimonio. Ma pur trovando un certo numero di cardinali a lui fedeli, non raggiunse i suoi scopi.

D. Durante la campagna di Russia dove fu trasportato il Papa?

— A Pontaineblau, mentre, sulle steppe russe, i soldati di Napoleone in ritirata gettavano i fucili e cadevano congelati sulla neve; effetto della scomunica, a cui il superbo si era rifiutato di credere.

D. Come si vendicò Pio VII contro Napoleone, caduto nella polvere?

— Rientrato trionfalmente in Roma il 10 marzo 1814, mentre il 18 giugno 1815 Napoleone veniva relegato nell’isola di S. Elena, Pio VII scrisse al Reggente d’Inghilterra allo scopo di ottenere al grande esiliato una mitigazione della pena, e mandò due cappellani ad assisterlo, finché maggio 1821 « l’uom fatale » morì. Ei fu …