DOMENICA XI DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XI DOPO PENTECOSTE (2020)

Semidoppio – Paramenti verdi.

La Chiesa nella liturgia di questo giorno ci insegna come Dio accordi il suo aiuto divino a tutti quelli che lo domandano con confidenza. Ezechia guarì da una malattia mortale, grazie alla sua preghiera, come pure liberò il suo popolo dai nemici; mercè la sua preghiera sulla croce, Gesù cancella i nostri peccati (Ep.) e risuscita il suo popolo a nuova vita mediante il Battesimo di cui è simbolo la guarigione del sordo muto, dovuta pure alla preghiera di Cristo (Vang.). Così, dato che per la virtù dello Spirito Santo, Gesù caccio il demonio dal sordo muto e che i sacerdoti di Cristo cacciano il demonio dall’anima dei battezzati, si comprende come questa XI Domenica dopo Pentecoste si riferisca al mistero pasquale ove, dopo aver celebrata la risurrezione di Gesù si celebra la discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa, e si battezzano i catecumeni nello Spirito Santo e nell’acqua affinché, come insegna S. Paolo seppelliti con Cristo, con Lui resuscitino. – Il regno delle dieci tribù (regno d’Israele) durò 200 anni circa (938-726) e contò 19 re. Quasi tutti furono malvagi al cospetto del Signore e Dio, allora, per castigarli, dette il loro paese ai nemici. Salmanassar, re d’Assiria, assediò Samaria e trascinò Israele schiavo in Assiria nell’anno 722. I pagani, che presero il posto nel paese; non si convertirono totalmente al Dio d’Israele e furono detti samaritani dal nome di Samaria. — Il regno di Giuda durò 350 inni circa (938-586) ed ebbe 20 re. Una sola volta questa stirpe regale fu per perire, ma venne salvata dai sacerdoti che nascosero nel tempio Gioas, al tempo di Atalia. Parecchi di questi re furono malvagi, altri finirono come Salomone nel peccato, ma quattro furono, fino alla fine, grandi servi di Dio. Questi sono Giosafat, Gioathan, Ezechia, Giosia. L’ufficio divino parla in questa settimana di Ezechia, tredicesimo re di Giuda. Egli aveva venticinque anni quando diventò re e regnò in Gerusalemme per ventinove anni. Durante il sesto anno del suo regno Israele infedele fu tratto in schiavitù. « Il re Ezechia, dice la Santa Scrittura, pose la sua confidenza in Jahvè, Dio d’Israele e non vi fu alcuno uguale a lui fra i re che lo precedettero o che lo seguirono; così Jahvè fu con lui ed ogni sua impresa riuscì bene ». Allorché Sennarerib, re d’Assiria, voleva Impadronirsi di Gerusalemme, Ezechia salì al Tempio e innalzò una preghiera a Dio, pura come quelle di David e Salomone. Allora il profeta Isaia disse a Ezechia di non temere nulla poiché Dio avrebbe protetto il suo regno. E l’Angelo di Jahvè colpì di peste centottantacinque mila uomini nel campo degli Assirii. Sennacherib, spaventato, ritornò a marce forzate a Ninive ove morì di spada. Dio accordò più di cento anni di sopravvivenza al regno di Giuda pentito, mentre aveva annientato il regno d’Israele impenitente. — Ma Ezechia cadde gravemente malato e Isaia gli annunciò che sarebbe morto: « Ricordati, o Signore, disse allora il re a Dio, che io ho proceduto avanti a te nella verità e con cuore perfetto, e che ho fatto ciò che a te è gradito » (Antifona del Magnificat). E Isaia fu mandato da Dio ad Ezechia per dirgli: « Ho intesa la tua preghiera e viste le tue lacrime; ed ecco che ti guarisco e fra tre giorni tu salirai al Tempio del Signore ». Ezechia infatti guari e regnò ancora quindici anni. Questa guarigione del re che uscì, per cosi dire, dal regno della morte il terzo giorno, è una figura della risurrezione di Gesù. Così la Chiesa ha scelto oggi l‘Epistola di S. Paolo nella quale l’Apostolo ricorda che il Salvatore è « morto per i nostri peccati, è stato seppellito ed è resuscitato « nel terzo giorno » e che per la fede in questa dottrina noi saremo salvi come l’Apostolo stesso. Per questo stesso motivo è preso per l’Introito il Salmo 67, nel quale lo stesso Apostolo ha visto la profezia dell’Ascensione (Ephes., IV, 8).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXVII: 6-7; 36

Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.

[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]
Ps LXVII: 2
Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus.

[Sorga Iddio, e siano dispersi i suoi nemici: fuggano dal suo cospetto quanti lo odiano.

Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.

[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui, abundántia pietátis tuæ, et merita súpplicum excédis et vota: effúnde super nos misericórdiam tuam; ut dimíttas quæ consciéntia metuit, et adjícias quod orátio non præsúmit.

O Dio onnipotente ed eterno che, per l’abbondanza della tua pietà, sopravanzi i meriti e i desideri di coloro che Ti invocano, effondi su di noi la tua misericordia, perdonando ciò che la coscienza teme e concedendo quanto la preghiera non osa sperare.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV: 1-10
“Fratres: Notum vobis fácio Evangélium, quod prædicávi vobis, quod et accepístis, in quo et statis, per quod et salvámini: qua ratione prædicáverim vobis, si tenétis, nisi frustra credidístis. Trádidi enim vobis in primis, quod et accépi: quóniam Christus mortuus est pro peccátis nostris secúndum Scriptúras: et quia sepúltus est, et quia resurréxit tértia die secúndum Scriptúras: et quia visus est Cephæ, et post hoc úndecim. Deinde visus est plus quam quingéntis frátribus simul, ex quibus multi manent usque adhuc, quidam autem dormiérunt. Deinde visus est Jacóbo, deinde Apóstolis ómnibus: novíssime autem ómnium tamquam abortívo, visus est et mihi. Ego enim sum mínimus Apostolórum, qui non sum dignus vocári Apóstolus, quóniam persecútus sum Ecclésiam Dei. Grátia autem Dei sum id quod sum, et grátia ejus in me vácua non fuit.”

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,

LA RISURREZIONE DELLA CARNE

“Fratelli: Vi richiamo il Vangelo che vi ho annunziato, e che voi avete accolto, e nel quale siete perseveranti, e mediante il quale sarete salvi, se lo ritenete tal quale io ve l’ho annunciato, tranne che non abbiate creduto invano. Poiché in primo luogo vi ho insegnato quello che anch’io appresi: che Cristo è morto per i nostri peccati, conforme alle Scritture; che fu seppellito, e che risuscitò il terzo giorno, conforme alle Scritture; che apparve a Cefa, e poi agli undici. Dopo apparve e più di cinquecento fratelli in una sol volta, dei quali molti vivono ancora, e alcuni sono morti. Più tardi appare a Giacomo, e quindi a tutti gli Apostoli. Finalmente, dopo tutti, come a un aborto, appare anche a me. Invero io sono l’ultimo degli Apostoli, indegno di portare il nome d’Apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per la grazia di Dio, però sono quel che sono; e la sua grazia in me non è rimasta infruttuosa.”

L’ultima questione di grande importanza a cui risponde S. Paolo nella prima lettera ai Corinti è quella della risurrezione dei morti. Questo domma, stimato assurdo dai pagani, ripugnava a molti cristiani di Corinto, i quali avevano difficoltà ad ammetterlo. S. Paolo prova la risurrezione dei morti argomentando dalla risurrezione di Gesù Cristo, e dimostrando le assurde conseguenze che verrebbero dalla negazione di questa verità. L’epistola di quest’oggi contiene la prova della risurrezione di Gesù Cristo. Parliamo anche noi della risurrezione dei morti, la quale:

1. È un punto fondamentale della dottrina cattolica,

2.  È basata sulla risurrezione di Gesù Cristo,

3. Avrà conseguenze diverse pei giusti e per i reprobi.

I.

Vi richiamo il Vangelo che vi ho annunziato, e che voi avete accolto, e nel quale siete perseveranti. Parole solenni con le quali S. Paolo si introduce a parlare della resurrezione dei morti. Per mezzo della fede nel Vangelo i Corinti perverranno all’eterna salvezza, se saranno costanti sino alla fine, e se crederanno nel Vangelo tal quale l’Apostolo l’ha predicato, senza togliere o travisare alcuna verità. Quei Corinti che non credono alla verità della risurrezione dei morti, credono invano. Al conseguimento dell’eterna salute a nulla giova credere le altre verità, se negano questa.La fede nella risurrezione dei morti è di grande efficacia nel sostenere il Cristiano in questa vita « Fiducia dei Cristiani è la risurrezione dei morti» (Tertull. De Resurr. carnis). Nella speranza della futura risurrezione i martiri trovano la forza di andar contro ai tormenti e alla morte. Se essi perdono, tanto volentieri. la vita presente, è per la speranza di entrare nella vita futura. S. Ignazio martire che scongiura i Romani a non impedirgli il martirio, esclama: « È bello tramontare al mondo diretti a Dio. per risorgere in Lui!» (ad Rom. 2). Senza l’immortalità dell’anima e la conseguente risurrezione del corpo, sarebbe irragionevole esporsi alla perdita della vita; bisognerebbe anzi cercar di prolungarla il più possibile. Le malattie, le privazioni, le fatiche logorano questo nostro corpo continuamente; gli anni gli tolgono ogni vigore; la morte lo riduce in polvere. Chi può sottrarsi a un senso di grande tristezza e di noia della vita? Chi pensa alla risurrezione. Chi pensa che un giorno Gesù Cristo «trasformerà il nostro miserabile corpo, rendendolo conforme al suo corpo glorioso» (Filipp. III, 21). Chi pensa che questo stesso nostro corpo risorgerà immortale, e non sarà più soggetto alle debolezze e ai dolori. – Una delle più amare circostanze per l’uomo quaggiù è la perdita dei suoi cari. Il dolore in quel momento è troppo giusto e legittimo. È impossibile sottrarsi alle lagrime. S. Ambrogio, parlando delle lagrime che aveva versato per la morte del fratello Satiro, osserva: «Ho pianto anch’io, si, è vero; ma pianse anche il Signore. Egli sopra un estraneo; io sopra un fratello» (De excessu. frat. sui. Sat. Lab. 1, 10). Ma al momentaneo tributo di lagrime, che pagano tutti, succede nei Cristiani un pensiero consolante: I nostri cari, partendosi da questo mondo, non ci lasciano ma ci precedono. «Non vogliamo — scriveva l’Apostolo ai Tessalonicesi — che siate nell’ignoranza intorno a quelli che si sono addormentati, affinché non vi rattristiate come gli altri che non hanno speranza» (1 Tess. IV, 13). Se si sono addormentati, un giorno si sveglieranno. Quando Gesù, entrato nella casa di Giairo, vide gente che piangeva e ululava per la morte della figlia di questi, disse: «Perché v’affannate e piangete? La fanciulla non è morta, ma dorme» (Marc. V, 39). E, dette queste parole, la sveglia da quel breve sonno di morte. Quando s’apre la tomba per qualche persona amata la fede dice a ciascuno di noi: quella persona a te cara non è morta, ma dorme. I nostri parenti, i nostri amici, i nostri benefattori, dovunque abbiano avuto una sepoltura, non sono morti, ma dormono. Catene di monti, distese di mari divideranno i sepolcri d’una stessa famiglia; ma verrà il giorno in cui questi sepolcri si apriranno; i cadaveri riprenderanno nuova vita; e i beati riprenderanno in Dio quell’unione, che la morte non ha potuto troncare che temporaneamente. –

II.

Che cosa aveva insegnato San Paolo ai Corinti? Udiamolo da lui: In primo luogo vi ho insegnato quello che anch’io appresi: che Cristo è morto per i nostri peccati, conforme alle Scritture; che fu seppellireito e che risuscitò il terzo giorno, conforme alle Scritture. Il racconto della Resurrezione di Gesù Cristo, fatto dai Vangeli, contiene quanto è necessario per ottenere fede indiscussa sulla realtà della risurrezione di Lui. Lo stupore e il dolore delle pie donne che trovano vuoto il sepolcro. Il timore là cui erano state prese, tanto da mettersi a fuggire e da non aver parola, sulle prime, per narrare quanto avevano veduto; l’Angelo che mostra il luogo preciso ove giaceva Gesù, il quale non va più cercato tra i morti, perché è risuscitato; l’apparizione a Maria Maddalena, dicono abbastanza perché uno che non sia dominato da preconcetti debba credere alla verità della risurrezione di Gesù Cristo. Ma v’ha di più. Dopo che alla Maddalena Gesù apparve a Cefa, e poi agli undici. Dopo apparve a più di cinquecento fratelli in una sol volta… Più tardi apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli Apostoli. – È da notare che quando le pie donne annunciano agli Apostoli la risurrezione di Gesù Cristo, sono trattate da deliranti. Pietro entra nel sepolcro, vede i lenzuoli per terra, non trova più il corpo del Maestro, ne è meravigliato, ma non si decide ancora a credere alla risurrezione. La Maddalena annunzia agli Apostoli d’averlo visto risuscitato, d’aver parlato con Lui, « ed essi, avendo udito com’egli era vivo, e com’ella l’aveva visto, non credettero » (Marc. XVI, 11). Ènecessario che Gesù appaia a Pietro, appaia agli Apostoli e ai discepoli radunati insieme, e mostri loro le mani e il costato con le cicatrici gloriose, perché ogni dubbio sia tolto da loro. Davanti a prove così numerose e così palmari, anch’essi sono costretti a credere la risurrezione del divin Maestro, che predicheranno poi con una fermezza incrollabile. – Gli Apostoli danno principio alla predicazione insistendo sul fatto della risurrezione di Gesù Cristo. San Pietro rinfaccia ai Giudei: «Gesù di Nazaret… voi lo avete trafitto per mano d’empi, e ucciso… Dio l’ha risuscitato, avendo infranto i legami della morte» (Att. XXII-24) E questo si rinfacciava ai figli d’Israele pochi giorni dopo l’avvenimento; quando era facilissimo interrogare, controllare, vivendo ancora tutti o quasi tutti coloro a cui Gesù Cristo era apparso. E vediamo che i Giudei invece di fare obiezione alle parole di Pietro si compungono nei loro cuori, e gli domandano quel che han da fare. Non sappiamo se si possono desiderare prove più concludenti. Ne consegue che se risuscitò Gesù Cristo, risusciteranno anche i fedeli. Questi formano un sol corpo mistico con Lui. Gesù è il capo; e se il capo è risuscitato, non si spiega perché le membra debbano rimanere nel sepolcro. La risurrezione di Gesù Cristo ha introdotto un nuovo ordine di cose. Con Adamo era entrato nel mondo il dominio della morte. Con la risurrezione di Gesù Cristo questo dominio fu vinto. Egli lo ha vinto per sé e lo ha vinto per noi. E così «la morte del Figlio di Dio, che egli subì nella carne, distrusse in noi la duplice morte, quella dell’anima e quella del corpo, e la risurrezione della sua carne ci apportò la grazia della risurrezione spirituale e corporale » (S. Fulgonio Episcop. 17,16).

III.

S. Paolo aggiunge che Gesù Cristo apparve anche a lui l’ultimo degli Apostoli. Tanto egli poi, l’ultimo degli Apostoli, già persecutore della Chiesa, a cui Gesù apparve sulla via di Damasco, quanto gli altri Apostoli, ai quali Gesù risorto apparve prima di salire al cielo, hanno sempre predicato la stessa cosa: la risurrezione di Gesù Cristo. «Cristo è risuscitato, primizia dei dormienti !» esclama più innanzi S. Paolo, con un grido come di vittoria (I. Cor. XV, 20). – Non si può parlar di primizia senza supporre il seguito della messe. Quando compare la primizia, la messe è garantita. Gesù Cristo risorge pel primo a vita immortale: primo per ordine di tempo, di dignità, di merito. Dopo di Lui, a suo tempo, quando Egli comparirà di nuovo su questa terra. resusciteranno tutti i giusti. – Anche i reprobi resusciteranno? La parola di Gesù Cristo non lascia dubbio alcuno. «Verrà un tempo — dice il Redentore — in cui tutti quelli che sono nei sepolcri udiranno la voce del Figliuolo di Dio, e usciranno fuori quelli che hanno fatto opere buone risorgendo per vivere: quelli poi che avranno fatto opere malvage, risorgendo per essere condannati» (Giov.V, 28-29). « La maniera della resurrezione sarà duplice. La prima è quella dei santi i quali, radunati con distintivo reale, al primo suono della tromba ricevono, con grande trionfo, il regno della beatitudine sotto Cristo, re eterno: la seconda è quella che assegna alla pena eterna gli empi assieme con i peccatori e con tutti gli increduli» (S. Zenone, L. 1, Tract. 16, 11). Il corpo dei giusti fu unito all’anima nel fare il bene; riceva, dunque, con essa il premio eterno. Il corpo dei cattivi cooperò con l’anima a fare il male: riceva con essa il meritato castigo. A ciascuno il suo. La società non è composta né esclusivamente di buoni, né esclusivamente di cattivi. Come in un campo frammischiata al buon grano si trova la zizzania, così, nella società, frammisti ai buoni si trovano i cattivi. E come al tempo della raccolta si lega la zizzania in fastelli per essere bruciata e il grano vien radunato nei granai, così succederà alla fine del mondo. Verranno gli Angeli e separeranno i cattivi dai giusti, «e getteranno quelli nella fornace di fuoco: ivi sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del loro Padre» (Matt. XIII, 42-43). È chiaro che un tal giorno infonda coraggio ai buoni che l’attendono come il giorno del trionfo finale, e rechi sgomento ai peccatori, che lo temono come il giorno della finale rovina. Questo timore sarebbe salutare, se servisse a trattenerli dal peccato, o meglio a farli uscire dallo stato di peccato. S. Agostino narra di sé stesso: « Né altro mi richiamava dal profondo abisso dei piaceri carnali che il timor della morte e del giudizio avvenire: il qual timore,… non si partì mai dal mio petto » (Conf. L. 6, 16,).Se non ci dimenticheremo del giorno della risurrezione della carne, e del giudizio che vi avrà luogo, sarà facile la riforma di noi stessi. Chi teme quel giorno comincia a vegliare sulle proprie passioni, a guardarsi dall’avarizia, dall’impurità, dall’odio. Per vincer gli assalti del demonio comincia a mortificar se stesso con la custodia dei sensi. Le buone opere che prima gli erano pesanti diventeranno una necessità. I doveri del proprio stato gli saranno molto leggeri da compiere, e finirà per desiderare ciò che prima temeva: la seconda venuta di Cristo, nella speranza, di risalire con Lui in cielo a godere nel regno della gloria.

Graduale

Ps XXVII:7 – :1
In Deo sperávit cor meum, et adjútus sum: et reflóruit caro mea, et ex voluntáte mea confitébor illi.

[Il mio cuore confidò in Dio e fui soccorso: e anche il mio corpo lo loda, cosí come ne esulta l’ànima mia.]

V. Ad te, Dómine, clamávi: Deus meus, ne síleas, ne discédas a me. Allelúja, allelúja

[A Te, o Signore, io grido: Dio mio, non rimanere muto: non allontanarti da me.]

Alleluja

Allelúia, allelúia
Ps LXXX:2-3
Exsultáte Deo, adjutóri nostro, jubiláte Deo Jacob: súmite psalmum jucúndum cum cíthara. Allelúja.

[Esultate in Dio, nostro aiuto, innalzate lodi al Dio di Giacobbe: intonate il salmo festoso con la cetra. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Marcum.
Marc VII:31-37
In illo témpore: Exiens Jesus de fínibus Tyri, venitper Sidónem ad mare Galilaeæ, inter médios fines Decapóleos. Et addúcunt ei surdum et mutum, et deprecabántur eum, ut impónat illi manum. Et apprehéndens eum de turba seórsum, misit dígitos suos in aurículas ejus: et éxspuens, tétigit linguam ejus: et suspíciens in coelum, ingémuit, et ait illi: Ephphetha, quod est adaperíre. Et statim apértæ sunt aures ejus, et solútum est vínculum linguæ ejus, et loquebátur recte. Et præcépit illis, ne cui dícerent. Quanto autem eis præcipiébat, tanto magis plus prædicábant: et eo ámplius admirabántur, dicéntes: Bene ómnia fecit: et surdos fecit audíre et mutos loqui.

[“In quel tempo Gesù, tornato dai confini di Tiro, andò por Sidone verso il mare di Galilea, traversando il territorio della Decapali. E gli fu presentato un uomo sordo e mutolo, e lo supplicarono a imporgli la mano. Ed egli, trattolo in disparte della folla, gli mise le sua dita nelle orecchie, e collo sputo toccò la sua lingua: e alzati gli occhi verso del cielo, sospirò e dissegli: Effeta, che vuol dire: apritevi. E immediatamente se gli aprirono le orecchie, e si sciolse il nodo della sua lingua, e parlava distintamente. Ed egli ordinò loro di non dir ciò a nessuno. Ma per quanto loro lo comandasse, tanto più lo celebravano, e tanto più ne restavano ammirati, e dicevano: Ha fatto bene tutte lo cose: ha fatto che odano i sordi, e i muti favellino!”


Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la maldicenza.

Solutum est vinculum linguæ eius, et loquebatur recte.

Che bella sorte per quell’uomo sordo e muto nello stesso tempo, di cui parla il Vangelo, di trovar un medico cosi pietoso e così potente come Gesù Cristo! Ma che avremmo noi detto di quell’uomo se, dopo aver ricevuto un sì gran beneficio, se ne fosse servito per oltraggiare il suo benefattore; se, invece di usar della sua lingua per lodare benedire Colui che gliel’aveva snodata l’avesse impiegata a maledirlo? Sarebbe egli stato ritenuto senza dubbio e si riterrebbe ancora al giorno d’oggi un mostro d’ingratitudine. Or quel che avreste biasimato con giusta ragione in quell’uomo, si è, fratelli miei, ciò che voi fate tutti i giorni. Dio vi ha dato l’uso della parola, egli è un beneficio che voi avete ricevuto dalla sua bontà: e come vi servite voi di questa parola? Qual uso fate voi della vostra lingua? Gli uni se ne servono a bestemmiare il santo nome di Dio; gli altri se ne servono a pronunciare parole oscene; questi a gettare colpi di maldicenza contro il prossimo; quegli a moltiplicare rapporti che lo disonorano; e se si vedono tante riputazioni macchiate, tanti giusti ricoperti d’obbrobrio, tanti odi perpetuarsi nelle famiglie, non ne sono forse cagione queste lingue armate del fiele della maldicenza? Si è dunque a voi, maldicenti, ch’io indirizzo in quest’oggi la parola e a cui vorrei, se fosse possibile, imporre eterno silenzio, poiché voi fate un sì malvagio uso del talento, che Dio vi ha confidato, e attaccando la reputazione del prossimo, che dovreste risparmiare, voi attaccate Dio medesimo, che dovete amare nel vostro prossimo – Ma come posso io sperare di distrugger un male oggidì sì comune, e che fa tante stragi nella società umana? Quanto mi stimerei io fortunato, se potessi almeno correggere qualcheduno di coloro, che vi sono soggetti! Per ciò io dico: niente di più comune della maldicenza, primo punto; niente più difficile a riparare che le conseguenze della maldicenza, secondo punto. Conoscendo la cagione della maldicenza, voi la distruggerete; scoprendo i suoi funesti effetti, la riparerete. Cominciamo.

I . Punto. Ella è una grande obbligazione, che noi abbiamo a Dio per averci dato l’uso della parola. Per mezzo di essa noi possiamo manifestare i nostri sentimenti agli uomini, mantenere con essi una dolce e piacevole società, cercar aiuto nei nostri bisogni, consolazione nelle nostre afflizioni. Ma la fatalità dell’uomo è di far servire alla sua rovina i doni, ch’egli ha ricevuti da Dio per suo vantaggio; e si può dire che il dono della parola è uno di quelli, di cui si fa il più malvagio uso. Il che ha fatto dire all’ apostolo S. Giacomo, che la lingua è un fuoco divorante, un mondo d’iniquità, una sorgente piena di veleno mortale: Lingua ignis est, universitas iniquitatis,malum inquietum, piena veleno mortifero (Jac. 3). Si è principalmente con la maldicenza, che questa velenosa sorgente comunica il suo veleno tanto più rapidamente, quanto che vi sono più maniere di mormorare, si trova più facilità ed occasione di mormorare e quasi niuno s’astiene dal mormorare. Le diverse specie di maldicenze, la facilità delia maldicenza, il gran numero delle persone date alla maldicenza, ecco ciò che prova che questo vizio è molto comune. Che cosa è mai la maldicenza? Ella dice s. Tommaso, è un parlar ingiurioso con cui si denigra l’altrui riputazione; il che si fa in più maniere, dice lo stesso dottore: l’una che si chiama diretta e l’altra indiretta. Si dice male direttamente del suo prossimo. allorché gli si imputa un delitto di cui è innocente; ecco la calunnia;: 2. quando si esagera un mancamento che ha fatto, facendo credere un peccato considerabile ciò che è mancamento leggiero; 3. Quando si rivela un mancamento occulto, che egli ha commesso, o un diletto cui è soggetto; 4. quando; si dà un malvagio colore alle azioni del prossimo o s’interpreta in mala parte il bene, che ha fatto: ecco la maldicenza. Si dice male indirettamente allorché si nega il bene, che taluno ha fatto, o si sminuisce, ovvero si osserva un silenzio ingiurioso, quando si odono gli elogi che gli si danno. Voi vedete di già, fratelli miei, da queste diverse specie di maldicenze, quanto questo peccato sia comune, e forse vi riconoscete di già colpevoli di qualcheduna di queste guise di maldicenza. Quante volte vediamo noi al giorno d’oggi persone innocenti, che la calunnia ha caricate di atroci delitti cui esse non hanno neppur pensato? Calunnia che non ha per l’ordinario altro fondamento che un sospetto ingiurioso, un giudizio temerario che si fa del prossimo. Quell’uomo, quella donna, male intenzionati a riguardo d’un altro, pensano male sulla sua condotta, interpretano in cattiva parte un’azione da sé indifferente, ed anche lodevole nel suo principio e nel suo fine. Avranno essi veduta questa persona entrar in una casa, parlar ad un’altra, le danno subito qualche malvagia intenzione. Avrà taluno fatto qualche perdita di beni, egli sospetterà aver quell’altro commessa quell’ingiustizia; non ardisce esso subito accertare ciò che non prende che per una congettura, ma palesando quei sospetti ingiuriosi, che ha concepiti sull’altrui condotta, producendo quelle congetture, egli dà a credere che le parole dette sono la pura verità. Il che fa che dal sospetto si viene alla persuasione, all’accusa, alla calunnia, che distrugge in un istante la riputazione della persona più innocente. Qual precauzione non si deve prendere, non solo per ritener la lingua, ma per non formare alcun sospetto ingiurioso sulla condotta del prossimo, né ascoltare coloro che temerariamente lo giudicano? Egli è vero che si trovano comunemente calunniatori, che oltrepassano i limiti della equità, sino ad imputar il delitto ad un innocente. Ma quanti ve ne sono che non si fanno alcuno scrupolo d’ingrandire gli altrui vizi, di esagerare una colpa, che han veduta commettere a taluno, di far credere una scelleratezza ciò che non è che un leggero mancamento, o una inavvertenza? Qualche parola poco pesata, sfuggita senza riflessione ad una persona d’un certo grado, qualche convenienza tralasciatali alcune leggerezze, effetto più di fragilità umana, che di malizia, sono tenuti da certuni per grandi delitti. Si spacceranno per tali, si faran nascere le idee più disgustose sopra certi falli, che non erano in verun modo così considerabili come furono immaginati. Si è questa forse una specie di calunnia molto comune nel mondo? Perciocché invece di scusare i mancamenti altrui si fanno alcuni un piacere maligno d’accrescerli e d’ingrandirli. Oh quante volte cangiano di natura per esser pubblicati da lingue, maldicenti! Ma, diranno altri, noi nulla asseriamo, che non sia vero; nulla aggiungiamo al mancamento, che riveliamo. Non è forse permesso, e non è anche un bene, il far conoscere gli uomini quali sono, affinché si badi a cui fidarsi e non si confonda la virtù col vizio, che si deve smascherare e fare conoscere palesemente per non lasciarsi da esso sorprendere? Questo è, fratelli miei, una specie di sotterfugio alla maldicenza per accreditarsi nei suoi passi; sotto il falso pretesto che tutto quel che si dice è vero, si crede sia permesso dire ogni cosa, rivelare indifferentemente i mancamenti del prossimo. Eh! dove è dunque, fratelli miei, quella carità, che deve coprire la moltitudine dei peccati? Charitas operit moltitudinem peccatorum!. (Pet. IV). La carità ci proibisce di far ad altri ciò che non vorremmo che si facesse a noi medesimi, perché dunque vi prendete la libertà di scoprire i mancamenti del vostro prossimo? Invano coprite voi la maldicenza col pretesto della giustizia e del ben pubblico, il quale richiede, a vostro parere, che si conoscano gli uomini per quel che sono. – Finché il mancamento del vostro prossimo è segreto, egli ha diritto alla sua reputazione, ed è un’ingiustizia il rapirgliela: il bene pubblico non chiede neppure che voi facciate conoscere i difetti del vostro fratello. 1. Scoprenti il suo mancamento, voi non lo guarite, ma lo inasprite. 2. Voi somministrate agli altri una occasione di peccato, insegnando loro ciò che non sapeva apprendendo loro il traviamento di persona per cui avevano della stima, e che era commendabile agli occhi loro per altri titoli: con questo, voi autorizzate il vizio nei ribaldi, e le vostre maldicenze divengono pei deboli una pietra d’inciampo. Ma, direte voi , io ho rivelato quel mancamento ad una persona confidente, ho raccomandato il tenerlo segreto. Or io vi domando: con questa precauzione, quasi sempre inutile, fate voi men perdere a quella persona la stima, che essa aveva pel vostro fratello, di cui voi parlate male? D’altra parte, voi le avete confidato sotto segreto ciò che avete detto; voi credete dunque che non era permesso di divulgare quel mancamento; e perché rivelarlo a quella persona? Pensate voi forse, che quella sarà più fedele a custodire il segreto che voi? Oimè!. quante cose confidate sotto segreto, divengono pubbliche in tutto un villaggio, sotto pretesto che ciascuno le ha confidate sotto segreto? – Non è dunque punto permesso di parlare dei mancamenti del suo prossimo, quantunque nulla si dica che non sia vero, fuorché ciò sia per suo bene, come sarebbe di avvertire un padre, una madre, un padrone, un superiore, di correggere i disordini dei figliuoli o di quelli che loro sono soggetti, o per il bene di colui cui si rilevano i mancamenti, che gli cagionerebbero gran danni, se non li conoscesse; ma bisogna in queste occasioni usare molta prudenza e non seguir la passione che ci porta ordinariamente ad eccessi o contro la giustizia o contro la carità. – Veniamo adesso ad altre specie, di maldicenze, che non sono meno frequenti, e che noi chiamiamo maldicenze indirette. Si ha orrore d’imputar a qualcheduno un delitto di cui è innocente, si prova anche una pena a rivelare un mancamento commesso; ma non si teme di spargere sopra le virtù altrui una tinta che ne offusca lo splendore. Si fa l’elogio di qualche azione virtuosa; altri si sforza di toglierne la gloria a chi è dovuta, o negando che abbia egli fatto quell’azione, o dandole un cattivo colore, o attribuendola ad una malvagia intenzione, o diminuendo il merito con qualche circostanza viziosa che si aggiunge. Alcuni Giudei accusavano il Salvatore di scacciare il demonio nel nome di Belzebù, di amar i piaceri della mensa, perché mangiava coi peccatori per trarli a sé. Si vuol investigare sino fondo delle coscienze per iscoprirvi un male, che non vi è. Un uomo caritatevole per i poveri farà delle limosine, dirassi che lo fa per vanità ad ostentazione: un altro avrà renduto un servigio essenziale ad alcuno che ne aveva bisogno, si dirà che per interesse. Quella donna, quella donzella sarà regolata nella sua condotta; questo, dirà taluno, è per ipocrisia, o perché il mondo non sa che farne, o a fine di esser creduta la gloria della pietà cristiana. Quell’uomo paziente, moderato, perdona un’ingiuria e rende bene per male: è stupidità, e bassezza di spirito; quell’altro regola con prudenza i beni che il Signore gli ha dati, egli è un avaro; oppure se fa qualche liberalità, egli è un prodigo: in una parola, non è virtù alcuna che i maldicenti non trovino il segreto di avvelenare. Essi conservano sotto le loro labbra, per servirmi delle parole del profeta, il veleno degli aspidi, e portano dappertutto la contagione dei loro discorsi: Venenum aspidum sub labiis eorum (Ps. XIII). Altri, non meno a temere, renderanno al merito la giustizia, che gli è dovuta, converranno volentieri del valore di quell’azione, del pregio di quella virtù, incominceranno a far l’elogio di coloro che vogliono biasimare. Quell’uomo è caritatevole verso i poveri; ma egli ha un difetto, che non gli si può perdonare, mantiene un commercio con una persona che frequentar non dovrebbe. Quell’altro fa lunghe preghiere, è assiduo ai divini uffizi; ma egli è un usurpatore dei beni altrui. Quella donna è modesta in chiesa, governa bene la sua casa, ma ella è una maldicente, una lingua da temere. Che gran danno di quel giovane, di quella giovane! Hanno eccellenti qualità; ma l’uno è soggetto all’intemperanza, l’altra alla vanità. – L’avreste voi creduto, dirà questi, che quella persona che conoscevate sì virtuosa fosse caduta in quel mancamento? Io ne sono afflitto e per riguardo ad essa e per riguardo della sua famiglia. Quel sacerdote, dirà quell’altro (poiché il maldicente non risparmia alcuno) sì zelante, sì esatto a compiere il suo dovere, sarebbe perfetto, se non fosse cotanto attaccato ai beni della terra. Così, fratelli miei, il maldicente, secondo l’espressione del profeta, tempera i suoi dardi nell’olio, affinché penetrando più addentro, facciano più profonde ferite: Molliti sunt sermones eius super oleum, et ipsi sunt iaculo,. (Ps. LIV). Si lodano le virtù, a fine di meglio persuadere i vizi di coloro di cui si vuole oscurare la riputazione. Se non si osa denigrarli apertamente, si trova il segreto di farlo con certi segni, certi gesti, con cenni d’occhio od anche con un silenzio affettato, o con una tristezza che si mostra ascoltando le lodi altrui, silenzio e tristezza, che dicono sovente più che le parole, perché sono una specie di disapprovazione di quanto si avanza. Io non finirei mai fratelli miei, se volessi rappresentarvi tutte le vie per cui la maldicenza sparge il suo veleno. Ciò che dà ancora una sì grand’estensione a questo vizio, si è la facilità, che evvi di cadervi, e le occasioni che si trovano di commetterlo. Infatti non si può dire di questa passione come delle altre, che sono arrestate dagli ostacoli che esse incontrano. Un ladro non può sempre riuscire nei furti che medita: un impudico non trova sempre l’occasione e gli oggetti per appagare la sua passione: il vendicativo trova resistenza in un nemico che lo perseguita; ma quanto al maldicente, tutto concorre a rendergli facile il suo peccato, facile dal canto di colui, che spaccia la maldicenza, facile dal canto di coloro che l’ascoltano. La maldicenza è facile dal canto di colui che la spaccia. Che cosa si ricerca, infatti, per contentare su di ciò la sua inclinazione? La lingua e la parola sono sempre in disposizione nostra: un segno ci basta per venire a capo del nostro progetto, e portare alla riputazione altrui il colpo più funesto. Negli uni è una precipitazione, un certo prurito di parlare, onde nulla tacer possono di quel che sanno per diffamare il loro prossimo; si è un peso che li opprime, di cui sono impazienti di alleggerirsi alla prima occasione, che troveranno; negli altri è una maligna gelosia della gloria e della prosperità altrui che li rende più attenti a cercarne e a pubblicarne i difetti, che le sue buone qualità; e quante occasioni.non trovano di soddisfarsi sopra questo punto! Occasioni dalla parte di quelle danno materia alla maldicenza poiché chi è quell’uomo sì perfetto che non mostri qualche volta tratti di debolezza, e che non sia esposto alla censura dei maldicenti? Occasioni nel commercio, che si ha col mondo nelle conversazioni  che fanno i legami della società, e che si aggirano per lo più sopra gli altrui difetti: senza questo dicesi, esse languirebbero, convien più metter qualcheduno sulla scena; siamo sempre accolti con piacere in una compagnia quando sappiamo rallegrarla a spese di qualcheduno, che ha dato materia di parlare. Con questo la maldicenza diventa facile per parte di coloro che l’ascoltano. Quantunque si abbia dell’avversione per i maldicenti, si ama la maldicenza, si ascolta con piacere, si è curioso di sapere ciò che il tale ha detto, ha fatto; di conoscere la sua condotta, i suoi costumi, di osservare il suo modo di operare; si vuole penetrare il segreto delle famiglie ed anche dei pensieri; si prova piacere a conoscere le inclinazioni, gli andamenti di quella persona. Per animare il maldicente, si fa applaudire ai suoi discorsi, si lodano i tratti ingegnosi di cui servesi per lanciare i suoi colpi penetranti contro coloro che non sono in istato di avvisarli; si osserva un reo silenzio quando si ode parlar male del prossimo; mentre chi è che ne prende la difesa? Ecco ciò che autorizza, che incoraggia il maldicente. Egli non trova che approvatori della sua malvagità; attacca gli assenti, quando sono fuori di stato di difendersi, e che gli chiuderebbero la bocca se fossero presenti; niuno si ritrova caritatevole abbastanza per prendere le loro parti, al contrario, quelli che ascoltano il maldicente, si uniscono spesse volte a lui per caricare della loro maligna critica coloro in cui esso ha già portato i colpi mortali. Convien forse stupirsi dopo questo, che la maldicenza faccia sì grandi progressi nella società umana, poiché non trova essa alcun ostacolo che le resista, e la maggior parte al contrario si fa un piacere di ascoltarla e di divulgarla? – Imperciocché, chi sono coloro, fratelli miei, che vanno esenti da questo vizio ? Oimè! Quasi tutte le condizioni della vita ne sono infette. Egli regna nella città, come nelle campagne; egli è il vizio dei ricchi come dei poveri, dei grandi come dei piccoli, dei sapienti come degli ignoranti. Si entri nelle case, si ascolti ciò che si dice nelle conversazioni: appena si vedranno due o tre persone insieme che non abbiano messo qualcheduno in giuoco nei loro discorsi. Appena si passa un’ora di tempo, di cui la maldicenza non occupi la maggior parte. Non è questo principalmente il difetto degli oziosi, di quelle persone, che, annoiate di sé medesime, vanno di conversazione in conversazione a spandere il veleno della loro maligna oziosità, alzando dappertutto tribunale, ove condannano senza pietà tutto ciò che loro dispiace ? Voi li vedrete scorrere minutamente tutti gli stati della vita; ora è l’avarizia o la prodigalità d’un ricco; or è l’insolenza d’un povero, che serve di materia alla loro censura. – Senza risparmiare sacro né profano, voi li vedrete scatenarsi senza pietà contro la condotta delle persone consacrate a Dio, la cui riputazione è necessaria al bene pubblico. Qui è un mercante che ne scredita un altro, che egli vede più accreditato di sé nel negozio; là è un artigiano che per mettersi in credito dispregia il lavoro di quelli della sua professione. Non si vedono forse anche persone d’altra parte regolate nella loro condotta, che, per stabilire la loro riputazione sulla rovina di quella degli altri, non hanno difficoltà di vibrare i colpi della loro maligna critica contro quelli la cui virtù fa loro ombra? A udir questi astuti maldicenti, non è già per invidia né per odio che essi divulgano certe debolezze che han vedute nel loro prossimo; ma è per zelo della gloria di Dio e del ben pubblico; e sotto questo pretesto si credono in diritto di rivelare ciò che converrebbe occultare. Non spacceranno, per verità, atroci calunnie, nere maldicenze; ma useranno di certi artifizi per sminuire l’altrui stima. Si è una compassione, che fingono di avere alla loro debolezza; sono sospiri che gli altrui mancamenti cavano dai loro cuori; faranno doglianze su qualche cattivo tratto che altri usa loro, su qualche parola scortese, che ha offeso il loro amor proprio; e sotto pretesto di cercare consolazione del loro dispiacere, non pensano che a soddisfare la loro vendetta, manifestando tutto ciò che riconoscono di difettoso in quelli che hanno avuta la disgrazia di loro dispiacere. Ah! quanto è mai raro di trovare in questo mondo persone irreprensibili su questo punto; ed è con molta ragione che s. Giacomo ha detto, che convien essere molto perfetto per non peccare parlando: Si quis in verbo non offendit, hic perfectus erit (Jac. III). Ma quanto la maldicenza è comune, altrettanto le sue conseguenze sono difficili a riparare.

II. Punto. Egli è un principio incontrastabile nella Religione e nella morale, che, per ottenere il perdono del suo peccato, bisogna farne la penitenza e la riparazione. Se ci siamo impadroniti della roba altrui o se gli abbiamo cagionato qualche danno, non evvi salute alcuna a sperare, sin che non l’abbiamo ristabilito nei suoi diritti. Lo stesso obbligo sussiste per il torto che abbiamo fatto colla maldicenza all’onore, e alla riputazione altrui. Ma quanto questa riparazione non è ella difficile? Difficile dalla parte dell’onore che convien riparare, difficile dalla parte di colui che deve fare questa riparazione. La riputazione consiste nella stima, che alcuno si è acquistata nello spirito degli uomini con le sue buone qualità, con azioni virtuose, che hanno meritato la loro approvazione. Ella è un bene di cui ciascuno è così geloso che sacrificherebbe volentieri tutti gli altri per conservare questo. Mentre a che servono tutti i beni senza l’onore? Non osiamo più comparir nel mondo, vi siamo morti civilmente tosto che siamo denigrati su questo punto. Quindi qual precauzione lo Spirito Santo non ci comanda di prendere per conservarlo? Curam habe de bono nomine (Eccli XLI). Egli è un bene che ci è personale, un bene che è la sorgente di molti altri beni, che ci tien dietro anche dopo la morte. Ma tosto che questa riputazione è oscurata dai neri vapori che una lingua maledica vi ha sparsi, non è possibile di renderle il suo primo splendore; ella è una piaga in certo modo incurabile. Ed in vero, per guarir questa piaga, per riparare il torto fatto alla riputazione, che convien fare? Bisogna ristabilire nei suoi diritti la persona cui abbiamo rapito l’onore, e per ciò cancellare le sinistre idee, che abbiamo impresse sulla sua condotta nello spirito degli altri: or è forse cosa facile cambiare queste malvage impressioni? L’orgoglio che signoreggia gli uomini non ispira loro che buoni sentimenti per se medesimi e dispregio per gli altri. Quindi ne viene che si prova ordinariamente maggior piacere nell’udire biasimare qualcheduno, che negli elogi che gli si danno; amiamo di autorizzarci nei nostri disordini, con l’esempio di coloro che sono sregolati. Ecco perché si ascolta e si crede così facilmente ciò che lusinga le passioni, e cosi difficilmente si depongono le idee che le favoreggiano. Perciò un maldicente avrà bel fare a disingannare coloro cui egli ha parlato male del suo prossimo, ma non gli riuscirà; molti discorsi non basterebbero per rendere alla riputazione il primo lustro, che un sol tratto di lingua le ha tolto. Poiché, o chi ha parlato male ha detto il vero o ha detto il falso: se quel che ha detto è vero, non potendo più disdirsene, tutte le lodi che esso darà al suo prossimo per rifarne la riputazione, non le renderanno giammai il suo primiero splendore; qualunque azione virtuosa egli pubblichi in lode della persona di cui ha parlato male, sarà sempre vero che questa persona è colpevole d’un mancamento che sminuisce la stima che si aveva della sua virtù. Se il male che il maledico ha pubblicato è vero, e se ne disdica, si è forse taluno, perché un confessore l’ha obbligato a farlo, o perché ha qualche ragione particolare d’interesse: forse i cattivi discorsi che si sono tenuti avevano qualche fondamento. Checché ne sia, è forse molto comune che la ritrattazione della maldicenza equivalsi all’ingiuria? Si è ciò che l’esperienza fa vedere pur troppo sensibilmente. Quegli era tenuto per un uomo dabbene nel concetto altrui, era tenuto per uomo giusto e ragionevole: ma un nemico geloso del suo onore e dei suoi successi ha sparso sulla sua condotta il veleno della sua censura; egli l’ha dipinto per un uomo di malvagia fede, e per un impostore, che non cerca che il suo interesse in pregiudizio degli altri. Ecco quell’uomo divenuto tutt’altro che non era nello spirito di coloro che lo stimavano; le sue virtù, i suoi meriti l’hanno abbandonato; non osa più comparire, non è più riguardato che come un uomo pericoloso alla società, qualunque cosa possa fare per sostenere la sua riputazione e qualunque cosa fare possa il maledico per disingannare gli animi, ch’egli ha contro di lui prevenuti. – Quel ministro del Signore, esatto a compiere i suoi doveri, ha voluto correggere alcuni disordini, riprendere un libertino della sua vita licenziosa: questi, per vendicarsi ed autorizzarsi nella sua empietà, l’accuserà ingiustamente di essere soggetto alle medesime debolezze. Sarà egli creduto, malgrado tutto ciò che potrà fare quel ministro del Dio vivente per cancellare con una condotta edificante le impressioni che altri ha concepito contro di lui. Si chiudono gli occhi sopra le sue virtù: venga egli annunciato per un santo quanto si vorrà, il libertino prevenuto non si disinganna più dei suoi pregiudizi, e l’uomo di Dio rimane coperto d’obbrobrio e diventa inutile alle anime che gli sono affidate. – Quella donna, quella fanciulla, regolate nella loro condotta, non avevano giammai dato luogo a parlar mal di sé; ma una lingua maledica ha sparsi malvagi rumori sui loro andamenti, eccole rovinate nella stima; tutto ciò che potranno esse fare non le impedirà di essere sospette d’intrighi peccaminosi, di disordini cui non hanno esse neppure pensato; e checché ne dica il maldicente per ritrattare quanto ha asserito, è stato creduto e lo sarà sempre. – Ah! fratelli miei, quanto i colpi di lingua di un maldicente sono terribili, e quali stragi un uomo di tal fatta cagiona nella società [Terribilis homo linguosus – Eccl. IX]. È un incendio che ha messo il fuoco in una casa, che non si può più estinguere; è una saetta mortale, che ammazza tanto vittime, quante sono le persone cui porta i suoi colpi. Egli è la cagione delle perpetue divisioni e di discordie nelle famiglie, e di perdite di beni cui non rimedierà giammai. Quel marito, quella moglie erano uniti insieme; quei congiunti, quei vicini vivevano in buona armonia; ma l’uomo nemico, che si compiace di seminar la zizzania tra il buon grano, ha fatto cattivi rapporti contro gli uni e gli altri; il marito e la moglie non possono più sopportarsi; i congiunti, i vicini sono divenuti nemici irreconciliabili. I confessori, i predicatori impieghino pure tutto ciò che v’ha di più forte nella Religione per riunirli, non ne potranno venir a capo. Chi è mai la cagione di questi mali? Siete voi, lingue di vipere, che avete cercati i motivi di divisione, o che non avete saputo osservare il silenzio sopra quei segreti a voi affidati. Invano farete degli sforzi per disingannare gli animi divisi; non ne verrete a capo: voi avrete parlato male di quell’uomo, che occupa nel mondo un posto vantaggioso, di quel mercante, di quell’artigiano, di quel servo; il posto di quell’uomo gli diventa inutile; il negozio di quel mercante cade, quell’artigiano perde i suoi avventori, quel servo non può più trovare padrone. Voi avete macchiato l’onore di quel giovane, di quella zitella, che erano sul punto di prendere un collocamento; essi sono al presente frustrati delle loro speranze, non possono più trovar partito. Come riparerete i danni che avete loro cagionati? Eppure voi siete a questo obbligati sotto pena di dannazione; ma troppo vi costerebbe l’adempiere a quest’obbligo; e però voi non lo farete. Ed ecco ciò che rende il vostro peccato in qualche modo irremissibile per una certa impossibilità in cui siete di ripararne i funesti effetti, tanto più ancora che questa riparazione trova in voi medesimi ostacoli quasi insuperabili. – Quando alcuno ha fatto torto al prossimo ne’ beni di fortuna, può ripararlo senza farsi conoscere; egli può servirsi d’una via straniera, come d’un amico fedele, d’un prudente confessore, per le restituzioni a cui è obbligato; può anche ritrovarsi in uno stato d’impossibilità, che lo esenti affatto dalla restituzione; ma non così della riparazione che deve farsi alla riputazione che si è denigrata. Siccome quest’obbligo non può esser adempito che da colui che ha parlato male, bisogna che comparisca in persona, e che si faccia conoscere in questa riparazione; il che non può fare che a danno della sua propria riputazione. Cioè a dire, che deve o farsi credere un impostore, se quel che ha detto non è vero; oppure un indiscreto, un indegno, un invidioso, un temerario, se quel che ha detto è vero: bisogna dunque che ripari l’altrui onore con la perdita dei suoi propri beni. Or è ella cosa facile di sacrificare il suo onore, la sua riputazione, infamarsi, screditarsi nel concetto degli altri, per onorare quelli che si sono diffamati? Ah! quanto mai non costa questo all’amor proprio sempre ingegnoso a evitar l’obbrobrio, e a conservarsi la stima altrui! Un tale sforzo non può essere che l’effetto d’una grazia onnipotente e di un desiderio ardentissimo della sua salute. Ma la prova che questo passo è difficile, si è che non si fa. Si odono moltissimi mormorare, ma se ne vedono forse molti che riparino il torto, che han fatto con la maldicenza? Eppure è un obbligo indispensabile, ove non si può allegare pretesto d’impossibilità, perché siamo sempre padroni di parlare a vantaggio del prossimo, e nulla è maggiormente a nostra disposizione che l’uso della parola. – Ma io suppongo ancora, che il maldicente si faccia violenza per rendere alla riputazione altrui il lustro che le ha tolto: ne potrà egli venir a capo, quando il veleno della sua maldicenza si è sparso si lungi che non è quasi più possibile di arrestarlo? Quando la sua maldicenza è giunta alle orecchie d’un gran numero di persone, come accade ordinariamente, allorché essa è divulgata in un villaggio, in una città, in una provincia; Come mai il maldicente potrà egli riparare l’onore altrui in tutti i luoghi ove è stato macchiato? Ed è forse d’uopo il dirvi, fratelli miei, che, se Dio domandasse questa riparazione per intero, la maldicenza diverrebbe un peccato irremissibile? Eppure se in queste circostanze la riparazione diventa impossibile, il maledico non lascia perciò di essere obbligato di fare tutto ciò che dipende da lui per riparare il male che ha fatto. Or farà egli tutto ciò che è necessario per questo? Prenderà egli tutte le misure convenevoli per scaricarsi dell’obbligo in cui si è impegnato? Lo farete voi? L’avete voi di già fatto, voi che avete questi rimproveri a farvi? Ah! grande e giusto Dio, quanti mali e qual difficoltà per ripararli! Avvertite dunque ben bene, dice lo Spirito Santo, a non peccare con la lingua, per tema che la vostra caduta, divenuta incurabile, non vi dia la morte: Casus insanabilis ad mortem (Eccli. XXVIII).

Pratiche. Mettete dunque un freno alla lingua, e non ve ne servite giammai per intaccare la riputazione altrui. Parlate sempre bene degli assenti; se nulla in loro lode avete a dire, tenetevi in silenzio; poiché diceva un antico, niuno si penti mai tanto di aver taciuto, quanto di aver parlato: Nullum locutum fuisse sæpe poenituit, tacuisse nunquam. Mettetevi in luogo di coloro di cui vorreste censurare la condotta. Sareste voi contenti che taluno vi trattasse nel modo che trattate gli altri? Non vorreste voi forse al contrario, che se qualcheduno parlasse male di voi in un’assemblea, un altro prendesse la vostra difesa? Fate lo stesso a riguardo del vostro prossimo, ed eserciterete la carità, che Dio richiede da voi. Imponetevi per penitenza, osservare il silenzio un certo tempo della giornata, e domandate a Dio ogni mattina la grazia di fare un santo uso della vostra lingua. Se voi avete diffamato il vostro prossimo di qualche delitto che gli abbiate imputato per calunnia, bisogna a qualunque costo disdirvi: se il delitto di cui l’avete accusato è vero, bisogna con tutte lodi che potete dargli, cancellare le malvage impressioni, che la vostra maldicenza ha fatto sopra lo spirito di coloro che vi hanno udito. Siccome la maldicenza viene ordinariamente dalla superbia, e dalla brama che abbiamo d’innalzarci al di sopra degli altri, siate umili ed abbiate bassi sentimenti di voi medesimi, ad esempio del grande Apostolo, che si riguardava come un aborto ed il maggiore dei peccatori: allora voi non parlerete male di alcuno. Ricordatevi ancora dell’avviso che vi dà lo Spirito Santo; di non frequentar né ascoltare i maldicenti: Cum detractoribus ne commisceamini (Prov. XXIV),poiché se voi li ascoltate , vi renderete complici della loro maldicenza per l’occasione che loro darete, Voi sareste ancora molto più colpevoli, se induceste i maldicenti a parlar male, o con i vostri cattivi consigli o con interrogazioni che loro fareste, o con l’approvazione, che loro dareste tenendo un iniquo silenzio. Allorché alla vostra presenza si opprime un innocente, che non dipenderebbe che da voi di giustificare, voi siete obbligati in quell’occasione a prendere la sua difesa e ad opporvi alla calunnia. Se la maldicenza che si spaccia è vera, voi siete sempre colpevoli di prestarle orecchio. Che convien dunque fare quando udiamo parlare male? Se coloro che mormorano sono vostri inferiori, servitevi, della vostra autorità per imporre loro silenzio; se sono vostri uguali, opponetevi alla maldicenza, o volgendo altrove il discorso e scusando coloro di cui si parla male sopra l’intenzione, la debolezza, la fragilità umana o qualche altra circostanza, che una carità ingegnosa sa benissimo ritrovare, o finalmente abbandonando la compagnia, se si può convenevolmente: se sono vostri superiori, coloro che parlano male, dimostrate il vostro dispiacere col silenzio, gemete nel fondo della vostra anima su ciò che udite; mettete, secondo il consiglio dello Spirito Santo, delle spine alle vostre orecchie, affinché il veleno della maldicenza non penetri nel vostro cuore, vale a dire, rendetele inaccessibili alle impressioni che essa fa in un cuore che volentieri vi si arrende, o che non sa difendersene. Finalmente in qualunque occasione il caso o la necessità vi esponga ad udire parlar male, comportatevi in tal modo che il vostro contegno faccia conoscere quanto la maldicenza vi dispiace; poiché siccome, dice la Scrittura, il vento di aquilone dissipa le piogge, così un mesto sembiante arresta la lingua d’un detrattore: Ventus aquilo dissipat pluvias, et facies tristis linguam detrahentem (Prov. XXV). Fatevi una legge non solamente di non fare giammai alcun rapporto contro chicchessia, ma ancora di non ascoltare giammai coloro che ve ne faranno; mentre o colui che vi riferisce qualche fallo che può muovervi a sdegno contro d’un altro è un nemico, o è suo amico. Se è un nemico, egli opera per odio, voi non dovete credergli; se è un amico, egli è un amico falso che non ne merita il nome; riguardatelo come un traditore, un indegno, un infedele, capace di rendere un sì malvagio servizio a voi come ha fatto con altri. Finalmente, fratelli miei, regolate così bene la vostra lingua che non ve ne serviate giammai se non per ben parlare, per glorificar Dio in questo mondo, a fine di glorificarlo nell’altro. Così sia.

 Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps XXIX:2-3
Exaltábo te, Dómine, quóniam suscepísti me, nec delectásti inimícos meos super me: Dómine, clamávi ad te, et sanásti me.

[O Signore, Ti esalterò perché mi hai accolto e non hai permesso che i miei nemici ridessero di me: Ti ho invocato, o Signore, e Tu mi hai guarito.]

Secreta

Réspice, Dómine, quǽsumus, nostram propítius servitútem: ut, quod offérimus, sit tibi munus accéptum, et sit nostræ fragilitátis subsidium.

[O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno al nostro servizio, affinché ciò che offriamo a Te sia gradito, e a noi sia di aiuto nella nostra fragilità.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Prov III: 9-10
Hónora Dóminum de tua substántia, et de prímitus frugum tuárum: et implebúntur hórrea tua saturitáte, et vino torculária redundábunt.

[Onora il Signore con i tuoi beni e con l’offerta delle primizie dei tuoi frutti, allora i tuoi granai si riempiranno abbondantemente e gli strettoi ridonderanno di vino.]

Postcommunio   

Orémus.
Sentiámus, quǽsumus, Dómine, tui perceptióne sacraménti, subsídium mentis et córporis: ut, in utróque salváti, cæléstis remédii plenitúdine gloriémur.

[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, mediante la partecipazione al tuo sacramento, noi sperimentiamo l’aiuto per l’ànima e per il corpo, affinché, salvi nell’una e nell’altro, ci gloriamo della pienezza del celeste rimedio.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. PIO XII – “MUNIFICENTISSIMUS DEUS”

Davanti a questa Lettera Enciclica si resta come rapiti ed estasiati davanti alla scienza teologica, alla dottrina così sapientemente esposta, alla devozione manifestata con tale amore filiale, con la decisione ed il piglio sicuro di chi si assume in piena autorità e responsabilità il compito di definire un dogma di fede così importante e fondamento dell’edificio spirituale Cattolico. Si intravede qui con chiarezza il “dito di Dio” e la pienezza dello Spirito Santo in azione. Innanzitutto il Pontefice non nasconde le difficoltà della vera Chiesa di Cristo, e del suo Pontificato « … assillato da tante cure, preoccupazioni e angosce, per le presenti gravissime calamità e l’aberrazione di molti dalla verità e dalla virtù … », e dopo aver dato tutte le prove dottrinali, scritturali, patristiche e teologiche per la definizione del grande dogma di fede cattolica e divina, si augura che ciò possa portare il Cristiano a vivere con gioia la sua vita di fede nell’attesa di una resurrezione così splendidamente illustrata da questo procedente eclatante e meraviglioso … « mentre il materialismo e la corruzione dei costumi da esso derivata minacciano di sommergere ogni virtù e di fare scempio di vite umane, suscitando guerre, sia posto dinanzi agli occhi di tutti in modo luminosissimo a quale eccelso fine le anime e i corpi siano destinati ». Non c’è nulla da aggiungere a commento delle parole sapientissime del Sommo Pontefice, anche se non possiamo rammaricarci del fatto che tanti Cristiani, senza scienza né conoscenza dottrinale neghino nei fatti questa verità di fede guidati come sono da un’orda di irresponsabili chierici, per lo più finti e sacrileghi, che guidano milioni di anime verso il modernismo anticristiano, somma di tutte le eresie, praticato dalla setta del “falso profeta”, quella del Vaticano II, condividendone la sorte finale: lo stagno di fuoco eterno. Che la Vergine Assunta in cielo possa schiacciare il capo del dragone maledetto, che è il diavolo, capo della bestia, le sue membra, cioè gli aderenti alle conventicole di perdizione, ai partiti politici laici anticristiani, ai poteri cosiddetti forti nell’empietà, e al falso profeta, cioè a tutte le sette eretiche e scismatiche che operano sacrilegamente a perdizione delle anime create da Dio per partecipare alla vita divina ed all’eterna felicità in anima e corpo.

PIO XII
SERVO DEI SERVI DI DIO
A PERENNE MEMORIA

COSTITUZIONE APOSTOLICA

MUNIFICENTISSIMUS DEUS (1)

LA GLORIFICAZIONE DI MARIA
CON L’ASSUNZIONE AL CIELO
IN ANIMA E CORPO

Il munificentissimo Dio, che tutto può e le cui disposizioni di provvidenza sono fatte di sapienza e d’amore, nei suoi imperscrutabili disegni contempera nella vita dei popoli e in quella dei singoli uomini dolori e gioie, affinché per vie diverse e in diverse maniere tutto cooperi in bene per coloro che lo amano (cf. Rm VIII, 28).  – Il Nostro pontificato, come anche l’età presente, è assillato da tante cure, preoccupazioni e angosce, per le presenti gravissime calamità e l’aberrazione di molti dalla verità e dalla virtù; ma Ci è di grande conforto vedere che, mentre la Fede Cattolica si manifesta pubblicamente più attiva, si accende ogni giorno più la devozione verso la vergine Madre di Dio, e quasi dovunque è stimolo e auspicio di una vita migliore e più santa. Per cui, mentre la santissima Vergine compie amorosissimamente l’ufficio di madre verso i redenti dal sangue di Cristo, la mente e il cuore dei figli sono stimolati con maggiore impegno a una più amorosa contemplazione dei suoi privilegi.  Dio, infatti, che da tutta l’eternità guarda Maria vergine, con particolare pienissima compiacenza, «quando venne la pienezza del tempo» (Gal. IV, 4), attuò il disegno della sua provvidenza in tal modo che risplendessero in perfetta armonia i privilegi e le prerogative che con somma liberalità ha riversato su di lei. Che se questa somma liberalità e piena armonia di grazie dalla chiesa furono sempre riconosciute e sempre meglio penetrate nel corso dei secoli, nel nostro tempo è stato posto senza dubbio in maggior luce il privilegio della corporea assunzione al cielo della vergine Madre di Dio Maria.  – Questo privilegio risplendette di nuovo fulgore fin da quando il nostro predecessore Pio IX, d’immortale memoria, definì solennemente il dogma dell’Immacolata Concezione dell’augusta Madre di Dio. Questi due privilegi infatti sono strettamente connessi tra loro. Cristo con la sua morte ha vinto il peccato e la morte, e sull’uno e sull’altra riporta vittoria in virtù di Cristo chi è stato rigenerato soprannaturalmente col battesimo. Ma per legge generale Dio non vuole concedere ai giusti il pieno effetto di questa vittoria sulla morte se non quando sarà giunta la fine dei tempi. Perciò anche i corpi dei giusti dopo la morte si dissolvono, e soltanto nell’ultimo giorno si ricongiungeranno ciascuno con la propria anima gloriosa. – Ma da questa legge generale Dio volle esente la beata vergine Maria. Ella per privilegio del tutto singolare ha vinto il peccato con la sua concezione immacolata; perciò non fu soggetta alla legge di restare nella corruzione del sepolcro, né dovette attendere la redenzione del suo corpo solo alla fine del mondo. 

Plebiscito unanime

 Per questo, quando fu solennemente definito che la Vergine Madre di Dio Maria fu immune della macchia ereditaria fin dalla sua concezione, i fedeli furono pervasi da una più viva speranza che quanto prima sarebbe stato definito dal supremo Magistero della Chiesa anche il dogma della corporea Assunzione al cielo di Maria Vergine.  – Infatti si videro non solo singoli fedeli, ma anche rappresentanti di nazioni o di province ecclesiastiche e anzi non pochi padri del concilio Vaticano chiedere con vive istanze all’apostolica sede questa definizione.  In seguito queste petizioni e voti non solo non diminuirono, ma aumentarono di giorno in giorno per numero ed insistenza. Infatti per questo scopo furono promosse crociate di preghiere; molti ed esimi teologi intensificarono i loro studi su questo soggetto, sia in privato, sia nei pubblici atenei ecclesiastici e nelle altre scuole destinate all’insegnamento delle sacre discipline; in molte parti dell’Orbe Cattolico furono tenuti congressi mariani sia nazionali sia internazionali. Tutti questi studi e ricerche posero in maggiore luce che nel deposito della fede affidato alla Chiesa era contenuto anche il dogma dell’Assunzione di Maria Vergine al cielo; e generalmente ne seguirono petizioni con cui si chiedeva instantemente a questa Sede Apostolica che questa verità fosse solennemente definita. – In questa pia gara i fedeli furono mirabilmente uniti coi loro pastori, i quali in numero veramente imponente rivolsero simili petizioni a questa Cattedra di S. Pietro. Perciò quando fummo elevati al trono del Sommo Pontificato erano state già presentate a questa Sede Apostolica molte migliaia di tali suppliche da ogni parte della terra e da ogni classe di persone: dai nostri diletti figli Cardinali del sacro collegio, dai venerabili fratelli Arcivescovi e Vescovi, dalle diocesi e dalle parrocchie. Per la qual cosa, mentre elevavamo a Dio ardenti preghiere perché infondesse nella Nostra mente la luce dello Spirito Santo per decidere di una causa così importante, impartimmo speciali ordini perché si fondessero insieme le forze e venissero iniziati studi più rigorosi su questo soggetto, e intanto si raccogliessero e si ponderassero accuratamente tutte le petizioni che dal tempo del Nostro predecessore Pio IX, di felice memoria, fino ai nostri tempi erano state inviate a questa Sede Apostolica circa l’assunzione della Beatissima Vergine Maria al cielo.(2)

Il Magistero della chiesa

Ma poiché si trattava di cosa di tanta importanza e gravità, ritenemmo opportuno chiedere direttamente e in forma ufficiale a tutti i venerabili fratelli nell’episcopato che Ci esprimessero apertamente il loro pensiero. Perciò il 1° maggio 1946 indirizzammo loro la lettera [enciclica Deiparae Virginis Mariae, in cui chiedevamo: «Se voi, venerabili fratelli, nella vostra esimia sapienza e prudenza ritenete che l’assunzione corporea della beatissima Vergine si possa proporre e definire come dogma di fede, e se col vostro clero e il vostro popolo lo desiderate».  – E coloro che «lo Spirito Santo ha costituito Vescovi per pascere la chiesa di Dio» (At XX, 28) hanno dato all’una e all’altra domanda una risposta pressoché unanimemente affermativa. Questo «singolare consenso, dell’episcopato cattolico e dei fedeli»,(3) nel ritenere definibile, come dogma di fede, l’assunzione corporea al cielo della Madre di Dio, presentandoci il concorde insegnamento del Magistero Ordinario della Chiesa e la fede concorde del popolo cristiano, da esso sostenuta e diretta, da se stesso manifesta in modo certo e infallibile che tale privilegio è verità rivelata da Dio e contenuta in quel divino deposito che Cristo affidò alla sua Sposa, perché lo custodisse fedelmente e infallibilmente lo dichiarasse.(4) Il Magistero della Chiesa, non certo per industria puramente umana, ma per l’assistenza dello Spirito di verità (cf. Gv XIV, 26), e perciò infallibilmente, adempie il suo mandato di conservare perennemente pure e integre le verità rivelate, e le trasmette senza contaminazione, senza aggiunte, senza diminuzioni. «Infatti, come insegna il concilio Vaticano, ai successori di Pietro non fu promesso lo Spirito Santo, perché, per sua rivelazione, manifestassero una nuova dottrina, ma perché, per la sua assistenza, custodissero inviolabilmente ed esponessero con fedeltà la rivelazione trasmessa dagli Apostoli, ossia il deposito della fede».(5) Pertanto dal consenso universale di un Magistero Ordinario della chiesa si trae un argomento certo e sicuro per affermare che l’Assunzione corporea della Beata Vergine Maria al cielo, – la quale, quanto alla celeste glorificazione del corpo virgineo dell’augusta Madre di Dio, non poteva essere conosciuta da nessuna facoltà umana con le sole sue forze naturali è verità da Dio rivelata, e perciò tutti i figli della Chiesa debbono crederla con fermezza e fedeltà. Poiché, come insegna lo stesso Concilio Vaticano, «debbono essere credute per fede divina e cattolica tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o trasmessa oralmente o col suo Ordinario e Universale Magistero, propone a credere come rivelate da Dio».(6)  – Di questa fede comune della Chiesa si ebbero fin dall’antichità lungo il corso dei secoli varie testimonianze, indizi e vestigia; anzi tale fede si andò manifestando sempre più chiaramente. I fedeli, guidati e istruiti dai loro pastori, appresero bensì dalla s. Scrittura che la Vergine Maria, durante il suo terreno pellegrinaggio, menò una vita piena di preoccupazioni, angustie e dolori; inoltre che si avverò ciò che il santo vecchio Simeone aveva predetto, perché un’acutissima spada le trapassò il cuore ai piedi della croce del suo divino Figlio, nostro Redentore. Parimenti non trovarono difficoltà nell’ammettere che Maria sia morta, come già il suo Unigenito. Ma ciò non impedì loro di credere e professare apertamente che non fu soggetto alla corruzione del sepolcro il suo sacro Corpo e che non fu ridotto in putredine e in cenere l’augusto tabernacolo del Verbo divino. Anzi, illuminati dalla divina grazia e spinti dall’amore verso Colei che è Madre di Dio e Madre nostra dolcissima, hanno contemplato in luce sempre più chiara l’armonia meravigliosa dei privilegi che il provvidentissimo Iddio ha elargito all’alma Socia del nostro Redentore, e che hanno raggiunto un tale altissimo vertice, quale da nessun essere creato, eccettuata la natura umana di Cristo, è stato mai raggiunto.

L’omaggio dei fedeli

Questa stessa fede attestano chiaramente quegli innumerevoli templi dedicati a Dio in onore di Maria Vergine Assunta al cielo, e le sacre immagini ivi esposte alla venerazione dei fedeli, le quali pongono dinanzi agli occhi di tutti questo singolare trionfo della Beata Vergine. Inoltre città, diocesi e regioni furono poste sotto la speciale tutela e patrocinio della Vergine Assunta in cielo; parimenti con l’approvazione della Chiesa sono sorti Istituti religiosi che prendono nome da tale privilegio. Né va dimenticato che nel Rosario mariano, la cui recita è tanto raccomandata da questa Sede Apostolica, viene proposto alla pia meditazione un mistero che, come tutti sanno, tratta dell’Assunzione della Beatissima Vergine.

La liturgia delle chiese d’oriente e d’occidente

Ma in modo più splendido e universale questa fede dei sacri Pastori e dei fedeli Cristiani è manifestata dal fatto che fin dall’antichità si celebra in Oriente e in Occidente una solenne festa liturgica: di qui infatti i santi Padri e i Dottori della Chiesa non mancarono mai di attingere luce, poiché, come è ben noto, la sacra liturgia, «essendo anche una professione delle celesti verità, sottoposta al supremo Magistero della Chiesa, può offrire argomenti e testimonianze di non piccolo rilievo, per determinare qualche punto particolare della dottrina cristiana».(7)  – Nei libri liturgici, che riportano la festa sia della Dormizione sia dell’Assunzione di santa Maria, si hanno espressioni in qualche modo concordanti nel dire che quando la vergine Madre di Dio salì al cielo da questo esilio, al suo sacro Corpo, per disposizione della divina Provvidenza, accaddero cose consentanee alla sua dignità di Madre del Verbo incarnato e agli altri privilegi a Lei elargiti. Ciò è asserito, per portarne un esempio insigne, in quel Sacramentario che il Nostro predecessore Adriano I, d’immortale memoria, mandò all’imperatore Carlo Magno. In esso infatti si legge: «Degna di venerazione è per noi, o Signore, la festività di questo giorno, in cui la santa Madre di Dio subì la morte temporale, ma non poté essere umiliata dai vincoli della morte Colei che generò il tuo Figlio, nostro Signore, incarnato da lei».(8) – Ciò che qui è indicato con la sobrietà consueta della Liturgia romana, nei libri delle altre antiche liturgie, sia orientali, sia occidentali, è espressa più diffusamente e con maggior chiarezza. Il Sacramentario gallicano, per esempio, definisce questo privilegio di Maria «inspiegabile mistero, tanto più ammirabile, quanto più è singolare tra gli uomini». E nella liturgia bizantina viene ripetutamente collegata l’assunzione corporea di Maria non solo con la sua dignità di Madre di Dio, ma anche con altri suoi privilegi, specialmente con la sua Maternità verginale, prestabilita da un disegno singolare della Provvidenza divina: «A te Dio, re dell’universo, concesse cose che sono al disopra della natura; poiché come nel parto ti conservò vergine, così nel sepolcro conservò incorrotto il tuo corpo, e con la divina traslazione lo conglorificò».(9)

La festa dell’Assunta

Il fatto poi che la Sede Apostolica, erede dell’ufficio affidato al Principe degli apostoli di confermare nella fede i fratelli (cf. Lc XXII, 32), con la sua autorità rese sempre più solenne questa festa, stimolò efficacemente i fedeli ad apprezzare sempre più la grandezza di questo mistero. Così la festa dell’Assunzione dal posto onorevole che ebbe fin dall’inizio tra le altre celebrazioni mariane, fu portata in seguito fra le più solenni di tutto il ciclo liturgico. Il Nostro predecessore s. Sergio I, prescrivendo la litania o processione stazionale per le quattro feste mariane, enumera insieme la Natività, l’Annunciazione, la Purificazione e la Dormizione di Maria.(10) In seguito s. Leone IV volle aggiungere alla festa, che già si celebrava sotto il titolo dell’Assunzione della beata Genitrice di Dio, una maggiore solennità, prescrivendone la vigilia e l’ottava; e in tale circostanza volle partecipare personalmente alla celebrazione in mezzo a una grande moltitudine di fedeli.(11) Inoltre che già anticamente questa festa fosse preceduta dall’obbligo del digiuno appare chiaro da ciò che attesta il Nostro predecessore s. Niccolò I, ove parla dei principali digiuni «che la santa Chiesa Romana ricevette dall’antichità ed osserva tuttora».(12) – Ma poiché la liturgia della Chiesa non crea la Fede Cattolica, ma la suppone, e da questa derivano, come frutti dall’albero, le pratiche del culto, i santi Padri e i grandi Dottori nelle omelie e nei discorsi rivolti al popolo in occasione di questa festa non vi attinsero come da prima sorgente la dottrina; ma parlarono di questa come di cosa nota e ammessa dai fedeli; la chiarirono meglio; ne precisarono e approfondirono il senso e l’oggetto, dichiarando specialmente ciò che spesso i libri liturgici avevano soltanto fugacemente accennato: cioè che oggetto della festa non era soltanto l’incorruzione del corpo esanime della beata vergine Maria, ma anche il suo trionfo sulla morte e la sua celeste «glorificazione», a somiglianza del suo unigenito Gesù Cristo.

La voce dei Santi Padri

Così s. Giovanni Damasceno, che si distingue tra tutti come teste esimio di questa tradizione, considerando l’assunzione corporea dell’alma Madre di Dio nella luce degli altri suoi privilegi, esclama con vigorosa eloquenza: « Era necessario che Colei, che nel parto aveva conservato illesa la sua verginità, conservasse anche senza alcuna corruzione il suo corpo dopo la morte. Era necessario che Colei, che aveva portato nel suo seno il Creatore fatto bambino, abitasse nei tabernacoli divini. Era necessario che la Sposa del Padre abitasse nei talami celesti. Era necessario che Colei che aveva visto il suo Figlio sulla croce, ricevendo nel cuore quella spada di dolore dalla quale era stata immune nel darlo alla luce, lo contemplasse sedente alla destra del Padre. Era necessario che la Madre di Dio possedesse ciò che appartiene al Figlio e da tutte le creature fosse onorata come Madre e Ancella di Dio ».(13) – Queste espressioni di s. Giovanni Damasceno corrispondono fedelmente a quelle di altri, affermanti la stessa dottrina. Infatti parole non meno chiare e precise si trovano nei discorsi che in occasione della festa tennero altri Padri anteriori o coevi. Così, per citare altri esempi, s. Germano di Costantinopoli trovava consentanea l’incorruzione e l’Assunzione al cielo del corpo della Vergine Madre di Dio, non solo alla sua divina Maternità, ma anche alla speciale santità del suo stesso corpo verginale: «Tu, come fu scritto, apparisci “in bellezza”, e il tuo corpo verginale è tutto santo, tutto casto, tutto domicilio di Dio; cosicché anche per questo sia poi immune dalla risoluzione in polvere; trasformato bensì, in quanto umano, nell’eccelsa vita della incorruttibilità; ma lo stesso vivo, gloriosissimo, incolume e dotato della pienezza della vita».(14) E un altro antico scrittore dice: « Come gloriosissima Madre di Cristo, nostro Salvatore e Dio, donatore della vita e dell’immortalità, è da Lui vivificata, rivestita di corpo in un’eterna incorruttibilità con Lui, che la risuscitò dal sepolcro e la assunse a sé, in modo conosciuto da Lui solo».(15) – Con l’estendersi e l’affermarsi della festa liturgica, i pastori della chiesa e i sacri oratori, in numero sempre maggiore, si fecero un dovere di precisare apertamente e con chiarezza il mistero che è oggetto della festa e la sua strettissima connessione con le altre verità rivelate.

L’insegnamento dei teologi

Tra i Teologi scolastici non mancarono di quelli che, volendo penetrare più addentro nelle verità rivelate e mostrare l’accordo tra la ragione teologica e la Fede Cattolica, fecero rilevare che questo privilegio dell’Assunzione di Maria Vergine concorda mirabilmente con le verità che ci sono insegnate dalla sacra Scrittura. – Partendo da questo presupposto, presentarono per illustrare questo privilegio mariano diverse ragioni, contenute quasi in germe in questo: che Gesù ha voluto l’Assunzione di Maria al cielo per la sua pietà filiale verso di Lei. Ritenevano quindi che la forza di tali argomenti riposa sulla dignità incomparabile della Maternità divina e su tutte quelle doti che ne conseguono: la sua insigne santità, superiore a quella di tutti gli uomini e di tutti gli Angeli; l’intima unione di Maria col suo Figlio; e quell’amore sommo che il Figlio portava alla sua degnissima Madre. – Frequentemente poi s’incontrano teologi e sacri oratori che, sulle orme dei santi Padri, (16) per illustrare la loro fede nell’Assunzione si servono, con una certa libertà, di fatti e detti della s. Scrittura. Così per citare soltanto alcuni testi fra i più usati, vi sono di quelli che riportano le parole del Salmista: «Vieni o Signore, nel tuo riposo; tu e l’Arca della tua santificazione» (Sal CXXXI, 8), e vedono nell’Arca dell’Alleanza fatta di legno incorruttibile e posta nel tempio del Signore, quasi una immagine del corpo purissimo di Maria Vergine, preservato da ogni corruzione del sepolcro ed elevato a tanta gloria nel cielo. Allo stesso scopo descrivono la Regina che entra trionfalmente nella reggia celeste e si asside alla destra del divino Redentore (Sal XLIV, 14-16), nonché la Sposa del Cantico dei cantici «che sale dal deserto, come una colonna di fumo dagli aromi di mirra e d’incenso» per essere incoronata (Ct III, 6; cf. IV, 8; VI, 9). L’una e l’altra vengono proposte come figure di quella Regina e Sposa celeste, che, insieme col divino Sposo, è innalzata alla reggia dei cieli. – Inoltre i dottori scolastici videro adombrata l’assunzione della vergine Madre di Dio, non solo in varie figure dell’Antico Testamento, ma anche in quella Donna vestita di sole, che l’Apostolo Giovanni contemplò nell’isola di Patmos (Ap 12, 1s). Così pure, fra i detti del Nuovo Testamento, considerarono con particolare interesse le parole «Ave, o piena di grazia, il Signore è con te, benedetta tu fra le donne» (Lc 1, 28), poiché vedevano nel mistero dell’Assunzione un complemento della pienezza di grazia elargita alla beatissima Vergine, e una benedizione singolare in opposizione alla maledizione di Eva. – Perciò sul principio della teologia scolastica il pio Amedeo, Vescovo di Losanna, afferma che la carne di Maria Vergine rimase incorrotta; – non si può credere infatti che il suo corpo vide la corruzione, – perché realmente fu riunito alla sua anima e insieme con essa fu circonfuso di altissima gloria nella corte celeste. «Era infatti piena di grazia e benedetta fra le donne (Lc 1, 28). Lei sola meritò di concepire Dio vero da Dio vero, che partorì vergine, vergine allattò, stringendolo al seno, ed al quale prestò in tutto i suoi santi servigi e omaggi».(17) – Tra i sacri scrittori poi che in questo tempo, servendosi di testi scritturistici o di similitudini ed analogie, illustrarono e confermarono la pia sentenza dell’assunzione, occupa un posto speciale il dottore evangelico, s. Antonio da Padova. Nella festa dell’Assunzione, commentando le parole d’Isaia: «Glorificherò il luogo dove posano i miei piedi» (Is 60, 13), affermò con sicurezza che il divino Redentore ha glorificato in modo eccelso la sua Madre dilettissima, dalla quale aveva preso umana carne. «Con ciò si ha chiaramente – dice – che la beata Vergine è stata Assunta col corpo, in cui fu il luogo dei piedi del Signore». Perciò scrive il Salmista: «Vieni, o Signore, nel tuo riposo, tu e l’Arca della tua santificazione». Come Gesù Cristo, dice il santo, risorse dalla sconfitta morte e salì alla destra del Padre suo, così «risorse anche dall’Arca della sua santificazione, poiché in questo giorno la Vergine Madre fu assunta al talamo celeste».(18)

La dottrina di s. Alberto Magno e di s. Tommaso d’Aquino

Quando nel Medio Evo la teologia scolastica raggiunse il suo massimo splendore, s. Alberto Magno, dopo aver raccolti, per provare questa verità, vari argomenti, fondati sulla s. Scrittura, la tradizione, la liturgia e la ragione teologica, conclude: «Da queste ragioni e autorità e da molte altre è chiaro che la beatissima Madre di Dio è stata Assunta in corpo ed anima al disopra dei cori degli Angeli. E ciò crediamo assolutamente vero».(19) E in un discorso tenuto il giorno dell’Annunciazione di Maria, spiegando queste parole del saluto dell’Angelo: «Ave, o piena di grazia …», il dottore universale paragona la Santissima Vergine con Eva e dice espressamente che fu immune dalla quadruplice maledizione alla quale Eva fu soggetta.(20) – Il Dottore Angelico, seguendo le vestigia del suo insigne Maestro, benché non abbia mai trattato espressamente la questione, tuttavia ogni volta che occasionalmente ne parla, ritiene costantemente con la Chiesa Cattolica che insieme all’anima è stato assunto al cielo anche il corpo di Maria.(21)

L’interpretazione di s. Bonaventura

Dello stesso parere è, fra molti altri, il dottore serafico, il quale ritiene assolutamente certo che, come Dio preservò Maria santissima dalla violazione del pudore e dell’integrità verginale nella concezione e nel parto, così non ha permesso che il suo corpo si disfacesse in putredine e cenere.(22) Interpretando poi e applicando in senso accomodatizio alla Beata Vergine queste parole della s. Scrittura: «Chi è costei che sale dal deserto, ricolma di delizie, appoggiata al suo diletto?» (Ct VIII, 5), così ragiona: «E di qui può constare che è ivi (nella città celeste) corporalmente. … Poiché infatti … la beatitudine non sarebbe piena, se non vi fosse personalmente; e poiché la persona non è l’anima, ma il composto, è chiaro che vi è secondo il composto, cioè il corpo e l’anima, altrimenti non avrebbe una piena fruizione». (23)

Il pensiero della Scolastica nel secolo XV

Nella tarda scolastica, ossia nel secolo XV, s. Bernardino da Siena, riassumendo e di nuovo trattando con diligenza tutto ciò che i teologi del Medioevo avevano detto e discusso a tal proposito, non si restrinse a riportare le principali considerazioni già proposte dai dottori precedenti, ma ne aggiunse delle altre. La somiglianza cioè della divina Madre col Figlio divino, quanto alla nobiltà e dignità dell’anima e del corpo – per cui non si può pensare che la celeste Regina sia separata dal Re dei cieli – esige apertamente che «Maria non debba essere se non dov’è Cristo»; (24) inoltre è ragionevole e conveniente che si trovino già glorificati in cielo l’anima e il corpo, come dell’uomo, così anche della donna; infine il fatto che la Chiesa non abbia mai cercato e proposto alla venerazione dei fedeli le reliquie corporee della Beata Vergine, fornisce un argomento che si può dire «quasi una riprova sensibile».(25)

La conferma dei più recenti scrittori sacri

In tempi più recenti i pareri surriferiti dei santi Padri e dei Dottori furono di uso comune. Aderendo al consenso dei Cristiani, trasmesso dai secoli passati, s. Roberto Bellarmino esclama: «E chi, prego, potrebbe credere che l’arca della santità, il domicilio del Verbo, il tempio dello Spirito Santo sia caduto? Aborrisce il mio animo dal solo pensare che quella carne verginale che generò Dio, lo partorì, l’alimentò, lo portò, o sia stata ridotta in cenere o sia stata data in pasto ai vermi».(26) – Parimenti s. Francesco di Sales, dopo avere asserito che non è lecito dubitare che Gesù Cristo abbia seguito nel modo più perfetto il divino mandato, col quale ai figli s’impone di onorare i propri genitori, si pone questa domanda: «Chi è quel figlio che, se potesse, non richiamerebbe alla vita la propria madre e non la porterebbe dopo morte con sé in paradiso ?».(27) – E s. Alfonso scrive: «Gesù preservò il corpo di Maria dalla corruzione, perché ridondava in suo disonore che fosse guasta dalla putredine quella carne verginale, di cui Egli si era già vestito».(28) – Chiarito però ormai il mistero che è oggetto di questa festa, non mancarono dottori i quali piuttosto che occuparsi delle ragioni teologiche, dalle quali si dimostra la somma convenienza dell’Assunzione corporea della beata Vergine Maria in cielo, rivolsero la loro attenzione alla fede della Chiesa, mistica Sposa di Cristo, non avente né macchia, né grinza (cf. Ef V., 27), la quale è detta dall’Apostolo «colonna e fondamento della verità» (1 Tm III, 15) e appoggiati a questa fede comune ritennero temeraria per non dire eretica, la sentenza contraria. Infatti s. Pietro Canisio, fra non pochi altri, dopo avere dichiarato che il termine Assunzione significa la glorificazione non solo dell’anima, ma anche del corpo e dopo aver rilevato che la Chiesa già da molti secoli venera e celebra solennemente questo mistero mariano dell’Assunzione, dice: «Questa sentenza è ammessa già da alcuni secoli ed è issata talmente nell’anima dei pii fedeli e così accetta a tutta la Chiesa, che coloro che negano che il corpo di Maria sia stato assunto in cielo, non vanno neppure ascoltati con pazienza, ma fischiati come troppo pertinaci, o del tutto temerari e animati da spirito non già cattolico, ma eretico».(29)  Contemporaneamente il dottore esimio, posta come norma della mariologia che «i misteri della grazia, che Dio ha operato nella Vergine, non vanno misurati secondo le leggi ordinarie, ma secondo l’onnipotenza di Dio, supposta la convenienza della cosa in se stessa, ed esclusa ogni contraddizione o ripugnanza da parte della s. Scrittura» (30) fondandosi sulla fede della chiesa tutta, circa il mistero dell’assunzione, poteva concludere che questo mistero doveva credersi con la stessa fermezza d’animo, con cui doveva credersi l’Immacolata Concezione della Beata Vergine; e già allora riteneva che queste due verità potessero essere definite. – Tutte queste ragioni e considerazioni dei santi padri e dei teologi hanno come ultimo fondamento la s. Scrittura, la quale ci presenta l’alma Madre di Dio unita strettamente al suo Figlio divino e sempre partecipe della sua sorte. Per cui sembra quasi impossibile figurarsi che, dopo questa vita, possa essere separata da Cristo – non diciamo, con l’anima, ma neppure col corpo – Colei che lo concepì, lo diede alla luce, lo nutrì col suo latte, lo portò fra le braccia e lo strinse al petto. Dal momento che il nostro Redentore è Figlio di Maria, non poteva, come osservatore perfettissimo della divina legge, non onorare oltre l’eterno Padre anche la Madre diletta. Potendo quindi dare alla Madre tanto onore, preservandola immune dalla corruzione del sepolcro, si deve credere che lo abbia realmente fatto.

Maria è la nuova Eva

Ma in particolare va ricordato che, fin dal secolo II, Maria Vergine viene presentata dai santi Padri come nuova Eva, strettamente unita al nuovo Adamo, sebbene a lui soggetta, in quella lotta contro il nemico infernale, che, com’è stato preannunziato dal protovangelo (Gn III, 15), si sarebbe conclusa con la pienissima vittoria sul peccato e sulla morte, sempre congiunti negli scritti dell’Apostolo delle genti (cf. Rm cc. V e VI; 1 Cor XV, 21-26.54-57). Per la qual cosa, come la gloriosa risurrezione di Cristo fu parte essenziale e segno finale di questa vittoria, così anche per Maria la lotta che ha in comune col Figlio suo si doveva concludere con la glorificazione del suo corpo verginale: perché, come dice lo stesso Apostolo, «quando… questo corpo mortale sarà rivestito dell’immortalità, allora sarà adempiuta la parola che sta scritta: è stata assorbita la morte nella vittoria» (1 Cor XV, 54). – In tal modo l’augusta Madre di Dio, arcanamente unita a Gesù Cristo fin da tutta l’eternità «con uno stesso decreto» (31) di predestinazione, immacolata nella sua concezione, Vergine illibata nella sua divina maternità, generosa Socia del divino Redentore, che ha riportato un pieno trionfo sul peccato e sulle sue conseguenze, alla fine, come supremo coronamento dei suoi privilegi, ottenne di essere preservata dalla corruzione del sepolcro, e, vinta la morte, come già il suo Figlio, di essere innalzata in anima e corpo alla gloria del cielo, dove risplende Regina alla destra del Figlio suo, Re immortale dei secoli (cf. 1 Tm 1, 17).

Le ragioni del nuovo dogma

Poiché la Chiesa universale nella quale vive lo Spirito di verità e la conduce infallibilmente alla conoscenza delle verità rivelate, nel corso dei secoli ha manifestato in molti modi la sua fede, e poiché tutti i Vescovi dell’Orbe Cattolico con quasi unanime consenso chiedono che sia definita come Dogma di fede divina e cattolica la verità dell’Assunzione corporea della Beatissima Vergine Maria al cielo – verità fondata sulla s. Scrittura, insita profondamente nell’animo dei fedeli, confermata dal culto ecclesiastico fin dai tempi remotissimi, sommamente consona con altre verità rivelate, splendidamente illustrata e spiegata dallo studio della scienza e sapienza dei teologi – riteniamo giunto il momento prestabilito dalla provvidenza di Dio per proclamare solennemente questo privilegio di Maria Vergine. – Noi, che abbiamo posto il Nostro Pontificato sotto lo speciale patrocinio della santissima Vergine, alla quale Ci siamo rivolti in tante tristissime contingenze, Noi, che con pubblico rito abbiamo consacrato tutto il genere umano al suo Cuore Immacolato, e abbiamo ripetutamente sperimentato la sua validissima protezione, abbiamo ferma fiducia che questa solenne proclamazione e definizione dell’Assunzione sarà di grande vantaggio all’umanità intera, perché renderà gloria alla santissima Trinità, alla quale la Vergine Madre di Dio è legata da vincoli singolari. Vi è da sperare infatti che tutti i Cristiani siano stimolati da una maggiore devozione verso la Madre celeste, e che il cuore di tutti coloro che si gloriano del nome Cristiano sia mosso a desiderare l’unione col Corpo Mistico di Gesù Cristo e l’aumento del proprio amore verso Colei che ha viscere materne verso tutti i membri di quel Corpo augusto. Vi è da sperare inoltre che tutti coloro che mediteranno i gloriosi esempi di Maria abbiano a persuadersi sempre meglio del valore della vita umana, se è dedita totalmente all’esercizio della volontà del Padre celeste e al bene degli altri; che, mentre il materialismo e la corruzione dei costumi da esso derivata minacciano di sommergere ogni virtù e di fare scempio di vite umane, suscitando guerre, sia posto dinanzi agli occhi di tutti in modo luminosissimo a quale eccelso fine le anime e i corpi siano destinati; che infine la fede nella corporea Assunzione di Maria al cielo renda più ferma e più operosa la fede nella nostra Risurrezione. – La coincidenza provvidenziale poi di questo solenne evento con l’Anno santo che si sta svolgendo, Ci è particolarmente gradita; ciò infatti Ci permette di ornare la fronte della vergine Madre di Dio di questa fulgida gemma, mentre si celebra il massimo giubileo, e di lasciare un monumento perenne della nostra ardente pietà verso la Regina del cielo.

La solenne definizione

« Pertanto, dopo avere innalzato ancora a Dio supplici istanze, e avere invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio Onnipotente, che ha riversato in Maria Vergine la sua speciale benevolenza a onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre e a gioia ed esultanza di tutta la Chiesa, per l’autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi Apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo ».

Perciò, se alcuno, che Dio non voglia, osasse negare o porre in dubbio volontariamente ciò che da Noi è stato definito, sappia che è venuto meno alla Fede Divina e Cattolica. – Affinché poi questa Nostra definizione dell’Assunzione corporea di Maria vergine al cielo sia portata a conoscenza della Chiesa Universale, abbiamo voluto che stesse a perpetua memoria questa Nostra lettera apostolica; comandando che alle sue copie o esemplari anche stampati, sottoscritti dalla mano di qualche pubblico notaio e muniti del sigillo di qualche persona costituita in dignità ecclesiastica, si presti assolutamente da tutti la stessa fede; che si presterebbe alla presente, se fosse esibita o mostrata. – A nessuno dunque sia lecito infrangere questa Nostra dichiarazione, proclamazione e definizione, o ad essa opporsi e contravvenire. Se alcuno invece ardisse di tentarlo, sappia che incorrerà nell’indignazione di Dio onnipotente e dei suoi Beati Apostoli Pietro e Paolo.

Dato a Roma, presso S. Pietro, nell’anno del massimo giubileo 1950, 1° novembre, festa di tutti i santi, nell’anno dodicesimo del Nostro pontificato.

Noi PIO, Vescovo della Chiesa Cattolica,
così definendo abbiamo sottoscritto


(1) PIUS PP. XII, Const. apost. Munificentissimus Deus qua fidei dogma definitur Deiparam Virginem Mariam corpore et anima fuisse ad caelestem gloriam assumptam, 1 novembris 1950: AAS 42 (1950), pp. 753-771.

La glorificazione di Maria nella sua corporea assunzione è verità radicata profondamente nel senso religioso dei cristiani, come dimostrano lungo il corso dei secoli innumerevoli forme di specifica devozione, ma soprattutto il linguaggio della liturgia dell’Oriente e dell’Occidente. I santi padri e i dottori della chiesa, facendosi eco della liturgia, nelle feste dell’Assunta parlano chiaramente della risurrezione e glorificazione del corpo della Vergine, come di verità conosciuta e accettata da tutti i fedeli. I teologi, trattando di questo argomento, dimostrano l’armonia tra la fede e la ragione teologica e la convenienza di questo privilegio, servendosi di fatti, parole, figure, analogie contenuti nella sacra Scrittura. Accertata così la fede della chiesa universale, il papa ritiene giunto il momento di ratificarla con la sua suprema autorità.

(2) Petitiones de Assumptione corporea B. Virginis Mariae in Cælum definienda ad S. Sedem delatæ, 2 voll., Typis Polyglottis Vaticanis, 1942.

(3) Bulla Ineffabilis Deus: Acta Pii IX, pars I, vol. 1, p. 615; EE 2/app. 

(4) Cf. CONC. VAT. I, Const. dogm. Dei Filius de fide catholica, c. 4: COD 808-809.

(5) CONC. VAT. I, Const. dogm. Pastor Æternus de Ecclesia Christi, c. 4: COD 816.

(6) CONC. VAT. I, Const. dogm. Dei Filius de fide catholica, c. 3: COD 807.

(7) Litt. enc. Mediator Dei: AAS 39 (1947), p. 541; EE 6/475.

(8) Sacramentarium Gregorianum.

(9) Menæi totius anni

(10) Liber Pontificalis.

(11) Ibidem.

(12) Responsa Nicolai Papæ I ad consulta Bulgarorum, 13 nov. 866.

(13) S. IOANNES DAMASCENUS, Encomium in Dormitionem Dei Genetricis semperque Virginis Mariæ, hom. II, 14; cf. etiam ibid., n. 3.

(14) S. GERMANUS CONST., In sanctæ Dei Genetricis Dormitionem, sermo I.

(15) Encomium in Dormitionem sanctissimæ Dominae nostrae Deiparae semperque Virginis Mariae (S. Modesto Hierosol. attributum), n. 14.

(16) Cf. S. IOANNES DAMASCENUS, Encomium in Dormitionem Dei Genetricis semperque Virginis Mariæ, hom. II, 2, 11; Encomium in Dormitionem… (S. Modesto Hierosol. attributum). 

(17) AMEDEUS LAUSANNENSIS, De Beatæ Virginis obitu, Assumptione in Caelum, exaltatione ad Filii dexteram.

(18) S. ANTONIUS PATAV., Sermones dominicales et in solemnitatibus. In Assumptione S. Mariæ Virginis sermo.

(19) S. ALBERTUS MAGNUS, Mariale sive quæstiones super Evang. “Missus est”, q. 132.

(20) S. ALBERTUS MAGNUS, Sermones de sanctis, sermo XV: In Annuntiatione B. Mariæ; cf. etiam: Mariale, q. 132. ,

(21) Cf. Summa theol., III, q. 27, a. 1 c.; ibid., q. 83, a. 5 ad 8; Expositio salutationis angelicæ; In symb. Apostolorum expositio, art. 5; In IV Sent., D. 12, q. 1, art. 3, sol. 3; D. 43, q. 1, art. 3, sol. 1 et 2.

(22) Cf. S. BONAVENTURA, De Nativitate B. Mariæ Virginis, sermo 5. 

(23) S BONAVENTURA, De Assumptione B. Mariæ Virginis, sermo 1.

(24) S. BERNARDINUS SENENSIS, In Assumptione B.M. Virginis, sermo 2. 

(25) IDEM, l.c.

(26) S. ROBERTUS BELLARMINUS, Conciones habitæ Lovanii, concio 40: De Assumptione B. Mariæ Virginis.

(27) Oeuvres de St François de Sales, Sermon autographe pour la fete de l’Assomption.

(28) S. ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI, Le glorie di Maria, parte II, disc. 1.

(29) S. PETRUS CANISIUS, De Maria Virgine.

(30) SUAREZ F., In tertiam panem D. Thomæ, quaest. 27, art. 2, disp. 3, sec. 5, n. 31.

(31) Bulla Ineffabilis Deus: l. c., p. 599; EE 2/app.

FESTA DELL’ASSUNTA (2020)

15 AGOSTO. Assunzione della B. V. M.

[D. G. LEFEBVRE O. S. B.: Messale romano – L.I.C.E. –R. BERRUTI, TORINO 1936]

Doppio di I classe con Ottava Comune – Paramenti bianchi.

In questa festa, la più antica e la più solenne del Ciclo Mariano (VI secolo), la Chiesa invita tutti i suoi figli sparsi nel mondo a unire la loro gioia (Intr.), la loro riconoscenza (Pref.) a quella degli Angeli che lodano il Figlio di Dio, perché sua Madre è entrata in questo giorno, con il corpo e con l’anima, nel cielo (All.). Nella Basilica di Santa Maria Maggiore si celebra a Natale il Mistero, che è il punto di partenza di tutte le glorie della Vergine ed ancora si celebra oggi l’Assunzione, che ne è l’ultimo. Maria, porta in sé l’umanità di Gesù al momento dell’incarnazione del Verbo; oggi è Gesù, che riceve a sua volta il corpo di Maria in cielo. Ammessa a godere le delizie della contemplazione eterna, la Madre ha scelto ai piedi del suo divin Figlio la miglior parte, che non le sarà giammai tolta (Vang., Com.).

In altri tempi si leggeva il Vangelo della Vigilia, dopo quello del giorno, a fine di dimostrare che la Madre di Gesù è la più fortunata tra tutte, perché meglio d’ogni altra, « Ella ascoltò la parola di Dio ». Questa Parola, questo Verbo, questa Sapienza divina che stabilisce, sotto l’Antica Legge, la sua dimora nel popolo d’Israele (Ep.), è discesa sotto la Nuova Legge in Maria. Il Verbo si è incarnato nel seno della Vergine e ora negli splendori della celeste Sion egli l’ha colmata delle delizie della visione beatifica. Come Marta, la Chiesa sulla terra si dedica alle sollecitudini delle quali necessita la vita presente ed ancora come Marta, la Chiesa reclama l’aiuto di Maria (Or., Secr., Postc). Una processione fu sempre fatta nel giorno della festa dell’Assunzione. A Gerusalemme era formata dai numerosi pellegrini che andavano a pregare sulla tomba della Vergine e contribuirono così all’istituzione di questa solennità. Il clero di Costantinopoli faceva anch’esso nel giorno della festa dell’Assunzione di Maria una processione. A Roma, dal VII al XVI secolo, il corteo papale, al quale prendevano parte le rappresentanze del Senato e del popolo, andava in quel giorno dalla chiesa di San Giovanni in Laterano a quella di Santa Maria Maggiore. Questo si chiamava fare la Litania.

Assunzione della Beata Maria Vergine.

[Appendice al Messale ut supra]

La credenza nell’Assunzione corporea di Maria SS. era già radicata da secoli nel cuore dei fedeli, profondamente persuasi che la Vergine, sin dal momento del suo transito da questa terra al Cielo, era stata glorificata da Dio anche nel corpo, senza che dovesse attendere che questo risorgesse, insieme con quello di tutti gli altri, alla fine del mondo. Cosi La festa dell’Assunzione, celebrata già verso il 500 in Oriente, costituì la più antica e la maggiore solennità dell’anno in onore di Maria SS. . Tuttavia la realtà dell’Assunzione corporea di Maria in Cielo non fu oggetto di una solenne definizione da parte del Papa se non il 1° novembre 1950. In tale giorno, il Sommo Pontefice Pio XII proclamò dogma di fede che « Maria, terminata la carriera della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste quanto all’anima e quanto al corpo. – Questa definizione, maturata lentamente, ma incessantemente nei diciannove secoli che seguirono al beato transito di Maria da questa terra, ha ed avrà un’eco incalcolabile nella dottrina come nella vita cristiana. – Una delle sue conseguenze pratiche sarà quella di attirare vieppiù l’attenzione dei fedeli sulla futura glorificazione nostra non solo quanto all’anima, ma anche quanto al corpo. Come Adamo ci rovinò nell’una e nell’altro, così Gesù ci redense non solo quanto all’anima, ma anche quanto al corpo, cosicché l’anima del giusto è destinata ad una beatitudine immensa mediante la visione beatifica di Dio, ed il corpo alla sua volta verrà risuscitato, trasformato e configurato a quello glorioso del Cristo. Per Maria SS. la glorificazione corporea avvenne alla fine della sua carriera mortale; per gli altri giusti non avverrà che alla fine del mondo; ma se devono attenderla, non possono però dubitarne; la loro redenzione è certissima e sarà completa e perfetta (Rom. VIII, 23; Ef. IV, 30). Avendo già realizzato pienamente in se stessa il disegno divino della nostra redenzione, Maria SS. è per noi, colla sua Assunzione corporea, un altro modello, oltre quello di Gesù, della divinizzazione dell’anima mediante la visione beatifica e della glorificazione del corpo cui tutti siamo chiamati e che tutti dobbiamo meritare con le buone opere e con le sofferenze di questa vita cristianamente sopportate. Come del Cristo, così saremo coeredi di Maria SS., se soffriremo con Lei e come Lei (Rom. VIII, 17). – D’altra parte l’Assunta non soltanto ci ricorda quale sia la nostra meta soprannaturale e la via per raggiungerla, ma ci presta anche il suo validissimo aiuto. A quel modo che una buona mamma mira sempre a rendere partecipi della sua felicità tutti i suoi figli, così la Madre nostra celeste regna in Paradiso sempre sollecita della salvezza di tutti gli uomini. S. Paolo ci rappresenta Gesù che vive alla destra del Padre, sempre pregando per noi (Rom. VIII, 34; Ebr. VII, 25); la Chiesa, alla sua volta, ci dice che la Vergine è stata assunta in cielo, affinché fiduciosamente s’interponga presso Dio per noi peccatori (Segreta della Vigilia).

Affine di perpetuare anche nella Liturgia il ricordo della definizione del dogma dell’Assunzione di Maria SS., la Santa Sede ha pubblicato una nuova Messa in onore dell’Assunta, ordinando di inserirla nel Messale il giorno 15 d’agosto, in luogo di quella antica (A. A. S. 1950, pag. 703-5).

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ap XII: 1
Signum magnum appáruit in cœlo: múlier amicta sole, et luna sub pédibus ejus, et in cápite ejus coróna stellárum duódecim

[Un gran segno apparve nel cielo: una Donna rivestita di sole, con la luna sotto i piedi, ed in capo una corona di dodici stelle].

Ps XCVII: 1
Cantáte Dómino cánticum novum: quóniam mirabília fecit.

[Cantate al Signore un càntico nuovo: perché ha fatto meraviglie].

Signum magnum appáruit in coelo: múlier amicta sole, et luna sub pédibus ejus, et in cápite ejus coróna stellárum duódecim

[Un gran segno apparve nel cielo: una donna rivestita di sole, con la luna sotto i piedi, ed in capo una corona di dodici stelle].

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui Immaculátam Vírginem Maríam, Fílii tui genitrícem, córpore et ánima ad coeléstem glóriam assumpsísti: concéde, quǽsumus; ut, ad superna semper inténti, ipsíus glóriæ mereámur esse consórtes.

[Onnipotente sempiterno Iddio, che hai assunto in corpo ed ànima alla gloria celeste l’Immacolata Vergine Maria, Madre del tuo Figlio: concédici, Te ne preghiamo, che sempre intenti alle cose soprannaturali, possiamo divenire partecipi della sua gloria].

Lectio

Léctio libri Judith.
Judith XIII, 22-25; XV:10

Benedíxit te Dóminus in virtúte sua, quia per te ad níhilum redégit inimícos nostros. Benedícta es tu, fília, a Dómino Deo excelso, præ ómnibus muliéribus super terram. Benedíctus Dóminus, qui creávit coelum et terram, qui te direxit in vúlnera cápitis príncipis inimicórum nostrórum; quia hódie nomen tuum ita magnificávit, ut non recédat laus tua de ore hóminum, qui mémores fúerint virtútis Dómini in ætérnum, pro quibus non pepercísti ánimæ tuæ propter angústias et tribulatiónem géneris tui, sed subvenísti ruínæ ante conspéctum Dei nostri. Tu glória Jerúsalem, tu lætítia Israël, tu honorificéntia pópuli nostri.
[Il Signore ti ha benedetta nella sua potenza, perché per mezzo tuo annientò i nostri nemici. Tu, o figlia, sei benedetta dall’Altissimo piú che tutte le donne della terra. Sia benedetto Iddio, creatore del cielo e della terra, che ha guidato la tua mano per troncare il capo al nostro maggior nemico. Oggi ha reso cosí glorioso il tuo nome, che la tua lode non si partirà mai dalla bocca degli uomini che in ogni tempo ricordino la potenza del Signore; a pro di loro, infatti, tu non ti sei risparmiata, vedendo le angustie e le tribolazioni del tuo popolo, che hai salvato dalla rovina procedendo rettamente alla presenza del nostro Dio. Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu la gloria di Israele, tu l’onore del nostro popolo!]

Graduale

Ps XLIV: 11-12; XLIV: 14
Audi, fília, et vide, et inclína aurem tuam, et concupíscit rex decórem tuum.

[Ascolta, o figlia; guarda e inclina il tuo orecchio, e s’appassionerà il re della tua bellezza.]

V. Omnis glória ejus fíliæ Regis ab intus, in fímbriis áureis circumamícta varietátibus. Allelúja, allelúja.

[V. Tutta bella entra la figlia del Re; tessute d’oro sono le sue vesti. Allelúia, allelúia].

V. Assumpta est María in cælum: gaudet exércitus Angelórum. Allelúja.  

[Maria è assunta in cielo: ne giúbila l’esercito degli Angeli. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc. 1:41-50
“In illo témpore: Repléta est Spíritu Sancto Elisabeth et exclamávit voce magna, et dixit: Benedícta tu inter mulíeres, et benedíctus fructus ventris tui. Et unde hoc mihi ut véniat mater Dómini mei ad me? Ecce enim ut facta est vox salutatiónis tuæ in áuribus meis, exsultávit in gáudio infans in útero meo. Et beáta, quæ credidísti, quóniam perficiéntur ea, quæ dicta sunt tibi a Dómino. Et ait María: Magníficat ánima mea Dóminum; et exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo; quia respéxit humilitátem ancíllæ suæ, ecce enim ex hoc beátam me dicent omnes generatiónes. Quia fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus, et misericórdia ejus a progénie in progénies timéntibus eum.”

[In quel tempo: Elisabetta fu ripiena di Spirito Santo, e ad alta voce esclamò: Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno! Donde a me questo onore che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, infatti, che appena il tuo saluto è giunto alle mie orecchie, il bimbo ha trasalito nel mio seno. Beata te, che hai creduto che si compirebbero le cose che ti furono dette dal Signore! E Maria rispose: L’ànima mia magnifica il Signore, e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore, perché ha guardato all’umiltà della sua serva; ed ecco che da ora tutte le generazioni mi diranno beata. Perché grandi cose mi ha fatto colui che è potente, e santo è il suo nome, e la sua misericordia si estende di generazione in generazione su chi lo teme.]

OMELIA

ASSUNZIONE E INCORONAZIONE DI MARIA

(G. PERARDI: “LA VERGINE MADRE DI DIO E LA VITA CRISTIANA”, Libr. del SACRO CUORE, TORINO, 1908)

[Imprim. AUG. Card. RICHELIMY, Archiepiscopus. Torino]

XXIV.

Assunzione e Incoronazione di Maria

Un profondo pensatore (Nicolas) meditando sulle relazioni che corrono tra i misteri che celebriamo in onore di Gesù Cristo e quelli che celebriamo in onore di Maria vi riscontrò un’analogia grande, espressa in una splendida pagina che merita di essere ricordata come introduzione al mistero che oggi ricordiamo: l’Assunzione di Maria Vergine al cielo, e la sua incoronazione. – Non v’è un solo mistero di Gesù Cristo, che non abbia il suo accompagnamento, e come il suo eco, in un mistero corrispondente della santissima Vergine, e questo parallelo de’ misteri del Figlio e di quelli della Madre è così costante, che è impossibile non vedervi una legge. Così il primo di tali misteri, quello della predestinazione di Gesù Cristo, implica necessariamente quello della predestinazione di Maria, poiché Egli è predestinato solo in quanto Uomo, e per conseguenza come Figlio di Maria. Il secondo mistero di Gesù Cristo, quello della sua prenunciazione profetica non si presenta a noi senza associar Maria alla medesima grandezza: la donna, la Vergine è sempre mostrata congiuntamente al suo seme, ossia al suo Figliuolo… – Il mistero della venuta di Gesù Cristo sulla terra nell’Incarnazione del Verbo, ne forma un solo con quello dell’Annunciazione: il medesimo mistero che produce un Uomo-Dio fa una Madre di Dio. Il mistero della visita di Gesù Cristo al suo Precursore e della santificazione che gli reca, va unito con quello della visitazione di Maria a sant’Elisabetta; e lo Spirito santo per bocca di questa non benedice a Gesù nascituro senza benedir a Maria. Il mistero del Natale presenta il Bambino con Maria sua madre, sulla quale riflette lo splendore della sua divinità e della gloria che gli danno gli Angeli, i pastori ed i re. Il mistero della presentazione di Gesù al Tempio si congiunge con quello della Purificazione di Maria: di Gesù è annunziato che sarà posto come segno di contraddizione: a Maria è annunziato che la spada del dolore le trapasserà l’anima. – La fuga e il ritorno dall’Egitto ci fanno vedere il Bambino e la Madre, affidati, come unico tesoro, alla custodia, alla fedeltà di Giuseppe. Gesù manifesta nel Tempio la sua sapienza divina; manifesta nel medesimo tempo la sua sommissione a Maria. Inizia i prodigi a Cana di Galilea, che aprono la serie della vita apostolica, ma vi appare l’intercessione potente di Maria. Muore in croce per la nostra salute; presso la Croce sta Maria: in quell’ora dolorosa mentre Gesù morendo diviene nostro Salvatore, Maria coi suoi dolori diviene nostra Madre.  – Così accanto ad ogni mistero, ad ogni gloria di Gesù v’ha un mistero, v’ha una gloria di Maria. Solamente il mistero dell’Ascensione di Gesù non avrà il suo riscontro in un mistero di Maria? Due destini così meravigliosamente uniti sin dalla loro origine e in tutto il loro corso, si separeranno al loro termine? (La Vergine sec. il Vangelo, capo XXII, p. 5°) No! E noi oggi ricordando la gloriosa Assunzione di Maria in corpo ed anima, al cielo, troviamo il mirabile compimento della piena e perfetta unione delle glorie di Maria colle glorie di Gesù Cristo. Esultiamo di questo novello trionfo di Maria.

I . — Maria, morta, venne seppellita. Il corpo di Maria, come quello di Gesù scese nella tomba. Vi rimarrà preda della corruzione? La morte è l’eco della vita. Maria visse umile; ma la sua vita è un intreccio di grandezze. Queste grandezze debbono riflettersi sulla sua morte, accordarvisi in meraviglioso concerto e comporre, nella sua Assunzione al cielo, la gloria delle sue glorie, la grandezza delle sue grandezze (Nicolas, op. cit.). – 1° Maria da tutta l’eternità è stata predestinata Madre di Gesù, Madre di Dio, e perciò è la più santa e la più perfetta immagine del suo Figliuolo. Non si può concepire Gesù senza Maria, separato da Maria; come non possiamo pensare il figlio senza la madre. Maria, per divina predestinazione, unita con Gesù in tutto ne sarebbe poi separata nell’ultimo termine per essere confusa col termine generale degli uomini? La ragione vi ripugna. La destinazione dev’essere al medesimo livello della predestinazione. Maria superiore a tutte le creature per la sua predestinazione di Madre di Dio, deve altresì salire a tutta l’altezza di questa dignità, esservi come portata dal peso medesimo di questa dignità. La predestinazione richiede l’Assunzione perché il primo mistero del destino della Vergine corrisponde all’ultimo.

2° Vi ha un rapporto fra l’entrata e l’uscita di questa vita, tra la concezione e la morte: ed è la mortalità, l’essere soggetti alla morte. Al nostro entrare nel mondo, il peccato originale, la morte spirituale dell’anima ci attende; al nostro uscire la morte ci aspetta. La morte è figlia del peccato. Dove il peccato ebbe una volta accesso trascina dietro di sé la morte. Ma dove il peccato non ha mai potuto avere accesso, neppure la morte ha potere di nuocere. La vita finisce nella morte, perché la vita s’inizia in una morte: la morte del peccato. Tale è la sorte infelice di tutti i figli di Adamo. Di qui la preghiera del profeta che domanda la custodia divina nell’entrata e nell’uscita dal mondo (Salm. CXX, 8. Dominus custodiat introitum tuum et exitum tuum).), nei due passi pericolosi, in due insidie. La grazia di Gesù esaudì la preghiera del profeta e ci libera da queste due insidie: dal peccato originale nel rinascimento spirituale, dalla morte per la risurrezione finale. Questa grazia però lascia sussistere le conseguenze temporali e specialmente la concupiscenza per l’anima durante la vita, e la corruzione pel corpo durante il tempo. Maria preservata dal peccato originale che è la causa della concupiscenza, della morte e della corruzione dell’uomo, doveva pure essere preservata da queste funeste conseguenze. Preservata dal peccato originale che è la corruzione dell’anima, doveva pure essere preservata dalla corruzione del corpo che è la conseguenza del peccato. Perché crederemo noi che Dio abbia accordato a Maria il primo privilegio che è il più grande e non le abbia accordato il secondo che è ben meno del primo? Maria è morta. La morte non fu per Maria l’effetto, la conseguenza del peccato. Morendo, piuttostoché morire, dice il Nicolas « depone la sua mortalità nella tomba per rivestirvi la gloria. Ella fu come concepita alla gloria frammezzo alla morte, come era stata concepita alla grazia di mezzo al peccato. Concepita alla grazia sotto l’involucro spinoso del peccato, senza riceverne il morso, Ella è stata ugualmente concepita alla gloria sotto l’inviluppo della morte senza riceverne la corruzione… È passata per la morte, ma non vi è restata; ella è passata per la morte, ma non per la corruzione. Vi è passata come e perché vi è passato il suo Figliuolo: Egli vi è passato per virtù propria; Ella mercé la grazia di Lui, di quella medesima grazia che ha prevenuto in lei la corruzione, come vi aveva prevenuto il peccato ». La Concezione Immacolata ha come il suo compimento nell’Assunzione.

3° Tra i misteri del Cristianesimo, scrive Bossuet (Sermone II per la festa dell’Assunzione), v’è una concatenazione ammirabile. Il mistero dell’Assunzione di Maria ha un legame particolare coll’Incarnazione del Figliuolo di Dio. Maria ha ricevuto altra volta Gesù dal cielo; è giusto che alla sua volta Gesù riceva in cielo Maria; discendendo fino a Maria, doveva esaltarla lino a sé. Anzi Gesù prende la vita umana da Maria: a Maria rende la vita per riconoscenza. E come appartiene a Dio di mostrarsi sempre più munifico, mentre da Maria non ricevette che una vita mortale, è degno della sua grandezza dartene una gloriosa. Così questi due misteri sono concatenati insieme: e affinché la relazione sia più perfetta gli Angeli intervengono nell’uno e nell’altro, si rallegrano oggi con Maria di vedere un sì bel seguito del mistero ch’essi hanno annunziato. Gesù Cristo, alla fine del mondo, invitando gli eletti alla gloria celeste, dirà loro: « Venite benedetti dal Padre mio, possedete il regno preparatovi fin dalla fondazione del mondo. Perché ebbi fame, e mi rifocillaste; ebbi sete, e mi deste da bere; fui pellegrino, e mi ricettaste; ignudo e mi copriste; infermo, e mi visitaste; carcerato, e veniste da me… Quante volte avete fatto qualche cosa a uno di questi de’ minimi miei fratelli, l’avete fatta a me» (S. MATTEO XXV 34-36, 40). Or con qual sollecitudine Gesù ha dovuto andare incontro a questa creatura Benedetta fra tutte che l’ha ricevuto in persona, che gli ha dato la vita, l’ha nutrito, allevato per la salute del mondo e per quella gloria celeste di cui ora gode la sua umanità? – Anche sotto un altro aspetto conveniva che Gesù elevasse Maria al trono del cielo, in corpo ed anima, perché conveniva che in cielo fosse onorato il segno sensibile della divina marternità; cioè il corpo stesso di Maria. Per essere glorificato in questo titolo di Figliuolo dell’uomo, Gesù Cristo è asceso al cielo col suo corpo. Per la medesima ragione era conveniente che sollevasse quel corpo di Maria, che ha fornito la materia del suo, per rendere testimonianza a quella qualità di Figliuolo, nella quale ha voluto ricevere le adorazioni nel sommo de’ cieli come le aveva ricevute prima in terra. – Era la gloria, l’onore stesso di Gesù che esigeva l’Assunzione di Maria. – Che cos’è Maria? Ci risponde un principe dell’eloquenza cristiana, che Maria è come Gesù Cristo incominciato. Difatti Gesù è nato da Maria. E perciò dopo l’Ascensione di Gesù al cielo, Maria è stata come un resto di Gesù. E Gesti avrebbe permesso la corruzione nella tomba della carne sua, nella propria Madre ? Gesù trasse la sua vita da Maria e perciò la volle non solo pura nell’anima, ma la onorò singolarmente anche nel corpo per la verginità. Per Gesù, Maria fu vergine e di una verginità singolare, nobilitata pel voto. Gesù nascendo conserva incorruttibile cioè intatto questo corpo verginale. Come ammettere che quel corpo che diede la vita a Gesù, adorno di tante grazie, sia stato abbandonato alla corruzione del sepolcro, sia diventato quell’orribile decomposizione che ci fa indietreggiare inorriditi, quel non so che, pel quale non si ha più nome in alcuna lingua? Come ammettere che la potenza e l’amore di Dio che hanno conservata la casta integrità di Maria, l’abbiano dimenticata poi sino a lasciarla diventare obbrobrio della nostra natura nella tomba? Esclama a questo proposito sant’Agostino: Non solo non ardisco dirlo, ma sento orrore al solo pensarlo. E soggiunge: Se Gesù ha avuto la potenza di conservare, nascendo, vergine Maria, Egli ha avuto altresì il potere di conservarla incorruttibile nella tomba. Se n’ebbe il potere, n’ebbe la volontà e perciò lo ha fatto.

4° Abbiamo altra volta considerato Maria a’ pie’ della Croce, ov’Ella combatte il combattimento decisivo contro il demonio. Maria ha compito sul Calvario la sua missione: è divenuta corredentrice col più grande, col più doloroso sacrificio che creatura abbia mai potuto compiere. Sola Maria, sul Calvario, soffriva non solo nell’anima, ma anche nel corpo quello che Gesù soffriva per le sue ferite. Ella che ha così intimamente partecipato ai dolori, agli strazi di Gesù, doveva egualmente partecipare alla sua gloria. Nel Paradiso terrestre l’uomo e la donna perdettero l’umanità col peccato; entrambi portarono il doloroso peso della prevaricazione. Sul Calvario, a Gesù è associata Maria per la Redenzione dell’uomo. L’Ascensione di Gesù al cielo ha, come risulta da tutta la Scrittura, relazione diretta colla sua dolorosa passione. Egli stesso lo manifestò apertamente ai discepoli d’Emmaus: O stolti, e tardi in cuore a credere cose dette già tutte dai profeti. Non doveva forse Cristo patire tali cose, e così entrare nella sua gloria? (S. LUCA XXIV, 25, 26) E come mai Maria così strettamente unita a Gesù nel dolore della passione, sarebbe esclusa dal suo trionfo? Oh non dubitiamo! Al Calvario doloroso risponde per Gesù la gloria dell’Ascensione, risponde per Maria il trionfo dell’Assunzione.

II. — L’Assunzione di Maria al cielo, non è solo dogma di fede (1 Nov. 1950 Munificetissimus Deus) ma è verità che non possiamo mettere in dubbio senza venire meno al nostro onore ed al nostro dovere di Cristiani.

1° La tradizione cristiana ha sempre ritenuto come verità l’Assunzione di Maria al cielo. I Venerandi Padri del Concilio Vaticano, nella domanda per la definizione dogmatica dell’Assunzione di Maria così parlano: « Se non si vuole appuntare di leggerezza e di credulità la fede della Chiesa in riguardo all’Assunzione di Maria — pensare il che, sarebbe empietà — senza dubbio bisogna fermamente ritenere che tale credenza abbia origine dalla tradizione apostolico-divina, ossia dalla rivelazione ». San Giovanni Damasceno ci ricorda che Giovenale, Patriarca di Gerusalemme, rispondendo nell’anno 451 all’imperatore Marciano che gli aveva inviato messaggeri per avere notizie del sepolcro di Maria, rispondeva, unitamente a’ vari Vescovi di passaggio a Gerusalemme reduci dal Concilio di Calcedonia, dicendo che il corpo di Maria non era nel sepolcro su cui era edificata una Chiesa, ma che il terzo giorno dopo il transito era stato trasportato dagli Angeli in cielo; che il sepolcro, aperto dagli Apostoli, non conteneva che i lintei e le sacre vesti in cui era stata avvolto il cadavere, dalle quali emanava una celestiale fragranza.

2° La Chiesa ha in vari modi confermato la sua fede nell’Assunzione di Maria al cielo. Il pontefice Nicolò I, nell’anno 858 parla del digiuno e della vigilia di tale festa, tramandata dall’antichità coi digiuni delle vigilie di Natale e Pentecoste. Già sotto san Gregorio Magno (590-604) la festa dell’Assunzione era celebrata con rito festivo. Fu pur confermata dall’istituzione dell’ottava che segue la solennità; e nello stabilire festa di precetto il giorno dell’Assunzione.

III. — Oh fossimo capaci di contemplare, o almeno di raffigurarci la gloria di Maria nella sua risurrezione, e nella gloriosa Assunzione. Oseremo tentarlo noi, poveri e deboli mortali? O Maria, deh! manifestaci la gloria dei tuoi trionfi, perché siamo tuoi figli.

1° Il terzo giorno dopo che Maria fu seppellita, riferisce la tradizione, « gli Apostoli che si trovavano a Gerusalemme, essendo sopravvenuto san Tommaso, l’unico che non era stato presente alla morte di Maria, il quale ardentemente desiderava di venerare anche una volta il sacro Corpo che aveva concepito il Figlio di Dio fatto Uomo, aprirono il sepolcro; ma non vi ritrovarono il sacro cadavere » (TAIT, Vita di Maria. Occorre anche notare che, mentre possediamo molte reliquie dei corpi degli Apostoli, nessuno ha mai preteso di possedere una reliquia del corpo di Maria. Se .Maria non fosse assunta in cielo bisognerebbe dire che mentre i primi Cristiani ebbero tanta premura di conservarci i resti mortali degli Apostoli e dei Martiri non si siano dato alcun pensiero dei resti mortali della madre del loro Signore). – Presi di ammirazione alla vista di questo mistero, gli Apostoli, assistiti dallo Spirito di Dio, l’interpretarono così: che Quegli a cui era piaciuto di prender carne nel seno immacolato di Maria, il Verbo di Dio, il Signore della gloria, che nel parto stesso di Lei non aveva voluto offendere la integrità di quel corpo verginale, si era compiaciuto di trasportarlo incorruttibile e immacolato nella gloria, senza fargli aspettare la comune e universale risurrezione degli eletti. Insieme cogli Apostoli si trovavano a questo grande avvenimento Timoteo primo vescovo di Efeso, e Dionigi l’areopagita il quale ne parla egli stesso ne’ suoi scritti (S. GIOVANNI DAMASCENO, Discorso 2° sulla Dormizione di Maria; Sofronio, Sant’ATANASIO, ecc., Breviar. Rom., die 18 augusti. — Non dobbiamo discutere questa tradizione perché non fondiamo tanto sopra di lei, quanto nel Vangelo la nostra fede in questo glorioso mistero. Tuttavia, osserveremo col Nicolas « …non possiamo trattenerci dal far osservare questa prova morale della sua perfetta veracità, che, se fosse stata un’invenzione, non si sarebbe mancato di rendere gli Apostoli testimoni del miracolo medesimo dell’Assunzione, come lo erano stati di quello dell’Ascensione; eche, limitandosi ad arguire l’Assunzione dal fatto solo della scomparsa del corpo della Santissima Vergine e dalle circostanze che avevano accompagnate la morte e la traslazione di lei, lo stesso racconto imprime, per la sua propria riservatezza, a queste circostanze soprannaturali ea questa induzione dell’avvenimento principale, uncarattere di veracità più conveniente che non sarebbe stata la descrizione dell’avvenimento medesimo »). – Maria a guisa di una nube d’incenso, uscita dalla tomba, si era innalzata verso il cielo. È il dolce paragone che ci presenta la sacra Scrittura: Chi è costei che ascende per deserto quasi piccola colonna di fumo dagli aromati di mirra ed incenso ? (Cant. III, 6). E noi ammirati, rispondiamo: Maria, la Vergine Madre di Dio.

2°Così finisce la scena della terra: nel medesimo tempo s’inizia il trionfo di Maria in cielo. Rappresentate alla vostra mente tutto quanto di grande, di splendido vi è dato immaginare: in confronto della realtà è un nulla. Quando l’intrepida Giuditta tornò vittoriosa dal campo degli Assiri portando la testa del duce Oloferne, « corsero a lei tutti piccoli e grandi… e accesi de’ lumi, se le affollarono tutti d’intorno… tutti adorando il Signore le dissero: Il Signore ti ha benedetta comunicandoti la sua possanza… E Ozia capo del popolo di Israele, le disse: Benedetta se’ tu, o figliuola, dal Signore Dio altissimo, sopra tutte le donne della terra. Benedetto il Signore… perocché Egli questo dì ha talmente esaltato il tuo nome che le tue lodi saranno mai sempre nelle bocche degli uomini… E tutto il popolo disse: Così è, così è » (Giud. XII ). Più tardi « Joakim sommo sacerdote si portò da Gerusalemme a Betulia con tutti gli anziani per vedere Giuditta. Ed essendo ella andata ad incontrarli, la benedissero tutti ad una voce dicendo: Tu gloria di Gerusalemme, tu letizia d’Israele, tu onore del popolo nostro: perocché virilmente hai operato, e hai avuto un cuore costante, perché hai amato la castità » (Ibid. XV, 9-12). Giuditta è figura di Maria: il trionfo suo è una pallida e meschina immagine del trionfo di Maria.

3° L’incomparabile donna s’avvicina al cielo. Principi della Gerusalemme celeste, apritene le porte imperocché si avvicina la vera Giuditta, la benedetta fra tutte le donne. S’aprono i cieli, e n’escono a schiere gli spiriti celesti per andare incontro alla vittoriosa Regina, e farle solenne corteggio. Non più un Angelo solo la saluta piena di grazia; i cori angelici l’acclamano: Gloria di Gerusalemme, letizia del cielo. Non più la sola madre del Battista, non più una sola donna rapita dalla sapienza del Redentore ne acclama beata la madre: ma gli eletti tutti a cori le si fanno incontro: i patriarchi, i profeti, i giusti dell’antico Testamento, i martiri, i vergini l’acclamano giubilanti. Adamo riconosce in Lei la donna promessa. Le eroine di Israele che la figurarono, i suoi santi genitori, il suo sposo Giuseppe gioiscono del suo trionfo. E Maria, più splendida dell’aurora, « bella come la luna, eletta come il sole, terribile come un esercito » (Cant. VI, 9), acclamata da tutti i cori celesti entra nella gloria. Oh feste, oh trionfi della terra! siete un nulla in confronto del trionfo di Maria in cielo. Maria entra in cielo; Iddio, il Signore degli Angeli, le si fa incontro: Surrexit rex in occursum eius (III Re, II, 19). Oh immaginate, se siete capaci, l’incontro di Maria con Dio! Con Gesù suo divino Figliuolo!… la mente si confonde, la parola viene meno. Iddio le stende la mano, la invita alla corona: Veni de Libano, coronaberis (Cant. IV, 18); le addita il trono preparatole da tutta l’eternità. Iddio Padre accoglie la sua figlia; e Maria l’adora. Gesù accoglie la Madre sua; Maria rivede, ritrova il suo Figlio nella gloria che non verrà meno. Lo Spirito Santo accoglie la sua sposa. L’eterno Padre incorona Maria della sua potenza; il Figliuolo della sua sapienza; lo Spirito santo della sua bontà, del suo amore. Maria, sollevata al di sopra degli ordini dei Patriarchi, dei Profeti, de’ Martiri, de’ Vergini, delle Potestà; de’ Cherubini, de’ Serafini, che l’acclamano Signora e Regina, ascende il suo trono alla destra del divin Figlio, riceve gli omaggi di tutti gli spiriti beati della Corte celeste. In quell’istante divenne realtà, la visione che san Giovanni contemplò in cielo: « Una donna vestita di sole, e la luna sotto i piedi di Lei, e sulla testa di Lei una corona di dodici stelle » (Apoc. XII, 1). Intanto la Vergine, mentre gli spiriti beati la circondano in rispettoso silenzio, traendo un’altra volta dal cuore il cantico della riconoscenza, esclama: « L’anima mia magnifica il Signore, e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore. Perché Egli ha riguardato alla bassezza della sua ancella: ed ecco da questo punto mi chiameranno beata tutte le generazioni» (S. Luc. I, 46-48). Anche noi uniamo la mente ed il cuore agli eletti del cielo, anche noi acclamiamo Maria, anche noi deponiamo dinanzi al suo trono i nostri devoti omaggi proclamiamola nostra celeste Regina!

4° La gloria di Maria è gloria nostra perché di Maria siamo figli devoti. Ma oh quali salutari pensieri si affollano alla mente, ricordando il trionfo, l’assunzione e l’incoronazione di Maria in cielo. Maria fu dalla SS. Trinità coronata di gloria come figlia del Padre, come madre del Figlio, come sposa dello Spirito santo, come Regina degli Angeli e degli uomini; coronata per la purezza più angelica, di cuore, di spirito, di corpo, per l’ubbidienza perfetta e l’umiltà profonda, per la carità ardente che la fece vivere e morire d’amor di Dio. E nella eternità beata da sola rende a Dio una gloria più grande di quella che Egli riceve da tutta la Corte celeste; colla sua presenza accresce la gioia di tutti i beati, è mediatrice fra il cielo e la terra, e colla sua intercessione ottiene a noi tutte le grazie. Iddio, coronando, la Santissima Vergine come Regina del cielo, non ha limitato la potenza che le ha decretato sulla creazione. I Dottori pensano che gli eletti vedano in Dio la loro famiglia, le persone colle quali ebbero relazioni in questo mondo. Maria che ha adottato tutti gli uomini ai piedi della Croce, e che ha per noi viscere materne, non può restare indifferente al nostro destino quaggiù; e una delle prerogative della sua beatitudine è quella di seguire col suo sguardo e di proteggere il nostro triste esilio in questa valle di dolore. – Maria ci vede; la divinità è come uno specchio immenso nel quale si riflettono agli occhi della Regina del cielo tutte le creature e tutte le loro opere buone o cattive, ha dunque conoscenza delle nostre miserie, e dell’estremo bisogno che abbiamo della grazia, della misericordia divina, e conosce insieme tutto ciò che Iddio vuole e aspetta da noi. Ora la vista del bene aumenta la sua felicità; essa esulta quando uno dei suoi figliuoli pensa a Dio, ed opera con rettitudine e con carità. Maria ci ama, come oggetto dell’eterno amore di Dio, come immagine di Lui, sue creature di predilezione, e suoi figli; ama in noi i fratelli di Gesù Cristo, conquista e prezzo del suo Sangue adorabile, i tempi dello Spirito santo, i futuri eredi del cielo, di tal guisa, dice sant’Alfonso de’ Liguori, che tutte le tenerezze riunite della terra non sono paragonabili all’affetto che Maria dal cielo porta a ciascuna anima amata da Dio. – Maria ci protegge. Essa è non solo per noi mediatrice supplichevole, ma potente avvocata; non domanda solo per grazia e misericordia, ma quasi comanda. Offre per noi i meriti di Gesù Cristo, e v’aggiunge i suoi; e, come Gesù interpone per noi i suoi meriti avanti al Padre, Maria difende la nostra causa presso Gesù. Il Figlio di Dio ama di essere pregato dalla Madre sua, perché vuole accordare a noi, per l’intercessione di Lei, tutte le sue grazie. E Dio ha dato a Maria un cuore proporzionato a tanto ministero; essa prova un desiderio ardente della salute di ciascuno di noi, e uno zelo indicibile per aiutarci a raggiungere il nostro fine, a meritare la felicità eterna. Oh rallegriamoci dunque che n’abbiamo ben ragione. Maria desidera la nostra salute: dasideriamola anche noi. Maria ci vuole aiutare a conseguirla: vogliamo conseguirla; desideriamo l’aiuto di Maria, domandiamolo, e cerchiamo di rendercene ognor più degni.

IV. — La gloriosa risurrezione e incoronazione di Maria porta di necessità il nostro pensiero al ricordo del nostro ultimo destino. Il nostro corpo, morto, sarà portato al cimitero, seppellito. La corruzione sarà l’ultima sorte del nostro corpo nella tomba? No! Rallegriamoci: questo corpo tempio vivo di Dio, consacrato nel Battesimo, albergo di Dio, un giorno risusciterà. La morte è il trionfo del demonio, perché il peccato, opera del demonio, ha introdotto la morte nel mondo. La risurrezione sarà la riparazione di questo disordine. Sarà anzi l’applicazione della Redenzione al corpo. Nel Battesimo, la Redenzione è applicata all’anima; nella risurrezione verrà applicata al corpo. — Sarà il trionfo completo di Gesù Cristo sulla morte. Se il corpo non risuscitasse, il demonio avrebbe trionfato di Dio, guastando per sempre l’opera di Lui. L’anima è creata per essere unita al corpo. Il demonio è riuscito a rompere questa armonia, col peccato. Alla fine del mondo, Dio, trionfando completamente del demonio, riunirà il corpo e l’anima. — Non l’anima solamente, ma tutto l’uomo, anima e corpo, hanno concorso ad operare il bene ed a commettere il peccato. Così è giusto che non l’anima sola, ma tutto l’uomo (anima e corpo riuniti per la risurrezione) riceva il premio od il castigo meritato. E perciò san Paolo insegna : « È necessario per tutti noi di comparire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno ne riporti quel che è dovuto al corpo secondo che ha fatto il bene od il male » (II Corinti v, 10. Il Grisostomo – Omelia 103 sulla II ai Corinti – cosi commenta: «Ciò che è stato istrumento di virtù o vizio, non resterà escluso dalla ricompensa o dal castigo; ma insieme coll’anima anche il corpo riceverà tormento o premio »). Dio metteva già sulle labbra di Giobbe queste parole: « Io so che vive il mio Redentore e che nell’ultimo giorno io risorgerò dalla terra, e di nuovo sarò rivestito di questa mia pelle, e nella mia carne vedrò il mio Dio, cui vedrò io medesimo » (Giob. IX, 25-27). Dio, per mezzo di Daniele ci insegna che « la moltitudine di quei che dormono nella polvere della terra si risveglieranno, altri per la vita eterna, ed altri per l’ignominia » (Dan XII, 2). Il secondo dei fratelli Maccabei diceva al tiranno: « Tu, o uomo iniquissimo, distruggi noi nella vita presente, ma il Re dell’universo risusciterà per la vita eterna noi, che moriamo per le sue leggi »; il quarto vicino a morire, diceva: « Ell’è cosa molto buona l’essere uccisi dagli uomini colla speranza in Dio di essere da Lui nuovamente risuscitati, perocché la tua risurrezione non sarà per la vita (I Macc, VII, 9, 14). Diceva Gesù: « Viene l’ora in cui tutti nei sepolcri udiranno la voce del Figliuolo di Dio, e ne usciranno quanti fecero il bene in risurrezione di vita; quanti poi fecero il male, in risurrezione di condanna» (S. Giov. V, 28, 29). E prima di risuscitar Lazzaro volle che Marta facesse un atto di fede nella risurrezione finale, e poi Egli soggiunse: « lo sono la risurrezione e la vita » (S. Giov. XI, 25). – Come preparazione poi alla promessa della SS. Eucaristia tenne un discorso, in cui tra le altre cose disse : « …La volontà del Padre, che mi ha mandato, è questa: chiunque conosce il Figlio e crede in Lui, abbia la vita eterna; e Io lo risusciterò nell’ultimo giorno » (ibid. VI, 40). Risusciteremo dunque. Saremo anche noi assunti in cielo in corpo ed anima? Oppure avremo ad essere precipitati negli eterni tormenti in anima e corpo? Siamo devoti di Maria, onoriamola non solo colle parole, cogli atti esterni, ma col cuore, colle virtù, e forti della sua protezione vinceremo il demonio e la carne nelle lotte della vita, e meriteremo così di vincere allora la morte con una risurrezione gloriosa che sarà per noi il principio dell’eterna e perfetta gloria, cui saremo ammessi nel nostro essere perfetto di corpo ed anima.

ESEMPIO. — Maria Teresa. — Correvano giorni dolorosi per la monarchia austro-ungarica. La donna che ne reggeva le sorti, benché di mente eletta ed impavida di cuore, dopo la morte di suo padre Carlo VI, abbandonata da tutti, venne assalita dai principi vicini, che le rubavano le provincie e minacciavano di sfasciarle il regno. L’infelice regina vedeva che al suo figliuolo, anziché un diadema, avrebbe lasciato una corona di spine. Come rimediare? Radunò a Presburgo i Grandi restatile fedeli, e alla loro presenza, tenendo il bambino sulle braccia, pronunciò queste commoventi parole: « Abbandonata da tutti, non ho altra difesa che la vostra generosità; nelle vostre mani, o miei amici, io confido il figlio dei vostri re, che aspetta da voi la sua salvezza ». Alla vista di quella sfortunata regina e del tenero bambino, i nobili Ungheresi si sentirono profondamente commossi, e pieni di santo entusiasmo, sguainarono la spada, gridando ad alta voce: Moriamo per la nostra regina Maria Teresa! Al grido di questi prodi l’Ungheria si scosse; da tutte le parti si corse alle armi, e si formò un formidabile esercito, che, di vittoria in vittoria, ricacciò i nemici dalle sue terre. In breve ogni cosa mutò aspetto e colla pace di Aquisgrana nel 1748 la regina ed il figliuolo ripresero il pacifico possesso della loro eredità. Questo fatto mi richiama alla mente un’altra ben più grande regina e tenera Madre, ancor Essa abbandonata oggi da molti, anzi perseguitata. Maria, l’augusta Regina del cielo, col suo Gesù in braccio, si vede costretta ad uscire da tanti cuori, da tante famiglie, dove aveva fissato il suo trono. Le si muove una guerra spietata, preferendo a Lei il suo eterno nemico, il demonio. Essa si volge a noi e c’invita a prendere le sue difese e ristabilire fra gli uomini il regno del suo divin Figlio, mettendo in fiore la Religione, e le pratiche devote. Coraggio, fratelli, all’opera; lo richiede l’onor della nostra Madre e della nostra Religione. Si, o Vergine Santa, noi ci faremo vostri apostoli, ci adopreremo con tutte le nostre forze per trarre i nostri fratelli dall’errore e dal vizio e condurli a’ vostri piedi. Vogliamo che voi regniate sopra di tutti, perché  siete Regina dell’universo, Madre di Dio, la donna sublime, sola degna delle divine compiacenze. Ed incominciamo ad offrirvi la nostra mente ed il nostro cuore, perché vi riconosciamo e proclamiamo nostra Regina.

CREDO …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Gen III:15
Inimicítias ponam inter te et mulíerem, et semen tuum et semen illíus.

[Porrò inimicizia tra te e la Donna: fra il tuo seme e il Seme suo.]

Secreta

Ascéndat ad te, Dómine, nostræ devotiónis oblátio, et, beatíssima Vírgine María in coelum assumpta intercedénte, corda nostra, caritátis igne succénsa, ad te júgiter ádspirent.
[Salga fino a Te, o Signore, l’omaggio della nostra devozione, e, per intercessione della beatissima Vergine Maria assunta in cielo, i nostri cuori, accesi di carità, aspirino sempre verso di Te.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Luc 1: 48-49
Beátam me dicent omnes generatiónes, quia fecit mihi magna qui potens est.

[Tutte le generazioni mi diranno beata, perché grandi cose mi ha fatto colui che è potente.]

Postcommunio

Orémus.
Sumptis, Dómine, salutáribus sacraméntis: da, quǽsumus; ut, méritis et intercessióne beátæ Vírginis Maríæ in coelum assúmptæ, ad resurrectiónis glóriam perducámur.
[Ricevuto, o Signore, il salutare sacramento, fa, Te ne preghiamo, che, per i meriti e l’intercessione della beata Vergine Maria Assunta in cielo, siamo elevati alla gloriosa resurrezione.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

L’IDEA RIPARATRICE (9)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (9)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO III

CAPO SECONDO (2)

LA VITA PERFETTA E LA RIPARAZIONE.

Che nel mondo si diano delle anime che hanno l’ambizione di « star male » collo stesso ardore con cui la massa degli uomini si mostra avida di « star bene », ecco il più bel trionfo della Provvidenza divina. Non è a stupire quindi se, quando gli vien fatto di scoprire qualcuna di queste anime, il Signore, per così dire, esulti in cuor suo e non possa resistere alla voglia di rendersi complice dei loro desideri di immolazione. Tuttavia quella sete è già il Signore che l’ha messa in cuor loro. Quando il Maestro divino vuole ricolmare le anime, prima incomincia a vuotarle Egli stesso direttamente. E così mentre tutto all’intorno la maggior parte degli uomini restano senza aspirazioni e desiderio alcuno, esse sono come torturate da esigenze infinite. E primieramente un bisogno di non lasciar che il Signor nostro soffra così come fa in Croce, di alleggerirne i dolori, di alleggerirli prendendone per sé una parte, di asciugare il sangue che sgorga dalla corona che gli trafigge le tempia, di espiare i colpi di martello delle mani e dei piedi, i solchi lividi della flagellazione, con altrettanti sacrifizi ricercati con ardente amore. Dall’altra parte della Croce c’è ancor un posto vuoto, esse vi si inchioderanno, avide di una cosa sola, di diventare così come una seconda copia, una ripetizione di Gesù Crocifisso. Esse prenderanno alla lettera il consiglio di S. Caterina da Siena: « Che l’albero della Croce sia piantato nel nostro cuore e nell’anima nostra! Fatevi simili a Gesù Cristo Crocifisso; nascondetevi nelle piaghe di Gesù Cristo Crocifisso; bagnatevi nel sangue di Gesù Cristo Crocifisso; inebriatevi e rivestitevi di Gesù Cristo Crocifisso: saziatevi di obbrobrii soffrendo per amore di Gesù Cristo Crocifisso ». In una lettera al suo direttore spirituale « Consummata » si lascia sfuggire questo lamento: « Talora si vorrebbe cantare qualche poco le misericordie del Signore; ma questa povera cetra è troppo vibrante per la durezza della materia di cui è formata; è quasi impossibile servirsi di essa. Giorni sono aveva incominciato a scriverle ma non ho potuto continuare; la prima nota che ne venne fuori fu cosi forte che una seconda avrebbe spezzate le corde. Il mio corpo è troppo piccolo per l’anima mia, e il mio cuore non può contenere l’amore con cui io Lo amo, il mio Gesù… È ben raro che io possa scriverle così come ho fatto sta sera, ma se ho voluto farlo, ho dovuto trattenere il mio sguardo perché non si fissasse in Lui … ». Si narra di una Suora che per grazia speciale del Signore, nella considerazione dei dolori di Gesù Cristo in Croce, provava una tale fitta al cuore, sentiva una tale scossa in tutta la persona, che aveva dovuto fare il proposito di non guardare più il Crocifisso. Siccome per discendere al refettorio comune era necessario passare dinanzi ad un grande Crocifisso appeso al muro, avvenne che un giorno ebbe l’imprudenza di alzare gli occhi; il suo sguardo incontrò la immagine sanguinolente del suo Salvatore ed essa cadde al suolo svenuta. Si dirà: testa esaltata, sensibilità esagerata. Sia pure. Ma tutto ben considerato, ove troviamo maggior ragione di meraviglia? Che si dia una persona che non può mirare il Crocifisso senza soffrirne, ovvero che se ne diano tante che possono benissimo guardarlo anche a lungo senza provarne alcun dolore? Se v’ha dello strano, dite pur voi da quale parte si trovi. – I santi non posseggono come noi la facoltà dì restare indifferenti alla presenza della immolazione di un Dio umanato: i santi, cosa singolare! non possono non soffrire quando vedono il loro Dio a soffrire. « Mi pare che, se questo sentimento di compassione dovesse prolungarsi, non saprei a quale tortura anche crudelissima paragonare quest’intima pena dell’anima, perché essa è ben simile a quella che Nostro Signore sostenne in cuore nel Getsemani quando uscì nel lamento: « L’anima mia è contristata fino a doverne morire » e dopo lunga preghiera prostrato a terra agonizzò e sudò sangue ». Così lasciò scritto il buon S. Alfonso Rodriguez, umile fratello coadiutore della Compagnia di Gesù, portinaio al Collegio di Maiorca, il quale soleva poi offrirsi al Signore per ogni sorta di patimenti (anche quelli dell’inferno, pena del senso) per ottenere che il Signore non fosse più offeso e più nessun uomo andasse dannato. Negli Acta Sanctorum (Vita Sanctæ Birgittæ) al giorno 8 ottobre si narra di S. Brigida di Svezia il fatto seguente: « Giovanetta ancora, nell’ascoltare un sermone sulla Passione di Gesù Cristo, fu tanto commossa che le dolorose scene di essa le rimasero profondamente impresse nel cuore. E subito la notte seguente essa vide Nostro Signore Crocifisso che si lamentava: Ecco in quale stato mi hanno ridotto! — Essa, semplicetta, domanda al Signore: E chi vi ha trattato così? — Quelli che mi offendono e che sono insensibili al mio amore —, rispose Gesù. Da quel momento Brigida fu tanto sensibile al pensiero della Passione del Salvatore che non poteva trattenersi in essa senza piangere teneramente ». Un’afflizione che si manifesta così in maniera sensibile suppone una grazia speciale e un amore particolare da parte di Dio. Questo però non contraddice punto quanto abbiamo sopra riferito, che cioè il restar del tutto insensibili alle pene del Signore, come fa un troppo grande numero di Cristiani, manifesta un’incoscienza ovvero una ingratitudine che non si può concepire. Oh! a che giova la crocifissione di questo nostro povero Salvatore? Egli è là sospeso tra cielo e terra, mediatore tra Dio e gli uomini, così afflitto, così addolorato!… e intanto così prodigiosamente « inutile »! Che si può fare per compensare tutta questa gloria che dovrebbe risultare al Signore e che gli uomini così ostinati gli rifiutano? — Amare? Ahimè! la meschina parola e soprattutto la povera cosa! Amare! E con che cosa, o grande Iddio? Amare con un sì miserabile cuore quale noi abbiamo in petto. Un cuore umano! Amare Iddio con un cuore sì meschino! Quale derisione, quale ironia! Con quanto vi ha di più debole amare Colui che è infinito; con quanto vi ha di meno generoso amare Colui che si è sacrificato per noi com’Egli solo ha saputo fare: il presepio, la Croce, la Santa Messa, i Sacramenti, la Chiesa; con una facoltà che è gretta quanto mai, amare Colui che si è dato senza misura; con delle piccolezze d’amore, amare Colui che è lo stesso Amore… No, Signore, non è possibile!… – Quale lotta! Dover competere con chi può brandire come arma di combattimento l’infinito è cosa che getta l’anima nello strazio e nella tortura. Voler dare e non poterlo fare; voler dare molto e non possedere nulla; a Colui che è tutto non offrire di continuo che così poco! È vero che non è necessario aver molto per dare molto, perché dà sempre molto chi dà tutto quello che ha, pur avendo poco. Ma… ahimè! anche qui, quale affanno per l’anima, quale angoscia di tutti i giorni. Quel poco che essa possiede, così fosse vero che lo offrisse senza riserva alcuna! Essa invece si conosce intimamente e sa benissimo quante mancanze vadano segnando il cammino di ciascun giorno: difetti leggeri, sì, ma per un cuore che ama queste indelicatezze hanno sempre alcun che di odioso. E quello che dovrebbe servire a calmare la pena non fa che aumentarla. Si consolerebbe il Maestro divino nel suo abbandono col donarsi interamente a Lui; ma si ha coscienza di procedere con raggiri, con grettezza e che l’amor proprio non disarma. « Egli non cesserà di molestarci che un quarto d’ora dopo la nostra morte », ci dice S. Francesco di Sales argutamente. E questo ci accora: vedersi forzati a servire Colui che merita tutto per mezzo di un «nonnulla » che pur non riesce a darsi interamente (Si confronti quanto abbiamo detto più sopra di Suor Geltrude-Maria la quale si rimproverava delle sue indelicatezze nell’amare il Signore. Cosa naturalissima quando si pensi a chi è Dio). – Il Signore tortura i santi con siffatte angosce continue. Non v’ha cosa che tanto sollevi l’animo al di sopra di se stesso quanto il desiderio di cose grandi, e il divin Maestro mette in cuore ai suoi cari questi ardenti ideali appunto per il piacere che prova nel contemplare queste anime grandi, anime veramente magnifiche in mezzo a tante piccolezze che loro sono ripugnanti. « Per vivere in atto di perfetto amore — dirà S. Teresa del Bambino Gesù — io mi offro come vittima di olocausto al vostro Amore misericordioso, supplicandovi di consumarmi incessantemente e di lasciar riversare nell’anima mia i torrenti della vostra tenerezza infinita così che io diventi martire del vostro amore, o mio Dio!… « … Io intendo rinnovarvi, o Gesù caro, ad ogni battito del mio cuore, infinite volte questa offerta finche, svanite le ombre, io possa di presenza colassù dirvi il mio amore in eterno ». – S. Maria Maddalena de’ Pazzi al termine di una sua orazione in cui ricevette grazie speciali da Dio, così si esprime di San Luigi Gonzaga: « Chi potrà mai apprezzare il valore degli atti interiori e la ricompensa che essi meritano! Non v’ha paragone tra quanto appare al di fuori e quanto avviene nell’intimo dell’anima. E Luigi, durante tutta la sua vita fu costantemente affamato delle ispirazioni interne che il Verbo eterno gli insinuava in cuore. Luigi fu un martire sconosciuto; perché chi vi ama, o Signore, vi vede sì grande e sì infinitamente amabile che per lui è un grande martirio il vedersi incapace di amarvi quanto egli vorrebbe e lo scorgere le creature che invece di amarvi teneramente vi offendono sempre più » (LYONARD: L’apostolat de la souffrance, p. 200). Così almeno l’anima assetata e in cerca di Dio potesse finalmente raggiungerlo, impadronirsene e tenerlo stretto fra le sue braccia… Ma, ahimè! sovente quanto più lo si cerca, tanto più Dio si allontana e si nasconde. Noi abbiamo l’Eucaristia, ma la presenza reale non dura che brevissimo tempo e poi anch’essa è tutta avviluppata di mistero: visus, tactus, gustus in te fallitur. Abbiamo la grazia santificante: ma quella presenza continua di Dio in noi che essa produce, non è la stessa cosa che la presenza continua di noi in noi medesimi. Avviene troppo spesso che noi siamo assenti da noi stessi. Le nulle e mille occupazioni quotidiane ci portano lontano da questo centro prezioso ove. per lo stato di grazia « i Tre », il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo, fanno continuamente la loro dimora. Iddio è dunque in noi: e noi non vi ci troviamo — o molto di rado’ — Abbiamo inoltre la preghiera: ma: lì nella preghiera non troviamo che la fede ove vorremmo il possesso reale: l’ombra, ove vorremmo il dono; la immagine, ove vorremmo la realtà presente. Si vorrebbe un Gesù così com’è naturalmente, e non si può avere che un Gesù « mascherato ». che sfugge continuamente e non si lascia raggiungere. E non dico nulla delle prove terribili dell’aridità in cui il Signore non si scorge più se non a grande distanza, sfumatura appena percettibile e così confusa che ci si domanda se veramente è Lui e si è quasi tentati a dire come gli Apostoli sul lago di Genezareth: « Phantasma est… un fantasma! ». – Eppure Gesù non ignora che noi abbiamo abbandonato tutto per poterlo seguire! Maria de la Bouillerie, poi religiosa del S. Cuore, parlando di sua madre diceva: « Io non l’abbandonerò mai per seguire un uomo! » . Ma abbiamo accettato di abbandonare anche la nostra madre perché sapevamo che seguire Gesù non è seguire un uomo, e con forza di volontà abbiamo detto a Nostro Signore: « Io verrò, dove abitate voi? ». — « Sei deciso?… Vieni! … ». — E ci siamo messi in cammino verso la terra promessa anche sapendo che prima di arrivare fino ad essa avremmo dovuto attraversare il deserto. Che importa? Si cammina per un buon tratto… e un bel giorno si crede di esser finalmente al termine del viaggio, alla casa del Maestro — l’abitazione del Re —. Invece, come quel fanciullo che montato sopra una sedia dinanzi all’altare batteva alla porta del Tabernacolo chiamando Colui che vi si è rinchiuso per amor nostro, anche noi battiamo: « Signore, ci siete voi? ». E come per quel fanciullo la porta del Tabernacolo non si apre e il Signore non dà segno alcuno della sua presenza. Deus absconditus! O Dio che martirizzi le tue anime care restando nascosto, misterioso sempre e inaccessibile. E noi ci fermiamo in faccia a Lui certi ch’Egli è presente, che potrebbe mostrarsi se il volesse, ma preferisce aspettare… e farsi aspettare. Una pena simile a quella della Maddalena al Sepolcro, la mattina della risurrezione. Fin dall’alba si era partita di casa portando con sé come unico tesoro dei poveri aromi — tutto quello che possedeva di utile in quella circostanza — e camminava in tutta fretta. Arriva finalmente… entra… e vede il Sepolcro vuoto… un Angelo, il sudario ripiegato da un lato, qualche cosa che appartenne a Lui, ma Egli non è là. Ed essa cercava Gesù, non soltanto la parola dell’Angelo, ma quella di Gesù. Non soltanto una reliquia di Lui, un documento della dimora sua in quel luogo fino a qualche momento prima, ma Lui, presente nel Sepolcro, che si lasciasse vedere… « Signore, ci siete voi? ». Il divin Maestro però non era lontano: anzi Egli è sempre vicinissimo ad un cuore che lo cerca. « Tu non mi cercheresti se tu non mi avessi già trovato »; parole poste sul labbro di Gesù Cristo da Pascal; e nulla di più vero. Chi cerca sinceramente Gesù e gli dice: « Signore, ove siete voi? » , non è più in cammino ma è giunto al termine della sua via. Nel momento stesso che ha formulata la sua domanda il Maestro gli si fa innanzi presente. Sì, il divin Maestro, ma sempre, secondo la sua abitudine, in modo più o meno velato. – Per la Maddalena Gesù Cristo è in sembianze d’un giardiniere e la poveretta non lo riconosce: ce Ditemi, dov’Egli si trova? Oh! ve ne scongiuro, non mi lasciate più a lungo in pena; io andrò a cercarlo fin là dov’Egli si trova… ». Se Egli si manifestasse interamente colmerebbe il desiderio dell’anima ma non già il proprio. Egli gode nel vedersi così desiderato dalle anime ardenti: imita in ciò la madre che si nasconde per provare il gusto di vedersi ricercata dal proprio bambino. Iddio, dice S. Agostino, non desidera di meglio che vedersi desiderato. Questa è la ragione di questi suoi abili raggiri che danno a noi tanta pena e a Lui procurano tanta gioia. Deus absconditus. Il Signore si nasconde: quindi le anime veramente accese d’amore per Lui soffrono a dismisura. Tutto hanno abbandonato solo per poterlo avere, possederlo e unirsi a Lui: e non giungono mai ad averlo, possederlo e unirsi a Lui come esse vorrebbero. Quindi il lamento della sposa dei Cantici: « Fasciculus myrrhæ dilectus meus. Il mio diletto è come un fascio di amarezza. In queste amarezze Iddio trova una soave dolcezza perché sono una prova certa di un amor grande per parte nostra. – Ma Egli non resiste a lungo e chiama la Maddalena col suo nome: « Maria! ». Così come in un baleno talora Egli si lascia quasi intravedere, e allora ci pare poter gettare ai suoi piedi e tendere le mani a Lui: finalmente lo si possederà e per sempre!. Ahimè! « No, non mi toccare», e questa noli me tangere pone il colmo al nostro martirio. Oh! che vale dunque l’amore se non si può procedere più innanzi? « Signore, sradicate del tutto quanto voi stesso mi avete posto in cuore, altrimenti abbiate pietà di me! ». Anche allora — anzi specialmente allora — il Maestro divino non cambia per nulla la sua tattica. Egli vuole scavare nell’anima degli abissi ancor più profondi, ed esce in quella risposta che sì direbbe crudele, ma in realtà è piena di misericordia: « Non è ancora venuta l’ora. Abbi pazienza ancora un po’ di tempo e poi mi vedrai » . « Che dite voi, o Signore — esclamava a questo proposito Paolina Reynolds — e parlate cosi ad un cuore che vi ama? ». « Sì — potrebbe rispondere Nostro Signore — così parlo ad un cuore che mi ama appunto perché anch’io lo amo. E voi fidatevi di me ». È in mezzo a questi patimenti interiori — che noi ci accorgiamo di non esser riusciti a descrivere, come avremmo voluto (Si legga a proposito il 2° Sermone di Bossuet per la festa dell’Assunzione…: « Egli vuole che si distrugga, si devasti, si annienti tutto quello che non è Lui: e per parte sua Egli si nasconde, e si rende quasi inaccessibile,sì che l’anima per l’una parte distaccata da ogni cosa, per l’altra non trovando modo di arrivare a Dio fuorché colla fede… cade in languori inconcepibili.«O sposo di sangue, date alle vostre spose queste armi che devastano e distruggono affinché esse si uniscano a Voi nel mistero della Croce, e vi portino come dote a voi cara il loro totale spogliamento. – « Questo è il mistero di unità che ogni giorno si opera con un martirio inesplicabile e che si terminerà con una pace che è Dio stesso. – « Oh! qual rovesciamento di cose, quale violenza e qual terribile lavoro, poiché Dio non scioglie dolcemente ma strappa; non piega ma rompe; non separa ma spezza e devasta tutto. Gesù, quando sarà che voi distruggerete interamente quanto ci distrugge?… Ah!come voi siete crudele! ») —patimenti nutriti soprattutto di desideri, che mai si giunge ad appagare, di sacrificarsi in qualche cosa, di sacrificarsi in tutte le cose: che il Signore darà alle anime occasione di mostrarsi un po’ meno inferiori al compito intravisto e alle ambizioni sognate.Offrirsi al Signore, già da lungo tempo si è capito che equivale a soffrire. E per questo appunto si è addolorati perché nell’offerta di se stessi pare che non ci sia abbastanza di penoso.È allora che Iddio invia a quell’animadelle pesanti croci: le aridità, le malattie,il lutto, il tradimento nell’amicizia, la persecuzione, l’insuccesso, le tribolazioni più varie e più dolorose. Nostro Signore in ciò non si trova mai imbarazzato, la sua provvista è abbondante, ha di che scegliere:si direbbe che a Nazareth abbia impiegato il suo tempo a preparare in gran copia delle croci, non abbia fatto altro; e se ne vedono di ogni sorta di legno e di tutte le dimensioni. Ed ecco come procede il Signore: per calmare l’angoscia di chi si lamenta di non soffrire abbastanza, Egli si decide di inviare una buona dose di patimento. Così Egli colma un martirio saziando di dolore, e il risultato di questa singolare interferenza di pene è un’immensa gioia. Si soffre; il Signore moltiplica la sofferenza: come risultato finale, ecco la felicità.Se non fossimo già avvezzi a trovare nelle cose divine di che strabiliare, quale non sarebbe il nostro stupore alla vista di questo strano e divino « circolo vizioso »nel quale l’Altissimo rinchiude le anime che sono tanto generose da consacrarsi senza riserva all’opera riparatrice dell’olocausto? (l’anima mia si nutre di tutti gli « Alleluja ». « Laudate ». • Cantate… », il che non toglie, è vero, la sofferenza, ma mi fa trovare in essa la mia pace, o se preferite: la pena è in me, ma io non sono in pena » – Consummata, 1. c .1).Noi abbiamo già udita l’esclamazione di S. Liduina e delle altre anime consimili ad essa. Al più profondo dei suoi più crudeli martirii un forte grido : « Io non sono da compatire, io sono felice! », il che suggerisce all’autore della sua Vita un commento veramente degno di nota, forse quanto di meglio sia stato scritto sul patimento. Le vittime — dice egli in sostanza — le più offerenti fra le creature, sono nello stesso tempo di tutte le creature le più felici. Offrirsi per l’olocausto è offrirsi per la felicità; perché Gesù si fa onore nel restituire con altrettanta pace e altrettanto gaudio, quanto a Lui si sacrifica con generosità. Per tutti i grandi « immolati » è avvenuto così. Iddio ha compensato la loro donazione con una tale pienezza da farli esclamare: « Ma Signore! questo non è il mio conto: io mi sono offerto per il sacrifizio e non ne ho che felicità!». Sì, quando un’anima s’è offerta a Gesù: « Voglio per me stessa mettermi,o Signore, sulla vostra Croce voglio che Voi siate colui che mi crocifigge ». Gesù accetta questa parte di carnefice e incomincia battere; ma alla vista del sangue che cola, dell’anima che si strugge, il suo cuore si spezza: non ha più il coraggio di continuare e si arresta. Allora si accosta e in un attimo colma l’abisso scavato dal patimento e l’anima allora rimane talmente trasportata che sente il bisogno di pregare il Signore a risparmiarle la gioia, come altri supplica il Signore a risparmiargli il dolore. Essa continua ad offrirsi ma la sua immolazione diventa la sua felicità, o meglio la sua immolazione, che continua ad esser in qualche modo dolorosa, è accompagnata da un tale gaudio divino che l’anima per nessuna cosa al mondo vorrebbe vedersene priva. Questo gaudio le è necessario per mantenere vive le fiamme dell’amore e attizzare il rogo permanente del Sacrifizio; e così con sapiente arte il Signore, per tener l’anima in continuo esercizio, alternale allegrezze e i dolori; le dolcezze sono il battistrada delle tribolazioni e le prove non precedono che di poco le gioie spirituali; ma, a conto fatto, il patimento è come affogato nel gaudio; non si può reprimere il singhiozzo, ma, come felicemente si esprime il Buathier, questi singhiozzi si risolvono in altrettanti cantici di allegrezza.L’abate Perreyve, uno di quelli che hanno meglio compreso e meglio spiegato il sacrifizio incontrato per amore, nell’analizzare questa contraddizione o, se vogliamo, questo equilibrio, lasciò scritto: « Donde viene, o Signore, che appena incamminato sulla via della Croce, io sento dalle vostre labbra parole d’ineffabile dolcezza? ». Infatti non appena Nostro Signore ha pronunziata la prima frase: « Se altri vuol venire dietro di me prenda la sua croce », Egli continua dicendo: «Il mio giogo è soave, il mio peso è leggero ». — « Appena ho incominciato a soffrire — soggiunge l’abate Perreyve— e già voi mi portate la consolazione;appena ho posto sulle mie spalle la croce e già la vostra mano divina me la rende leggera…« O Gesù! che imponete dei sacrifizi necessari ma che ne diminuite subito la pena col vostro tenero amore: o Gesù! che comandate la rinunzia a tutte le cose ma che fate poi trovare all’anima distaccata da se stessa un cumulo di tesori più grandi di quelli che potrebbe possedere: o Gesù! che ci obbligate a portare ogni giorno la nostra croce se vogliamo veramente seguirvi, ma che mutate poi questa croce in un giogo soave e in un peso leggero; o Gesù! Che spesso vi contentate della più piccola buona volontà dei nostri cuori e che ricambiate con sovrabbondanti consolazioni i nostri più deboli sforzi, no, non ho più paura di voi! Non mi spavento più del vostro Vangelo, io non tremo più al solo nome della Croce! Ormai ho capito che in essa sta il segreto delle grandi consolazioni e del vero appoggio nel cammino della vita, ove, anche contro il volere nostro, conviene soffrire. Io mi accosto quindi alla Croce con tutta confidenza e vengo a cercare ai suoi piedi, nel ricordo della vostra Passione, nuove grazie di forza e di pazienza. Non me le rifiutate, o generoso mio Maestro; e ricevetemi nel vostro corteo, fra quelle anime che trovano, venendo dietro di voi al Calvario, la forza di trar profitto dalle loro pene e di mutare in ricchezze senza fine tutte le amarezze della vita ». E con questa preghiera così bella, così ardente, così confidente, così umile poniamo termine al nostro lavoro. Quest’ultimo carattere di umiltà manifesta e consacra il vero spirito della Riparazione. – Quanti si vogliono dedicare, in unione di Gesù, alla Redenzione del mondo per mezzo del patimento, non possono farlo senza tremare conoscendo in modo evidente la loro assoluta incapacità. Essi comprendono che. lasciati a sé, al primo contatto del dolore essi fuggirebbero ben lontani. – Nessuno sa meglio di loro che essi non sono che la goccia d’acqua che si lascia versare nel vino del calice pel Sacrificio cruento: cosicché quelli che dànno di più sono quelli che sono convinti del « nessun valore » di quanto danno.

CONCLUSIONE

Non era nostra intenzione di scrivere un trattato completo sulla Riparazione: tanto meno un trattato scientifico di molta dottrina. Noi abbiamo semplicemente tentato di mostrare, ricordando brevemente su quali basi teologiche e dogmatiche si appoggi la Riparazione, quale posto dovrebbe avere l’idea riparatrice nel pensiero e nelle opere del buon Cristiano. Ai nostri giorni molti si sentono attirati da questa parte, ma restano esitanti, vanno a tentoni, poi indietreggiano o cambiano rotta perché mancano loro spesso i concetti chiari intorno alla riparazione. Queste nostre pagine vorrebbero risvegliare molti per metterli sull’avviso e ad altri già in guardia e desiderosi di luce, fornire le prime indicazioni. – In siffatta materia certamente una monografia o il contatto vivente d’un’anima riparatrice sono più efficaci che tutto un manuale; perciò abbiamo spesso rinviato il lettore a consultare diverse « Vite » . Tuttavia un breve schizzo della teoria non è inutile; è un allettamento e una prima indicazione. La lettura di opere più complete, il consiglio d’un savio direttore, e la grazia dello Spirito Santo finiranno d’illuminare, di convincere e di stimolare all’impresa. Durante la guerra sulle vie che andavano alla fronte si scorgevano di tratto in tratto degli avvisi a caratteri grossolani con qualche nome e una freccia: « Per il tal posto, seguite questa direzione ». Queste pagine non hanno altra ambizione; esse dicono: « Per andare al sacrifizio mettetevi sulla via della riparazione: non c’è passo più sicuro ». Cioè abbiamo voluto indicare da lungi la strada e non guidare fino alla linea di combattimento e ancora meno descrivere minutamente quanto si trova al termine della via… E come quelli soltanto che vissero nelle trincee della grande guerra hanno « sentito la realtà » della vita che vi si passava e possono parlarne — anche con pericolo di non esser compresi o neppur ascoltati — così solo quelli hanno i dati necessari a descrivere la vita di riparazione, cui il signore ha concesso di conoscere per esperienza propria e per il contatto delle anime altrui le regioni del completo devastamento dell’amor proprio, dello schiacciamento totale, della festa sanguinosa nel dono assoluto di tutto se stesso. Quindi si spiegano qua e colà i diversi punti in cui ci contentiamo di dare idee schematiche, incomplete e anche solo accennate. Non è da noi il penetrare nei domini riservati all’azione del Signore, lo scoprire « i segreti del Re », il far comprendere il modo che tiene nel comunicarsi alle anime privilegiate. Per questo è necessaria un’autorità, una pratica di ascetica e di mistica… e qualche altra cosa ancora, che noi non abbiamo. Un cieco non parlerà mai di luce o di colori. Dunque meglio d’ogni altro noi sappiamo quanto sia lontano questo nostro opuscolo da quello che si potrebbe desiderare. Anche così imperfetto, questo nostro lavoro potrà il Signore adoperarlo come strumento di sua gloria se il vorrà fare. Talora i mezzi in apparenza meno idonei sono quelli di cui Egli si serve per ottenere il risultato che ha di mira. Ci sia lecito aggiungere ancora una parola prima di terminare: un ricordo dell’ultima campagna. – Nel settembre 1917 due soldati di Liévin, in licenza a Hersin-Coupigny presso Pas de-Calais, pensarono di recarsi al villaggio natio per ricercare il loro piccolo peculio che avevano nascosto sotterra al momento dell’invasione. Essi vanno, ma l’uno di essi purtroppo non trova più nulla del suo. Prima di ritornarsene si portano all’antica chiesa del villaggio e la trovano tutta abbattuta al suolo. Solo una pesante croce in ferro fuso non è caduta, ma sta in piedi contro un resto di muro. E il soldato si avanza, la prende e, al cospetto d’un gruppo di Canadesi che applaudiscono, egli la stringe fra le sue braccia dicendo al suo compagno: « T u hai trovato il tuo tesoro, ecco il mio, io lo porto con me ». E in mezzo ai rottami e alle fosse scavate dalle bombe, a stento e gocciolanti sudore e coperti di fango i due amici portano fino ad Hersin la Croce della loro chiesa, Ritrovare la Croce, non già quella d’una chiesa distrutta, in mezzo ai rottami, ma quella del Salvatore del mondo rizzata sulla cima del Calvario si direbbe cosa facile. Ebbene, no! Meditando sulla festa dell’Invenzione di S. Croce, Mgr. d’Hulst ha potuto scrivere: « È una bella invenzione. Già da molto tempo abbiamo la croce dei due ladroni, la croce che disonora, ma la gran novità, essa è la Croce di Gesù… la quale per tante anime non è ancor stata trovata ». Oh! sì, essa è ancora da ritrovare per molte anime. E poi quando sia stata scoperta non convien fermarsi a contemplarla soltanto, ma bisogna prenderla e abbracciarla. I Canadesi applaudirono… il mondo, lui, non comprenderà nulla… e che importa? La croce afferrata a due mani poniamocela risolutamente sulle spalle. I rottami, le buche, le occasioni di cadute non mancheranno; la strada sarà difficile a percorrersi, il cammino un po’ lungo. Verrà spesso la tentazione di liberarsi da un tal peso, di gettare a terra queste due traverse che opprimono le spalle. « Come? — mormora allora Gesù — vorrai tu abbandonarmi?… Non vi sarà qualche Cireneo e qualche Veronica che vogliano aiutarmi a custodire intatta la mia Croce preziosa? ». Non vi sarà nessuno? È forse vero? Un giorno, durante la S. Messa, il Signore comunicò a S. Angela da Foligno una molto viva cognizione delle pene sofferte in Croce; ed essa così narra il fatto: — Sentii la sua voce a benedire i devoti che imitano la sua Passione e che hanno pietà di Lui: « Siate benedetti dalla mano del Padre, voi che avete partecipato e pianto la mia Passione; voi che ricomprati dall’Inferno cogli immensi dolori della mia Croce, avete sentito compassione di me. Siate benedette, fedeli memorie! voi che conservate nel vostro cuore il ricordo della mia Passione. Poiché voi avete offerta ad un Dio desolato la sacra ospitalità del vostro amore. Io era nudo sulla Croce, ero affamato, assetato, e voi aveste pietà di me. Siate benedetti, voi che avete usato misericordia. Al momento terribile di vostra morte io vi dirò: Venite benedetti dal Padre mio, io avevo fame e voi m’avete offerto il pane della vostra compassione… sospeso in Croce, ho pregato per i miei carnefici; che dovrò dire per voi che mi siete cosìdevoti quando verrò nella gloria per giudicare il mondo?». E mi è assolutamente impossibile esprimere l’amore che brillava sopra coloro che hanno pietà. — Al presente, più che in ogni altro tempo, Nostro Signore cerca dei « devoti che imitano la sua Passione ed abbiano compassione di Lui » . – Conceda il Signore a molti dei lettori e delle lettrici di queste pagine il desiderio di arruolarsi nella squadra dei « devoti » e la volontà generosa di fare parte di «quelli che hanno compassione ».

Chi vuole?

— « Oh! Signore, io lo voglio ».

FINE

DA SAN PIETRO A PIO XII (14)

[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]

PARTE SECONDA

DAL 1000 AI NOSTRI GIORNI

CAPO IV.

IL RINASCIMENTO

PREAMBOLO

La civiltà italiana del rinascimento

Lo studio dei classici latini, mai cessato in Italia nel Medio Evo, nel sec. XV, divenne un vero fanatismo; e questo furore, per cui parve rinascere la civiltà romana, fu detto « RINASCIMENTO ». I dotti, trascurando gli studi teologici o divine lettere e preferendo quelli dei classici, chiamati in opposizione: umane lettere, furono detti « umanisti » ed il nuovo indirizzo prese anche il nome di « umanesimo», perché ritornando al naturalismo, si allontanò dall’ideale religioso predicato dalla Chiesa (Se ci si accinge a giudicare oggettivamente la posizione spirituale degli umanisti, essa ci appare come uno svigorimento e, spesso, un annullamento delle tesi più specifiche del Cristianesimo. Mettendo alla pari le due rivelazioni, classica e cristiana, l’Umanesimo abolisce i confini fra naturale e soprannaturale; in nome dell’agostiniano « Omnis veritas a Deo » confonde la verità, che si trova nei classici e quindi è qualcosa di creato, con Dio stesso; nell’astratta contemplazione di tale verità razionale, pone il fine della vita; ed esalta perciò le soddisfazioni conseguibili in questo mondo, perdendo il senso dell’ascesi, del peccato, della preghiera. Idolatra la creatura, celebra 1’attività demiurgica dell’uomo, perde di vista il fatto storico dell’Incarnazione; fa di Dio un’entità astratta che si rivela (necessariamente?) nel Logos ». Così che, nato come reazione al razionalismo averroista, l’Umanesimo si chiude in un nuovo razionalismo – di carattere gnostico e cabalistico – ndr. -). Oltre il latino, si coltivò anche il greco con valenti maestri, quali il Crisolora, il Pletone, il Bessarione; si fondarono accademie a Firenze, a Roma, a Napoli; nacque il senso critico; s’iniziò la filologia e si ripresero le antiche dottrine filosofiche, specialmente quella di Platone (tipicamente gnostica, come il neoplatonismo alessandrino ed il cabalismo giudaico – ndr. -). L’Umanesimo ed il Rinascimento rinnovarono la vita intellettuale, artistica, morale e politica. Tutti i cittadini, non i soli umanisti, sentirono il bisogno di istruirsi e ciò fu reso facile dall’invenzione della stampa che, con il nuovo sistema dei caratteri mobili, divulgò la scienza e sostituì i libri ai costosi manoscritti. Si cominciò ad avere una libertà di pensiero, la cultura divenne sempre più laica e più largamente umana, e, con il ritorno al culto pagano della bellezza, della forza e della gloria, si affinò il senso artistico: Papi, prìncipi e nobili fecero a gara per ornare le città con magnifiche opere d’arte e per avere nei loro palazzi i migliori artisti. Il benessere, la magnificenza e la bellezza artistica giovarono agli Stati per consolidare il loro assolutismo, giacche lo sfarzo, le feste e i giochi pubblici resero i popoli meno gelosi della loro libertà ed attutirono la loro coscienza nazionale. Tuttavia i cittadini, svincolati dalle corporazioni, cominciarono a gustare i primi semi della libertà del lavoro, la donna fu elevata, e s’ingentilirono i costumi con tutto danno dei vincoli morali, rallentati per l’indifferenza religiosa e per il prevalente spirito umanistico razionale e scettico. L’invenzione delle armi da fuoco trasformò poi l’arte della guerra; alle ambascerie occasionali si sostituirono quelle permanenti e nacque la moderna diplomazia. Tra i « mecenati » che promossero ed agevolarono la cultura italiana del rinascimento notiamo: Lorenzo il Magnifico a Firenze, i Visconti e gli Sforza a Milano, i Gonzaga a Mantova, Nicolò V e Pio II a Roma.

D . Che cos’ è il Rinascimento?

— È il periodo storico e letterario, succeduto al Medio Evo e protrattosi lungo i sec. XV e XVI, durante il quale si ebbe un meraviglioso rifiorire dell’antica cultura classica.

D. Come vide la Chiesa il Rinascimento?

— Di buon occhio, anzi Vescovi e Cardinali protessero artisti e letterati. Il capo degli umanisti, Francesco Petrarca, trovò comprensione presso i Pontefici.

D. Quale fu la preoccupazione costante della S. Sede?

— Fu di incanalare il movimento rinascimentale sulla via tracciata dal Cristianesimo, per impedire pericolose deviazioni pagane. In una parola, la Chiesa, assimilando la bellezza dell’arte greco-romana, ha avuto cura di eliminare la concezione puramente naturalistica ed edonistica, ispirata ai principi del paganesimo.

D. Intendendo così lo studio e l’imitazione dei classici che ne veniva?

— Veniva potentemente favorito il progresso medesimo della civiltà

cristiana, in quanto il pensiero cristiano avrebbe trovato un’incomparabile

espressione artistica nelle rinate forme ellenico-romane.

D. Perché i Papi tanto entusiasticamente collaborarono al Rinascimento?

— Proprio perché ispirati da simile intento.

D. È tuttavia facile la conciliazione tra la forma pagana e il contenuto cristiano?

— No, e per questo non sempre seppero sottrarsi al fascino di un’arte troppo naturalistica e corrompitrice.

D. Che ne seguì?

— L’introdursi nel clero e nella corte pontificia di un certo spirito paganeggiante. Parve per un momento che la bellezza classica, pericolosamente accolta e festeggiata in veste d’ancella, fosse per assidersi come sovrana, in seno alla Chiesa di Dio.

D. Che cosa si ebbe?

— Un periodo tanto oscuro per la santità della disciplina ecclesiastica quanto splendido per un fiorire d’opere d’arte immortali.

D. Che cosa verrà poi a richiamare parte dell’alto clero dalle regioni dell’Olimpo alla triste realtà?

— La bufera del luteranesimo, che lo farà correre ai ripari, onde salvare i l salvabile, mediante la grande Riforma Tridentina.

IL SAVONAROLA

Cacciato Piero de’ Medici, la repubblica di Firenze ebbe breve durata e fu difesa nei primi tempi dal domenicano « GIROLAMO SAVONAROLA », nemico dei costumi guasti e corrotti.

I seguaci del frate erano detti per dileggio «piagnoni » come quelli che piagnucolavano sui peccati degli uomini. Suoi avversari erano:

1) i «palleschi» così chiamati dallo stemma a palla dei Medici;

2) gli «arrabbiati » fautori del governo oligarchico;

3) i « compagnacci » che amavano la vita carnevalesca;

4) il papa Alessandro VI, i cui scandali erano stati biasimati dal frate;

5) e i Francescani che mal tolleravano il disprezzo del Savonarola alle censure ecclesiastiche.

Uno di questi ultimi, Francesco di Puglia, assalì dal pulpito il ferrarese come impostore e lo sfidò ad un giudizio di Dio. Domenico Buonvicini, discepolo del Savonarola, accettò la sfida ed intendeva passare sul rogo con il Crocifisso in mano e l’Ostia consacrata. L’opposizione del francescano e la pioggia impedirono la barbara prova e si generò un tumulto; assalito il convento dì San Marco, il Savonarola, il Buonvicini e frate Silvestro Maruffi caddero in mano degli avversari e, dopo un processo sommario, furono impiccati ed arsi. A torto il Savonarola fu giudicato un precursore di Lutero; egli fu « un cattolico puro », bramoso di riformare i costumi del clero e non i dogmi religiosi.

I PAPI DEL RINASCIMENTO

D. Tra i Papi, chi fu il primo fautore del Rinascimento?

— Fu Nicolò V (1447 – 1455). Egli intese di fare di Roma il centro degli studi d’Europa, il focolare della cultura classica per assicurare alla Chiesa che il nuovo movimento letterario rimanesse in perfetta armonia con lo spirito cristiano,

D. Chi chiamò a Roma?

Una folla di artisti, di letterati e di dotti, che sosteneva regalmente con ogni sorta di soccorsi. Fondò anche la Biblioteca Vaticana.

D. Anche i suoi successori coltivarono l’arte, la letteratura ecc.?

Sì, pur non dimenticando la difesa della Cristianità dai Turchi, come fece Callisto  III (1455 – 1458), che li fermò al Danubio in Serbia (1456). Così pure Pio II e Sisto IV, per quanto l’opera loro approdasse a poco, a motivo delle discordie dei principi cristiani.

D. Quale difetto si comincia a notare nei Papi di questo periodo in avanti?

— Il nepotismo, che talora ne oscura la fama e che preparerà la rivoluzione religiosa del sec. XVI.

D. Che dire di Alessandro VI?

— La sua vita privata fu macchiata di gravi manchevolezze, ancorché gli avversari gli abbiano attribuite tante colpe che di fatto non commise.

D. Quale fu la sua colpa maggiore ?

Quella di aver lasciato troppo braccio al figlio Cesare Borgia, il famoso Duca Valentino, che, a forza d’astuzie e di delitti, riuscì ad impadronirsi di molte città delle Marche e della Romagna.

D. Come pontefice tuttavia come si diportò?

— Bene; poiché difese la libertà della Chiesa, propugnandone la purezza della dottrina, inviando missionari nelle terre scoperte proprio in quegli anni da Cristoforo Colombo, promovendo la vita religiosa e il culto della Madonna.

D. Che dimostra la sua vita scandalosa?

— Dimostra come anche nella Chiesa non manchi purtroppo l’elemento umano, capace di recarle serio pregiudizio, ma non mai di comprometterne l’esistenza, la quale poggia sull’assistenza divina.

D. Chi tra i Papi di questo tempo è ricordato tra gl’ingegni più originali del Rinascimento?

— Il famoso Giulio II (1503 – 1513), che chiamò a Roma Raffaello e Michelangelo, e fece gettare al Bramante le fondamenta della nuova Basilica di S. Pietro, « l’impresa architettonica più colossale dei tempi moderni ». Sulla sua tomba troneggia il Mosè di Michelangelo.

D. A chi s’intitola il secolo d’oro del Rinascimento, cioè il ‘500?

A Leone X (1513-1521), grande mecenate, ma per glorificare più la sua famiglia (i Medici di Firenze) e le proprie gesta, che la Chiesa.

D. Fu felice Leone X nella politica?

— No, per i suoi ondeggiamenti tra Carlo V e Francesco1, che lo fecero poi piegare verso Carlo V.

D. Capì almeno l’importanza e la gravità dell’eresìa luterana?

— Neppure; essa scoppia nel 1517 e si propaga con incredibile celerità.

L’IDEA RIPARATRICE (8)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (8)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale; Torino-Roma – Casa Editrice MARIETTI 1926]

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO III

CAPO SECONDO (1)

LA VITA PERFETTA E LA RIPARAZIONE.

Simona Denniel, la suora di Maria Riparatrice, che noi abbiamo testè citata, morta ancor giovane dopo un lunga e dolorosa infermità ottenuta da Dio come ricompensa dei suoi ardenti desideri, il 4 novembre 1910 scriveva: « Questa mattina, protraendo il ringraziamento alla S. Comunione per ripetere a Gesù che io desideravo ardentemente essere la sua piccola ostia, mi venne in mente ch’Egli forse andava cercando molte ostie… e che sarebbe certo una grande cosa il gettare nelle anime il germe del desiderio di diventare ostie. Pregherò dunque e soffrirò a questo fine che Dio moltiplichi le sue ostie, quelle vere, pure, generose e sante ». – Vi sono infatti delle anime che non si contentano del sacrifizio « a piccole dosi ». Sì sono trattenute troppo a mirare il loro Gesù sulla Croce, hanno misurato con troppa esattezza la profonda miseria del prossimo per non sentire ambizione di diventare anch’esse con Gesù per il bene delle anime come un « riscatto » e ciò nel massimo grado posatale, cioè vittime ». – Questa parola nel linguaggio ordinario ha un certo qual significato che umilia, che spiace. Si dirà più volentieri «sacrificarsi » che « esser vittima »; quest’ultima espressione non si circonda come la prima di una aureola di gloria. Se si dice: « Il sacrifizio dei nostri soldati in guerra », noi intendiamo qualche cosa di eroico: se parliamo delle vittime della guerra non si vede la gloria dell’impresa ma soltanto il dolore provato nel compierla. Tuttavia in sostanza le due espressioni si riferiscono alla medesima realtà di cose; non vi ha sacrifizio senza vittima. Ma sacrificarsi dice anzitutto slancio di affetto, dono di sé, immolazione volontaria, o almeno volontariamente accettata; mentre « esser vittima » lascia supporre facilmente che la pena si subisce un po’ per forza, si sopporta con malanimo, vedendo in essa più che un castigo meritato, una ingiustizia e una persecuzione. È da deplorare che questa parola si prenda spesso in così cattivo senso, e noi non la useremo che escludendo del tutto questo significato indegno del Cristiano. Nella nostra trattazione non significherà «ricevere a malincuore » ma piuttosto « darsi a cuor contento ». Per certe anime, l’abbiamo già detto, non basta rassegnarsi, sottomettersi, esse cercano, vogliono trovare la Croce, e quando finalmente l’hanno trovata, fuor di sé per la gioia esclamano con Andrea l’Apostolo: « O bona Crux! » e la abbracciano e se la stringono al seno e con risoluzione, nonostante lo scricchiolare delle ossa e il ripugnare di tutta la natura, come Gesù, per amore e per la Redenzione del mondo, si stendono sulle due traverse nodose e si offrono al martello che le configgerà, liete nel soffrire, sul legno infame insieme e glorioso. – Noi troviamo fra gli scritti intimi di una giovine (Morta nel 1918 a 29 anni. Essa verso la fine di sua vita dava a sé il nome di « consummata ») ricolma da Dio di grazie, elette, la seguente confidenza: « Una volta Nostro Signore mostrandomi i suoi dolori mi fece comprendere che me lì avrebbe dati tutti a soffrire. Io sapevo bene che non avrei potuto contenerli tutti come aveva fatto Egli stesso, ma compresi che ne sarei rimasta sempre ricolma. Se il mio patimento non avrebbe potuto essere grande come Lui. certo sarebbe stato almeno grande come me ». E aggiungeva: « il mio calice è pieno ma vorrei averne uno più grande ». Esser « ostia », che bel sogno! Sogno strano che non riescono a spiegare quelli che non comprendono le grandi cose, che cioè hanno il cuore piccino. Esser « ostia ». Sogno folle? No, ma sapienza sublime! Sogno forse alla portata di poche anime se per viverlo questo sogno fa d’uopo di grandi virtù e di copiose grazie? No. questo sogno può esser raggiunto da molti più che non si pensi; non tutti sanno parlare, scrivere, insegnare, ma chi non potrà imparare l’arte di soffrire e di sacrificarsi? Già altrove (Ames réparatrices, p, 10), abbiamo fatto notare questo doppio carattere apparentemente contraddittorio della riparazione: Vocazione per l’una parte « difficilissima fra tutte », perché esige assolutamente una rinunzia totale; vocazione per l’altra parte « accessibile a molti » meglio che non si possa immaginare, perché assicurata quest’intima e completa rinunzia, tutto il resto non conta per nulla. In altre parole: È vero che per sacrificarsi come « ostie » nel senso che abbiamo spiegato è necessaria una grazia speciale che il Signore non fa a tutti, ma è certo pure che il Signore tale grazia speciale la concede alle anime sue care ben più spesso che noi non supponiamo. – E qui specialmente va ricordato quanto già abbiamo detto dell’obbligo di consultare non soltanto le ispirazioni della grazia, ma ancora i doveri del proprio stato e il consiglio di un buon direttore spirituale. Offrirsi come vittime è cosa che deve durare a lungo, e per impegnarsi così per l’avvenire in cosa di tanta importanza non basta un fervore sensibile passeggero, uno slancio di divozione, una parola data in istato di consolazione spirituale. Il patimento, quando non è che immaginato, non fa ancora soffrire; quando invece è vissuto allora sì che grava sulle nostre spalle. Ai piedi del Crocifisso e da lontano la parola: « Vittima » sembra scritta a lettere d’oro; da vicino, nella realtà, è scritta a lettere di sangue. Non che domandi sempre il martirio della carne, ma comprende sempre, in tutte le ipotesi, una buona dose di tribolazioni, che quando ci vengano a colpire sconcertano una troppo semplice presunzione. – Fatta questa osservazione, diceva il vero Mgr. D’Hulst scrivendo ad una persona un po’ mondana : « La dottrina delia riparazione noi la troviamo sempre al fondo di ogni vera vita interiore. Ogni vita interiore quando sia vera conterrà implicitamente in ogni caso normale il desideri più o meno sentito di esser ostia ». Ogni vita interiore vera dunque, non solamente nei chiostri, ma anche nel mondo. Certamente la vita religiosa — e noi l’abbiamo già notato — specialmente negli Istituti che della Riparazione fanno un oggetto primario della loro attività, è come il campo più appropriato, ma non unico, allo sviluppo della vocazione speciale di « ostia » . Ma. la Dio mercé, può darsi benissimo, e si dà veramente, come già abbiamo constatato, che nel mondo e sotto le apparenze d’una vita di mondo vivano molte anime profondamente riparatrici. La persona a cui scriveva Mgr. D’Hulst era allora una di queste anime. Nelle tre lettere del 19 novembre 1880, 18 gennaio e 4 ottobre 1895, egli le spiegava meglio il suo pensiero: « Molto vi ha da riparare nel mondo e, diciamolo pur anche e soprattutto nel Santuario e nei chiostri. Nostro Signore aspetta un compenso dalla parte di quelle anime che non hanno abusato di certe sue grazie più scelte… Quale afflizione alla vista di tanti scandali! Solo il pensiero che possiamo riparare ce ne può diminuire l’amarezza. Prendere sopra di sé l’espiazione è rassomigliare a Colui di cui fu detto: Vere languores nostros ipse tulit. Se noi fossimo ben penetrati di questo pensiero, senza cercar grandi penitenze, non faremmo noi ben altra accoglienza alle contrarietà e alle amarezze della vita? ». Poi indica più chiaramente il modo di riparare: « Bisogna riparare per mezzo delle lagrime del nostro cuore, della fedeltà, della pazienza, per mezzo d’una profonda religione, e dell’amore. Bisogna riparare ricorrendo a Maria Santissima ed ai Santi, coll’offerta dei loro meriti, della loro virtù e del loro amore. Bisogna riparare colle nostre pene, colle nostre impotenze rassegnate, colle nostre oscurità, colle nostre angosce, colle nostre debolezze, coi nostri abbattimenti e dire: tutto questo va bene, io lo voglio, non c’è nulla di troppo fin qui: è meglio che sia così, e che io serva come le legna da bruciare per l’olocausto: se io non sono capace a fare da sacrificatore, se non so esser vittima, che io sia almeno quel pezzo inerte che altri abbrucia e consuma alla gloria di Dio » (Vie, t. II, p. 523). Olocausto, ecco il motto finale. Olocausto cioè sacrifizio, non sacrifizio qualunque, ma sacrifizio completo, ove tutta la vittima è sacrificata, nulla è risparmiato; sacrifizio totale. Fra gli atti di culto, di religione, il sacrifizio costituisce il più perfetto, il più glorioso a Dio, il più meritorio per l’uomo perché è la testimonianza più significativa che l’uomo possa rendere alla Sovrana Maestà di Dio, la protesta più solenne che egli possa fare della sua completa dipendenza al cospetto della potenza assoluta dell’Altissimo. – « Le parole — osserva il P. Ramière — non sono che un rumore che passa, che spesso rimane a fior di labbra. I sentimenti del cuore non sono intesi che da Dio e benché il loro linguaggio sia più sincero che quello delle labbra, non è tuttavia a riparo dall’illusione. Ma quando la creatura dà mano alla propria distruzione per onorare il Creatore, allora riconosce in modo efficace che Egli è il principio della sua vita e l’arbitro supremo dei suoi destini. E in questa distruzione di sé consiste propriamente il Sacrifizio. « Il Sacrifizio non è soltanto la testimonianza delle parole, o dei sentimenti, o delle azioni; è la testimonianza di tutta la vita, cioè della morte » (La Divinisation du Chrétien, p. 369). Quando il sacrifizio diventa olocausto raggiunge i limiti estremi di quanto l’uomo può dare: al di là di una simile immolazione radicale non c’è più nulla. Però la difficoltà non è propriamente nel darsi così senza riserve una volta e come in blocco, ma piuttosto, quando già ci si è dati cosi tutto in una volta e in blocco, nel non riprendere in diverse volte e a poco a poco quello che in un fascio era stato gettato sul rogo. La storia delle continuate « rapine nell’olocausto » è talmente umana anche in mezzo a quelli che hanno una virtù solida e una volontà risoluta! E il Signore permette che l’amor proprio tenti sempre qualche offensiva perché non manchino mai le occasioni di acquistarsi qualche merito. Se bastasse l’aver fatta l’offerta una volta sola la cosa sarebbe veramente troppo comoda. Ripetere l’offerta ogni giorno e molte volte al giorno — e sempre l’offerta totale — questo è propriamente offrirsi in olocausto. In pratica, cercando in tutto e sempre il beneplacito del Signore, come faceva Gesù Cristo, il cui cibo era appunto il compiere incessantemente la volontà del Padre (« … Fatemi trovare, o mio Dio, quell’atto si comprensivo e sì semplice che dia totalmente a Voi quello che io sono, che mi unisca a tutto quello che voi siete… « Tu lo senti già, anima cristiana, Gesù te lo dice in cuore che quest’atto non è altro che l’atto di abbandono con cui l’uomo lascia nelle mani di Dio tutto quello che ha e che è: anima e corpo, in generale ed in particolare Tutto abbandono in Voi, o Signore, fatene quello che volete. Mio Dio, io vi abbandono la mia vita e non soltanto questa che conduco nell’esilio a nella cattività sulla terra ma anche quella dell’eternità. Io rimetto nelle vostre mani la mia volontà, vi rimetto pure il dominio che voi mi avete concesso sulle mie azioni… Tutto vi ho dato; non mi resta più nulla, tutto l’uomo è nelle mani vostre. « Quest’atto si riferisce a tutto quanto è nell’uomo e nello stesso tempo anche a tutto quanto è in Dio. Io m’abbandono in voi, mio Dio! Alla vostra unità per esser una cosa sola con voi, alla vostra infinità, ecc. – « Con quest’abbandono non si cade punto nell’inazione; al contrario noi tanto più diventeremo attivi quanto più saremo guidati dallo Spirito Santo; quest’atto con cui noi ci diamo a Lui e alla sua azione in noi ci mette per così dire i n piena attività per Dio » (BOSSUET: Discorso dell’abbandono in Dio). – Così si vede che « l’abbandono in Dio » ben compreso, sfugge a qualsiasi taccia di quietismo. Sovente siamo ricorsi alle parole di Bossuet nel nostro presente scritto appositamente per evitare ogni ragione a dubitare della sicurezza di dottrina nel soggetto trattato); quello che ci piace non farlo mai « per questo solo » che ci piace; fra due azioni indifferenti eleggere quella che più è contraria al nostro gusto (Quest’impegno, sotto forma di voto, vien detto « Voto del più perfetto ». Come facilmente si può capire, chi voglia pronunziare un tal voto conviene che ne richieda l’approvazione dal Padre suo spirituale, che non la concederà se non a persona di virtù soda, di buon senso ed equilibrata; diversamente è una porta aperta a lutti gli scrupoli e a mille stranezze. In sostanza anche qui, come sempre altrove, « una mente che calcola e un cuore che rifugge da ogni calcolo »; ci vogliono le due cose. Con un cuore generoso, uno spirito saggio e ponderato, questo soprattutto.); nulla tenere per sé delle opere buone che possiamo fare, ma metter tutto a disposizione del Signore, sia per lo scopo particolare di suffragare le anime del Purgatorio (pratica dell’ « Atto eroico ») sia in generale per quelle intenzioni che gli sono più care; dare come in prestito a Gesù che non può più soffrire le nostre immolazioni come l’ostia gli dà in prestito la sua forma e le altre sue esteriorità; lasciare che Egli prenda in noi i patimenti che tanto desidera offrire al Padre per la gloria dell’Adorabile Trinità e per la salute delle anime, tendere a diventare Lui sotto le « apparenze » nostre (Nessuno meglio che Huysmans ha esposto questo pensiero con cui si arriva alle più intime profondità dell’Idea riparatrice: « Il Salvatore non può più soffrire in sé stesso; se vuole patire quaggiù noi può fare che nella Chiesa i cui figli formano il suo Corpo mistico. Queste anime riparatrici che ricominciano gli spasimi del Calvario, che si pongono in Croce nel posto lasciato vuoto da Gesù sono quindi in certo modo le sosie del Figlio di Dio; esse riflettono in uno specchio sanguinante il suo povero Volto; esse fanno di più: esse sole danno al Dio Onnipotente qualche cosa che ora a Lui manca, cioè la possibilità di soffrire ancora per noi: che appagano questo desiderio che è sopravvissuto alla sua morte, desiderio infinito come è infinito l’amore che l’ispira ». Esse possono « fare l’elemosina a questo misterioso Mendicante delle loro lacrime e rimetterlo nella gioia dell’olocausto, gioia che non può più provare altrimenti » – S. Liduina, p. 101): domandare umilmente a Dio. desiderare e cercare, sempre nei limiti della discrezione prima e poi dell’ubbidienza, le più minute occasioni che si presentano per sacrificarsi, aspettando di meglio se così piaccia al divin Maestro: — questo è l’incredibile programma che noi vediamo adottato da certe anime le quali seguono con gioia ardente i diversi impulsi della grazia e le varie sfumature della divozione propria di ciascuna di esse. V’ha chi giunge fino ad impegnarsi con voto di vivere come Vittima. Nelle Costituzioni delle Suore Benedettine dell’Adorazione perpetua — costituzioni approvate in forma speciale dalla S. Sede — al c. 58, § 23, si legge: « Voveo et promitto omni studio servare perpetuam SS. Sacramenti altaris adorationem et cultum, uti victima gloriæ ipsius immolata ». Così abbiamo una conferma autentica da Roma di questa qualità di vittima immolata alla gloria di Nostro Signore (Cf. Vita della fondatrice Mechtilde du Saint-Sacrement di M. HERVIN – Bray. Retaux, 1883). – Sua Santità il Papa Pio X, con rescritto del 16 dicembre 1908 e con breve del 9 luglio 1909, ha concessa l’indulgenza plenaria una volta al mese ai Sacerdoti che in date condizioni facessero un tale voto per la riparazione sacerdotale. Ma voti di questo genere — non meno ardui che quello del « più perfetto » che la Chiesa dichiara esser « arduum » (Oremus di S. Andrea Avellino e lezioni del Breviario nella festa di S. Teresa), ed anche « arduissimum » (lezioni del Breviario nella festa di S. Giovanna di Chantal) — tali voti non si possono, come ben si comprende, né fare né consigliare fuorché alle condizioni già indicate di sapienza, di discrezione, di prudenza e di soggezione al Padre Spirituale. Non è quindi nostro intento discorrerne più a lungo, poiché non abbiamo né competenza né mandato per trattare una questione che riguarda esclusivamente i maestri di vita spirituale di lunga esperienza. Ci contenteremo di aggiungere ancora qualche osservazione generale. A nostro parere la prima condizione in questa materia è di determinare in modo ben chiaro quello che noi intendiamo obbligarci a fare. Le promesse possono passare attraverso ad una gamma variabilissima, ma tutte si possono tuttavia ridurre in pratica a due tipi: Accettare giorno per giorno — con atto previo di rassegnazione — insieme col divin Riparatore, quei patimenti che il Signore nell’ordinaria sua Provvidenza ha previsti per noi nella sua eternità. Questa è una prima maniera di costituirsi « vittima » nelle mani di Dio, e di grande perfezione. Domandare a Dio, per soddisfare ad un desiderio di immolazione più completa, che Egli mandi all’infuori delle disposizioni ordinarie di sua Provvidenza una dose supplementare di patimenti (di corpo, di spirito, di cuore, e anche la morte anticipata). – In quale misura questa seconda maniera di costituirsi « vittima » possa dirsi: 1° possibile; 2° lodevole, sono punti da esaminarsi nei casi singoli con un’attenzione tanto più minuziosa e accurata quanto più la materia è fuori dell’ordinario, quindi più soggetta all’illusione; e con una prudenza tanto più ritenuta, con un « discernimento degli spiriti » tanto più illuminato e più severo, quanto più è prossimo il pericolo che la generosità del cuore confini colla temerità (Il ben noto autore di Jesus intime nell’Introduzione alla Vita della M. Maria Veronica del Cuor di Gesù, fondatrice dell’Istituto delle Suore Vittime del Cuor di Gesù (P. PRÉVOST, S. C. J.), lasciò scritto: « Circa il voto di desiderare i patimenti… converrà mostrarsi severi all’estremo. Difficilmente troverete un tale voto nella vita dei Santi. Alle anime generose che si perdono dietro a tali finezze, alle anime meno generose che le cercano per entusiasmo momentaneo, per Trasporto passeggero noi diremo: Voi farete cosa più utile nel nutrirvi prima di tutto di soda dottrina… studiata non soltanto in simili sottigliezze che turbano e snervano, ma nella distesa della sua ampiezza e nelle ricchezze delle sue cognizioni » – Introduction doctrinale sur l’idée, l’état et le voeu de victime, p. XXVII e XXX, par M. Charles SAUVÉ). – Non si creda però che la Vita di riparazione includa necessariamente o l’uno o l’altro di questi voti: essi tutt’al più in determinati casi possono costituirne come il perfezionamento, la corona: ma non ne sono mai il carattere fondamentale. Essi sono come un maximum, un grado estremo, e nella seconda ipotesi lo diremo un « maximum inedito, fuori quadro ». In che consista propriamente l’essenza della vita di riparazione noi l’abbiamo già detto abbastanza fin qui ((« Talora avviene che Nostro Signore si unisce più intimamente a qualche anima privilegiata e la chiama ad una vita più misticamente intensa, confidandole una missione riparatrice ancor più commovente… Queste sono belle ma rare eccezioni. Possiamo esser felici anche se l’invito del Signore ci chiama soltanto per una strada più umile e più accessibile». DE BRETAGNE: La vie réparatrice, p. 7). – 

https://www.exsurgatdeus.org/2020/08/14/lidea-riparatrice-9/

DA SAN PIETRO A PIO XII (13)

[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]

PARTE SECONDA

DAL 1000 AI NOSTRI GIORNI

CAPO III.

LA SCHIAVITÙ AVIGNONESE E LO SCISMA D’OCCIDENTE

PREAMBOLO

1 – DECADIMENTO POLITICO DEL PAPATO

Il tramonto dell’Impero d’Occidente s’iniziò con la morte di Federico II avvenuta nel 1250. Ma, come l’impero, decadde poi politicamenteanche il Papato.

Nel 1294 morto Nicolò IV, i Cardinali, dopo un conclave di 27 mesi, elessero Papa un eremita abruzzese, Pietro del Monte Morone, che prese il nome di Celestino V, e, nauseato della politica, dopo soli quattro mesi, « fece… il gran rifiuto », cioè rinunciò al Pontificato. La tiara passò a Bonifacio VIII, che, malgrado le mutate condizioni dei tempi, volle seguire le idee di Gregorio VII. Per evitare un possibile scisma, Bonifacio tenne prigioniero il vecchio Celestino e, per realizzare il suo sogno politico, bandì nel 1300 il primo GIUBILEO. A Napoli favorì gli Angioini contro gli Aragonesi, in Firenze inviò Carlo di Valois per difendere i Neri e cacciare i Bianchi, a Roma, si schierò contro i Colonna, fautori di Celestino, e, fuori d’ Italia, osteggiò Filippo il Bello che, in lotta con gl’Inglesi ed avendo bisogno di denaro, aveva tassato gli ecclesiastici e steso il « suo braccio secolare » sui beni dei Templari.

* * *

BONIFACIO VIII E FILIPPO IL BELLO

D. Che aveva portato la lunga lotta degl’imperatori tedeschi contro la Chiesa?

— Un indebolimento delle forze dell’impero, di modo che i Papi dovettero procacciarsi l’aiuto della Francia, frattanto cresciuta in prosperità e potenza dopo il governo di San Luigi IX.

D. Ma come rispose il governo degli Angioini?

— Con disordini e distrazioni in Italia, da dove furono cacciati nel 1282 nei famosi Vespri Siciliani, e in Francia con l’ambizione sfrenata di Filippo il Bello, nipote di S. Luigi IX, inteso ad assicurarsi un’assoluta indipendenza dalla Chiesa, usando a tal fine l’ingiustizia, la slealtà e la frode.

D. Chi gli si parò contro a difendere i diritti della Chiesa?

— Bonifacio VIII (1294 – 1303), uno dei Papi più grandi del Medio Evo e dei più calunniati.

D. Quale fu il suo proposito?

— Risollevare e consolidare l’autorità dei Papi e della Chiesa, come avevan fatto Gregorio VII e Innocenzo III, ma i tempi erano mutati e divenuti assai più difficili.

D. Che tentava Filippo il Bello?

— Emancipare la Francia dall’autorità della S. Sede e perciò cominciò a stendere le sacrileghe mani sui beni ecclesiastici.

D. Che cosa emanò Bonifacio VIII allora?

— La famosa Bolla « Clericos laicos », con cui decretava che re e principi non potessero, senza il consenso del Papa, esigere le decime dal clero, sotto pena di scomunica, tanto per i principi quanto per gli ecclesiastici.

D. Come rispose Filippo?

— Dichiarò, continuando la sacrilega rapina, che la Francia non avrebbe più sofferto altra autorità che quella di Dio e del re. Fece poi imprigionare il Legato che il Papa gl’inviava per indurlo a più miti consigli, gli distrusse i documenti ufficiali che egli portava, e inviò al Papa una lettera di villanie, insolenze e calunnie.

D. Come ribatté il Papa?

— Con l’ancor più famosa Bolla « Unam Sanctam » del 1302, con la quale rinnovava l’idea di Gregorio VII e di Innocenzo III, del dominio universale della Chiesa, non soggetta a principe alcuno.

D. Che cosa provocò l’« Unam Sanctam »?

— Le più assurde accuse di Filippo e suoi perfidi consiglieri, contro cui il Papa lanciò la scomunica. Allora il re mandò il francese Nogaret che, con Sciarra Colonna, assalì papa Bonifacio in Anagni, lo insultò e imprigionò. Fu poi liberato dal popolo e ricondotto, fra grandi dimostrazioni di rispetto, a Roma, ma un mese dopo per i dispiaceri e strapazzi sofferti morì (1303).

D. Chi successe a Bonifacio VIII

— Benedetto XI, che tentò di pacificare Filippo il Bello con la Chiesa; ma avendo scomunicato, per il fatto sacrilego di Anagni, il Nogaret e il Colonna, morì improvvisamente, pare di veleno da parte di questi e per istigazione di Filippo il Bello.

2 – L A SCHIAVITÙ’ AVIGNONESE

PREAMBOLO

Il papato avignonese

Clemente V, eletto Papa per influenza di Filippo il Bello, restò in Francia e la sede del Papato rimase in Avignone per 72 anni, dal 1305 al 1377. Durante questo periodo di umiliante asservimento, che a ricordo della schiavitù del popolo ebreo, fu detto « cattività avignonese » o babilonica, si acuirono le lotte della Chiesa e si favorì lo smembramento d’Italia in piccole Signorìe: gli Ordelaffi a Forlì, i Malatesta a Rimini, i Pepali a Bologna, i Da Polenta a Ravenna. Morto Clemente V, i Cardinali discordi, dopo due anni di lotte, elessero Giovanni XXII che aumentò i danni della Chiesa. I francescani  erano divisi in due partiti, i Zelanti o Fraticelli, rigidi seguaci del Poverello d’Assisi, ed i Conventuali, propensi all’acquisto di ricchezze. Il Papa si scagliò contro i primi e poiché, alla morte di Enrico VII, erano stati eletti ad un tempo Ludovico il Bavaro e Federico d’Austria, e Giovanni XXII aveva preso le parti di quest’ultimo, Ludovico appoggiò i Fraticelli, scese in Italia e nominò antipapa Nicolò V. – Roberto di Napoli come capo dei Guelfi marciò in difesa di Giovanni XXII e Ludovico, avendo poche milizie, lasciò Roma ed abbandonò l’antipapa al suo destino. Le lotte e le scomuniche continuarono fino alla morte di Ludovico, ed il Papa riuscì a far riconoscere come imperatore Carlo IV di Boemia. A Giovanni XXII successe Benedetto XII, poi Clemente VI, ed a Roma si disputarono il potere gli Orsini ed i Colonna. Di queste lotte approfittò Cola di Rienzo, figlio di un oste e di una popolana, per restaurare l’antica repubblica. Proclamato tribuno, Cola per le sue stranezze fu obbligato a fuggire presso Carlo IV, che prima lo imprigionò, poi lo mandò ad Avignone. Il nuovo pontefice Innocenzo VI inviò il tribuno in Italia con il card. Egidio d’Albornoz per occupare pacificamente Roma. Ritornato nella Città eterna e fatto senatore, Cola riprese la lotta contro i nobili, ma in un tumulto fu ucciso. L’Albornoz con le armi e con l’astuzia restaurò lo Stato pontificio ed il nuovo papa Urbano V, venuto a Roma, al rinnovarsi dei disordini dopo la morte dell’Albornoz, ritornò ad Avignone. Solo nel 1377 Gregorio XI, esortato da S. Caterina da Siena, si trasferì definitivamente a Roma.

D. Che cosa causarono le tristi condizioni in cui si trovò la S. Sede?

— Una sua vacanza per undici mesi e poi l’elevazione dell’Arcivescovo di Bordeaux, che prese il nome di Clemente V; ma le lotte che tenevano in perturbazione l’Italia fecero rifiutare a Clemente V di recarsi a Roma. Fissò la sua sede ad Avignone nel 1305 ed iniziò così quel calamitoso periodo della Chiesa che fu detto « Schiavitù Avignonese » e che durò fino al 1377.

D. Che cosa rappresenta la Schiavitù Avignonese?

— Uno dei periodi più funesti per la Chiesa in generale e per lo Stato Pontificio in particolare; perché l’autorità del Papa vide assai diminuito il proprio prestigio, apparendo influenzata dai re di Francia; e inoltre la lontananza della s. Sede dall’Italia procurò lo smembramento dello Stato Pontificio, con funeste conseguenze per l’ordine pubblico e per le condizioni di vita della città di Roma, divenuta null’altro che una miserabile borgata.

D. Chi caldeggiò il ritorno del Papa a Roma?

— Un’umile fanciulla senese, Caterina Benincasa, le cui suppliche accorate finalmente esaudite indussero Gregorio XI a rientrare a Roma. Era il 17 gennaio del 1377. I Romani l’accolsero con immensa festa.

3 – IL GRANDE SCISMA D’OCCIDENTE

PREAMBOLO

La parola scisma deriva dal greco « schizo », che significa « divido » ed è appunto, lo scisma, una divisione religiosa per cui, rifiutata la comunione con quella società religiosa cui prima si apparteneva, si fa corpo separato, scisso. Alla base di questa lacerazione dell’unità della Chiesa come Corpo mistico di Cristo sta, quindi, il rifiuto — per lo più collettivo — di ubbidienza, una ribellione per sé solo disciplinare alla autorità della Chiesa. Senonchè, dato il dogma del Primato di Pietro, lo scisma implica anche eresia sul piano pratico (C. J. C. can. 1325). Anche in Occidente si ebbe dal 1378 al 1429 un luttuoso periodo storico durante il quale la Cristianità, benché una nella Fede e nello spirito di ubbidienza ad un solo Pietro, non sapeva quale persona fosse il suo legittimo successore.

• * •

D. Quale conseguenza portò la « schiavitù avignonese »?

— Il grande scisma d’Occidente.

D. Come nacque?

— Quando alla morte di Gregorio XI (1378) si adunò il Conclave, venne eletto Urbano VI, santo uomo, ma di carattere focoso, non gradito ai cardinali francesi, che, riunitisi a Fondi, il 20 settembre 1378, fra l’universale sbalordimento, elessero Roberto di Ginevra, che prese il nome di Clemente VII. Morto Urbano VI, gli successero poi Bonifacio IX (1389 – 1404), Innocenzo VII (1404 – 1406), e Gregorio XII (1406 – 1417). All’antipapa Clemente VII, trasferitosi ad Avignone, successe Pietro di Luna (1394 – 1437) con il nome di Benedetto XIII.

D. Che si fece per risolvere la questione?

— Dopo infinite discussioni, nel 1409, si apri a Pisa un concilio di cardinali delle due obbedienze (romana e avignonese), depose i due Papi, come fautori di scisma eretici e, nel conclave che ne seguì, uscì eletto Alessandro V .

D. Quale la conclusione?

— Invece dell’unità della Chiesa si ebbero tre Papi simultanei a disputarsi il supremo potere.

D. Che cosa provocarono queste vicende della Chiesa?

— Provocarono dei moti ereticali. L’inglese Giovanni Wycliff, precorrendo Lutero, ammise la superiorità della Bibbia sul Papa e rimproverò al clero lo sfruttamento delle indulgenze.

D. Fu ben accolta in Inghilterra questa eresia?

— Fu avversata. Tuttavia essa trovò in Boemia un campione in Giovanni Huss e, siccome l’agitazione ebbe carattere nazionale e antitedesco, l’imperatore Sigismondo promosse a Costanza il 5 novembre 1414 un concilio che affermò la sua autorità sullo stesso Pontefice e mandò al rogo Huss ed il suo discepolo Girolamo da Praga.

D. Che fece inoltre il Concilio?

— Il concilio depose Giovanni XXIII, che era succeduto ad Alessandro V, scomunicò Benedetto XIII, accettò le volontarie dimissioni del Papa romano Gregorio XII (il Papa legittimo – n.d.r.), ed elesse il cardinale Ottone Colonna, che prese il nome di Martino V (11 novembre 1417).

D. Che fece Martino V?

— Aprì a Basilea, poco prima della sua morte, un altro Concilio, che il successore Eugenio IV cercò di sciogliere, per evitare che affermasse di nuovo la sua superiorità sul Papa. Vi furono delle proteste ed Eugenio IV trasferì il Concilio prima a Ferrara e poi a Firenze, anche per tentare, con la venuta dei prelati greci, la riunione della Chiesa latina con l’ortodossa.

D. Che avvenne intanto?

— Si riaprì lo scisma, perché alcuni Padri del Concilio di Basilea, non volendo ubbidire, deposero Eugenio IV ed elessero Amedeo VIII di Savoia con il nome di Felice V.

L’energia di Eugenio IV e del suo successore Nicolò V posero fine allo scisma, che fu detto « d’Occidente», per distinguerlo da quello d’Oriente provocato nell’880 da Fozio. Felice V depose volontariamente la tiara, ed una Bolla dichiarò eretico il principio della superiorità del Concilio sul Papa.

D. Avrebbe resistito un’istituzione terrena alla fiera tempesta?

— No, risponde il protestante Gregorovius, « ma così meravigliosa era l’organizzazione della Chiesa e indistruttibile l’idea del Papato, che la divisione ne mostrò l’indivisibilità ».

L’IDEA RIPARATRICE (7)

L’IDEA RIPARATRICE (7)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO III

Come riparare?

Tutti quanti i Cristiani sono tenuti alla riparazione, noi l’abbiamo visto fin qui: non tutti però debbono riparare allo stesso modo. Una madre di famiglia potrà essere una  « riparatrice », ma non come lo dovrà essere una Suora Carmelitana. – I doveri dello Stato, l’attraimento della grazia divina, l’indirizzo di un buon direttore, sono tre fattori che concorrono a formare lo spirito e la pratica della riparazione in ciascuno di quelli che volonterosi si mettono sulla « Via Regale della Croce ». Premessa questa distinzione del tutto elementare, possiamo determinare due gradi nell’offerta di sé all’idea riparatrice, secondo la parte più o meno grande che si vorrà dare alla Croce nella propria vita. Noi l’abbiamo detto: l’elemento principale in questa materia non è altro che la generosità d’animo: tutti dovranno riparare con una vita ordinaria, i più generosi tenderanno invece ad una vita perfetta.

CAPO PRIMO

COME RIPARARE NELLA VITA CRISTIANA ORDINARIA.

Troppo spesso si crede che per darsi alla Riparazione sia necessario ritirarsi nel silenzio d’un chiostro e nelle austerità della vita monastica, e praticare gli esercizi più duri della penitenza cristiana. Questo è un errore. La Riparazione non consiste in un insieme di pratiche presentate con programma determinato, è piuttosto un indirizzo spirituale che facilmente si adatta alle varie condizioni di vita, supponendo però che questa sia sinceramente cristiana. Un indirizzo spirituale. Quindi prima di ogni altra cosa convien porre per base una chiara conoscenza e un intimo sentimento della verità di un Dio Crocifisso e Crocifisso per noi, ma che aspetta la nostra cooperazione, mentre intorno a noi v’hanno delle anime, e purtroppo sono in gran numero, che vanno perdute. Questa Conoscenza è di somma importanza: eppure quanti Cristiani ne sono totalmente privi! Or bene è appunto nel viver animati intimamente da queste due grandi idee che consiste l’indirizzo spirituale o se si vuole lo spirito di riparazione (Il Can. LEROUX di Bretagna dice molto bene: « La vita riparatrice non è per sé una forma speciale di vita cristiana, ma neppure si può dire che sia una vita comune, poiché non si trova purtroppo presso tutti i fedeli ». E la ragione si è che per l’una parte conviene sforzarsi a menare una vita veramente cristiana, il che è più raro di quanto si creda; e dall’altra parte « le attrattive che sente l’anima che pur cerca di santificarsi non sono sempre verso questo ideale particolare. Può provar desideri anche forti della santità in genere senza fissarsi esplicitamente nella pratica della riparazione ». “La vie reparatrice”). E questo ce spirito » manifesta subito le sue esigenze. Un’anima cristiana dominata dall’idea riparatrice comprende che prima di tutto essa dev’esser fedele alle promesse fatte nel S. Battesimo, ai comandamenti di Dio e della Chiesa, e non solo con una fedeltà trasandata come per lo più accade a molti, ma interamente, rigorosamente, senza scuse, senza transazioni, sia nella vita individuale che in quella sociale e famigliare. L’orizzonte si delinea fin dal principio nella sua vastità. Un romanziere americano prese come tema delle sue opere la seguente storia: Un pastore dovendo preparare il suo sermone scelse come testo: « Ecco la vostra vocazione. Gesù Cristo ha sofferto per voi, questo esempio dev’esser seguito da voi passo a passo fino alla perfezione ». Venuta la domenica egli recita il suo discorso dinanzi ad un uditorio mondano che l’ascolta colla solita attenzione. D’un tratto un vecchio mendicante entra precipitoso e grida: « Come non sentite voi vergogna? Voi che osate cantare: Gesù io presi la mia croce pesante E per seguirti tutto abbandonai? e poi vivete così come fate? ». Al termine della sua sfuriata egli cade morto. Impressione enorme tra gli uditori, anche maggior impressione nell’animo del Pastore. Venuta la domenica seguente egli propone alle sue pecorelle di fondare una lega in cui ciascun membro si obblighi a interrogare se stesso al cominciare di ogni azione: « Che farebbe Gesù se fosse qui in questo momento? ». Molti vi danno il loro nome: degli uomini politici, dei commercianti, dei giornalisti… e tosto in conseguenza della parola data s’accorgono di dover mutar completamente la loro vita. Il sig. E. Norman, direttore del Raymond Daily News, è uno dei segnatari: gli si presenta un lungo articolo sulle corse, tre colonne e mezza. Egli s’interroga: « Se Gesù Cristo avesse la responsabilità del giornale lascerebbe Egli uscire queste tre colonne di scritto così com’è…? …No ». E l’articolo è cestinato. E queste notizie politiche?… E gli annunzi di quarta pagina?… ». E il giornale muore. È questo un romanzo — e portato all’esagerazione; — però l’idea non è cattiva, tutt’altro. Quanta perfezione di vita cristiana si potrebbe facilmente avere se, come gli ascritti alla lega del romanzo americano, noi ci proponessimo di riflettere al cominciare delle nostre azioni: « Qui. a mio posto, in questa circostanza, che farebbe Gesù Cristo? ». E chi non vede che d’un tratto noi avremmo certamente una profonda mutazione nella condotta dei singoli individui, nelle relazioni tra i popoli, nella vita delle famiglie e della società? Studiando la questione, delicata insieme e importantissima ai nostri giorni, del ripopolamento della famiglia, materia in cui purtroppo molti Cristiani mancano ad un preciso loro dovere, un autore diede all’opera sua questo titolo : « La Francia ripopolata dai Cristiani praticanti », titolo con cui si formula tutto un programma mentre si esprime ancora unacondanna. – Come in siffatta materia così in tutte le altre di dominio della morale pubblica nulla si potrà « riparare » senza l’intervento efficace dei veri Cristiani: e ancora conviene che non vengano meno al loro compito ma siano Cristiani intrepidi, tutti d’un pezzo, come si esprimeva L. Veuillot, anche « sfrontati ». Le occasioni di praticar la propria fede fino al sacrifizio non mancano mai per le anime generose. Noi abbiamo già combattuta la tendenza che hanno molti Cristiani a farsi una Religione che non li disturbi troppo. Il Card. Manning scriveva: « Noi viviamo in tempi facili. Chi digiuna ancora ai nostri giorni? ». E vero che la Chiesa si mostra indulgente, tuttavia « riflettiamo che anche ai nostri giorni gli israeliti tre volte nell’anno non prendono cibo alcuno dal levare al tramontar del sole: amaro rimprovero per noi che siamo discepoli di Gesù Crocifisso ». Quali sofferenze non hanno dovuto sostenere durante l’ultima guerra certi nostri soldati, ad esempio quei fucilieri di marina dell’epopea di Dixmude, che dovettero rimanere coi piedi nell’acqua per ventisei giorni senz’altro nutrimento che qualche scatola di conserva? La causa che difendevano ne valeva certo la pena. Ma la causa di Gesù Cristo non è forse più nobile ancora? Perché noi vorremmo limitare i nostri sacrifizi? Intorno a noi che non si fa per seguire il mondo, per adattarsi alla moda del giorno! E per le anime? — Per Gesù Cristo? Noi amiamo piuttosto i crocifissi di lusso, non troppo sofferenti, d’avorio su fondo vellutato. Lasciatecelo ripetere: non son quelli i « veri » crocifissi. I veri sono meno fini e sopra di essi non vi si sta troppo comodamente. Quando Eraclio poté ricuperare la Croce, rimasta per quattordici anni bottino di guerra nelle mani dei persiani di Cosroe, volle portarla egli stesso fino alla sommità del Calvario ed a questo fine rivestì gli abiti regali più sfarzosi, colle perle preziose e la sua corona da imperatore. « Non così, Maestà, gli disse il Vescovo di Gerusalemme, non così! C’è troppo contrasto tra il lusso del vostro abbigliamento e la povertà della Croce ». E l’imperatore cambiò il suo oro e le sue perle con un povero cilicio. La Croce del Salvatore è una croce che crocifigge. Infatti è una vera contraddizione quella che vediamo praticare da molti Cristiani, che pretendono seguire Gesù Cristo e poi mettono ogni cura per evitare le penitenze più semplici e più ordinarie imposte per legge dalla Chiesa. Scherzando il Cardinale Manning si rivolge ad essi: « Permettetemi ch’io vi domandi se voi stessi credete al vostro prossimo quando lo sentite dire che non può digiunare, fare le astinenze del venerdì, che queste cose nuocciono alla sua salute, ecc.? » E poi aggiunge: «Se io pervenissi a turbare qualche poco la vostra coscienza non ne proverei dispiacere, poiché io son convinto di vivere in un tempo in cui la mollezza dei costumi tende a far «comparire la dolce severità delle leggi ecclesiastiche ». – Così si vede che senza andar troppo lontano, col solo praticare la lettera — o almeno lo spirito — dei comandamenti di Dio, si presentano a mille a mille le occasioni di offrire al Signore dei sacrifizi ben meritorii per la riparazione. Accettiamo dunque per prima cosa le mortificazioni che ci vengono imposte dalla Chiesa e poi in secondo luogo quelle che ci si presentano nelle diverse circostanze della nostra vita. Anche queste abbondano: rovesci di fortuna, malattie, lutti, disgrazie, dispiaceri d’ogni sorta. La vita ne è colma e può esser paragonata ad una lira con sette corde, sei dedicate al dolore e una alla gioia. Bossuet comparava i minuti di vera felicità nella nostra vita a quei chiodi d’oro che adornano una porta; visti di lontano sembrano migliaia; strappateli, appena riempiono il cavo d’una mano. Le nostre gioie sono come le pietre di un torrente, instabili, e lontane l’una dall’altra, che se volete passarlo appena ponete il piede sopra l’una di esse, subito dovete saltare ad un’altra e così di seguito senza potervi arrestare. Ma tu chi se’ che sì se’ fatto brutto? domanda Dante (Inf. C. 8, v. 35) a un dannato mentre questi lo vede passare nella barca di Virgilio. Rispose: « Vedi che son un che piango ». « Uno che piange!». Ecco quella che può dirsi la definizione di ogni uomo quaggiù, specialmente in certi giorni. E allora come fa pena il vedere che non si sa trarre profitto da quelle lagrime che pur non si può non versare! Ciascuno di noi colla somma dei patimenti di cui è formata la vita, come con un capitale, avrebbe modo di guadagnare dei meriti immensi. E la maggior parte non ne fa nulla, non ci pensa: invece di utilizzare le proprie croci per il Cielo e per le anime, le sciupa, non ne ritrae nulla… peggio, ribellandosi, trova in esse un’occasione di nuovi peccati. Che si direbbe di un uomo che possedendo una fortuna in tutte monete d’oro, invece di portarle alla banca per la « ristorazione nazionale » le andasse gettando ad una ad una dall’alto di un ponte in un profondo abisso?… – Appena siam raggiunti da un qualche patimento la prima cosa che facciamo è per lo più il lamentarci, il prendercela con Dio: « Io vorrei, diceva Nostro Signore a S. Geltrude, che almeno i miei amici non mi giudicassero tanto crudele. Dovrebbero farmi l’onore di pensare che se talvolta li obbligo a servirmi con fatica, e quasi con loro sacrifizio, io lo faccio pel loro bene, anzi pel loro maggior bene. Io vorrei che invece di irritarsi contro i loro dolori, vedessero in essi uno strumento del mio amore di Padre… ». I Cristiani ferventi lo comprendono benissimo. Ai piedi del letto di morte di un loro figlio, giovane religioso, loro rapito da un morbo fulminante, il padre e la madre si scambiano le seguenti parole: « Vuoi che recitiamo il Te Deum? — Oh sì, di tutto Cuore! ». Ampère si era da poco sposato. La vita gli si affacciava tutta in festa: quand’ecco una malattia colpisce la sposa e minaccia di rapirgliela. Ampère, benché tutto immerso nella trepidazione, ha la forza di scrivere: «Mio Dio, io vi ringrazio… Io vedo che voi volete che io viva solo per voi, che tutti i miei istanti vi siano dedicati. Volete voi togliermi tutta la felicità che io posseggo quaggiù? Voi ne siete il padrone, o mio Dio! le mie colpe meritano bene questa punizione. Ma io spero che voi ascolterete ancora una volta la voce della vostra misericordia ». Qual meravigliosa forza può dare al povero cuore di un uomo una fede veramente profonda! – Una madre riceve la notizia che il figliuolo suo è ferito da un obice e spaventosamente mutilato, ma non ha perduto per nulla il suo coraggio eroico. Essa scrive di lui : « Egli soffre una vera passione in unione col nostro caro Gesù e fa meraviglia il veder questo mio figlio felice, crocifisso, steso sulla croce sanguinolente, rimanersene tranquillo e sorridente nel suo martirio di ogni momento… Io ringrazio il Signore… che l’ha messo a parte dei patimenti redentori del Calvario. Noi non possiamo comprendere, così afflitti come siamo, i misteri di misericordia che rimangono nascosti sotto queste prove, ma io credo che in cielo ci saranno svelate le ricchezze di queste sanguinose immolazioni e che intanto questi poveri feriti sono ben potenti presso Dio ». Il povero mutilato si preparava pel sacerdozio, quindi la madre continua: « Poco importa il modo con cui vien fatto il sacrifizio, purché il Signore prenda quanto Egli crede bene e ritragga dalla sua creatura quella gloria che gli è gradita… Se L . . . non potrà più essere sacerdote, sarà certamente Ostia e questo è l’Ufficio di Gesù Cristo: chi dunque potrà lamentarsi nel vedersi trattato come lo fu il Figlio di Dio? ». Poco tempo dopo anche il fratello del povero mutilato cade gloriosamente sul campo; e la madre, forte sempre, esce in questi accenti di rassegnazione: « Povera piccola vittima che si aggiunge a tante altre! Ci fu dato da Dio perché lo conducessimo al Cielo; egli vi è arrivato. Ringraziamo il Signore. Tuttavia per noi che abbiamo una fede ancora debole è cosa dolorosa ». Quante madri, quante sorelle, quante spose che per ragione della grande guerra sono ormai destinate ad essere altrettanto « dolorose »! Così tutte avessero il coraggio di trasformare il sacrifizio che venne loro « imposto » in sacrifizio « volontario » e dicessero al Signore: « Gesù, grazie per avermi associata in questo modo alla vostra Croce. Voi avete voluto il sangue di chi era come una parte di me stessa, voi volete le mie lagrime., io ve le offro tutte quante. Forse in me stessa non troverei la forza di dirvi: prendete… Ma ormai voi avete preso quanto avete voluto, io voglio almeno aver il coraggio di dirvi che voi avete fatto bene… che ho capito… che io mi rassegno… – Io non mi sento ancora di pronunziare l’Alleluja, mormorerò per ora sommessamente: Amen, così sia ». Parlando del proprio figliuolo, vittima come tanti altri nella gloriosa ma sanguinosa guerra, una persona diceva in confidenza ad una sua amica: « Voi lo sapete benissimo, già prima io l’avevo offerto al Signore, quindi al presente rimetto nelle mani sue il mio olocausto non soltanto accettando ma volendo quanto Egli ha disposto ». Si noti che le parole furono sottolineate dalla madre stessa. « II mio povero cuore, scrive una delle sì numerose e sì valorose nostre vedove di guerra, i l mio povero cuore che non può abituarsi alla solitudine prova un’ardente sete di darsi ancor più completamente a Dio, di offrirsi totalmente senza riserva ». — Sete avventurata, così il Divin Maestro la comunicasse questa sete ad un grande numero di anime. — Essa riconosce che « il suo amore era forse troppo umano, diventerà ora più sovrannaturale » . — Questo è appunto il desiderio del Signore, quello che forse Egli aveva di mira nel permettere la tribolazione. — Ed essa prega per « avere il grande coraggio di offrirsi sempre più al Signore ». – Le ammirabili suore che dirigono la Casa di salute di Villepinte hanno fondato fra le loro ammalate un’associazione detta « della riconoscenza ». Una delle ragazze esitava nel darvi il suo nome: « Io temo, diceva, di non saper dire grazie al Signore, quando io soffro ». per riuscire a trionfare di un siffatto timore, ecco un eccellente mezzo e molto pratico per tanti poveri cuori che sanguinano disorientati per gli ultimi avvenimenti: offrirsi a Dio in « ostia » di amore e di riparazione. « Questa è la più grande ricchezza dell’anima, diceva S. Giovanna Francesca dì Chantal, soffrire molto per amore ». I veri Cristiani non lo ignorano e lo mettono in pratica. « L’anima si può unire a Dio colla preghiera, come pure lo può fare col lavoro: ma il patimento accettato per piacere a Dio, il patimento offerto a Dio, il patimento diventato caro per amore di Dio unisce l’anima al suo Signore ben più intimamente. Un patimento simile è la migliore delle preghiere, è la più fruttuosa delle fatiche ». Son queste parole del P. Ramière, ed il P. Ponlevoy rincalza: « La più dolce consolazione di questa vita e la più grande fortuna dell’anima nostra è certamente quella li unirci a Gesù Cristo. Ma non si può negare che v’ha ancora di meglio: ed è di conformarci alla volontà di Dio e di esser confitti in croce insieme a Gesù Cristo, o, che è la stessa cosa, attaccati a Gesù Cristo per mezzo della sua Croce ». – È nota l’ammirabile « Preghiera di Pascal per il tempo delle infermità. » In essa, meglio che altrove, si manifesta l’intenzione di trarre grande profitto dalle malattie tanto penose e così facilmente riparatrici. « Non permettete, Signore, che io possa ricordare l’anima vostra contristata fino alla morte e il vostro corpo pesto dai flagelli e dissanguato per i miei peccati senza sentirmi contento di patir qualche cosa anch’io nel mio corpo e nella mia anima. Difatti che v’ha di più vergognoso e tuttavia anche più frequente nei Cristiani e in me stesso, che mentre voi agonizzate e trasudate sangue noi viviamo tra le delizie? Liberatemi, o Signore, dalla tristezza che l’amor sregolato di me stesso mi potrebbe suggerire… ma infondete nell’anima mia una tristezza conforme alla vostra. Che i miei patimenti servano a dissipare la vostra collera… Io non vi domando né sanità, né malattia, né vita, né morte: ma che voi disponiate della mia sanità e della mia infermità, della mia vita e della mia morte per vostra gloria, per mia salvezza eterna, e per l’utilità della Chiesa e dei vostri Santi ». Degne d’esser citate a fianco della Preghiera di Pascal riferiamo alcune frasi di un’anima che pur visse nel mondo e che aveva per divisa preferita « adoratrice, riparatrice e consolatrice » : « Mio Dio, diceva Elisabetta Leseur (dal suo diario), io sono e voglio esser sempre tutta vostra nella pena e nella gioia, nell’aridità e nella consolazione, nella sanità e nella malattia, nella vita e nella morte. Io non desidero che una cosa sola: che la vostra volontà sia fatta in me e per mezzo mio. Io non ho altra mira e sempre più desidero di non averne mai altra che questa: raggiungere la vostra maggior gloria corrispondendo il meglio che posso ai vostri disegni sopra di me. Io mi offro a voi in un’intima e completa immolazione e vi supplico di servirvi di me come di un vile ed inutile strumento in favore delle anime che vi sono care per vostro servizio ». Secondo il parere di tutti gli autori ascetici le « croci » che ci vengono imposte sono le migliori, « Le migliori croci sono le più pesanti, e sono più pesanti quelle che vanno contro il nostro gusto, quelle che non sono sottoposte al nostro arbitrio: le croci che incontriamo per via. e anche meglio quelle che troviamo in casa nostra… Queste sono più utili che i cilici, le discipline, i digiuni e quante altre austerità si possano inventare. Le croci che sono oggetto di nostra scelta hanno sempre alcun che di amabile e di gradito, perché in esse c’è del nostro, quindi sono meno atte a crocifiggerci. Umiliatevi dunque e ricevete con gaudio quelle croci che vi vengono imposte contro il vostro genio ». Abbiamo riconosciuto in queste parole S. Francesco di Sales. Dobbiamo dunque conchiudere, come per lo più si fa coi Cristiani ordinari, che le penitenze volontarie sono da lasciarsi esclusivamente ai religiosi ed ai claustrali? No, certamente. Ascoltiamo a questo proposito il Card. Manning il quale dopo aver raccomandato la fedeltà alle mortificazioni raccomandate per legge dalla Chiesa come il meno che siamo tenuti a fare, aggiunge: « Andrò più innanzi. V’ha ancora ai nostri tempi chi abbia il coraggio di condurre la vita dei santi? Noi ne leggiamo la vita e li ammiriamo: conosciamo le austerità con cui si affliggevano e la povertà in cui vivevano e ne facciamo oggetto delle nostre lodi, intanto però ci sentiamo i brividi nelle ossa. Che sappiamo noi fare? Quali sono le nostre penitenze? Dov’è per noi la livrea di Gesù Cristo?… Noi cerchiamo… che il mondo ci ponga nelle file di quelli che gli appartengono. E noi ci crediamo Cristiani!». Egli parlava ai suoi compatrioti, gli inglesi, grandi amatori, come tutti sanno, del « comfort »; ma il consiglio non è inopportuno anche al di qua della Manica. Quanti Cristiani in punto di morte non dovranno rivolgere a sé stessi quello stesso rimprovero che in tempo di Esercizi Spirituali e per umiltà Paolina Reynolds (Entrata in convento tra le Carmelitane di Avranches in età di 57 anni) faceva a se stessa: « Non trovo più modo di dilatare questo povero mio cuore destinato ad esser ricolmo di vita divina. Non c’è più tempo. Avrei potuto dispormi con una più fedele corrispondenza a riceverne centomila volte più nell’eternità e non l’ho voluto fare, lo non mi sono voluta disturbare che con “misura” ». Se invece di una fedeltà qualsiasi, d’una fedeltà « dosata abilmente » ci decidessimo ad esser generosi senza alcuna misura, quale cumulo di meriti noi non potremmo versare nel tesoro della Comunione dei santi! Ecco in quale maniera, secondo l’autore della Mission du Saint-Esprit dans les àmes (Card. Manning, p. 450)), noi dovremmo riparare: « Anzitutto colla nostra prontezza nel seguire le inspirazioni dello Spirito divino, poi con una fedeltà proporzionata alla sua grazia e nella stessa misura dei suoi doni e non già con un gesto gretto nascondendo sotterra il talento ricevuto: conviene farlo fruttificare e di mille talenti riprodurne diecimila… Finalmente bisognerebbe servirlo con grande purità di cuore, e con questo intendo due cose: non soltanto l’evitare tutto quanto potrebbe macchiare il nostro cuore, ma ancora il rinunziare a tutto quello che lo potrebbe dividere… ». Come si vede non manca modo di riparare: ma una cosa manca purtroppo! E queste sono le anime che diano mano a questi diversi modi, le anime che accettino di combattere non solo contro il peccato ma contro i minuti difetti; le anime che si consacrino risolute non già a pratiche straordinarie ma al perfetto compimento dei piccoli doveri per riparare. Noi spesso sogniamo imprese impossibili. « È invece nelle piccole cose che si rivela un grande amore; per le cose grandi siamo come portati e non ne sentiamo la difficoltà, ma per le ordinarie, le meschine, le noiose è necessaria una dimenticanza di sé che supera le forze comuni » (Vallery-Radot: Le vase d’albatre, nella Revue des Jeunes del 25 settembre 1917). Mgr. De Ségur diceva colla solita sua finezza e col suo buon senso: « La nostra santificazione è come un edifizio fatto di grani di sabbia e gocce d’acqua; un’occhiata repressa, una parola trattenuta, un sorriso interrotto, una linea incompiuta, un ricordo soffocato; una lettera cara percorsa rapidamente e poi riposta; un piccolo movimento naturale coraggiosamente frenato: un importuno, un noioso dolcemente sopportato: una scappata, un ghiribizzo immediatamente compresso: la privazione di una spesa inutile; una nube di tristezza dolcemente dissipata; una gioia naturale temperata con uno sguardo all’Ospite divino del proprio cuore; una ripugnanza vinta; che so io? cose da nulla, impercettibili all’occhio degli uomini ma ammirabilmente visibili allo sguardo interiore di Gesù Cristo; su queste cose fissiamo tutta la nostra attenzione, esse sono nello stesso tempo piccolissime e grandissime fedeltà che attirano sulle anime nostre veri torrenti di grazie… ». – Oh! i poveretti che siamo noi se queste minuzie di rinunzie bastano a misurare le nostre forze. Ma questo è un fatto e nessuno che abbia provato a praticare di cotali piccole immolazioni, potrà contradire all’osservazione che l’abate Perreyve deduce dall’esperienza: « Quando si è ancor fanciulli sembra cosa del tutto facile e naturale l’essere degli eroi o dei martiri. Ma coll’avanzarsi nella vita si viene a scoprire il prezzo d’un semplice atto di virtù e Dio solo può darci la forza di esercitarlo ». Siamo dunque i fedeli operai delle umili fatiche. Chi potrà dire se durante la guerra la salvezza di più d’uno, caduto nelle trincee o mentre marciava all’assalto non fu il frutto di una povera preghiera d’una umile vecchierella che offriva i suoi dolori pel nipote lontano? Chi sa dove va a colpire durante la mischia la palla tirata dal più umile fantaccino? E non si dica: « Con che cosa e come riparare? Io sono sì miserabile; io non posso che dire col Profeta : A, a, a et nescio locui, io non posso che dare un gemito inarticolato e confessare la mia impotenza. Che potessero riparare i Santi, si comprende., ma io? ». — Voi il potete fare, così quale voi siete, colla vostra fedeltà, compensando per le vostre miserie e facendo un’opera di giustizia. Voi potete fare ancor più: per le vostre miserie lasciate fare al Signore, e i vostri meriti offriteli a Lui per compensare le colpe e i peccati altrui. Noi presi da soli per la riparazione nulla possiamo, è verissimo; ma insieme colla grazia di Dio, che non manca agli umili e ai volonterosi, siamo una forza, siamo un valore più grande di quello che possiamo immaginarci. Gesù Cristo quando tolse la fame ai cinque mila uomini nel deserto, di che si volle servire? Di soli cinque pani e due pesci. Anche allora i mezzi furono per se stessi insufficienti al fine. Per finire di convincerci di questa verità ascoltiamo ancora una « professionista » della Riparazione (Simona Denniel: Une ame réparatrice, p. 75): « Per fare un’ostia il Signore non volle servirsi dell’oro, dell’argento o di pietre preziose, ma di un misero pezzetto di pane, cosa del tutto volgare e di nessun valore ». Chi si faceva coraggio in questa maniera dimostrava pure la sua umiltà, ma per noi le sue parole sono principalmente una verità sicura che deve infonderci lena e coraggio nel praticare la riparazione.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/08/12/lidea-riparatrice-8/

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO VI – “IN GRAVISSIMIS”

In questa drammatica lettera Enciclica, scritta a ridosso dei funesti avvenimenti della massonica rivoluzione francese del 1789, il Santo Padre Pio VI, concede agli ecclesiastici coinvolti dalle tragiche conseguenze della ribellione a Dio e alla sua Chiesa, una serie di indulti straordinari per regolare situazioni anomale concernenti questioni diverse. Ecco come il Sommo Pontefice, nella sua qualità di Vicario di Cristo, assumendosi tutte le gravi responsabilità che il suo augusto ruolo gli impone, interviene in questioni della massima importanza dottrinale e giurisdizionale. Nel suo esordio si citano le parole che San Paolo rivolgeva al suo amato discepolo e da lui fatto Vescovo: Timoteo, parole particolarmente idonee nel rappresentare, seppur succintamente, le condizioni in cui i prelati dovevano operare:  « … in questi tempi pericolosi, nei quali molti, anzi troppi, figurano nel numero di coloro di cui parla profeticamente l’Apostolo, di coloro cioè che “non sopportano più la sana dottrina e si circondano di maestri che corrispondano ai loro desideri, rifiutando di dare ascolto alla verità“… »; sono queste parole che oggi soprattutto sono quanto mai opportune per inquadrare le vicende spirituali e dottrinali dei nostri tempi, tempi in cui ognuno si affida alle proprie fantasie dottrinali, alle favole massoniche spacciate per verità e mascherate da culti blasfemi che solo gli ignoranti [di cose religiose] non riescono a cogliere e delle quali non avvertono il fetore nauseabondo con cui vengono avvolti riti anticristiani, blasfemie diaboliche, adorazioni luciferine, come quelle della messa del baphomet, “signore dell’universo” [quella di BUAN 1365/75 e del patriarca universale degli Iluminati], della setta modernista del N. O. M., che si è insediata là.. dove abita satana (Apoc. ii) , cioè sul colle Vaticano, ove un tempo S. Pietro aveva la sua cattedra di Verità usurpata da Simon mago, anzi dai “simon maghi” della cattedra pestilenziale. Non parliamo poi delle fantasie apocalittiche di cabarettistici eretici e scismatici sedevacantisti, nonché dei paramassonici fallibilisti gallicani, i falsi sacrileghi prelati creati dal 30° F. M. cavaliere kadosh di Lille, fiancheggiatori dei servi della “bestia”, con i quali sono “una cum” e dai quali ricevono prebende e sostegni. Ma tutto Dio permette a nostro castigo e per trarre maggior gloria dall’empietà confusa degli uomini.

Pio VI
In gravissimis

Roma, 19 marzo 1792

1. Nelle gravissime e molteplici preoccupazioni che dobbiamo continuamente sostenere, per quella sollecitudine a favore di tutte le Chiese che Ci è stata affidata dal supremo Principe dei Pastori, Gesù Cristo, in questi tempi pericolosi, nei quali molti, anzi troppi, figurano nel numero di coloro di cui parla profeticamente l’Apostolo, di coloro cioè che “non sopportano più la sana dottrina e si circondano di maestri che corrispondano ai loro desideri, rifiutando di dare ascolto alla verità, Noi non troviamo maggiore e più dolce conforto che comunicare con i Nostri Fratelli Vescovi che, chiamati a far parte della Nostra stessa sollecitudine, si dedicano con animo alacre e coraggioso ad eseguire i doveri del loro ufficio e a provvedere alla salvezza del gregge loro affidato con grande diligenza e nel migliore modo possibile.

2. Abbiamo provato recentemente una grande consolazione quando abbiamo letto e riletto la lettera piena di zelo che Ci avete inviato il 16 dicembre dello scorso anno voi che vi trovate a Parigi, e quella che Ci hanno scritto l’8 gennaio del corrente anno i vostri Fratelli Vescovi che risiedono a Roma. Da queste lettere abbiamo appreso che Ci chiedevate di investire con un indulto generale tutti i singoli Vescovi del Regno di Francia e gli amministratori delle Diocesi (per il tempo in cui sono vacanti le Sedi Episcopali) di alcune più ampie facoltà, onde possano pascere e governare più facilmente il gregge affidato.

3. Non abbiamo trovato alcuna difficoltà a riconoscere quanto giusta fosse questa richiesta, così corrispondente alla malvagità dei nostri tempi e così degna dei sacri Presuli che riconoscono i doveri del loro ufficio e intendono compierli con tutte le loro forze. – Alla fine delle lettere di cui abbiamo parlato, essi testimoniano l’ossequio che le Chiese Gallicane professano verso l’autorità della Sede Apostolica mediante alcune dichiarazioni, due delle quali vogliamo riportare. – La prima dichiarazione è: “Non si deve esercitare nessuna facoltà proveniente dalla Santa Sede o in proprio o da usare attraverso delegati subalterni senza una previa dichiarazione da iscriversi nello stesso corpo dell’atto, cioè che si proceda in virtù del potere delegato dalla Sede Apostolica, annotando anche la data della concessione. La seconda dichiarazione è: “Si osserveranno rigorosamente i decreti e le disposizioni dei Sommi Pontefici, dei Concilii, nonché le consuetudini della Chiesa di Roma verso la Chiesa Gallicana nel concedere dispense, nell’assolvere da censure e in tutti gli altri atti compiuti in forza di indulti.

4. Pertanto su consiglio di una speciale Congregazione di Venerabili Nostri Fratelli Cardinali della Santa Romana Chiesa tenuta in Nostra presenza il 19 gennaio scorso, concediamo alle vostre Fraternità e a voi diletti Figli amministratori delle Diocesi, per mezzo della presente lettera, per il tempo e nel modo precisati nel presente indulto, le facoltà qui descritte e delle quali devono valersi alcune Sedi Episcopali più di altre.

5. Pertanto confortatevi, Venerabili Fratelli nel Signore, e per la potenza del suo braccio, indossando l’armatura di Dio contro i dominatori di questo mondo di tenebre, combattete come già avete fatto, quali valorosi militi di Cristo. Più che mai in tempo di tribolazione è necessario che i sacri Presuli mostrino quella solida virtù cristiana e quella sacerdotale costanza della quale devono essere dotati, secondo le parole dell’Apostolo, “al fine di essere in grado di esortare i potenti nella sana dottrina e di richiamare coloro che la combattono. – Vi assicuriamo pertanto, sempre, ogni miglior difesa da parte della Nostra autorità pontificia, e la testimonianza della Nostra paterna benevolenza. Come pegno di entrambe impartiamo a voi, diletti Figli, Venerabili Fratelli, con tanto affetto la Benedizione Apostolica. Dato a Roma, presso San Pietro, il 19 marzo 1792, anno diciottesimo del Nostro Pontificato.

* * *

FACOLTÀ CONCESSE DALLA SEDE APOSTOLICA

Ai singoli Arcivescovi e Vescovi e Amministratori delle Diocesi del Regno di Francia, che hanno comunione e grazia con la Sede Apostolica.

6. I. Facoltà di assolvere da tutti i casi in qualsiasi modo riservati alla Santa Sede, e particolarmente di assolvere da tutte le censure ecclesiastiche qualsiasi laico ed ecclesiastico, sia secolare, sia regolare, di ambedue i sessi; e anche coloro che aderirono allo scisma e prestarono giuramento civile e perseverarono in esso oltre i quaranta giorni stabiliti nella lettera apostolica del 13 aprile dello scorso anno per la sospensione a divinis, purché tuttavia abbiano ritrattato pubblicamente e palesemente tale giuramento, e abbiano riparato nel miglior modo possibile allo scandalo dato ai fedeli.

7. II. Facoltà di dispensare coloro che, già iniziati allo stato ecclesiastico, devono essere promossi agli Ordini minori o anche agli Ordini sacri, dalle irregolarità contratte in qualsiasi modo; anche da quella che hanno contratto i violatori della sospensione latæ sententiæ comminata con la stessa lettera del 13 aprile, purché essi, prima di essere dispensati, ritrattino il giuramento civile, prestato in modo puro e semplice, con una ritrattazione pubblica e palese. Si eccettuano tuttavia quelle irregolarità che provengono da bigamia accertata o da omicidio volontario: ma anche in questi due casi si concede la facoltà di dispensare se ci fu una precisa necessità o costrizione di lavoratori buoni e probi, purché, riguardo all’omicidio volontario, non sorga scandalo da una tale dispensa.

8. III. Facoltà di dispensare e commutare anche i voti semplici di castità, per una causa ragionevole, in altre pie opere; e questo per quelle Congregazioni di uomini e donne che sono stretti da questi vincoli, ma non dal voto (solenne e perpetuo) di religione.

9. IV. Facoltà di dispensare nei matrimoni già contratti o da celebrare sull’impedimento di pubblica onestà derivante da legittimi sponsali. – Di dispensare sull’impedimentum criminis se nessuno dei due coniugi ha collaborato, e di restituire il diritto di risarcimento del debito perduto in conseguenza dell’impedimento. – Di dispensare negli impedimenti di cognazione spirituale fuorché tra il padrino e il figlioccio. Di dispensare nel terzo e quarto grado di consanguineità e di affinità semplice e anche mista, tanto nei matrimoni già contratti quanto in quelli da contrarsi, e non solo tra i poveri, ma anche tra i ricchi. – Di dispensare anche nel secondo grado di consanguineità semplice e mista, purché in nessun modo si tocchi il primo grado, sia nei matrimoni già contratti, sia in quelli da contrarsi, e non solo tra i poveri, ma anche tra i ricchi. Tutte queste dispense matrimoniali non devono essere concesse se non con la clausola: “Purché la donna non sia stata rapita, e, qualora fosse stata rapita, finché resta in potere del suo rapitore.

Inoltre gli Arcivescovi, i Vescovi e anche gli Amministratori delle Diocesi (onerata con somma gravità la loro coscienza) sono tenuti a trascrivere tutte e singole le dispense matrimoniali concesse o da concedersi in un registro autenticato, che deve essere conservato presso di loro accuratamente e occultamente, con i nomi di tutti coloro che hanno ottenuto la dispensa.

10. V. La facoltà di dispensare, in caso di minore età, di tre mesi per ricevere gli Ordini sacri, salvi gli indulti di dispensare di tredici mesi, in caso di minore età, già concessi dalla Sede Apostolica ad alcuni Vescovi e Amministratori di Diocesi.

11. VI. La facoltà di conferire gli Ordini al di fuori dei tempi stabiliti in caso di utilità o di necessità, se si tratta di Vescovi; e di dispensare a favore di chi deve ricevere gli Ordini fuori dei tempi stabiliti, se si tratta di Amministratori delle Diocesi vacanti.

12. VII. Facoltà di disporre dei benefici parrocchiali e di altri titoli ecclesiastici ai quali è connessa la cura d’anime, in favore di sacerdoti secolari oppure di regolari, di qualsiasi Istituto, senza tener conto della secolarità o della appartenenza religiosa di tali titoli, in mancanza di sacerdoti secolari ai quali conferire i predetti benefici secolari, o in mancanza di sacerdoti religiosi ai quali conferire i benefici degli Ordini religiosi. Si concede pure facoltà di conferire questi benefici, nonostante la regola dei mesi e l’usanza di alternare, per quelle Diocesi nelle quali si osservano la predetta regola dei mesi e l’usanza di alternare.

13. VIII. Facoltà di concedere ai religiosi di qualsiasi Ordine o Congregazione la possibilità di passare in altro Istituto, anche se la regola vigente in quest’ultimo fosse meno austera di quella dell’Istituto nel quale fecero la loro prima professione.

14. IX. La facoltà di concedere ai religiosi regolari esenti e anche non esenti, di qualsiasi Ordine o Istituto, che furono costretti a vivere fuori del convento e a deporre l’abito religioso, di indossare abiti secolari, purché convenienti ad un ecclesiastico; e di continuare a vestire tali abiti sotto l’obbedienza del Vescovo, qualora manchino i relativi Superiori regolari oppure non siano in grado di esercitare qualsiasi giurisdizione sui loro sussidi, fermo sempre restando l’obbligo di osservare i voti solenni.

15. X. La facoltà di presiedere alle elezioni e di confermarle e di dare le obbedienze e di esercitare tutti gli uffici dei superiori immediati nelle case delle fanciulle soggette alla direzione di religiosi, ogni qualvolta questi siano assenti o impediti o negligenti nell’esercizio del loro ufficio. I Vescovi possono procedere come delegati della Sede Apostolica, salvo tuttavia i diritti notoriamente esistenti per qualsiasi titolo nei confronti delle stesse case e delle persone, a norma di speciali clausole canoniche. Parimenti ai medesimi, come delegati della Sede Apostolica, è data facoltà di concedere ai religiosi di ambedue i sessi, anche esenti, sia a tutti collettivamente, sia in particolare ai singoli, la dispensa dall’osservare quella parte di regole e costituzioni che nella presente situazione non può essere osservata senza grave pregiudizio.

16. XI. Facoltà di impartire l’indulgenza plenaria in articulo mortis nella forma prescritta dal Sommo Pontefice Pio VI nella sua costituzione del 7 aprile 1747.

17. XII. Facoltà di rinnovare e prorogare le indulgenze concesse ad tempus dai Sommi Pontefici alle case religiose e alle congregazioni, secondo che sarà richiesto dalle necessità dei tempi e delle circostanze. Inoltre, la facoltà di trasferire tutte le indulgenze (concesse e assegnate per qualsiasi titolo alle Chiese cattedrali o parrocchiali che sono state invase e occupate da pseudo-pastori) a quelle Chiese nelle quali i cattolici possono convenire per celebrare i divini misteri.

18. XIII. Facoltà di estendere e comunicare tali facoltà – eccetto quelle che richiedono l’Ordine episcopale – in toto o in parte, come la loro coscienza avrà suggerito, anche ai sacerdoti idonei, sia per tutti i luoghi, sia per alcuni delle loro Diocesi, per il tempo che riterranno più opportuno, come meglio giudicheranno in Domino; non solo, ma anche facoltà di revocare tali concessioni e anche di moderarne l’uso, sia in relazione al luogo, sia al tempo di esercitarle.

19. XIV. Concediamo il potere di subdelegare ai singoli presbiteri quelle facoltà che non richiedono la consacrazione episcopale e che furono concesse agli Arcivescovi e ai Vescovi di Francia in forza dell’indulto generale del 10 maggio dello scorso anno. Agli Arcivescovi e Vescovi di Parigi e di Lione, e ai Vescovi delle Diocesi più antiche di ogni provincia del regno di Francia, concediamo il potere di subdelegare anche quelle facoltà che in forza delle risoluzioni del 18 agosto furono concesse loro in modo speciale in data 26 settembre dello scorso anno. Queste facoltà vengono prorogate per tutto il tempo di questo indulto.

20. Tutte le predette facoltà vengono concesse per un anno, cominciando da questo giorno, se così a lungo durerà la calamità di questi tempi. Vengono concesse pertanto a condizione che per nessuna ragione si possa usarne fuori delle Diocesi di competenza e neppure nei luoghi non soggetti al Re cristianissimo.

Infine, vengono concesse sotto la precisa condizione che gli Arcivescovi, i Vescovi e gli Amministratori delle Diocesi, nell’esercizio di tali facoltà, espressamente dichiarino che le stesse vengono concesse da loro come delegati dalla Sede Apostolica; tale dichiarazione deve essere inserita nel corpo stesso dell’Atto.

DOMENICA X DOPO PENTECOSTE (2020)

X DOMENICA DOPO PENTECOSTE (2020).

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La liturgia di questa Domenica ci insegna il vero concetto dell’umiltà cristiana che consiste nell’attribuire alla grazia dello Spirito Santo la nostra santità; poiché le nostre azioni non possono essere soprannaturali, cioè sante, se non procedono dallo Spirito Santo, che Gesù mandò agli Apostoli nel giorno della Pentecoste e che dona a tutti quelli che glielo chiedono. Dunque la nostra santificazione è impossibile se vogliamo raggiungerla da soli, perché, abbandonati a noi stessi noi non siamo che impotenti e peccatori. Dobbiamo a Dio se evitiamo il peccato, se ne otteniamo il perdono, se riusciamo a fare il bene, poiché nessuno può pronunciare neppure il santo nome di Gesù con un atto di fede soprannaturale, che affermi la sua regalità e divinità, se non mediante lo Spinto Santo. L’orgoglio è, dunque, il nemico di Dio, perché si appropria dei beni che solo lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno nella misura che crede conveniente e impedisce alla potenza divina di manifestarsi nelle nostre anime in modo da farci credere che noi bastiamo a noi stessi. Come Dio potrebbe perdonarci (Oraz.), se noi non vogliamo riconoscerci colpevoli? Come potrebbe aver compassione di noi ed esercitare su noi la sua misericordia (Oraz.), se nel nostro cuore non vi è nessuna miseria riconosciuta cui il suo Cuore divino possa compatire? L’umile, invece, riconosce il proprio nulla perché sa che solo a questa condizione discenderà su lui la virtù di Cristo. Mentre la Chiesa sviluppa in questa Domenica tali pensieri, le letture, che fa durante questa settimana nel Breviario, danno due esempi di orgoglio e di grande umiltà. Dopo la figura del profeta Elia che si oppone così fortemente a quella di Achab e di lezabele, dei quali nell’ufficio è ricordato il terribile castigo, vi è quella del giovane Gioas che contrasta fortemente con quella di Atalia. Figlia di Achab e di lezabele, empia come sua madre, Atalia sposa il re di Giuda loram, che morì poco dopo. Allora la regina si trovò padrona del regno di Giuda e per esserlo per sempre fece massacrare tutta la famiglia di David. Ma losabeth, sposa del gran sacerdote Joiada tolse dalla culla l’ultimo nato della famiglia reale e lo nascose nel Tempio. Questi si chiamava Gioas. Per sei anni Atalia regnò ed innalzò templi in onore del dio Baal perfino nell’atrio del Tempio. Nel settimo anno il gran sacerdote attorniato da uomini risoluti e armati, mostrò Gioàs che allora aveva sette anni e disse: « Voi circonderete il fanciullo regale e se qualcuno cercherà di passare fra le vostre file, lo ucciderete! ». E quando il popolo si riversò nell’atrio, all’ora della preghiera, Joiada fece venire avanti Gioas, l’unse e lo coronò al cospetto di tutta l’assemblea che applaudi e gridò: «Viva il Re!». Quando Atalia intese queste grida, uscì dal palazzo ed entrò nell’atrio e quando vide il giovane re assiso sul palco, circondato dai capi e acclamato dal popolo col suono delle trombe, stracciò le sue vesti e gridò: «Congiura! Tradimento!». Il gran sacerdote ordinò di farla uscire dal sacro recinto e quando essa giunse nel suo palazzo venne uccisa. La folla allora saccheggiò il tempio di Baal e non lasciò pietra su pietra. E il re Gioas si assise sul trono di David, suo avo; regnò quarant’anni a Gerusalemme e si dedicò a riparare e abbellire il Tempio (All., Com.). La Scrittura fa di lui questo bell’elogio: «Gioas fece quello che è giusto agli occhi di Dio» È questa l’Antifona del Magnificat dei Vespri alla quale fa eco quella dei II Vespri che è tratta dal Vangelo di questo giorno: « Questi (il pubblicano) ritornò a casa sua giustificato e non quello (il fariseo), poiché chi si esalta sarà umiliato e chi s’umilia sarà esaltato ». – « Quelli che si innalzano sono visti da Dio da lontano, dice S. Agostino. Egli vede da lontano i superbi, ma non perdona loro. « L’umile invece, come il pubblicano, si riconosce colpevole! ». Egli si batteva il petto, si castigava da sé, e Dio perdonava a quest’uomo perché confessava la sua miseria. Perché meravigliarsi che Dio non veda più in lui un peccatore dal momento che si riconosce da sé peccatore? Il pubblicano si teneva lontano ma Dio l’osservava da vicino » (Mattutino). Così l’umile fanciullo Gioas fu gradito a Dio perché la sua condotta avanti a Lui era quale doveva essere. Egli fece ciò che era giusto agli occhi del Signore. Atalia, invece, orgogliosa ed empia, non fece ciò che era giusto avanti al Signore, e sdegnò e insultò quelli che facevano il loro dovere, poiché l’orgoglio verso Dio si manifesta ogni giorno nel disprezzo verso il prossimo. Dice Pascal che vi sono due categorie di uomini: quelli che si stimano colpevoli di tutte le mancanze: i Santi; e quelli che si credono colpevoli di nulla: i peccatori. I primi sono umili e Dio li innalzerà glorificandoli, i secondi sono orgogliosi e Dio li abbasserà castigandoli. « Il diluvio, dice S. Giovanni Crisostomo, ha sommerso la terra, il fuoco ha bruciato Sodoma, il mare ha inghiottito l’esercito degli Egiziani, poiché non è altri che Dio, il quale abbia inflitto ai colpevoli questi castighi. Ma, dirai tu, Dio è indulgente. Tutto ciò allora non è che parola vana? E il ricco che disprezzava Lazzaro non fu punito? … e le vergini stolte non furono discacciate dallo Sposo? E quegli che si trova nel banchetto con le vesti sordide non verrà legato mani e piedi e non morrà? E colui che richiederà al compagno i cento denari non sarà dato al carnefice? Ma Dio si fermerà solo alle minacce? Sarebbe molto facile provare il contrario e dopo quello che Dio ha detto e fatto nel passato possiamo giudicare quello che farà nell’avvenire. Abbiamo piuttosto sempre in mente il pensiero del terribile tribunale, del fiume di fuoco, delle catene eterne nell’inferno, delle tenebre profonde, dello stridore dei denti e del verme che avvelena e rode » (2° Nott.). Questo sarà il mezzo migliore per rimanere nell’umiltà, che ci fa dire con la Chiesa: « Ogni volta che io ho invocato il Signore, questi ha esaudita la mia voce. Mettendomi al sicuro da quelli che mi perseguitavano, li ha umiliati, Egli che è prima di tutti i tempi » (lntr.). « Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dei tuoi occhi, perché i tuoi occhi vedono la giustizia » (Grad.). « Signore, io ho innalzata l’anima mia verso te, i miei nemici non mi derideranno perché quelli che hanno confidenza in te non saranno confusi » (Off.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LIV: 17; 18; 20; 23
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.

[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]
Ps LIV: 2
Exáudi, Deus, oratiónem meam, et ne despéxeris deprecatiónem meam: inténde mihi et exáudi me.

[O Signore, esaudisci la mia preghiera e non disprezzare la mia supplica: ascoltami ed esaudiscimi.]
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.

[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui omnipoténtiam tuam parcéndo máxime et miserándo maniféstas: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, ad tua promíssa curréntes, cœléstium bonórum fácias esse consórtes.

[O Dio, che manifesti la tua onnipotenza soprattutto perdonando e compatendo, moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché quanti anelano alle tue promesse, Tu li renda partecipi dei beni celesti.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XII: 2-11
Fratres: Scitis, quóniam, cum gentes essétis, ad simulácra muta prout ducebámini eúntes. Ideo notum vobisfacio, quod nemo in Spíritu Dei loquens, dicit anáthema Jesu. Et nemo potest dícere, Dóminus Jesus, nisi in Spíritu Sancto. Divisiónes vero gratiárum sunt, idem autem Spíritus. Et divisiónes ministratiónum sunt, idem autem Dóminus. Et divisiónes operatiónum sunt, idem vero Deus, qui operátur ómnia in ómnibus. Unicuíque autem datur manifestátio Spíritus ad utilitátem. Alii quidem per Spíritum datur sermo sapiéntiæ álii autem sermo sciéntiæ secúndum eúndem Spíritum: álteri fides in eódem Spíritu: álii grátia sanitátum in uno Spíritu: álii operátio virtútum, álii prophétia, álii discrétio spirítuum, álii génera linguárum, álii interpretátio sermónum. Hæc autem ómnia operátur unus atque idem Spíritus, dívidens síngulis, prout vult.

[“Fratelli: Voi sapete che quando eravate gentili correvate ai simulacri muti, secondo che vi si conduceva. Perciò vi dichiaro che nessuno, il quale parli nello Spirito di Dio dice: «Anatema a Gesù»; e nessuno può dire: «Gesù Signore», se non nello Spirito Santo. C’è, sì, diversità di doni; ma lo Spirito è il medesimo. Ci sono ministeri diversi, ma il medesimo Signore; ci sono operazioni differenti, ma è il medesimo Dio che opera tutto in tutti. A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito, perché sia d’utilità. Mediante lo Spirito a uno è data la parola di sapienza, a un altro è data la parola di scienza, secondo il medesimo Spirito. A un altro è data nel medesimo Spirito la fede; nel medesimo Spirito a un altro è dato il dono delle guarigioni: a un altro il potere di far miracoli; a un altro la profezia; a un altro il discernimento degli spiriti; a un altro la varietà delle lingue, a un altro il dono d’interpretarle. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, il quale distribuisce a ciascuno come gli piace”].

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,1921]

LE DIVERSE CONDIZIONI SOCIALI

Nei primi tempi della Chiesa, quando essa aveva maggior bisogno di prove esterne per affermarsi e dilatarsi, ai fedeli venivano concessi, visibilmente e in abbondanza, doni spirituali. Erano doni che dovevano servire non al vantaggio personale di chi li possedeva, ma per il bene generale della comunità cristiana. Nell’Epistola riportata, S. Paolo ne enumera nove. I Corinti, abbondantemente forniti di questi doni se ne insuperbivano. L’Apostolo per togliere tale abuso, stabilita la regola che, per conoscere se tali doni vengono da Dio o dal demonio, è da attendere se promuovono la fede in Gesù Cristo e il suo amore, insegna che, sebbene questi doni siano vari, distribuiti parte agli uni, parte agli altri; è lo stesso Spirito Santo che li distribuisce. Se sono molteplici e diversi i ministeri che si esercitano nella Chiesa; quelli che li esercitano sono tutti servi dello stesso Signore, Gesù Cristo. Se sono molteplici gli effetti prodotti da questi doni e da questi ministeri, è lo stesso Dio che opera in tutti. Il dono, poi, a chiunque sia stato concesso, è stato concesso per utilità degli altri. – La conseguenza da tirare è facile. I Corinti non avevano nessun motivo di orgoglio o di vanità per ì doni ricevuti. Quelli poi che avevano i doni più umili non dovevano invidiare quelli che avevano doni più eccellenti. Conseguenza pratica per noi: date le disuguaglianze che ci sono nella società:

1 I meno favoriti non devono rammaricarsi,

2 I più favoriti non hanno motivo di insuperbire,

3 Tutti devono cooperare a vivere in armonia.

1.

Quella distinzione di grazie, di attività, di misteri, che fa notare S. Paolo nel mistico corpo della Chiesa, può applicarsi alla società in generale. Anche questa, così varia nelle condizioni degli individui, vive una vita unica, a cui partecipano, come parte di un sol corpo, tutti i suoi membri. Ci sono ministeri diversi, ma il medesimo Signore. Altro è il ministero dell’Apostolo, altro quello del Vescovo, altro quello del sacerdote; ma è uno solo che dispensa questi ministeri: Dio. Nella società altra è la funzione di chi governa e di chi è governato; altra quella del ricco e altra quella del povero; altra quella del pensatore e altra quella del bracciante: ina tutti hanno un compito che va a risolversi nell’armonia sociale voluta da Dio. – Si usa considerare la società come divisa in due campi: quello dei ricchi, dei gaudenti, dei parassiti, e quello dei diseredati, degli infelici, dei lavoratori. Naturalmente quelli d’una classe non hanno sempre sentimenti lodevoli verso quelli dell’altra. Ma non dovrebbe essere così. Cominciamo dalla classe dei meno favoriti. Vediamo i lavoratori. Generalmente il lavoro manuale viene considerato come un lavoro di poca considerazione, che avvilisce i lavoratori, mettendoli al disotto di coloro che non attendono a simili lavori. Se il lavoro manuale avvilisse, se mettesse i lavoratori in condizione di inferiorità di fronte agli altri, non si capirebbe come Gesù Cristo abbia lasciato gli splendori del cielo, la compagnia degli Angeli per sudare in una bottega. Quando in un lavoro si ha per compagno Gesù Cristo, chi può affermare che è un lavoro che disonora? Chi lavora, sia pure manuale il suo lavoro, può portar la testa alta come il grande pensatore. Ciò che disonora non è il genere di lavoro, è l’ozio. Vediamo coloro che nella società sono trascurati, non compresi, dimenticati, accanto a coloro che godono onori, posseggono titoli, gradi ecc. Anche questi non dovrebbero rammaricarsi, darsi alla tristezza. Le cose non continueranno sempre così. È questione di un po’ di pazienza. Sulla scena del teatro, chi rappresenta la parte di re, chi di suddito, chi di mecenate, chi di protetto, chi di padrone, chi di servo. Gli uni indossano abiti preziosi, gli altri portano abiti dimessi. Nessuno però, ha invidia della parte rappresentata da un altro, o degli abiti che indossa. Tanto è una scena di breve durata. Quando cala il sipario, tutte le grandezze scompaiono. Quando cala il sipario che chiude la nostra vita, tutti siamo eguali; nessuno porta di là blasoni, titoli, onorificenze. Ci sono i poveri di fronte ai ricchi. Qui il motivo di rammaricarsi è minore ancora. Sorge dalla falsa persuasione che ricchezza e felicità siano una cosa sola. S. Giuseppe Oriol, era chiamato dai suoi Catalani il «Santo allegro ». Un giorno fu visto in coro in preda a una certa inquietudine. Chiestogli da chi gli stava vicino che cosa gli fosse accaduto, rispose di aver in tasca un certo diavoletto che gli cagionava molto fastidio. E, uscito subito dal suo posto, diede a un povero, che trovò nella chiesa, la moneta che lo tormentava. Così riacquistò la sua tranquillità abituale (M. Carlo Salotti, Vita di S. Giuseppe Oriol; Roma, 1909). Si tratta di un Santo, direte; è vero. Ma persuadiamoci pure che le ricchezze turbano l’animo anche di chi non è santo. Per chi si lascia da esse dominare, le ricchezze sono «splendidi tormenti», come le chiama S. Cipriano» (Ad Donatum, 12). E, naturalmente, sono tormenti tanto più gravi, quanto più sono abbondanti. Ne abbiamo la prova ogni giorno. Chi sono quelli che si tolgono la vita, incapaci di resistere alle prove che l’accompagnano? Sono quasi sempre dei ricchi; e tra questi è preponderante il numero dei ricchissimi.

2.

A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito, perché sia di utilità. Qui è dichiarato lo scopo di questi doni soprannaturali. Essi sono dati non in vista dell’individuo che è ne è fornito, ma in vista dell’utilità della Chiesa. Questi doni hanno un’unica origine, il Signore, hanno un unico fine, l’utilità della Chiesa. Sbagliano, quindi, quei Corinti che si lamentano per averne ricevuti meno che gli altri; e sbagliano quei Corinti che diventano orgogliosi per averne ricevuti di più. Anche rispetto alla società civile possiamo dire che sbagliano tanto quelli che si rattristano, perché si trovano inferiori agli altri, quanto quelli che vanno gonfi, perché si trovano superiori. Se tu hai beni, gradi, titoli che ti fanno superiore agli altri, non devi credere che dipenda tutto da te. Se il Signore non avesse benedetto le tue fatiche, i tuoi tentativi, se non ti avesse posto in particolari condizioni e in particolari circostanze, saresti povero, dimenticato, sconosciuto come gli altri. Quanti hanno sudato, pensato, osato più di te, e si trovano in condizione ben inferiore alla tua. Dove Dio aiuta ogni cosa riesce. Senza la benedizione di Dio, al contrario, tutte le fatiche e tutti i pensamenti degli uomini non riescono a nulla. «Se il Signore non edifica la casa, inutilmente vi si affannano i costruttori» (Ps. CXXVI, 1).Se ti trovi in condizioni sociali migliori di quelle degli atri, pensa che è anche maggiore la tua responsabilità. « A chi molto fu dato, molto sarà richiesto» (Luc. XII, 48) è scritto nel Vangelo. In certo modo, invece di disprezzare chi ti è inferiore, dovresti onorarlo, perché egli ha meno responsabilità della tua, e a lui sarà chiesto conto con meno rigore che a te. L’uomo si giudica dalle sue opere. Se tu con tutti i tuoi privilegi e i tuoi beni, non fai niente di buono; e un altro, povero, disprezzato compie delle buone opere; chi è più degno di stima di rispetto, di considerazione? Se poi entriamo nel campo spirituale, quello che tu stimi a te inferiore, può essere cento volte superiore a te. Chi più grande: S. Isidoro, agricoltore; S. Giuseppe Benedetto Labre, pellegrino medicante; S. Zita, domestica, o tanti fortunati del mondo, che passarono all’altra vita senza biasimo e senza lode?Per quanto possono essere notevoli le disuguaglianze su questa terra, non dovrebbero essere motivo di tristezza o di orgoglio. «Tutte queste disuguaglianze possono essere uguagliate dalla grazia divina, perché quei che restano fedeli fra le tempeste di questa vita non possono essere infelici» (S. Leone M. Epist. 15, 10).

3.

Lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno come gli piace. Nessuno, quindi, può domandargli conto o lamentarsi, se agli uni distribuisce doni più abbondanti che agli altri. Se lo Spirito Santo distribuisce a suo piacimento, non fa, però, una distribuzione capricciosa. Tutti i doni distribuiti debbono cooperare al bene comune della Chiesa; perciò, tra essi bisogna che ci sia quella comunicazione che c’è tra le varie membra di un sol corpo. Lo stesso possiam dire delle varie mansioni nella società. La natura della società, stabilita da Dio, è tale che le varie classi, sono collegate tra di loro in maniera che una non possa far senza dell’altra. Esse sono destinate ad armonizzare fra loro, in guisa da produrre un completo equilibrio.Ci deve essere armonia tra padroni e dipendenti. I padroni, i superiori in genere, devono essere animati dal pensiero di procurare la felicità dei loro dipendenti. Proteggerli se deboli; difenderli, se vessati; procurare il loro benessere se bisognosi. Non devono dimenticarsi che i loro dipendenti hanno un’anima da salvare. Perciò devono facilitar loro il vivere secondo le leggi dell’onestà e secondo i comandamenti di Dio. Sull’animo dell’uomo, sia pure un dipendente, nessuno può aver un dominio maggiore di quello che ha Dio. Nessuno, quindi, può comandare ciò che è contrario ai comandi di Dio. Alla loro volta i dipendenti devono considerare i padroni e i superiori come quelli che sono stati da Dio destinati a curare il loro bene, a esser sostegno nelle difficoltà della vita, a esser guida nelle incertezze. E neppure ci deve essere contrasto tra il lavoro della mente e il lavoro della mano. È necessaria l’uno ed è necessario l’altro. Una macchina che proceda senza chi la guidi non potrà andare avanti bene. La sua forza, invece di produrre benefici, produce danni. Lavora tanto chi studia e dà l’indirizzo, quanto chi eseguisce il lavoro. L’importante è che lavorino tutti, poiché «chi non vuol lavorare non deve neppure mangiare» (2 Tess. III, 10). – Armonia ci dev’essere anche tra ricchi e poveri. La sollecitudine moderata di migliorare la propria condizione e di provvedere all’avvenire non è proibita, ma con tutte le sollecitudini e con tutte le provvidenze, non si chiuderà mai la porta alle miserie: queste si affacceranno sempre. E qui il ricco può colmarsi di meriti e di benedizioni: «Se hai dei beni terreni — scrive S. Agostino — usane in modo da far con essi molti beni e male nessuno» (Epist. 220, 11 ad Bonif.). Ti acquisterai vera gloria, poiché « gloria del buono è l’aver chi possa ricolmare dei suoi benefici » (S. Giovanni Grisostomo. In II Epist. ad Thess. Hom. 3, 12). Ti acquisterai la ricompensa delle preghiere dei beneficati, e farai un sacrificio molto accetto a Dio, come ti assicura l’Apostolo: «Non vogliate dimenticarvi di esercitare la beneficenza e la libertà, perché con tali sacrifici si rende propizio Dio» (Ebr. XIII, 16).

Graduale

Ps XVI: 8; LXVIII: 2
Custódi me, Dómine, ut pupíllam óculi: sub umbra alárum tuárum prótege me.

[Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dell’occhio: proteggimi sotto l’ombra delle tue ali.]

V. De vultu tuo judícium meum pródeat: óculi tui vídeant æquitátem.

[Venga da Te proclamato il mio diritto: poiché i tuoi occhi vedono l’equità.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

 Ps LXIV: 2
Te decet hymnus, Deus, in Sion: et tibi redde tu votum in Jerúsalem.
Allelúja.

[A Te, o Dio, si addice l’inno in Sion: a Te si sciolga il voto in Gerusalemme. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc XVIII: 9-14.
In illo témpore: Dixit Jesus ad quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros, parábolam istam: Duo hómines ascendérunt in templum, ut orárent: unus pharisæus, et alter publicánus. Pharisæus stans, hæc apud se orábat: Deus, grátias ago tibi, quia non sum sicut céteri hóminum: raptóres, injústi, adúlteri: velut étiam hic publicánus. Jejúno bis in sábbato: décimas do ómnium, quæ possídeo. Et publicánus a longe stans nolébat nec óculos ad cœlum leváre: sed percutiébat pectus suum, dicens: Deus, propítius esto mihi peccatóri. Dico vobis: descéndit hic justificátus in domum suam ab illo: quia omnis qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.” 

 [“In quel tempo disse Gesù questa parabola per taluni, i quali confidavano in se stessi come giusti, e deprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio: uno Fariseo, e l’altro Pubblicano. Il Fariseo si stava, e dentro di sé orava così: Ti ringrazio, o Dio, che io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri; ed anche come questo Pubblicano. Digiuno due volte la settimana; pago la decima di tutto quello che io posseggo Ma il Pubblicano, stando da lungi, non voleva nemmeno alzar gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: Dio, abbi pietà di me peccatore. Vi dico, che questo se ne tornò giustificato a casa sua a differenza dell’altro: imperocché chiunque si esalta, sarà umiliato; e chi si umilia, sarà esaltato”].

Omelia II

Sopra la superbia.

Omnis, qui se exaltat humiliabitur; et qui se humiliat exaltabitur. Luc.XVIII

Noi vediamo, fratelli miei, nell’odierno Vangelo un vivo ritratto del vizio della superbia e della virtù dell’umiltà ad esso contraria. Due uomini, dice il Salvatore, salirono al tempo per farvi le loro orazioni. L’uno era fariseo, l’altro pubblicano, il fariseo, tutto pieno di stima per se stesso, stavasene in piedi, ed indirizzavasi a Dio con queste parole: Io vi ringrazio, o Signore, perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, né tale come quel pubblicano; io digiuno due volte alla settimana, do la decima di tutti i miei beni. Il pubblicano dal canto suo stando lontano, non ardiva neppur alzar gli occhi al cielo, ma percuotevasi il petto, dicendo: Mio Dio, siate propizio ad un peccatore come son io. La preghiera di questi due uomini, come vedete, era molto differente l’una dall’ altra; quindi ebbero ancora un effetto molto differente. Quella del fariseo, che partiva da un cuore orgoglioso e gonfio del suo merito, fu riprovata da Dio e non servì che a renderlo più colpevole: laddove quella del pubblicano, che era il linguaggio della umiltà, gli ottenne il perdono dei peccati, e di peccatore che era , ne fece un giusto ricolmo delle grazie del Signore. Così conchiuse Gesù  Cristo: chiunque s’innalza sarà abbassato, e chiunque s’abbassa sarà innalzato; Omnis, qui se exaltat humiliabitur; et qui se humiliat, exaltabitur. Egli è facile, fratelli miei, il comprendere l’istruzione che Gesù Cristo ha voluto darci nel ritratto di questi due uomini. Nel primo ci fa vedere il carattere ed i castighi della superbia; e nell’altro ci rappresenta le ricompense dell’umiltà. Il fariseo, in vece di comparire in umile atteggiamento come conviensi al luogo santo e davanti alla maestà di Dio, vi sta ritto in piedi, stans; il che fa vedere la gonfiezza e l’orgoglio del suo cuore. In vece di render gloria a Dio di tutto il bene che credeva aver fatto, egli si vanta, si fa gloria d’un merito immaginario; la sua preghiera non è che una ostentazione, un racconto delle sue lodi; e perciò egli vien riprovato da Dio. Il pubblicano, al contrario, è sì penetrato di infusione alla vista dei suoi peccati, che non osa neppure alzar gli occhi al cielo; e per quest’umile via, per questi bassi sentimenti, che ha di se stesso, merita gli sguardi favorevoli del Signore. Il fariseo s’innalza, e Dio s’allontana da lui. Il pubblicano si abbassa, e Dio se gli accosta. Il fariseo esce dal tempio più colpevole che non vi era entrato, ed il pubblicano se ne ritorna giustificato alla sua casa. Ecco, fratelli miei, dei motivi molto atti a farci detestar la superbia, amar l’umiltà. Castigo della superbia nel fariseo; ricompensa dell’umiltà nel pubblicano; due soggetti che danno materia a due istruzioni. – Quest’oggi, non ne tratteremo che uno, che sarà la superbia, riserbandoci di parlar un’altra volta sopra l’umiltà. Come il superbo resiste a Dio, primo punto. Come Dio resiste ai superbi, secondo punto. Innalzamento colpevole e giusta umiliazione del superbo: il suo peccato, il suo castigo.

I. Punto. Ella è cosa sohrprendente, fratelli miei, che l’uomo trovando in se medesimo tanti motivi di umiliarsi, sia nulladimeno così pieno di superbia. Questo vizio infetta quasi tutti gli stanti del mondo; il suo dominio si estende sì lungi, che ben pochi vi ha, che non gli siane soggetti. Per guarire dunque coloro che non sono macchiati, e preservarne quelli che nol sono ancora, bisogna quest’oggi farvene conoscere il carattere, la malizia e gli effetti. Che costi è la superbia? È, dice s. Tommaso, un amor disordinato della propria eccellenza, fondato sulla buona opinione di se stesso, il quale fa che uno si stima e ricerca ariosamente la gloria e l’onore: Superbia est amor inordinatus propriæ excellentiæ; e perché il superbo non istima che se stesso, così non ha per gli altri che del dispregio; egli si sforza, per quanto può, di abbassarli per innalzarsi sopra di essi. Stimar se stesso, dispregiar gli altri; ecco il carattere della superbia, quale ci è rappresentato nel fariseo. Quest’uomo, infatuato d’un merito che crede d’avere, si vanta, si applaudisce, racconta le buone azioni che ha fatte. Ma che dice egli degli altri? Li biasima, li carica di delitti, perché crede mettere la sua virtù in maggior luce per lo confronto, che ne fa con gli altrui difetti. – Notate bene la superbia, dice s. Agostino. Io non sono – dice egli – come gli altri uomini. Dicesse almeno come alcuni uomini, come la maggior parte degli uomini; ma si preferisce a tutti, si crede il solo uomo dabbene sopra la terra: qual vanità! Quanti non ne vediamo ancora noi di questo carattere? Ripieni di se stessi, si vantano, si fanno gloria, l’uno della sua nobiltà o delle sue ricchezze, l’altro del suo potere; questi del suo talento, della sua abilità, quegli delle sue virtù, delle sue buone azioni! Quanti che si applaudiscono d’un merito che non hanno! E perché questi superbi credonsi soli degni d’essere stimati e onorati, non hanno per gli altri che del dispregio; li abbassano quanto possono per stabilire la loro riputazione sulla rovina dell’altrui. Or volete voi sapere, fratelli miei, quanto questo peccato è opposto a Dio? Giudicatene dai tratti, che sono per darvene. La superbia rapisce al Creatore la gloria, che gli è dovuta per attribuirla ad altra creatura; distrugge la carità, che si deve avere pel prossimo, ed è la sorgente funesta d’infiniti altri peccati: quale orrore non dobbiamo noi averne? A Dio solo l’onore e la gloria appartengono, dice l’Apostolo: Soli Deo honor, et gloria (1. Tim. 2). L’uomo non ha da se stesso, che il nulla ed il peccato; tutto quel che possiede, lo tiene dalla mano liberale di Dio; vita, sanità, ricchezze, spirito, talenti, beni di natura, di fortuna e di grazia, tutto abbiam ricevuto da Dio. Senza di Lui noi saremmo nel nulla, nell’indigenza d’ogni cosa: non siamo da noi stessi capaci di cosa alcuna, neppure di aver un buon pensiero per la salute. Alla sua grazia noi dobbiamo tutto il bene, che abbiamo fatto, se pure abbiamo fatto qualche cosa per il cielo. Qual ingiuria non fate voi dunque a Dio, uomini vani e superbi? In vece di rendergli gloria dei beni, dei talenti che avete ricevuti, voi vi prevalete dei suoi doni, come se venissero da voi medesimi; invece di riferir a Dio il successo delle vostre intraprese, voi le attribuite alla vostra industria; in vece di riconoscerlo per principio e autore di tutte le vostre buone azioni, ve ne arrogate la gloria, vantandole, pubblicandole, come se fossero unicamente opera vostra, e non già della grazia di Dio. Se tutti i beni, che possedete nell’ordine della natura e della grazia, voi li tenete dalla mano liberale di Dio, perché gloriarvene come se non li aveste ricevuti? dice l’Apostolo. Quid gloriaris, quasi non acceperis (1 Cor. IV)? Non è forse un rapire a Dio la gloria che gliene ritorna? Non è forse imitare l’audacia dell’angelo ribelle, che portò il suo orgoglio sino a disputare a Dio la sua gloria, e la sua indipendenza? Mentre questo fu, come sapete, il suo peccato e la cagione della sua disgrazia. Questo celeste spirito, la più bell’opera che fosse uscita dalla mano di Dio, si accecò coi suoi propri lumi; invaghito della bellezza del suo essere, dell’eccellenza delle sue perfezioni, talmente se ne compiacque, che si credette indipendente da tutti: in vece di sottomettersi a Dio, pretese sollevarsi sino a Lui, rendersi simile all’Autore del suo essere: Similis ero Altissimo. Tale è l’eccesso di temerità, a cui l’orgoglio è capace di portar la creatura. Usurpar gli onori divini, affettar l’indipendenza, che non appartiene che all’Essere supremo; tale è stata l’audacia negli angeli ribelli. che hanno avuto degli imitatori negli uomini, sin dai primi secoli del mondo. Imperciocché, donde pensate voi, fratelli miei, che sia venuta l’idolatria, la quale sparse sì dense tenebre sulla faccia dell’universo, che quasi tutto il genere umano ne fu involto? Fu dalla superbia degli uomini, che ripieni di sé medesimi, infatuati, ebri della loro grandezza, della loro possanza, del loro merito, giunsero a tale accecamento da farsi rispettare come dei da quelli, che erano cotanto ciechi per condiscendere ai loro sentimenti. Gli uni fecero fabbricar tempi in loro nome, gli altri rizzare statue, cui si rendevano onori divini. Tal fu l’orgoglio d’un Nabucco che fece mettere nella fornace tre figliuoli ebrei, che ricusarono di adorarlo. Così la superbia degli uomini è venuta a capo di rapir al Creatore la gloria che gli era dovuta, per attribuirla alla creatura: quale ingiustizia! qual disordine! Se la superbia non porta presentemente gli uomini ad eccessi così mostruosi, non se veggono forse ancora che vorrebbero, per così dire, esser riguardati come divinità sulla terra, sia elevandosi al di sopra degli altri, che pretendono far abbassare avanti ad essi, sia esigendo che si abbiano per essi certi riguardi, perché hanno più di nobiltà, più di beni, più di credito, più d’autorità, più di talento, più di spirito, e perché sono in un grado più elevato? Cenere e polvere, di che v’insuperbite? Quid superbis, terra et cinis (Eccl. III)? Che cosa siete voi avanti a Dio? Nulla e peccato. Ecco di che potete voi vantarvi, o piuttosto di che dovete umiliarvi; tutto il restante non è vostro, la gloria ne appartiene a Dio solo. Voi rassomigliate ad un vaso di terra adornato di vesti preziose, e che non diviene perciò più prezioso in sé stesso: mentre deve tutto il suo splendore a chi l’ha rivestito. Voi dovete tutto a Dio; dunque è un rapirgli la gloria che gli è dovuta il gloriarvi voi medesimi di ciò che avete ricevuto. – Perciocché finalmente, per farvi ancora meglio conoscere l’ingiustizia del vostro orgoglio, e quanto sia egli mal fondato, su di che l’appoggiate voi? Qual è il fondamento della stima che avete di voi medesimi? È forse la nobiltà della vostra origine? Ma questa nobiltà non viene da voi, ella è una cosa straniera; non è già vostro merito l’esser nati da genitori illustri. Sono forse i beni che vi rendono orgogliosi? Ma questi beni non danno il merito, neppur lo suppongono; quelli che han ricchezze sono spesse volte più viziosi. Che avete voi fatto a Dio per avere più beni di tanti altri, che sono nell’indigenza, e forse più dabbene che voi? Donde vi vengono questi beni? Sono le eredità dei vostri antenati che nulla vi han costato; forse sono essi il frutto delle loro ingiustizie, o delle vostre, e per conseguenza non vi appartengono: voi non avete dunque motivo di vantarvene. Ma io voglio che vi appartengano per giusti titoli; forse saranno essi la causa della vostra riprovazione, e lo saranno infatti, se voi ne fate un malvagio uso. Non è forse questo piuttosto un motivo d’umiliarvi? Di che vi gloriate voi ancora? Delle qualità del corpo, dello spirito, della sanità, della bellezza, dei vostri talenti? Ma tutto questo non viene forse da Dio? Non dipendeva che da Lui di ridurvi in uno stato così umiliante come quelli che dispregiate, perché non hanno quell’avvenenza, quelle qualità personali, che sono materia della vostra superbia. La sola cosa che vi fa onore si è la virtù; ma di questa virtù, di queste buone opere, a Dio dovete il merito e per conseguenza la gloria. Se l’attribuite a voi medesimi, voi fate ingiuria a Dio, e la vostra virtù cessa per questo appunto d’essere vera virtù; ella è una virtù farisaica, riprovata da Dio; poiché dal momento che cercate la vostra gloria nella pratica della virtù, che fate buone azioni in vista di piacere agli uomini, di attirarvi la loro stima, non è più la gloria di Dio che si ricerca, come si deve ricercare, ma è un bene che gli appartiene. – Non è forse tuttavia quello che voi fate in mille occasioni, allorché praticate certe azioni virtuose avanti gli uomini, le quali non fareste in segreto e prevedete che vi loderanno, che vi stimeranno? Non è forse anche per un principio di superbia , che voi vi date delle lodi; che raccontate il bene che avete fatto, affinché gli altri ve ne diano; che vi vantate dei vostri talenti, delle vostre belle qualità, delle vostre virtù ? Quante volte per una dannevole ipocrisia vi siete coperti del mantello della virtù, che non avevate, per occultare i difetti cui eravate soggetti, evitando il peccato per il solo timore dal disonore, ma sempre pronti a commetterlo da che l’onor vostro non vi andasse? Forse anche per una detestabile vanità voi vi siete fatta gloria di ciò che doveva coprirvi di confusione, mentre la superbia fa tutto servir ai suoi disegni, così le malvage azioni come le buone. Qual ingiuria non fa dunque a Dio questo peccato? – Ma egli non è già men opposto alla carità, che si deve avere per il prossimo. Il superbo, che non stima che se stesso, tratta gli altri con un sommo disprezzo. Ascoltate il discorso del fariseo. Io non sono – dice egli – soggetto a vizi vergognosi come quel pubblicano: Non sum velut iste publicanus. Egli sparge su la condotta di lui la censura la più inoltrata. Quindi è che il superbo si preferisce a tutti. Io non sono – dice egli – come il tale ed il tale: io avrei fatto meglio in tal occasione. Egli si crede solo aver più di spirito, intendere meglio gli affari. Tutto quel che egli pensa, tutto quel che dice, tutto quel che fa, è sempre meglio che quello che possa pensare, dire o fare gli altri. Unicamente occupato del suo merito, esso non trova negli altri che difetti: sempre a farsi vedere nel bello, non studia che di far scorgere il debole degli altri, sul riflesso che il dispregio che se ne farà, servirà d’ombra al ritratto che egli fa di sé medesimo. Se è forzato di rendere giustizia al merito, egli fa tutto quel che può per oscurarne la gloria  con maligne interpretazioni, che dà alle azioni. Geloso dell’altrui innalzamento non evvi rigiro alcuno, che non metta in opera per soppiantarlo. Egli vuole aver dappertutto il miglior posto nelle assemblee, sino ai piè del santuario. È egli superiore ad altri? Li riguarda come vermi di terra. Quindi quella fierezza, quell’aria d’alterigia, che affetta a loro riguardo: quindi quell’affettazione di non conoscere coloro che gli appartengono per i legami del sangue, perché sono i miseri ridotti in una povera e bassa condizione, mentre d’altra parte egli si vanterà d’appartenere a persone più ricche e più elevate, e che sovente nulla gli sono. Quindi quelle pretensioni ridicole, che tutti accondiscendano al suo parere vero o falso, mentre egli medesimo non ha veruna condiscendenza per l’altrui sentimento. – A questi tratti, fratelli miei, che non fanno che abbozzare il ritratto del superbo, riconoscete, che egli abbia molta carità pel prossimo? Ah! come questa virtù è difficile a trovarsi nei superbi! La carità pensa bene di tutti e non giudica male d’alcuno, dice l’Apostolo. Il superbo fa tutto il contrario; egli la fa da giudice critico dell’altrui condotta e condanna tutti. La carità è paziente per sopportare gli altrui difetti, non si adira punto del male, che le vien fatto; ma un superbo nulla vuol tollerare, si offende del minimo disprezzo, d’una parola talvolta sfuggita a caso, senza disegno di recargli disgusto. Egli è un monte che getta neri vapori, tosto che vien toccato: tange montes, et fumigabunt. Quindi quegli sdegni, quei trasporti cui si abbandona; quelle maledizioni, quelle ingiurie che proferisce; quelle vendette che medita, e che effettivamente eseguisce contro coloro che hanno avuto per lui quei riguardi che si crede meritare. Ed è ciò, che mi ha fatto dire, che la superbia era la sorgente di molti peccati. – Non si attribuiscano – fratelli miei – ad altre cagioni fuorché alla superbia, tanti contrasti e nimicizie, che regnano tra gli uomini. Perché mai quelle persone tra loro nemiche da sì lungo tempo, non sono ancora riconciliate, malgrado gli avvisi d’un confessore? Si è la superbia che le ritiene. Ciascuno crede aver la giustizia dal suo canto, o se conosce il suo torto, non vuol confessarlo. Egli si stima più che un altro, crederebbe abbassarsi, e troppo costerebbe all’amor proprio il fare i primi passi; così rimane esso sempre nel medesimo stato, cioè in uno stato di dannazione. Perché mai s’intentano liti da lui in occasione delle ingiurie reali o pretese? Perché è egli intrattabile su i mezzi d’accomodamento che si propongono? Conviene, dice egli, aver soddisfazione d’un’ingiuria ricevuta, conviene sostenere il proprio onore. Ma che cosa si cerca in questo? Il soddisfare la sua passione, l’umiliare gli altri per innalzarsi. Donde vengono le maldicenze, le calunnie, di cui altri si serve per macchiare la reputazione altrui, se non dalla brama di mettersi al di sopra del prossimo? Così la superbia, il primo dei peccati capitali, ne strascina dopo di sé un’infinità d’altri. Ella fa venire al suo seguito l’invidia, l’ingiustizia, l’ira, la vendetta. Che dirò di più? Initium omnis peccati, superbia (Eccl. X). Ella acceca lo spirito e lo getta in mille errori; ella gonfia il cuore e gli ispira mille sentimenti d’ambizione; ella acceca lo spirito e gl’impedisce di vedere le verità, che deve credere; combatte anche con un’ostinata resistenza quelle che riconosce. Tale è stata l’origine fatale delle eresie, che hanno desolata la Chiesa di Gesù Cristo fin dal suo cominciamento. Uno spirito di superbia, che si è impadronito d’uomini che abbondavano nel loro senso, fece loro preferire i lumi d’un certo ingegno agli oracoli della verità eterna: hanno spregiate le rispettabili decisioni della Chiesa, quantunque abbiano riconosciuto che la sua autorità era la sola regola capace di fissare la loro certezza; ma troppo costava alla loro superbia il ritrattarsi ed essere tenuti per uomini soggetti ad ingannarsi; e perciò ostinati rimasero nel loro errore; hanno fatto naufragio, quando una umile sommissione li avrebbe condotti al porto della salute. Tanto è vero, che, quando la gonfiezza della superbia è giunta sino ad un certo punto, egli è molto difficile il guarirla. Questo veleno s’inoltra anche nel cuore per via delle brame smisurate che vi fa nascere, d’innalzarsi agli onori, di pervenire a certe dignità, ch’esso non è capace di riempiere. La buona opinione ch’egli ha di se stesso, fa tutto intraprendere per venire a capo de’ suoi disegni; e quando una volta si è giunto al punto che erasi proposto, si fanno cadute deplorabili per l’incapacità di adempiere i doveri d’uno stato temerariamente abbracciato. Tali sono le funeste conseguenze della superbia. – Del resto, non crediate, fratelli miei, che questo vizio non s’insinui che nelle case dei grandi; egli regna nelle condizioni più vili e più abbiette. Sovente v’ha più di superbia sotto un abito plebeo, che sotto la porpora ed il diadema: si vede nel semplice popolo la medesima brama di dominar gli uni su gli altri; la medesima ostinazione: il medesimo attaccamento al suo parere; ciascuno vuol comandare; niuno vuol soffrire riprensioni, niuno vuol essere avvertito, corretto de’ suoi mancamenti; li pallia, li scusa, né vuol confessare di aver fatto male. Si giunge anche all’eccesso di giustificare i suoi delitti; si prendono tutte le precauzioni possibili per nascondere quel che è, e farsi vedere quel che non è. Egli è anche rarissimo che tra le persone che fan professione d’una vita regolata, non se ne trovi alcuna che non abbia qualche macchia di superbia. Voi vedrete di quelli che non possono sopportar una parola, un dispregio che offenda la loro delicatezza; che vogliono essere applauditi in tutto e non essere giammai contradetti. Qual cura non hanno essi di mostrare sempre le loro virtù e di occultar i loro difetti? Non ricercano le lodi, ma sono ben contenti di riceverle; amano essi molto meglio gli adulatori che i censori del vizio; non sono disgustati di essere conosciuti per certi tratti che fanno onore, di avere una riputazione nel mondo; ed hanno in orrore tutto ciò che chiamasi umiliazione, abbiezione. – Quante compiacenze e riflessioni non hanno della loro propria virtù, su qualche buon’opera che hanno fatta? Si preferiscono d’ordinario quelle, che fanno onore a quelle, che si fanno nell’oscurità. Qual destrezza a rigettare i loro mancamenti sull’ignoranza, la sorpresa, o qualche altra circostanza che ne sminuisca la confusione? Qual attenzione a far scorgere tutto ciò che può far onore! Ecco ciò che prova che la superbia è un veleno sottile, cui è molto difficile preservarsi. Non è che a forza di combattimenti, che si può sperar di vincere questo formidabile nemico della storia di Dio e della salute dell’uomo. Mentre se la superbia è opposta a Dio, Dio non le è meno opposto; il che si può conoscere dai castighi con cui la punisce.

II Punto. Ella è una regola della giustizia di Dio di proporzionare il castigo alla malizia del peccato, che vuol punire; il che ha Egli osservato ed osserva ancora nei castighi, che esercita sopra il superbo. L’uomo con la sua superbia rapisce a Dio la gloria, che gli è dovuta: Dio vicendevolmente umilia l’uomo superbo e l’opprime di confusione. L’uomo superbo dispregia gli altri; Dio permette che divenga anch’esso l’oggetto dello scherno, e del dispregio degli uomini. La superbia finalmente è una sorgente avvelenata, donde nasce un’infinità di vizi e di peccati; questa sorgente con la sua contagione distrugge il merito delle virtù. Qual colpi fatali non porta ella dunque a coloro che ne sono infetti? Ancor un momento d’attenzione. – In ogni tempo Dio, il quale dà la sua grazia agli umili, ha resistito ai superbi: più i superbi han voluto innalzarsi, più Iddio gli ha abbassati. Noi abbiamo una prova convincente nel castigo degli angeli ribelli, che la superbia sollevò contro Dio, sino all’eccesso di volersi a Lui uguagliare. Appena ebbero essi formato i loro baldanzosi progetti, che furono nell’istante spogli dei doni di natura e di grazia, di cui li aveva Iddio arricchiti. Scacciati dal cielo furono precipitati nel profondo dell’abisso: Quomodo cecedisti de cœlo Lucifer (Isai. XIV). Come mai Lucifero è caduto dal cielo coi suoi partigiani? Come mai quelle sublimi intelligenze di perfette creature che erano, sono divenute orribili demoni? Si è per la superbia. Egli è questo peccato, che ha aperto l’inferno, quella orribil dimora, ove saranno essi per tutta l’eternità, e che sarà il retaggio di tutti coloro, che avranno imitato gli angeli prevaricatori nelle loro ribellioni. – Noi abbiamo ancora nella sacra Scrittura un gran numero di esempi dei castighi della superbia: eccone dei più memorabili. Assalonne, il figliuolo di Davide, è sospeso ad una quercia, e percosso dal colpo della morte, in punizione del progetto ambizioso che aveva formato di salir sul trono di suo padre. Nabucco, spinto da un eccesso di superbia, vuol essere riguardato come il Dio della terra; egli fa erigere una grande statua per essere adorato dagli uomini; ma nel tempo medesimo che s’innalza e si perde nelle sue grandi idee, Dio l’abbassa e l’umilia togliendogli il suo regno, levandolo dalla società degli uomini, e riducendolo alla condizione delle bestie, con cui è obbligato di abitare e di mangiare l’erba nelle foreste. Non è che dopo sette anni d’una sì dura penitenza, che Dio perdona a quel principe cosi umiliato. Tale fu ancora l’umiliazione del superbo Amano, allorché si vide condannato a morire sul patibolo, che aveva fatto alzare per Mardocheo, il quale non voleva piegar il ginocchio avanti a lui. Cosi Dio si compiace di umiliar i superbi: e senza uscir dal nostro Vangelo, consideriamo come Dio vi tratta il superbo fariseo. L’umile pubblicano merita per la sua umiltà il perdono de suoi peccati; ma il fariseo è riprovato da Dio: egli ritorna a casa più colpevole di quel che era prima, che entrasse nel tempio del Signore per farvi comparire la sua superbia. – Questo è ciò, che accade ogni giorno ai superbi; mentre essi cercano d’innalzarsi, di distinguersi, di meritar la gloria e la stima degli uomini, Dio si allontana da essi, ritira da loro le grazie, gli abbandona ai loro sregolati desideri, come dice l’Apostolo, a passioni d’ignominia che li disonorano; così cadono in mancamenti considerabili, che li caricano d’obbrobrio o di Confusione; a misura, che si perdono le idee lusinghiere del loro spirito, la carne li strascina nel fango il più profondo, essendo la superbia ordinariamente seguita dall’impurità. Essere superbo e casto è una specie di chimera: Dio ritira il suo spirito dall’uomo superbo; e tosto che l’uomo non è più condotto dallo spirito di Dio, diventa tutto carne e si abbandona alle sue sregolate passioni; funesto castigo del peccato di superbia, che ricopre l’uomo di obbrobrio avanti a Dio ed agli uomini: Odibilis coram Deo, et hominibus est superbia (Eccl. X). – Così il superbo, che dispregia gli altri, diventa vicendevolmente l’oggetto del loro dispregio, sia per i vizi cui la sua superbia lo strascina, sia per la superbia medesima, che lo rende a tutti insopportabile. No, non si amano punto le persone che presumono tanto, che non fanno che lodarsi, che vantarsi di ciò che han detto o fatto. Se per una condiscendenza che si ha per esse, o per tema di loro dispiacere, altri qualche volta applaudisce, internamente le dispregia, sa benissimo ritrattare in loro assenza le lodi, che in presenza di esse ha loro date; egli si beffa a suo bell’agio della loro maniera di parlare o di agire. Niuno ama d’essere dispregiato, insultato e trattato con alterigia, e siccome il superbo dispregia ed insulta sovente gli altri, e vuole dappertutto signoreggiare, non occorre stupirci se niuno può tollerarlo nel mondo. Tutto dispiace in lui, le sue parole, le sue maniere, il suo contegno, non si vede, che con noia comparire nelle assemblee » perché vi cagiona turbolenze, e si vede sempre uscirne con piacere. Si preferisce anche nel mondo profano la conversazione d’una persona umile e riserbata a quella d’un superbo, che vuol sempre vincerla su tutti: tanto è vero, come diceva il savio, che la gloria fugge il superbo che la ricerca, e segue l’umile, che la fugge: Superbum sequitur humilitas , humilem spiritu suscipiet gloria (Prov. XIX). La sola confusione, che è anche in questa vita il castigo della superbia, dovrebbe bastare per guarir da questa malattia chiunque ne sia attaccato, se vi facesse attenzione. Ma il proprio della passione, principalmente di questa, si è di accecare lo spirito, e di corrompere il cuore. Un superbo non vuol confessare il suo mancamento, e s’inasprisce anche di ciò che dovrebbe guarirlo. I dispregi, le umiliazioni, non fanno che accrescere il suo male. Qual passione più pericolosa per la salute? Ella è la sorgente di tutti i vizi, ella riduce al nulla la virtù. Ella è un vento ardente, dice la Scrittura, che disecca, che consuma ogni cosa. No, fratelli miei, non evvi più merito nelle azioni delle virtù le più eroiche, se l’orgoglio vi ha parte. Recitate lunghe preci, date tutti i vostri beni ai poveri, digiunate, mortificatevi con le più austere penitenze, affaticatevi quanto gli Apostoli alla salute degli uomini, soffrite quanto i martiri; se voi cercate in tutto questo di piacere agli uomini, di meritar la loro stima: se è la vanità che vi anima e non il desiderio di piacere a Dio, di glorificar Dio, voi non ne riceverete giammai ricompensa alcuna nel cielo. Vi si dirà, come ai farisei, che facevano lunghe preghiere, limosine abbondanti, che digiunavano in vista della gloria degli uomini: voi avete ricevuta la vostra ricompensa: receperunt mercedem suam (Matth. VI). La vostra superbia vi farà naufragar con tutte le vostre virtù ed i vostri meriti; e non arriverete al porto della salute. Qual disgrazia! Ma qual follia più tosto! Quale accecamento di tanto travagliarsi inutilmente, di faticare, e di consumarsi per correre dietro ad un fumo d’onore, ove sovente non si può giungere, o che si dissipa tosto che vi si giunge  Mentre che cosa è la stima degli uomini, che voi ricercate nelle vostre azioni? Ella è un’ombra che svanisce. Oggi gli uomini vi lodano, domani vi biasimano. Non si deve dunque fare maggior conto dei loro sentimenti, che dei loro sogni, dice s. Gregorio Nazianzeno; essi s’ingannano sovente nei loro giudizi, stimano ciò che dovrebbero dispregiare, dispregiano ciò che dovrebbero stimare. Non bisogna dunque attaccarsi alla loro stima; ma non ricercare che quella di Dio, il quale sa fare il giusto discernimento della virtù: Quem Deus commendat, Me probatus est (2 Cor. X). Non siamo sicuri di avere la stima degli uomini, quando la ricerchiamo, ma lo siamo sempre di avere quella di Dio. Non ricercate che la sua gloria in tutte le cose, e troverete la vera e soda gloria per voi.

Pratiche. Per preservarsi ancora dal veleno della superbia, osservate la massima seguente. Il proprio della superbia è di stimar se stesso e dispregiar gli altri: fate tutto al contrario; non abbiate che del dispregio per voi medesimi, e della stima per gli altri. Per ciò fare, bisogna cangiar d’oggetto. Esaminate i vostri difetti per considerare le buone qualità del prossimo. La vista dei vostri difetti v’inspirerà del dispregio per voi medesimi, e le perfezioni degli altri ve li faranno stimare. – Ciascuno ha i suoi difetti e le sue buone qualità. Dio ha divisi i suoi doni in diverse maniere, dice s. Paolo: Divisiones gratiarum sunt (1 Cor. XII). Affinché l’uno non avendo ciò, che l’altro possiede, questi non possa innalzarsi su di quello. Non evvi alcuno, che sia perfetto, e che non possa riguardarsi inferiore ad un altro per quel che non ha. Se voi avete qualche talento, qualche virtù che altri non hanno, voi siete soggetti a mancamenti, cui non sono essi soggetti; hanno virtù e qualità, che voi non avete. Sono queste virtù che convien riguardare in essi per stimarle, giacché in questo vi sorpassano; voi troverete nei vostri difetti di che dispregiarvi e nelle loro virtù di che stimarli: se sono caduti in qualche mancamento, che voi non abbiate commesso, non dovete prevalervene, perché non avvi alcuno, dice s. Agostino, che non possa cadere nei medesimi traviamenti che un altro, se Dio l’abbandonasse a sé stesso; quell’ uomo, che voi dispregiate più, sarà forse un più gran santo che voi. Non vi gloriate di cosa alcuna, non vi vantate giammai dei vostri beni, né dei vostri talenti, della vostra origine, della nobiltà dei vostri congiunti, ancor meno delle vostre virtù. – Rimandatene tutta la gloria a Dio, senza il cui aiuto noi non siamo capaci, dice l’Apostolo, di pronunziar solamente il nome di Gesù. Il vostro motto il più frequente sia quello del medesimo Apostolo: Soli Deo honor, et gloria. Siate contenti che le vostre buone opere siano conosciute da Dio solo, giacché egli solo ne deve essere la ricompensa. Così sia.

Credo…

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps XXIV: 1-3
Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.

[A Te, o Signore, ho innalzata l’anima mia: o Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire: che non mi irridano i miei nemici: poiché quanti a Te si affidano non saranno confusi.]

Secreta

Tibi, Dómine, sacrifícia dicáta reddántur: quæ sic ad honórem nóminis tui deferénda tribuísti, ut eadem remédia fíeri nostra præstáres.

[A Te, o Signore, siano consacrate queste oblazioni, che in questo modo volesti offerte ad onore del tuo nome, da giovare pure a nostro rimedio.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps L: 21.
Acceptábis sacrificium justítiæ, oblatiónes et holocáusta, super altáre tuum, Dómine.

[Gradirai, o Signore, il sacrificio di giustizia, le oblazioni e gli olocausti sopra il tuo altare.]

Postcommunio

Orémus.
Quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, quos divínis reparáre non désinis sacraméntis, tuis non destítuas benígnus auxíliis.

[Ti preghiamo, o Signore Dio nostro: affinché benigno non privi dei tuoi aiuti coloro che non tralasci di rinnovare con divini sacramenti.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/