L’IDEA RIPARATRICE (6)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (6)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

(30) PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO II

Chi deve riparare?

CAPO TERZO

IL SACERDOZIO E LA RIPARAZIONE.

Nell’annunciare un volume di Lettres des Prètres aux armées. G. Goyau definisce la S. Messa « il più grande avvenimento della Storia umana ». poi soggiunse: « Ogni giorno il Sacerdote introduce nei destini della famiglia umana l’azione efficace del Dio Redentore: con un gesto sovrano fa entrare nella trama dei nostri peccati quotidiani il riscatto divino: al disopra del caos delle colpe pubbliche e delle colpe private egli solleva in alto la vittima di espiazione. Per alcuni, e diciamo pure per molti, questo compenetrarsi della storia umana per mezzo del moltiplicato sacrifizio di un Dio — moltiplicato e nello stesso tempo sempre unico — non è che una cerimonia priva di valore. Eppure sotto i loro occhi per opera del sacerdote si ripete l’ora decisiva in cui il genere umano, tutto insieme peccatore e giustamente diseredato, fu d’un tratto rimesso sulla via della pienezza della vita soprannaturale per mezzo di due portenti inauditi: l’Incarnazione e la Redenzione. « Operaio scelto da Dio per continuare attraverso ai secoli questi stessi portenti, il Sacerdote non si lascerà distogliere, avvengano pure le più rovinose catastrofi, da un tale impegno, il quale dal giorno della sua ordinazione si è come identificato colla stessa vita dell’anima sua per l’eternità ». Non si saprebbero condensare in più breve giro di parole la grandezza e la responsabilità del sacerdozio. Che fa il Sacerdote? Egli continua la vita di Gesù Cristo. Orbene Gesù Cristo .è venuto sulla terra per dare al Padre in se stesso un Pontefice, un Sacerdote capace di adorare e di espiare in modo conveniente. Il Sacerdote, destinato a continuare Gesù sulla terra, dovrà imitarlo offrendosi con Lui in testimonianza di adorazione e di espiazione. Come è consecrante con Gesù, il Sacerdote sarà anche « ostia » con Gesù. Egli non comprende che la metà del suo ministero se, mentre accetta la parte attiva di distributore del Corpo SS., della parola e del perdono di Gesù Cristo non accetta pure insieme la parte passiva di vittima del suo Maestro, di Colui di cui fa le veci e perpetua le funzioni. In tutto il tempo di sua vita quaggiù il divin Salvatore fu « ostia ». Non contento, volle, prima di morire, prolungare il suo sacrifizio, e nell’ultima Cena ne diede l’incarico ed il potere all’uomo. Così noi abbiamo la Messa che riproduce con rito incruento l’immolazione cruenta del Calvario. Sul Golgota Gesù Cristo, sospeso tra cielo e terra, faceva da schermo tra la giustizia di Dio e il peccato dell’uomo. E la sua mediazione era accetta al Padre per causa delle sue piaghe aperte e del suo sangue sparso. Nella Messa Gesù Cristo, posto sull’altare tra cielo e terra, ancora una volta fa da schermo tra la giustizia di Dio e il peccato dell’uomo: ciascuna « elevazione » compensa per le molte nostre bassezze, per le nostre cadute nel peccato e questo perché  la medesima virtù del sangue e delle piaghe divine estende la sua efficacia attraverso ai tempi; non vi hanno due sacrifizi, ma quello stesso della Croce che si manifesta in maniera diversa. Su questo punto le parole del Concilio di Trento sono chiare (La stessa vittima e lo stesso offerente ora per ministero dei sacerdoti, Colui che offrì se stesso in Croce, ma il modo di offrirsi è diverso (Conc. Trid., Sess. XXII, c, 2 –  Nel divin sacrifizio della Messa è presente lo stesso Cristo e viene immolato in modo incruento Colui che in Croce si offrì in modo cruento (ibid). – Non è nostro compito lo svolgere questa tesi e tantomeno l’entrare in discussioni teologiche sulla maniera di spiegare l’immolazione mistica. Nessuno meglio di Bossuet – Meditaz. sul Vangelo, la parte, « La Cena » – presenta quanto dobbiamo sapere su questo punto. Altri si potrà servire anche dei Metodi e formole per ben ascoltare la S. Messa, che ha scritto l’autore della Pratica progressiva della Confessione. Potremmo citare dei trattati speciali, ci basti indicare come eccellenti: CONDREN, Le Sacerdoce et le Sacrifice de Jéau-Christ. — GIRAUD, Jesus Prétre et victime é Prètre et Hostie. Non è questa tuttavia una bibliografia completa. ma la citazione di qualche opera di polso che non si può ignorare del tutto senza inconveniente. – opere di prossima pubblicazione tradotte sul blog – ndr. -): Quanti purtroppo assistono alla Messa senza dar segno di pur sospettare un così adorabile mistero! Quanti, se pregano, si valgono di formole adatte a tutt’altra circostanza. Quanti sanno a memoria le parole: « Santo Sacrifizio della Messa » , ma non comprendono a quale realtà precisa e terribile esse corrispondono. Si cita il caso di quel buon contadino che durante la Messa della domenica se ne stava colle spalle volte all’altare pregando ai piedi d’un gran Crocifisso di un’antica Missione collocato ad un pilastro. Un cotale gli fece osservare che il Signore era presente sull’altare, si voltasse per adorarlo: ed egli rispose tranquillamente: « Il vostro Signore sarà come voi dite sull’altare, il mio eccolo qui », e indicò il Crocifisso. Ignoranza più comune di quanto si creda. Ma di quelli stessi che credono fermamente l’identità del sacrifizio dell’altare con quello della Croce, non tutti conoscono il preciso loro dovere di offrire se stessi insieme coll’ostia santa che si offre a Dio. Se vogliono assistere alla Messa secondo lo spirito della Chiesa e l’intenzione di Nostro Signore. – Eppure questa necessità di unire nella S. Messa la propria all’immolazione del divin Salvatore è provata da molti argomenti: dalla nozione stessa di sacrifizio e dall’uso fattone fin dai tempi più antichi; dalla tradizione cattolica fin dalle origini; dalla dottrina comune dei SS. Padri sull’Eucaristia; dalla liturgia della Messa; da certi riti particolari, come dalla composizione delle specie sacramentali… ecc…. Per quanto andiamo indietro nella storia del Sacrifizio, si trova sempre che la vittima sostituisce quelli che assistono alla sua distruzione per esprimere a Dio i loro sentimenti di adorazione e di riparazione. Questa sostituzione diventerebbe un atto farisaico e puramente materiale quando per mezzo del Sacerdote e insieme con lui i fedeli non offrissero a Dio l’omaggio della loro religione e del loro pentimento, omaggio di cui nell’immolazione dell’Ostia abbiamo come un simbolo. Nell’antica Legge ciascuno posava la mano sulla vittima per dimostrare che si univa ad essa. La stessa cosa fa al presente il Sacerdote quando prega colle parole: « Noi vi scongiuriamo, Signore, ricevete quest’oblazione della nostra servitù e di tutta la vostra famiglia » (« Oblationem servitutis nostræ sed et cunctæ familiæ tuæ ». Molte preghiere della Messa esprimonol’unione del Sacerdote e dei fedeli con Nostro Signore — delle piccole ostie colla Grande. — servi tui sed et plebs tua. Noi tuoi servi e tutto il tuo popolo ..). Nei primi tempi del Cristianesimo ciascun fedele presentava la sua offerta, una parte del pane e del vino che doveva esser consacrato simbolo della sua partecipazione spirituale al S. Sacrifizio. Per formare le oblata — notano i Santi Padri — fa d’uopo unire insieme molti chicchi di grano e molti acini d’uva: questo prova che tutti i fedeli riuniti in un solo corpo si debbono offrire a Dio. Sempre la stessa dottrina veramente magnifica e fondamentale: Gesù Cristo non è « completo » se non unito al suo corpo mistico; la sua oblazione non sarà intera che per l’unione della nostra alla sua. Bossuet nella sua Exposition de la doctrine catholique, libro scritto per i protestanti, così spiega il modo con cui i fedeli assistono alla Santa Messa: « Presentando Gesù Cristo a Dio noi impariamo nello stesso tempo ad offrire noi stessi alla Maestà divina, in Lui e per mezzo di Lui quasi altrettante ostie viventi ». E S. Agostino: « Nell’offerta che la Chiesa fa al Signore del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, essa offre ed immola se stessa… Il vero sacrifizio del Cristiano consiste nel non fare che un corpo solo in Gesù Cristo » (De Civ. Dei, 1. 10, c. 6). Ahimè! Troppo spesso i fedeli son ben lontani da questo ideale che pur dovrebbe esser la regola comune. La regola comune per ogni Cristiano, quanto più per ogni Sacerdote! « Che bello spettacolo presenterebbe la Chiesa se tutti i Cristiani — e noi aggiungiamo: se tutti i Sacerdoti — comprendessero così la legge del proprio Sacrifizio! Tutti intorno a Gesù, che si posa come morto sull’altare, i Cristiani spiritualmente immolati dovrebbero formare una sola Ostia di adorazione riparatrice. Fate, o mio Dio, che così sia di noi tutti; dateci di esser delle ostie immolate con Gesù-Eucaristia » (GRIMAL: Le sacerdoce et le Sacrifice de Jesus-Christ. p. 277. Libro utilissimo ai sacerdoti per comprendere la necessità che hanno di vivere come «Ostie ». Noi l’abbiamo consultato spesso nello scrivere il presente capitolo.). Un Sacerdote che comprenda appieno la Messa che celebra e per così dire la viva integralmente, tutto opera colla sua « Ostia » e nulla senza essere unito ad Essa. Per Ipsum et cum Ipso et in Ipso. Tutto per per mezzo di Gesù « Ostia » , insieme con Gesù « Ostia », in Gesù « Ostia » . Vivere senza esser crocifisso dovrebbe essere per lui una contraddizione. Victima Sacerdotii

sui et sacerdos suæ victimæ, diceva San Paolino: « Vittima del proprio Sacerdozio e sacerdote della propria vittima ». Certo, debole e fiacco, avrà sovente delle manchevolezze, ma il suo ideale sarà questo: Esser l’uomo del Santo Sacrifizio, l’uomo del Sacrifizio. – La sorella di Mgr. d’Hulst, dietro ad una immagine che gli mandava in occasione dei suo suddiaconato, aveva scritto: « Non essere mai Sacerdote senza essere ostia » . — Bel motto che fa per noi tutti. Non soltanto la vera e completa intelligenza della S. Messa dovrebbe condurre naturalmente ogni fedele — e a più forte ragione ogni Sacerdote — ad offrirsi a Dio in immolazione ogni qual volta gli è concesso assistere al divin Sacrifizio o celebrare, ma anche la vera e completa intelligenza della S. Comunione dovrebbe spingere ugualmente ogni fedele — e a più forte ragione ogni Sacerdote — ad una offerta analoga ogni volta che ha la buona sorte di ricevere Gesù « Ostia ». Possiamo considerare la S. Comunione sotto due aspetti, ambedue essenziali, ambedue dogmatici, che possono ad ugual misura influire nella pietà cristiana: la Comunione, incorporazione alla vita di Nostro Signore; la Comunione, incorporazione alla sua morte. Praticamente però, questi due diversi aspetti della Comunione non trovano nelle anime uguale accoglienza. Quanti si accostano alla S. Comunione conoscono e vi cercano l’unione colla vita del Salvatore. Forse pochi conoscono e vi cercano la partecipazione al suo Sacrifizio, alla sua immolazione, alla sua morte, che pure è il tema obbligato della predicazione eucaristica di S. Paolo. « Poiché la morte di Gesù è sempre presente nell’Eucaristia — dice Bossuet (Meditazioni sul Vangelo, ll parte, «La Cena», 46° giorno.) — l’impressione della morte di Gesù Cristo dev’essere sentita in ogni fedele che deve rendersi vittima anch’esso ad imitazione del Figliuolo di Dio. Questa è la virtù della Croce, virtù sempre vivente nell’Eucaristia ». « Non dimenticate — scriveva S. Paolo ai Corinti — che nel comunicarvi voi “annunziate la morte del Signore ” ( I Cor., XI). Voi dovete dunque, tale è la mente di S. Paolo, unirvi alla sua immolazione, comunicare colla sua morte » (Id., ibid., 19° giorno). La stessa dottrina troviamo neWImitazione di Cristo (lib. IV, c. 8): « Nella stessa maniera che io mi sono offerto spontaneamente al Padre pei suoi peccati, le mani stese sulla Croce e il corpo tutto impiagato, nulla risparmiando che mi appartenesse, ma tutto offrendo in sacrifizio per la divina riconciliazione, così anche tu devi spontaneamente offrire te stesso a me in oblazione pura e santa, ogni giorno nella S. Messa, quanto più intimamente puoi con tutte le tue forze e con tutti gli affetti tuoi ». S. Paolo dice ancora: « Quelli che mangiano le carni immolate forse che non partecipano al Sacrifizio? » ( I Cor.. X, 18). Parole che non si possono comprendere che ricordando i riti e il simbolismo dei sacrifizi offerti nel tempio di Gerusalemme. Mangiare delle carni offerte voleva dire collocare se stessi sull’altare e domandare di esser considerati come parte della vittima: e questo sapevano benissimo i Corinti. Sempre il cibarsi dell’oblazione fatta fu considerato come una intima unione con la stessa oblazione. L’Apostolo quindi colle sue parole altro non fa che ricordare come nella nuova legge si continua lo spirito dell’antica, e l’effetto della nostra partecipazione all’« Ostia » è ancor sempre di unirci strettamente al Cristo immolato, di metterci in « comunione » con Lui. Comunione vuol dire appunto unirsi, diventare una cosa sola con l’Ostia — quindi offrirsi in ispirito con essa — dunque « offrire la propria carne ad esser crocifissa coi suoi vizi e colle sue concupiscenze » (Gal., V, 24), abbandonare nelle mani di Nostro Signore la propria vita, le fatiche, le pene, le preghiere affinché Egli le pervada tutte dello spirito di sacrifizio. Al IV secolo era di consuetudine, appena comunicati, di posar il dito sulle labbra ancor umide del Preziosissimo Sangue e segnarsi poi con esso sugli occhi, sulla fronte e sulla bocca. Al contatto dell’Ostia impariamo ancor noi a purificare e santificare le nostre affezioni e i nostri pensieri, il nostro cuore e i neutri occhi, tutte le nostre membra, tutta l’anima nostra e imporci a questo fine i sacrifizi necessari. – « Voler ricavare profitto dal S. Sacrifizio  nella S. Comunione senza fare dei sacrifizi, volerci divinizzare per mezzo dell’Ostia senza immolarci con Essa. è pretendere di vivere come “parassita dell’Altare”. è cercare la salvezza fuori della Croce » (GRIMAL: Ibid., pag. 329). La Comunione ben intesa non è soltanto divinizzante, ma deve esser pure immolante. anzi perché divinizzi conviene che immoli. – L a Comunione ben intesa non è soltanto un tesoro che ci viene dato, non consiste solo nel ricevere un’ostia, ma anche nell’offrire, nel darne un’altra. Non si può ricevere degnamente la Vittima dell’altare se non a condizione che noi pure ci offriamo sull’altare come vittima in ispirito di adorazione e di espiazione (« La doppia funzione dei fedeli alla S. Messa, li costituisce offerenti e offerti nello stesso tempo, è così vera che la liturgia del S. Sacrifizio non si può intendere altrimenti, se non vogliamo avere delle contraddizioni in termini » . DOM VANDEUR O. S. B., La Sainte Messe,  p. 135). Mgr. Batiffol ha lasciato scritto: « Il concetto di S. Paolo della comunione al Sacrifizio è destinato a rimaner sempre oscuro per la pietà cristiana, la quale sarà sempre più attirata dal concetto di S. Giovanni: che cioè la S. Comunione è una partecipazione alla vita divina » . Noi non crediamo questo giudizio definitivo, anzi vogliamo sperare invece che quando ciascun Sacerdote sarà meglio penetrato egli stesso della dottrina di S. Paolo sulla « Comunione che immola » , egli si troverà in grado di insegnare pure ai fedeli la necessità in cui sono di offrirsi con Gesù in Sacrifizio ogni volta che si accostano a riceverlo nell’Ostia santa. È un fatto che le anime riparatrici sono in piccolo numero: esse si moltiplicheranno certamente quando molti siano i Sacerdoti che posseggono a fondo la dottrina della Riparazione. Come possono sapere i semplici fedeli se coloro che li istruiscono non sanno, o se possedendo in teoria la grande idea paolina sulla comunione o partecipazione al Sacrifizio di Gesù Cristo, essi poi in pratica non la vivono e non si danno attorno con tutte le loro forze per farla vivere nel gregge di Cristo? Molto a proposito dice l’autore di Sacerdoce et Sacrifice de Jésus-Christ: « Lo spirito di sacrifizio è la grande lezione che cidà l’Ostia. L’Eucaristia riproduce la Croce…L’effetto immediato e necessario dellaS. Comunione è unirci all’’Ostia come tale,cioè a Gesù che è immolato e che immola.« Riceve la S. Comunione con vero spirito chi vede nell’Ostia Gesù Crocifisso ed entra nelle sue intenzioni di Ostia. Chi non si comunica con questo spirito di sacrifizio, benché sia in istato di grazia e provi certi sentimenti di divozione, si potrebbe dire che non si comunica che per metà (Si noti il « si potrebbe dire ». Non intendiamo affatto negare il valore dell’opus operatum). Egli non comprende che voglia dire Ostia, forse perché nelle spiegazioni, che gliene vennero fatte, troppo si è indugiato sulla virtù eucaristica secondaria o metaforica a danno di quanto v’ha di più importante. Egli non scorge sui nostri altari sempre presente e operante la Croce, forse perché  chi doveva farlo non gliel’ha mostrata coll’insistenza dovuta ». E poi continua: Nella nostra predicazione eucaristica noi avremo di mira sovratutto il far vedere sui nostri altari il Memoriale vivente della Morte di Nostro Signore per istillare nelle anime questo spirito d’immolazione che le renderà Ostie insieme con Gesù nella loro vita quotidiana… (Grimal, ibid. p. 357). Non temiamo d’incorrere nel rimprovero di troppo insistere sul lato doloroso del Cristianesimo, di presentare tanto la Passione di Nostro Signore, quanto la vita e la morte di ogni Cristiano come un’immolazione espiatrice. Potremmo noi fare altrimenti… attenuare o nascondere il dogma fondamentale di nostra fede, di nostra salute? Predichiamo questo dogma sempre e tutto intero: L a Croce che si continua nell’Eucaristia e ci porta al Cielo; — la Croce retaggio del credente che si comunica immolandosi per mezzo di Essa ma per vivere in eterno; — la Croce che sempre attraverso ai secoli, ed oggi più che mai, attira le anime privilegiate, le anime più pure, le più nobili che s’innamorano dei patimenti per continuare e completare la Passione di Gesù. Chi potrà dire la bellezza, la fecondità della Croce quando domini tutto l’orbe cristiano? Chi potrà dire la bellezza, la fecondità di queste anime elette  che attingono nell’Ostia lo spirito di vittima, che immolate con Gesù sono il profumo e la salvezza del nostro povero mondo? « Concedeteci, o Gesù, d’esser nel bel numero di queste anime, concedeteci di moltiplicarlo questo numero col nostro insegnamento e colla nostra direzione » (Grimal, l. cit.). Ai nostri giorni poi, mentre si propaga ognor più la divozione alla S. Eucaristia e Roma favorisce in tutte le maniere e incoraggia la Comunione frequente e quotidiana, sforziamoci ancor noi affinché quanti si accostano di frequente alla S. Mensa lo facciano collo spirito di cui abbiamo ragionato: quali « Ostie ». Praticare la mortificazione è cosa buona ma non basta; bisogna « vivere » mortificati abbracciando con ardore tutte quelle mille occasioni di vincersi che si presentano ad ogni istante lungo il giorno. E si può fare meglio ancora: nei SS. Tabernacoli, sugli altari, Gesù benché vivo vuol stare in sembianza di morto; Egli si abbandona nelle mani del Sacerdote che lo muove e lo distribuisce a sua volontà: « A me pare, scrive un’anima santa, che il rimetterci totalmente al volere di Dio, l’abbandonare nelle sue mani quanto possiamo fare, soffrire e meritare perché Egli ne disponga come gli piace, anche senza che noi ne possiamo saper nulla, quest’atto, dico, di abbandono completo, a me pare che sia il più grande sacrifizio possibile per un’anima, quello che più glorifica Gesù-Ostia perché spoglia l’anima di quello che ha, di quello che è, per farne un omaggio all’Ostia divina e arricchirne la povertà volontaria con tutto quello che una creatura può dare e possedere » Essa aggiunge e a proposito: «Questo dovrebbe essere lo stato ordinario delle anime che si uniscono spesso a Lui nel suo Sacramento di amore perché un tale abbandono si può dire la condizione richiesta per la unione eucaristica come ne è il frutto e la conseguenza necessaria … Quello che rende più amara la tristezza del Cuore di Gesù si è che le sue più care anime sono per lo più dominate dallo spirito egoistico che loro fa dimenticare quello che sono per ufficio e per dovere, cioè un supplemento di espiazione e di intercessione per tutto il genere umano e quindi esse non appartengono più a sé stesse ma a Gesù ». Molte anime, vogliam dire di quelle che frequentano la S. Comunione, certo procederebbero più innanzi nella santità se invece di badare quasi esclusivamente ai propri interessi anche spirituali, cercassero prima di tutto quello di Dio, e invece di comunicarsi a proprio profitto, si comunicassero a « profitto di Gesù ». La divozione eucaristica di un’anima riparatrice deve tendere a questo ideale. Sul cominciare, il sentimento che domina un amore di compassione: il disprezzo, l’indifferenza, gli oltraggi: alcuni non sanno, altri non se ne curano, altri, ancor peggio, perseguitano; delitti degli empii, colpe dei buoni, peccati dei migliori, di quelli cioè che Gesù Cristo chiama « suoi », che si è particolarmente eletti — pur troppo ve n’ha anche di questi! — e si cerca di riparare. Il Maestro è troppo spesso lasciato solo; e si va a visitarlo. Durante la S. Messa le chiese sono purtroppo vuote; e il più spesso possibile si assiste al S. Sacrifizio. Nelle chiese vuote, le Sacre Pissidi restano colme; e ogni giorno si va alla Sacra Mensa. La Riparazione porta così all’Eucaristia. Or ecco a sua volta l’Eucaristia che conduce alla Riparazione; l’Eucaristia non considerata tanto dal suo lato, se si può dire così, esteriore (il poco valore attribuito dagli uomini alla « moneta » troppo comune dei tabernacoli), ma piuttosto nella sua realtà intima; l’Eucaristia che dà al mondo Gesù, la Vita eterna nello stato di vittima espiatrice. Il pane ed il vino sono « apparenze morte »; il Cristiano che si comunica « apparenza vivente » del Salvatore; quanto tutto questo supponga di immolazione l’abbiamo già visto (si rilegga ove furono ricordati i desideri eucaristici del Cuore del Divin Salvatore). L’altare del Sacrifizio sarà sempre la miglior scuola del Sacrifizio. Tocca al Sacerdote di acquistare per sé e trasfondere in altri una intelligenza netta e profonda di quello che è il Sacramento per eccellenza dell’amore reciproco fra Dio e l’uomo. – Del resto, se pur non si è perduta la memoria e non si sono dimenticati anche i desideri della giovinezza e le aspirazioni della propria ordinazione, il Sacerdote deve riconoscere che le aspirazioni al Sacerdozio sentite in cuor suo allora si confondevano con dei sogni ardenti di sacrifizio, che le sue risoluzioni d’esser fedele sempre ai doveri del Sacerdozio nel giorno dei suoi impegni definitivi coincidevano nel suo cuore colla promessa di una donazione completa e di una cosciente immolazione. I desideri di un giovane che si prepara al Sacerdozio! Chi potrà dire le ambizioni che spuntano in un cuor di fanciullo alla lettura della vita d’un S. Francesco Zaverio. d’un S. Damiano apostolo dei lebbrosi, d’un missionario qualunque dell’Alaska o dello Zambese, o del Santo Curato d’Ars? « Si isti et illi curnon et ego? Quello che hanno operato costoro per Gesù Cristo, perché noi potrò anch’io? ». Ancor piccini hanno imparato alla scuola d’una santa donna, la madre loro, a fissar lungamente il Crocifisso. Certe cose facilmente si comprendono quando si ha la fortuna d’aver una santa per madre. Il loro cuore di fanciullo ha intuito nel Crocifisso qualche cosa di misterioso e di straordinario che l’invita ad una impresa che ancora non comprende troppo, pel presente e per l’avvenire. Gesù si è sacrificato per loro, è ben giusto che essi si sacrifichino per Gesù. E in una maniera od in un’altra avranno anch’essi imitato il gesto di quel bambino a cui essendo stata narrata la storia della Passione di Gesù, si stende subito lungo il muro colle braccia in croce domandando alla sua serva che gli pianti dei chiodi nelle mani e nei piedi … Come si può « star bene » quando Gesù « soffre tanto? ». Questi sentimenti naturali e profondi il fanciullo li prova certamente se tra le mura domestiche si ha cura di sviluppare in lui l’educazione del Sacrifizio. Ma si danno dei genitori che su questo punto sono completamente nulli; altri all’opposto fanno di questo « particolare » l’oggetto essenziale delle loro cure e avvezzano i loro figliuoli a punirsi per sé stessi nei loro falli, ad essere austeri nella loro vita, e spiegano loro non solo la Passione che Gesù Cristo dovette soffrire un tempo andato, ma anche la sua presente Passione nella Chiesa di Dio e fanno loro capire, anche senza dirlo in modo esplicito, che il Signore aspetta da loro più tardi qualche prova d’amore in compenso. Così quel padre di famiglia che, in occasione degli Inventari, va alla Chiesa per fare il suo atto di protesta col suo figlio per mano, e al momento in cui si forzano le porte per 1’entrata degli inviati dal governo persecutore egli alza il proprio figlio al disopra del proprio capo perché veda meglio come si difendono le libertà di Dio. Così pure quella donna, madre di Mgr. de Quélen, la quale durante la grande Rivoluzione del 1789 conduce il proprio figlio alle prigioni dei Carmelitani perché sappia come sono trattati i sacerdoti di Gesù Cristo e non si spaventi. Così ancora quest’altra, la madre del P. Varin, che spesso vuole che i suoi piccini si mettano in ginocchio dicendo: « Recitiamo un’Ave Maria per Giuseppe (altro suo figlio) perché egli non è ove la vocazione del Signore lo vuole »: e poi morrà sul patibolo offrendo la propria vita affinché quel suo figlio non resista più a lungo al volere di Dio che lo chiama al sacerdozio. Dopo i desideri della giovinezza ecco le aspirazioni verso il sacerdozio. Il sacerdote non potrà mai dimenticare che dedicandosi al sacerdozio aveva già ben compreso fin d’allora che si dedicava ad una vita di sacrifizio. Il giorno di sua ordinazione — giorno forse già lontano ma sempre dinanzi agli occhi come presente — quando prostrato sul pavimento davanti all’altare, uno degli avventurati della bianca schiera palpitante, egli si offriva a Dio. non comprendeva forse che da quel momento unico suo «mestiere», o meglio unico suo « sogno » sarebbe stato il vivere in Croce col suo Maestro? « Ricevi la potestà di offrire il divin Sacrifizio » ha detto il Vescovo ordinante, e poi ha continuato : « Quello che tu tocchi, la patena, il Calice e gli altri strumenti dell’olocausto, pensa che sono pure gli strumenti del suo sacrificio. Imitamini quod tractatis. Tu avrai tra le tue dita l’Ostia. Pensa che dovrai imitare quello che ogni giorno avrai da trattare ed essere Ostia anche tu nella tua vita. Quatenus mortis dominicæ mysterium celebrantes, mortificare membra vestra a vitiis et concupiscentiis procuretis. Gesù Cristo è morto, converrà vivere mortificandosi, ostia colla tua Ostia, vittima colla tua Vittima. Altrimenti non sarai un vero sacerdote, « procuretis ». Questa dev’esser la tua principale cura, accordare, intonare la tua vita sopra quella di Gesù Cristo per farne due vite sincrone, due oblazioni, due immolazioni anch’esse sincrone ». « Io mi prendevo gusto — così parla il Sig. Olier — di guardar nelle chiese attraverso alle fessure e vedendo le lampade accese: Ah! io dicevo, come voi siete felici nel consumarvi completamente alla gloria di Dio e nell’ardere continuamente per onorarlo! È l’ufficio dei sacerdoti il consumarsi così, poiché essi debbono essere insieme come Nostro Signore e sacrificatori e ostie. Se dei Cristiani tutti è detto: Fate dei vostri corpi un’ostia vivente: con più forte ragione va detta questa parola dei sacerdoti i quali ogni giorno ripetono: Hoc est corpus meum ». I veri sacerdoti ci danno esempio magnifico nella pratica di questo spirito di vittima, in cui sanno bene che consiste la parte essenziale del loro ministero. – L’Abate Perreyve nel giorno della sua ordinazione domanda al Signore queste tre grazie: « Non cadere mai in colpa grave: restar sempre un semplice sacerdote; dare il proprio sangue per Gesù Cristo » . E celebra con paramenti di color rosso, color di sangue, per dar maggior forza alla sua ultima preghiera con un segno simbolico del sacrifizio. Prima di restituire a Dio la sua anima generosa aveva scritto sulla morte del Sacerdote una meditazione ove faceva notare che « il sacerdote deve riguardare la morte come una delle funzioni del suo ministero. Dev’esser per lui come la sua ultima Messa ». Imitando il Maestro divino egli deve servirsi essenzialmente del proprio corpo non per altro che per immolarlo. Egli deve incominciare questa morte nella castità, continuarla nella mortificazione, terminarla finalmente nella vera morte, che è la sua oblazione finale, il suo ultimo sacrifizio. Essi, come avete fatto voi, Signore, debbono incominciare ben da lontano a morire… ». – Un giovane chierico del Seminario Maggiore di Nevers, morto il 6 aprile 1907, non ancora suddiacono, aveva lasciato scritto nel suo testamento spirituale: « Io rimetto la mia anima nelle mani di Dio in unione di Nostro Signore Gesù Cristo che muore, desideroso di morire, vittima come Lui, con Lui ed in Lui. Questo che dovrebbe essere il carattere dell’intera mia vita per vocazione e per dovere, lo sia almeno dei miei ultimi istanti … Volendomi distaccare sempre meglio da me stesso in Dio perché  Egli regni totalmente sul mio cuore, io godo nell’offrir a questo divin Maestro i dolori benefici della mia agonia e il sacrificio della mia vita in riparazione della sollecitudine con cui troppo sovente ho cercato di evitare i patimenti e le mortificazioni. Io vi offro pure la mia vita per la Chiesa, per la patria, per la mia famiglia… » (Grimal, in op. cit. p. 385). Durante l’ultima guerra, molti prevedendo che il Signore poteva loro domandare il sacrifizio della vita si sono offerti di gran cuore all’immolazione totale. – « Oh! quanto è bello, scrive il P. Gilbert de Gironde, morire giovane… morire sacerdote sotto le armi, attaccando il nemico, correndo all’assalto, in pieno esercizio del ministero sacerdotale, forse impartendo un’ultima assoluzione… versare il mio sangue per la Chiesa, per la patria, per i miei amici, per tutti quelli che hanno in cuore la stessa mia fede e per gli altri ancora, affinché possano godere la gioia di credere… Oh! quanto è bello …! ». E l’Ab. Liégeard, del Gran Seminario di Lione, caporale nel 28° battaglione dei cacciatori alpini: « Io offro la mia vita perché siano dissipati i malintesi tra il popolo di Francia e i suoi sacerdoti ». –  E il P. Federico Bouvier, della Compagnia di Gesù, uno dei più eruditi nella Storia delle religioni: « Io do volentieri la mia vita, egli dice, per i miei commilitoni dell’ 86° Reggimento, affinché questi uomini retti e onesti a cui non manca altro che il vivere in Dio e secondo la loro fede, ritornino sinceramente a Lui ». Un seminarista, caporale del 90° di Fanteria, l’Ab. Chevolleau, che abbiamo già citato, scriveva in una sua lettera: « Pregate perché il mio abbandono in Dio sia perfetto. Che vale la vita, l’altare visto in lontananza, le anime da salvare in tempi che non verranno per me, se al presente il Signore mi vuole per sua vittima? ». Come non ricordare qui due valorosi a cui mi legano memorie personali troppo forti perché possa lasciarli da parte: il P. Gabriele Raymond e l’Ab. de Chabrol, l’uno e l’altro cappellani militari? Il primo — che già conoscevo da lungo tempo — venne a prendere il mio posto in fondo alla mia tana di prima linea nell’Artois, di fronte alle famose costruzioni bianche del «Plateau d’Angres » fra Loos e Souchez. Al secondo io a mia volta succedetti a Tracy-le-Val nell’agosto 1916: e tutti e due furono uccisi poco appresso. E soldati e ufficiali erano concordi a magnificare il loro coraggio e una cosa appariva evidente, che essi erano troppo facili ad esporsi, quindi la loro affrettata morte. Nessuno mai potrà sapere quale fu l’eroismo di tali uomini, sempre calmi e dimentichi di sé stessi. Il P. Raymond fu schiacciato sotto un riparo. Dell’Ab. de Chabrol così parla un « ordine del giorno » commemorando un attacco e attestando il suo coraggio: « Le ondate dei nostri uomini che si succedevano, si sono inchinate dinanzi al rappresentante di Dio, il cappellano della Divisione, de Chabrol, che sotto la mitraglia tracciava colla sua mano il segno della redenzione e della vittoria ». In un attacco il cappellano fu colpito dalla mitraglia e cadde, avendo egli da lungo tempo fatto l’offerta della sua vita, come il P. Raymond – e « come mille e mille altri – per la Redenzione del mondo e per la vittoria. – Un ultimo esempio, quello del P. Lenoir, anch’egli cappellano militare, morto sul campo dell’onore il 9 maggio 1917, vittima della sua carità verso i feriti. Dopo la sua morte fu trovato sulla sua persona il seguente scritto che il Luogotenente Colonnello volle comunicare al Reggimento per cui il glorioso caduto dopo trenta mesi di fatiche aveva sacrificato la propria vita: « In caso di mia morte, Io rivolgo la mia parola a tutti i miei figliuoli del caro reggimento 4° Coloniali e dico loro — arrivederci —.  Con tutto l’affetto di sacerdote e di amico io li supplico a volere assicurare la salvezza eterna dell’anima loro restando fedeli a Nostro Signore Gesù Cristo e alla sua legge, facendo penitenza delle loro colpe e unendosi a Lui nella S. Comunione il più spesso che sarà loro possibile. A tutti io do appuntamento in cielo; per loro a quest’intenzione io offro, ben contento, se sarò esaudito, il sacrifizio della mia vita nelle mani del Divin Maestro Gesù Cristo. Viva Gesù! Viva la Francia! Viva il 4° Coloniali! P. LENOIR S. J. » .

L’Ab. Buathier, nel suo libro Le Sacrifice, ha tracciato questa bella pagina:« Un’anima sconosciuta abbandona questo esilio, a cento passi da essa il fatto è ignorato e nessuno si turba. Tutt’al più qualche vicino dirà senza dare nessuna importanza alle sue parole: “il tale è morto”, e tutto finirà lì, tutti gli altri han visto nulla.« Ma nella sua umiltà quest’anima oscura è unita alla Vittima del Calvario, essa conosce intimamente il valore dell’atto che compie: essa comprende che non solo paga il debito dei propri peccati ma che può ancora pagare per altri, moltiplicare i propri meriti e rifonderli nel tesoro di Santa Chiesa, far vivere colla sua morte molte anime e darle a Gesù: essa conosce tutto questo, lo vuole, lo desidera e si offre. La sua offerta sale verso il Cielo e nel breve giro delle sue ultime ore il suo sacrifizio si termina in una gioia raggiante pace e gloria celeste. Per essa come per Gesù sulla Croce la morte non è altro che il supremo slancio dell’amore. Gli uomini nulla possono scorgere di tutto questo, ma gli Angeli ne restano ammirati ed il Signore premia colla gloria del Paradiso » . — Qualche cosa di simile noi troviamo nei poveri morti di cui abbiamo parlato. – Son pochi anni che si andava dicendo: « La Chiesa di Francia ha bisogno di Santi ». E la Chiesa di Francia ebbe i suoi Santi, come ne ha pure al presente. Gli esempi recati fin qui ce l’attestano e noi potremmo moltiplicarli (« Che diremo del nostro Clero? … V’ha chi dice che al presente non abbiamo più dei santi. Oh! Se la Chiesa mel permettesse io direi che ce ne sono ancora e saprei dire pure ove si trovano! ». Lettera inedita di E. Psichari all’abate Tournebize.). Verrà giorno, si può sperare, in cui ci sarà dato conoscerli tutti e ciascuno in particolare. Ma non dimentichiamo che se avvenimenti straordinari, come fu la guerra ultima, ci rivelano tanto la santità come l’eroismo, essi non hanno potuto crearli di sana pianta: già esistevano. La morte di quelli che così generosamente si danno come vittima riparatrice col Maestro Divino, non è cosa impensata, che avviene per caso, ma suppone una lunga preparazione, un proposito chiaramente voluto. Nessuna improvvisazione; al contrario: conclusione necessaria di premesse. Immolarsi ogni giorno nell’oscurità della vita ordinaria colla mortificazione, colla castità, coll’umiltà, collo zelo… questo solo può render capaci a mostrarsi poi nell’ultimo sanguinoso istante, che chiude la vita, così spontanei, così generosi, nel darsi totalmente come « ostia » alla riparazione. Questi valorosi sono morti così come noi abbiamo ricordato, sol perché ben « alla lunga si sono avvezzati a morire ».

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.