UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – “DATIS NUPERRIME”

« Le parole che Dio rivolse a Caino: «La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra» (Gn IV, 10), hanno anche oggi il loro valore; e quindi il sangue del popolo ungherese grida al Signore, il quale, come giusto Giudice, se punisce spesso i peccati dei privati soltanto dopo la morte, tuttavia colpisce talora i governanti e le nazioni stesse anche in questa vita, per le loro ingiustizie, come la storia ci insegna. » Tale è il pensiero chiave di questa breve lettera che S. S. Pio XII indirizza all’Episcopato ungherese deplorando i luttuosi avvenimenti rivoluzionari che avevano visto la morte di tanti innocenti, soprattutto Cristiani. Nella storia della Chiesa abbiamo assistito a tante persecuzioni più o meno mascherate da istanze sociali e politiche, ma tutte miranti in realtà a combattere Dio, il suo Cristo e la sua santa Chiesa. Ma il grido di protesta che S. S. Pacelli lanciava all’epoca, è lo stesso sul quale dovrebbero meditare i governanti di oggi della nostra Europa, del continente americano ed asiatico, tutti assoggettati alle logge e conventicole muratorie ed illuminate. Oggi essi marciano sicuri della vittoria e tronfi nei loro discorsi falsi, appoggiati da una falsa chiesa dell’uomo che ha svenduto in pratica tutti i valori cristiani sostituendoli con un paganesimo demoniaco, un moralismo libertinario antinaturale e degno delle peggiori bestie, uno spirito rapace da leone ruggente pronto a divorare tutte le anime che incautamente ingannate vi si accostano. Ma il sangue del tuo fratello, e l’anima dannata del tuo fedele ingannato, gridano vendetta, ed il Signore punisce in questa vita le nazioni che evidentemente non possono raggiungere come tali l’inferno o il purgatorio. È qui che i popoli, i governanti di popoli ribelli ed apostati, ed in particolare i pastori di anime, falsi o veri che siano, è qui che pagheranno, qui sulla terra i loro misfatti per mano dei demoni che hanno servito, pensando – come Adamo ed Eva si illusero di essere già Dei – di poterne trarre vantaggi materiali od onori e fama nel mondo. Ne avranno castighi inimmaginabili già qui in questa vita corrotta, per poi completare le loro belle imprese nell’eterno fuoco, nelle tenebre esteriori, là ove sarà pianto e stridor di denti. Stiano ben attenti i potenti del mondo, coloro che manovrano le leve ed i tentacoli delle mortali piovre, ancor più i falsi preti, i falsi vescovi e i cardinal-tarocchi … per quanti anni pensate di poter sfuggire alla giustizia divina? Dieci, venti, trenta o anche cinquanta … e poi? … cosa pensate che vi aspetti, la canonizzazione falsa riservata oggi nella sinagoga del nemico, pure ai sodomiti ed ai pedofili, ai comunisti e teosofi eretici, ai ladri della gloria di Dio, ai distruttori del Tempio santo? Pensate forse che vi aspetti la fama e l’immortalità nei libri di storia truccati, per aver tentato di scardinare l’ordine divino? Pazzi illusi, no … vi aspetta solo il fuoco eterno, la dannazione definitiva senza riparo. Redimetevi, pentitevi, fate penitenza continua, copritevi di sacco e di cenere, o… fra quaranta giorni Ninive sarà distrutta e la vostra anima dannata per sempre!  

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

DATIS NUPERRIME

CONDANNA DEI LUTTUOSI
AVVENIMENTI IN UNGHERIA

Con la recentissima lettera enciclica rivolta all’Episcopato cattolico, avevamo espresso la speranza che anche per il nobilissimo popolo dell’Ungheria albeggiasse finalmente una nuova aurora di pace fondata sulla giustizia e sulla libertà, poiché sembrava che in quella nazione le cose prendessero uno sviluppo favorevole. – Se non che le notizie che in un secondo tempo sono giunte hanno riempito l’animo Nostro di una penosissima amarezza: si è saputo cioè che per le città e i villaggi dell’Ungheria scorre di nuovo il sangue generoso dei cittadini che anelano dal profondo dell’animo alla giusta libertà, che le patrie istituzioni, non appena costituite, sono state rovesciate e distrutte, che i diritti umani sono stati violati e che al popolo sanguinante è stata imposta con armi straniere una nuova servitù. Orbene, come il sentimento del Nostro dovere Ci comanda, non possiamo fare a meno di protestare deplorando questi dolorosi fatti, che non solo provocano l’amara tristezza e l’indignazione del mondo cattolico, ma anche di tutti i popoli liberi. Coloro, sui quali ricade la responsabilità di questi luttuosi avvenimenti, dovrebbero finalmente considerare che la giusta libertà dei popoli non può essere soffocata nel sangue. – Noi, che con animo paterno guardiamo a tutti i popoli, dobbiamo asserire solennemente che ogni violenza, ogni ingiusto spargimento di sangue, da qualsiasi parte vengano, sono sempre illeciti; e dobbiamo ancora esortare tutti i popoli e le classi sociali a quella pace che deve avere i suoi fondamenti nella giustizia e nella libertà e che trova nella carità il suo alimento vitale. Le parole che Dio rivolse a Caino: «La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra» (Gn IV, 10), hanno anche oggi il loro valore; e quindi il sangue del popolo ungherese grida al Signore, il quale, come giusto Giudice, se punisce spesso i peccati dei privati soltanto dopo la morte, tuttavia colpisce talora i governanti e le nazioni stesse anche in questa vita, per le loro ingiustizie, come la storia ci insegna. – Voglia il misericordioso Dio toccare il cuore dei responsabili, di maniera che finalmente l’ingiustizia abbia termine, ogni violenza si calmi e tutte le nazioni, pacificate fra loro, ritrovino in un’atmosfera di serena tranquillità il retto ordine. – Frattanto Noi innalziamo al Signore le Nostre suppliche affinché, specialmente coloro che hanno trovato la morte in questi dolorosi frangenti, possano godere l’eterna luce e la pace nel Cielo; e desideriamo pure che tutti i Cristiani uniscano anche per questa ragione le loro suppliche alle Nostre. – Mentre a tutti voi esprimiamo questi Nostri sentimenti, impartiamo di gran cuore a voi, venerabili fratelli, e ai vostri fedeli, e, in modo tutto particolare, al diletto popolo ungherese, l’apostolica benedizione, che sia pegno delle celesti grazie e testimonianza della Nostra paterna benevolenza.

Roma, presso San Pietro, il 5 novembre, l’anno 1956, XVIII del Nostro pontificato.

DOMENICA V DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA V DOPO PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti venti.

La liturgia di questa Domenica è consacrata al perdono delle offese. La lettura evangelica mette in risalto questa lezione non meno che quella d’un passo delle Epistole di S. Pietro, la cui festa è celebra in questo tempo: infatti la settimana della V Domenica di Pentecoste era in altri tempi detta settimana dopo la festa degli Apostoli. – Quando David riportò la sua vittoria su Golia, il popolo d’Israele ritornò trionfante nelle sue città e al suono dei tamburi cantò: «Saul ha ucciso mille e David diecimila! ». Il re Saul allora si adirò e la gelosia lo colpi. Egli  pensava: « Io mille e David diecimila: David è dunque superiore a me? Che cosa gli manca ormai se non d’essere re al mio posto? » Da quel giorno lo guardò con occhio malevolo come se avesse indovinato che David era stato scelto da Dio. Cosi la gelosia  rese Saul cattivo. Per due volte mentre David suonava la cetra per calmare i suoi furori, Saul gli lanciò contro il giavellotto e per due volte David evitò il colpo con agilità, mentre il giavellotto andava a conficcarsi nel muro. Allora Saul lo mandò a combattere, sperando che sarebbe rimasto ucciso. Ma David vittorioso tornò sano e salvo alla testa dell’esercito. Saul allora ancor più perseguitò David. Una sera entrò in una  caverna profonda e scura, ove già si trovava David. Uno dei compagni disse a quest’ultimo: « È il re. Il Signore te lo consegna, ecco il momento di ucciderlo con la tua lancia ». Ma David rispose: « Io non colpirò giammai colui che ha ricevuto la santa unzione e tagliò solamente con la sua spada un lembo del mantello di Saul e uscì. All’alba mostrò da lontano a Saul il lembo del suo mantello. Saul pianse e disse: « Figlio mio, David, tu sei migliore di me ». Un’altra volta ancora David lo sorprese di notte addormentato profondamente, con la lancia fissata in terra, al suo capezzale e non gli prese altro che la lancia e la sua ciotola. E Saul lo benedisse di nuovo; ma non smise per questo di perseguitarlo. Più tardi i Filistei ricominciarono la guerra e gli Israeliti furono sconfitti; Saul allora si uccise gettandosi sulla spada. Quando apprese la morte di Saul non si rallegrò ma, anzi, si stracciò le vesti, fece uccidere l’Amalecita che, attribuendosi falsamente il merito di avere ucciso il nemico di David, gli annunciò la morte apportandogli la corona di Saul, e cantò questo canto funebre: « O montagne di Gelboe, non scenda più su di voi né rugiada, né pioggia, o montagne perfide! Poiché su voi sono caduti gli eroi di Israele, Saul e Gionata, amabili e graziosi, né in vita, né in morte non furono separati l’uno dall’altro » (Bisogna riaccostare questo testo a quello nel quale la Chiesa dice, in questo tempo, che S Pietro e S. Paolo sono morti nello stesso giorno). – Da tutta questa considerazione nasce una grande lezione di carità, poiché come David ha risparmiato il suo nemico Saul e gli ha reso bene per male, così Dio perdona anche ai Giudei; non ostante la loro infedeltà, è sempre pronto ad accoglierli nel regno ove Cristo, loro vittima, è il re. Si comprende allora la ragione della scelta dell’Epistola e del Vangelo di questo giorno: predicano il grande dovere del perdono delle ingiurie « Siate dunque uniti di cuore nella preghiera, non rendendo male per bene, né offesa per offesa » dice l’Epistola. « Se tu presenti la tua offerta all’altare, dice il Vangelo, e ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia la tua offerta davanti all’altare, e va prima a riconciliarti con tuo fratello ». — David, unto re di Israele. dagli anziani a Ebron, prende la cittadella di Sion che divenne la sua città, e vi pose l’arca di Dio nel santuario (Cam.). Fu questa la ricompensa della sua grande carità, virtù indispensabile perché il culto degli uomini nel santuario sia gradito a Dio (id.). Ed è per questo che l’Epistola e il Vangelo ribadiscono che è soprattutto quando noi ci riuniamo per la preghiera che dobbiamo essere uniti di cuore. Senza dubbio la giustizia di Dio ha i suoi diritti, come lo mostrano la storia di Saul e la Messa di oggi, ma se esprime una sentenza, che è un giudizio finale, è soltanto dopo che Dio ha adoperato tutti i mezzi ispirati dal suo amore. Il miglior mezzo per arrivare a possedere questa carità è d’amare Dio e di desiderare i beni eterni (Or.) e il possesso della felicità (Epist.) nella dimora celeste (Com.), ove non si entra se non mediante la pratica continua di questa bella virtù.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVI: 7; 9 Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus.

[Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Ps XXVI: 1 Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timébo? [Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò?]

Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus.

[Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Oratio

Orémus.

Deus, qui diligéntibus te bona invisibília præparásti: infúnde córdibus nostris tui amóris afféctum; ut te in ómnibus et super ómnia diligéntes, promissiónes tuas, quæ omne desidérium súperant, consequámur.

[O Dio, che a quanti Ti amano preparasti beni invisibili, infondi nel nostro cuore la tenerezza del tuo amore, affinché, amandoti in tutto e sopra tutto, conseguiamo quei beni da Te promessi, che sorpassano ogni desiderio.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet III: 8-15

“Caríssimi: Omnes unánimes in oratióne estóte, compatiéntes, fraternitátis amatóres, misericórdes, modésti, húmiles: non reddéntes malum pro malo, nec maledíctum pro maledícto, sed e contrário benedicéntes: quia in hoc vocáti estis, ut benedictiónem hereditáte possideátis. Qui enim vult vitam dilígere et dies vidére bonos, coérceat linguam suam a malo, et lábia ejus ne loquántur dolum. Declínet a malo, et fáciat bonum: inquírat pacem, et sequátur eam. Quia óculi Dómini super justos, et aures ejus in preces eórum: vultus autem Dómini super faciéntes mala. Et quis est, qui vobis nóceat, si boni æmulatóres fuéritis? Sed et si quid patímini propter justítiam, beáti. Timórem autem eórum ne timuéritis: et non conturbémini. Dóminum autem Christum sanctificáte in córdibus vestris.”

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1929]

LA PACE

“Carissimi: Siate tutti uniti nella preghiera, compassionevoli, amanti dei fratelli, misericordiosi, modesti, umili: non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma al contrario benedite, poiché siete stati chiamati a questo: a ereditare la benedizione. In vero, chi vuole amare la vita e vedere giorni felici raffreni la sua lingua dal male e le sue labbra dal tesser frodi. Schivi il male e faccia il bene, cerchi la pace e si sforzi di raggiungerla. Perché gli occhi del Signore sono rivolti al giusto e le orecchie di lui alle loro preghiere. Ma la faccia del Signore è contro coloro che fanno il male, E chi potrebbe farvi del male se sarete zelanti del bere! E arche aveste a patire per la giustizia, beati voi! Non temete la loro minaccia, e non vi turbate: santificate nei vostri cuori Gesù Cristo”. – (1. Pietr. 3, 8-15).

Anche l’Epistola di quest’oggi è tolta dalla I. lettera di S. Pietro. E’ naturale che, scrivendo ai cristiani dispersi dell’Asia minore, tenga sempre presente la condizione in cui si trovano: sono pochi fedeli tra numerosi pagani, e sono sotto la persecuzione di Nerone. Come devono diportarsi? devono vivere in stretta unione fra di loro, mediante la misericordia, la compassione, la condiscendenza; essendo stati chiamati al Cristianesimo a render bene per male, affinché abbiano per eredità la benedizione celeste. Non trattino con la stessa misura quelli che fanno loro del male. La vita felice è per chi raffrena la lingua, evita il male e procura di aver pace con il prossimo. Del resto i giusti non sono abbandonati dal Signore, e nessuno può loro nuocere, se sono zelanti del bene. Quanto alla persecuzione, beati loro se hanno a soffrire qualche cosa per la religione cristiana. Siano, quindi, calmi, senza ombra di timore: onorino, invece, e temano Gesù Cristo. Anche noi, dobbiamo procurare di vivere una vita felice, per quanto è possibile tra le miserie e le persecuzioni di questo mondo. Sforziamoci di vivere in pace, ciò che ci è possibile con l’aiuto di Dio, anche tra le tempeste di quaggiù. Per avere la pace:

1 Bisogna astenersi dalle parole e dalle azioni peccaminose,

2 Vivere nella concordia col prossimo,

3 Non aver paura di soffrire per la giustizia.

Chi vuole amare la vita e vedere giorni felici raffreni la sua lingua dal male e le sue labbra dal tesser frodi. Schivi il male e faccia il bene. Chi vuol vivere una vita non turbata da agitazioni e da ‘rimorsi deve astenersi dalle parole e dalle azioni peccaminose. La vita felice quaggiù consiste principalmente nella tranquillità della propria coscienza. Gli uomini più felici sono i Santi. Noi vediamole loro mortificazioni, e, quasi, ce ne scandalizziamo; vediamole loro penitenze, e ci sentiamo come sgomentati. Non vediamo, però, il loro interno. Se vedessimo la pace e la tranquillità della loro coscienza, ci farebbero invidia.L’affermazione dell’Apostolo: «Quasi tristi, ma pur sempre allegri» (Cor. VI, 10), è l’affermazione di tutti i Santi, i quali potrebbero dire: All’esterno siamo stimati come persone viventi una vita di melanconia, eppure viviamo nell’allegrezza. Dove c’è Dio, c’è la pace. Quello che Gesù disse un giorno agli Apostoli, dice a tutti coloro che gli sono uniti per mezzo della grazia: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace; ve la do, non come ve la dà il mondo» (Giov. XIV, 27). – Sul fiume ingrossato o sul lago mosso dai venti, il barcaiolo adopera tutta la sua vigoria e tutta la sua prudenza per condurre la barca a riva, lottando con le onde. Ma il fanciullo che vi si trova, se ne sta tranquillo divertendosi con gli spruzzi d’acqua che v’entrano. Nella barca c’è il padre; perché temere? Quando noi con il peccato, non allontaniamo dall’anima nostra Dio, perché dobbiamo turbarci? – Finché la coscienza è in pace con Dio, vengano pure le tribolazioni da qualsiasi parte: Dio è il rifugio del tribolato che in lui trova consolazione. Ma se il peccato ne ha scacciato Dio, egli non può trovar rifugio o consolazione. Nessuna pena è più grave della rea coscienza. Noi vediamo delle volte piante intarlate o marce esternamente. Chi deve farne uso non si preoccupa tanto della superficie: osserva se la pianta sia sana internamente. Se internamente non fosse sana, a nulla varrebbe, anche se avesse buona apparenza esterna. «Così, quando l’uomo non trova in se stesso una buona coscienza, che gli giova essere in buon stato esternamente, se è putrefatto il midollo della sua coscienza?» (S. Agost. En. In Ps. XLV,3) Se può ingannare l’occhio degli uomini che lo credono felice, non può ingannar Dio. «Dio solo vede il cuore degli uomini» (2 Paral. VI. 30) ed egli ci assicura che «per gli empi non c’è pace» (Is. XLVIII, 22). – Chi vuol vivere giorni felici, oltre essere in pace con Dio, deve procurare di essere in pace con il prossimo. Cerchi la pace e si sforzi di raggiungerla, studiandosi di vivere in concordia col prossimo, e ponendo ogni premura per impedire che la pace non si rompa. È tanto facile rompere la pace con il nostro prossimo! Le sue abitudini, i suoi gusti, le sue parole ci sono frequentemente occasione d’impazienza, di risentimento. Per non rompere l’armonia che deve regnare con tutti, è necessario prender sempre le cose in buona parte; non lasciarsi mai prendere dal cattivo umore; e sopportar pazientemente il cattivo umore degli altri. Io sarei felice, se quel vicino non s’interessasse dei fatti miei, se quella persona non mi portasse invidia, se quell’altra non mi odiasse, tu dici. Sarà verissimo. Ma siccome anche tu sei di carne e ossa come coloro che ti recano noia, è naturale che gli stessi lamenti che tu muovi rispetto a loro, essi potrebbero muovere rispetto a te. Sai bene che cosa dice S. Giacomo : «Tutti manchiamo in molte cose» (III, 2). Via, oggi a me, domani a te. Se oggi sono altri che ti offrono motivo di lamento, domani potresti esser tu a offrire motivo di lamento ad altri. È meglio considerare la partita pari, e sopportarsi a vicenda, avendo sempre in vista la conservazione della pace. Quanto ai sussurroni che cercano di turbare la concordia non c’è che far orecchie da mercante. Un buon paio d’orecchie stancano cento male lingue. Col tempo taceranno anch’essi. Esser indulgenti con i nostri fratelli è condizione indispensabile per conservar la pace e la felicità. Il Signore l’ha inculcata insistentemente questa indulgenza verso il prossimo. E il cristiano non può esimersi dal praticarla. Dimentichi, quindi, i dispiaceri che gli furon dati; non badi alle parole sfavorevoli; non si lamenti delle dimenticanze; passi sopra ai torti ricevuti, ripaghi l’odio con il perdono, anzi con l’amore. Allora soltanto avrà la pace. «Se c’è carità, ci sarà anche la pace» (S. Giov. Cris. In Epist. Ad Eph. Hom. XXIV, 4). Senza abnegazione non si può aver la pace. È una verità troppo dimenticata. Forse mai, come ai nostri giorni, si è sentito parlare di pace; eppure tutti sentiamo che la pace manca. Si vuol la pace, senza cessare di guardarsi in cagnesco; si vuol la riconciliazione, pur mantenendo vivo l’odio; si vuole l’armonia, senza rinunziare all’orgoglio e all’egoismo. Si vuol la pace, mettendo a base non l’amore, ma il timore. La pace si avrà solamente allora che le si metterà per base l’amor di Dio col conseguente amor degli uomini. Senza questa base possono moltiplicarsi i convegni, le riunioni, i tentativi d’ogni genere: tutto, però, finirà con la melanconica constatazione del profeta «E curarono le piaghe della figlia del popol mio con burlarsi di lei, dicendo: Pace, pace; e pace non era» (Ger. VI, 14). E non dobbiamo accontentarci della pace di un giorno, o di una pace molto facile. I tesori si acquistano con grandi sacrifici, e si conservano con molta cura. Altrettanto dobbiam fare con il tesoro della pace. Chi vuol vivere i giorni felici cerchi la pace, e si sforzi di raggiungerla «Non basta cercarla; — commenta S. Gerolamo — se, trovatala, cerca di sfuggire, tienle dietro con ogni alacrità! » (Epis. 124, 14 ad Rost.). – E chi potrebbe farvi del male se sarete zelanti del bene? Nessuno può nuocere a chi conduce una vita irreprensibile, dedita al bene. Tutt’al più può nuocere al corpo, non all’anima. Su questo punto è troppo chiarala parola del Divin Maestro, perché abbiamo ad aver un momento solo di titubanza. «Non temete coloro che possono uccidere il corpo, e non l’anima: temete piuttosto colui che può mandare in perdizione all’inferno e l’anima e il corpo» (Matth. X, 28). Tutti i patimenti che i persecutori facevano soffrire ai Cristiani, se tormentavano le loro membra, lasciavano imperturbato il loro spirito. «Noi siamo persuasi — affermava S. Giustino M. — di non poter soffrir male di sorta da nessuno, se non quando siamo convinti d’esser caduti in colpa» (Apol. 1, ). Anzi, la persecuzione noi dobbiam considerarla come un bene. E se anche aveste a patire per la giustizia, beati voi!, aggiunge S. Pietro. Quando si soffre per una causa giusta, si è più degni di ammirazione di chi trionfa. Chi soffre per una causa santa, deve fare più invidia che compassione. «Essere prigioniero per Cristo — dice il Crisostomo — è gloria più grande che essere Apostolo, dottore, evengelista. E chi ama Cristo ben intende quel che dico» (In Ep. Ad Eph. Hom. 8, 1). La Beata Giovanna Antida Thouret, non reggendole il cuore di vedere, durante la rivoluzione francese, il suo paese senza culto, senza preghiera, prese a radunar gente in casa sua, nei giorni domenicali e festivi, perché potessero attendere a qualche atto di pietà. Talora poté venire anche qualche sacerdote a celebrare e a ministrare i Sacramenti. – La cosa non poteva sfuggire ai nemici della religione, e la Thouret è chiamata a comparire davanti al comitato rivoluzionario di Baumes-Les-Dames. Mentre si reca davanti ai commissari la gente, che temeva per la sua sorte, le diceva: — Dove andate mai ? — Vado a festa. Non temete; non ho paura; si tratta della causa di Dio — (La Beata Giovanna Antida Thouret Roma, 1926). Quando si tratta della causa di Dio dobbiamo considerare le sofferenze come una vera festa. Anche Gesù Cristo aveva detto, prima di S. Pietro : « Beati voi quando vi oltraggeranno e vi perseguiteranno » (Matth. V, 11). Qualunque croce, accettata con spirito cristiano ci porta vantaggi incalcolabili. « Beato l’uomo che soffre tentazioni; perché quando sarà stato provato, riceverà la corona di vita, promessa da Dio a coloro che lo amano » (Giac. I, 12). Quindi, in nessuna circostanza della vita c’è motivo di perder la pace, «Si logori pure la mia carne e il mio cuore: — esclama il Salmista — fortezza del mio cuore e mia porzione eterna è Dio» (Ps. LXXII, 26). E quando pensiamo che Dio è nostra porzione eterna, non possono turbarci le privazioni che logorano la vita, i dolori che amareggiano il cuore. Le tribolazioni e le persecuzioni devono, invece, consolarci perché «la momentanea e leggera tribolazione nostra procaccia a noi, oltre ogni misura, smisurato peso di gloria» (II Cor. IV, 17).

Graduale

Ps LXXXIII: 10; 9

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice super servos tuos,

[O Dio, nostro protettore, volgi il tuo sguardo a noi, tuoi servi]

V. Dómine, Deus virtútum, exáudi preces servórum tuórum. Allelúja, allelúja

[O Signore, Dio degli eserciti, esaudisci le preghiere dei tuoi servi. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XX: 1

Alleluja, alleluja Dómine, in virtúte tua lætábitur rex: et super salutáre tuum exsultábit veheménter. Allelúja.

[O Signore, nella tua potenza si allieta il re; e quanto esulta per il tuo soccorso! Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt. V: 20-24

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Nisi abundáverit justítia vestra plus quam scribárum et pharisæórum, non intrábitis in regnum coelórum. Audístis, quia dic tum est antíquis: Non occídes: qui autem occídent, reus erit judício. Ego autem dico vobis: quia omnis, qui iráscitur fratri suo, reus erit judício. Qui autem díxerit fratri suo, raca: reus erit concílio. Qui autem díxerit, fatue: reus erit gehénnæ ignis Si ergo offers munus tuum ad altáre, et ibi recordátus fúeris, quia frater tuus habet áliquid advérsum te: relínque ibi munus tuum ante altáre et vade prius reconciliári fratri tuo: et tunc véniens ófferes munus tuum.”

(In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: Se la vostra giustizia non sarà stata più grande di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei Cieli. Avete sentito che è stato detto agli antichi: Non uccidere; chi infatti avrà ucciso sarà condannato in giudizio. Ma io vi dico che chiunque si adira col fratello sarà condannato in giudizio. Chi avrà detto a suo fratello: raca, imbecille, sarà condannato nel Sinedrio. E chi gli avrà detto: pazzo; sarà condannato al fuoco della geenna. Se dunque porti la tua offerta all’altare e allora ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta all’altare e va prima a riconciliarti con tuo fratello, e poi, ritornato, fa la tua offerta.)

Omelia II

“Sopra la falsa e la vera divozione.”

Nis iabundaverit iustitia vestra plusquam scribarum et pharisæorum, non intrabitis in regnum cœlorum (Matth. V.)

Chi l’avrebbe creduto, fratelli miei, che una giustizia, la quale compariva agli occhi degli uomini così abbondante, così perfetta come quella dei farisei, dovesse essere riprovata da Gesù Cristo come indegna d’essere ricompensata nel regno de’ cieli? Che cosa erano i farisei ed in che consisteva la loro giustizia? I farisei erano una società d’uomini separati dal comune del popolo, che facevano professione d’una divozione straordinaria, che erano tenuti anche per santi; facevano lunghe orazioni, davano grandi limosine ai poveri, pagavano esattamente le decime, digiunavano due volte la settimana. Chiunque facesse altrettanto al giorno d’oggi non si avrebbe per santo? Perché  dunque Gesù Cristo condanna sì altamente la giustizia dei farisei? Le azioni che essi facevano erano forse in sé stesse degne di condanna? L’orazione, il digiuno, la limosina non sono forse atti di virtù cui Gesù Cristo medesimo ha promesso magnifiche ricompense? Sì, senza dubbio, queste azioni sono lodevoli in se stesse, degne di ricompense eterne quando sono accompagnate dalle condizioni che debbono renderle tali: ma la pretesa giustizia dei farisei mancava di queste condizioni; e perciò fu riprovata da Gesù Cristo. In che i farisei erano dunque degni di condanna? Eccolo, fratelli miei; si è che costoro, i quali comparivano così santi e regolati agli occhi del pubblico, tali non erano agli occhi di Dio. Gli uomini, che giudicano solo dall’esteriore, canonizzano per l’ordinario tutto ciò che al di fuori porta i segni della santità; ma Dio, che conosce il fondo del cuore, ne giudica molto diversamente. Per esser santo agli occhi degli uomini, basta salvare le apparenze; ma per esser santo agli occhi di Dio bisogna esser tale qual si comparisce. Convien osservar fedelmente tutti i punti della legge; è necessario principalmente che la pietà e la virtù risiedano nel fondo del cuore. Ora questo è in che mancavano i farisei. Contenti d’osservar certi precetti, d’evitare certi delitti che da se stessi fanno orrore alla natura, trasgredivano la legge del Signore in molte cose che essi riguardavano come di poca conseguenza, ma che non erano tali avanti a Dio. Le loro azioni, benché lodevoli comparissero agli occhi degli uomini, non erano quindi animate dal principio e dal fine che dovevano renderle accette a Dio. In due parole, la loro giustizia non era intera, ma era una giustizia mancante: la loro giustizia non era interiore, ma solo apparente; due difetti che la fecero riprovare da Gesù Cristo, e che non si ritrovano, oimè! che troppo sovente nella virtù di molti Cristiani, come se ne potrà giudicare del parallelo che ne faremo con quelle dei farisei. Donde noi conchiuderemo che la pietà, per esser vera, deve essere intera ed interiore; intera per adempier tutta la legge; interiore per seguire lo spirito della legge. Cominciamo.

I . Riflessione. Primieramente, la giustizia dei Farisei non era intiera, perché si contentavano d’osservare solo alcuni punti della legge. Erano essi anche attaccati scrupolosamente a certe cerimonie, ad alcune tradizioni che avevano ricevute dai loro padri e che non li obbligavano, mentre si prendevano la libertà di trasgredire la legge del Signore in molte cose che li obbligavano indispensabilmente: non avrebbero essi osato bestemmiare, giurar il falso, commettere un omicidio; ma non avevano difficoltà di prender il santo Nome di Dio invano, di giurar per le creature, a fine di accertare ciò che persuader volevano. Non riguardavano come un gran male il lasciarsi trasportare dai moti dell’ira, di conservare sentimenti d’odio, di vendetta contro il loro prossimo, e di manifestarli con parole ingiuriose, che offendevano la carità; e quel che è più, insegnavano agli altri queste perniciose massime, di cui erano essi infetti. Che però Gesù Cristo per preservare i suoi Apostoli dalle illusioni di quei falsi dottori, dà ai suoi discepoli questa bella istruzione che vien riportata nel nostro Vangelo: Voi avete appreso, dice loro, che è stato detto ai vostri antenati, non farete alcun omicidio, e chi ne farà, meriterà d’esser condannato al tribunale del giudizio; ma io vi dico che chi tratterà suo fratello da uomo di poco senno, meriterà di essere condannato al tribunale del consiglio; che chi dirà: “uomo insensato”, meriterà il supplizio del fuoco. Se dunque voi vi ricordate, facendo la vostra offerta all’altare, che il vostro fratello ha qualche cosa contro di voi, lasciate ivi la vostra offerta ed andate a riconciliarvi con lui. Tale è, fratelli miei, la perfezione che Gesù Cristo domandava dai suoi discepoli, affinché la loro giustizia superasse quella de’ farisei. Laonde ben lungi di abolire la legge antica, non faceva che compirla e perfezionarla; Egli voleva che la sua morale sussistesse in tutto il suo vigore, e che fosse osservata in tutta la sua estensione, di modo che non si dovesse mancare ad un sol punto; Jota unum aut unus apex non præteribit a lege (Matt. V). Non era che all’intera osservanza della legge, che prometteva il suo regno, e chiunque ne avesse violato un solo precetto, non poteva avervi pretensione alcuna, Non bisogna dunque stupirsi che Egli dichiari così apertamente ai suoi discepoli che se la loro giustizia non supera quella dei farisei, non avranno alcuna parte nel suo regno: Nisi abundaverit iustitia vestra etc. Or a quanti Cristiani si possono al giorno d’oggi indirizzare le medesime minacce che il Salvatore indirizzava ai suoi discepoli, e i medesimi rimproveri che faceva ai farisei? Quanti, infatti, che si contentano di osservare la legge del Signore in certi punti che non li molestano, o perché il loro onore, il loro interesse vi sono attaccati; che non si credono in niun modo colpevoli perché evitano certi delitti che portano in se stessi un carattere d’infamia; ma si perdonano facilmente molti mancamenti contro questa divina legge, tosto che la passione del piacere o dell’interesse si trova il suo conto? Taluno che ha orrore, come deve averne ogni uomo ragionevole, di lordarsi le mani nel sangue di suo fratello, nutrirà nel suo cuore sentimenti d’amarezza, d’animosità che niente è capace di soffocare; lacererà la riputazione altrui con nere calunnie, con colpi mortali d’una maligna maldicenza, non temerà anche d’offendere con parole ingiuriose ed oltraggianti. Or a che serve, fratelli miei, che voi non siate né omicidi né ladri, se siete collerici e detrattori, se conservate nel vostro cuore odio contro il vostro prossimo? Gesù Cristo non vi dice forse nel Vangelo che chi si metterà in collera contro suo fratello subirà il rigore del giudizio di Dio; che chi l’oltraggerà con parole che distruggono la carità sarà condannato al supplizio del fuoco? A che vi serviranno anche tutte le buone azioni che farete, se non avete quella carità, che fa il carattere dei discepoli di Gesù Cristo? Voi rassomigliate, dice il grande Apostolo, ad un cembalo che tinnisce e al bronzo che risuona: invano recitereste lunghe preghiere come i farisei; invano dareste, come essi, grandi limosine e più grandi ancora, sino al segno d’abbandonare tutti i vostri beni ai poveri; invano digiunereste due volte la settimana, come i saggi del giudaismo, e tutti i giorni della settimana più austeramente che essi; invano dareste il vostro corpo ad esser bruciato; tutti questi sacrifici senza la carità nulla vi servirebbero. Gesù Cristo non vi dice forse nel Vangelo che se, offrendo il vostro dono all’altare, vi ricordate che vostro fratello ha qualche cosa contro di voi, bisogna prima andarvi a riconciliare con lui, altrimenti la vostra offerta non sarà in verun modo ricevuta? Si offers munus tuum ad altare, et ibi recordatus fueris quia frater tuus habet aliquid adversum te …; vade prius reconciliari fratri tuo (Matth.V). – Non vi crediate dunque molto avanzati nella virtù perché non siete omicidi: voi non avete ancora, dice s. Agostino, salito che un grado; salirete più alto, se non dite alcune parole ingiuriose: ma non basta ancor questo: dovete soffocare sino al minimo risentimento di collera e di rancore contro del vostro prossimo; tale è la perfezione che la legge di Gesù Cristo esige da voi. Or io voglio, fratelli miei, che voi non siate soggetti né all’ira né alla maldicenza, che non facciate alcun torto al vostro prossimo; la vostra giustizia non avrà ancora l’integrità che deve avere se voi siete dominati da qualche altra passione che la legge del Signore vi proibisce; se il vostro cuore è schiavo d’un amor profano; se voi mantenete corrispondenze peccaminose con quella persona che non dovete neppure mirare; se fate servire i vostri beni ad appagare la vostra vanità, la vostra sensualità; in una parola, se contravvenite a qualcheduno dei comandamenti del Signore, sebben non fosse che ad un solo, tutte le vostre virtù saranno contate per nulla al giudizio di Dio, voi non sarete meno riprovati che se aveste trasgredita tutta la legge: Quicumque totam legem servaverit, offendat autem in uno, factus est omnium reus (Jac.2). – Invano voi fareste pompa, come i farisei, di certe apparenze di virtù; invano avreste fatte opere di supererogazione che vi avessero attirata la stima degli uomini; se siete stati infedeli a qualcheduna delle vostre obbligazioni, la vostra giustizia sarà riprovata, come quella di quei falsi dottori della legge: Nisi abundaverit iustitia vestra etc. Tale è nulladimeno l’abuso che s’introduce nella maggior parte delle divozioni che si veggono nel mondo cristiano: simili ai farisei, che erano scrupolosamente attaccati a certe osservanze della legge, alle quali non erano obbligati, e che trascuravano i doveri essenziali, moltissimi di coloro che fanno al giorno d’oggi profession di divozione saranno esatti anche fino allo scrupolo in certe pratiche di pietà, che sono di puro consiglio, a recitare alcune preci delle confraternita a cui sono aggregati, saranno assidui ad udire la Messa nei giorni che non sono di precetto, visiteranno chiese, ospedali, abbracceranno con piacere esercizi di divozione che non sono al loro stato necessari, perché l’onore, il costume, una certa convenienza ve li portano, ma del resto non si mettono troppo in pena di adempiere i doveri del loro stato, perché questi doveri loro recano molestia e incomodo. Quell’uomo farà dei viaggi di divozione, e non assiste punto agli uffizi della sua parrocchia, non frequenta i sacramenti, dà cattivo esempio alla sua famiglia; quella donna recita lunghe preghiere in chiesa, e non avrà alcuna compiacenza per suo marito, sarà dura ed intrattabile con i domestici, trascurerà l’educazione dei figliuoli, che lascia vivere nel disordine; quell’altro si farà un dovere d’assistere ad un’adunanza di pietà, ma commette delle frodi nel commercio, trascura gli affari di cui è incaricato. Di grazia, queste sono esse divozioni regolate secondo lo spirito del Vangelo? No, senza dubbio; ogni divozione che non si concilia coi doveri essenziali dello stato in cui uno è impegnato, e non permette che s’adempiano in tutta la loro estensione, ella è una divozione farisaica, riprovata da Dio; a più forte ragione quella che allontana dall’adempiere questi doveri. – Ma che? pretendo io forse qui biasimare le pratiche di pietà, i santi esercizi della Religione, le opere di supererogazione, che esser possono sorgente di grandi meriti? A Dio non piaccia; la vera pietà, ben lungi dal rigettarle, le abbraccia al contrario come mezzi acconci a meritar le grazie di Dio e a mantenersi nel fervore del Cristianesimo; ma ella s’attacca agli obblighi dello stato a preferenza delle opere che nol sono; adempie i precetti prima dei consigli; ella sa talmente riunire gli uni con gli altri che, tacendo ciò che è di precetto, non dimentica ciò che è di consiglio: Haec oportuit facere, et illa non omittere (Matth. XXIII 23). Imperciocché starsene precisamente a ciò che è d’obbligo e trascurare affatto ciò che è di supererogazione, egli è mancar di generosità verso Dio ed esporsi al rischio di mancare alle sue obbligazioni. Egli è difficile l’adempiere perfettamente i propri doveri, senza fare qualche cosa di più. Se voi contate, per esempio, con tutto rigore ciò che dovete precisamente dar in limosina per sollievo dei poveri, non arriverete forse al punto ove la vostra carità deve portarsi; vi è d’uopo dunque sforzarvi più di quel che dovete per essere sicuri di farlo perfettamente; la vera virtù non teme d’esser liberale a riguardo d’un Dio che non si lascia vincere in liberalità. Se la vostra è tale, fratelli miei, essa sorpasserà quella dei farisei e vi assicurerà un diritto al regno dei cieli, purché però sia anche interiore, cioè abbia la sua sorgente dal cuore, e sia conforme allo spirito della legge.

II. Riflessione. Ciò che la radice è all’albero, è il cuore alla pietà: ogni albero che non ha radice non può produrre frutti; cosi la pietà che non è nel cuore è sterile ed infruttuosa. Tale era la giustizia dei farisei: avevano essi un bell’esteriore, belle apparenze di pietà; ma queste apparenze gravi ed autorevoli servivano di velo ai vizi enormi di cui eran infetti, sotto la pelle di pecora nascondevano essi la voracità di lupi rapaci: quindi quelle terribili maledizioni che Gesù Cristo pronunzia sì spesso contro di essi nel Vangelo. Guai a voi, loro dice, scribi e farisei ipocriti, che nettate l’esteriore della tazza e al di dentro siete pieni di rapine e d’immondezze! Guai a voi, che rassomigliate ai sepolcri imbiancati, il cui di fuori comparisce bello, ma il di dentro è tutto ripieno d’ossa di morti e di corruzione: Vœ vobis, quia similes estis sepulchris dealbatis (Mat. XXV). In questa guisa, fratelli miei, questo supremo scrutatore dei cuori giudicava la pretesa giustizia dei farisei, perché ne conosceva tutto il cattivo fondo e non poteva essere ingannato dallo specioso esteriore di cui servivansi gli uomini. Infatti, se essi facevano belle azioni, ciò era piuttosto per guadagnarsi la stima degli uomini che quella di Dio; se recitavano lunghe preghiere, i loro cuori erano lontani da Dio, perché desideravano più di essere osservati dagli uomini che ascoltati da Dio; se facevano limosine ai poveri, le facevan pubblicare a suono di tromba, non per chiamare a sé i poveri che dovevan soccorrere, ma piuttosto per attirarsi ammiratori che loro facessero applausi: se digiunavano due volte la settimana, ciò era con un’aria abbattuta che affettavano per far vedere la loro penitenza; in una parola, la vanità era il principio di tutte le loro belle azioni; perciò fu essa lo scoglio del loro merito. Cercavano essi con premura la gloria e la stima degli uomini, e questa fu pur anche tutta la ricompensa che ricevettero della loro falsa virtù: Receperunt mercedem suam (Matth. VI). Paragoniamo ora la virtù d’un gran numero di Cristiani con quella di quei falsi saggi del giudaismo. Oh quanti Cristiani vi sono che hanno avuto in retaggio vizi de’ farisei, e la cui pietà è tanto superficiale quanto quella di quegli ipocriti. Quanti falsi devoti che sotto il manto d’una virtù apparente nascondono enormi vizi! Al vedere la condotta della maggior parte di essi, voi li credereste santi; danno tutti i segni esteriori di religione, pregano, digiunano, fanno limosine, frequentano tutte le divozioni, entrano volentieri in tutte le intraprese di carità e di buone opere che si faranno in una parrocchia, in una città; ma sotto quella maschera di devozione conservano uno spirito superbo, un cuor sensuale ed immortificato, attaccato ai comodi della vita, nemici d’ogni soggezione e d’ogni ritenutezza, spesse volte corrotti da infami piaceri. Al vedere quell’uomo, quella donna recitare lunghe preghiere in chiesa, leggere un libro di pietà o girare una corona fra le mani, chi crederebbe che l’uno è un usurpatore dell’avere altrui, un furbo, un ingannatore; e l’altra una maldicente, una collerica nel suo governo domestico, una rissosa con le sue vicine? Al vedere quel giovane, quella fanciulla nelle adunanze di pietà, accostarsi spesso ai sacramenti, chi crederebbe che l’uno è un libertino, un dissoluto, l’altra una superba, un’impudica, che mantiene rei commerci, che fa tanti sacrilegi, quanti sacramenti riceve, perché o non vuole scoprire i suoi disordini o non vuole correggersene? – Oh se ci fosse dato di penetrare il muro, come diceva altre volte il Signore ad un profeta, quante abbominazioni nascoste non iscopriremmo! Se si aprissero quei sepolcri imbiancati, sì ornati al di fuori, che odor pestilenziale ne uscirebbe! Non appartiene che a Dio, che investiga il fondo dei cuori, di giudicarne: gli uomini sono ingannati dalle apparenze; ma al giudizio di Dio, ove tutti i segreti de’ cuori saranno svelati, si conoscerà la verità di quanto dico. Coloro che ingannano così gli occhi degli uomini ne sono di già convinti dalla testimonianza della loro coscienza: felici, se sensibili al rimprovero che essa fa loro, prendessero le misure convenevoli per essere tali al di dentro, quali compariscono al di fuori. Mentre finalmente ogni divozione, ogni virtù che non è nel cuore, non è che una virtù superficiale; ella e una divozione ingiuriosa a Dio, inutile a chi la professa. Dico divozione ingiuriosa a Dio; perché gli è al cuore che Dio principalmente si attiene, è il sacrificio del cuore ch’Egli domanda a preferenza d’ogni altra vittima e sul quale egli ha i diritti più incontrastabili; per conseguenza è fargli un’ingiustizia il ricusargli quest’olocausto. Dissi che ogni divozione che non è nel cuore è inutile ed anche perniciosa; perché con tutta la pena, che si ha a praticare la virtù al di fuori, se ne perde il merito e si attira sopra di sé la maledizione di Dio. Questi falsi devoti sono per verità lodati ed applauditi dagli uomini, come lo furono i farisei; ma questa è tutta la ricompensa che essi ricevono delle loro buone azioni. Colui che nel fondo è un usuraio nascosto, un ingannatore, passerà per uomo dabbene; quella donna maledica, per una devota; quel giovane, quella fanciulla, per persone modeste e riserbate; quelli che non li conoscono daran loro molte lodi, ma avanti a Dio sono tanti riprovati: siccome cercano di piacere agli uomini piuttosto che a Dio, così riceveranno la loro ricompensa quaggiù; ma il Signore li rigetterà dalla sua presenza, e dirà loro d’andar a cercare il loro salario presso padroni stranieri ch’essi hanno servito in pregiudizio della sua gloria: Nescio vos. lo non vi conosco, ritiratevi da me, voi tutti che non avete avuto che la scorza della pietà, senza averne lo spirito: voi avete potuto ingannare gli uomini con una virtù apparente; ma non avete ingannato me che conosceva il fondo delle vostre iniquità: voi non m’avete servito in spirito ed in verità come dovevate; io non ho ricompensa veruna a darvi: Discedite a me qui operamini iniquitatem (Marc.7). – Egli è dunque un ingannare se stesso, egli è un faticare invano l’attaccarsi all’esteriore della divozione, senza averne lo spirito. La pietà, è vero, deve manifestarsi con le opere, senza di che ella sarebbe imperfetta e sterile; ma se queste opere non sono animate da un buon principio, se non sono nobilitate da un buon fine, la pietà diventa un corpo senz’anima, un albero senza frutti che non produce al più che fiori, i quali nulla servono. Tutta la gloria della figlia del re, dice il profeta viene dalla sua bellezza interiore; benché magnifica ella sia al di fuori per la diversità de’ suoi ornamenti, ella è ancora più leggiadra e vezzosa per le belle qualità di cui è fregiata l’anima sua: Omnìs gloria filiœ regis ab intus (Ps. XLIV). Tale è il ritratto di un’anima veramente devota; quest’anima deve prima d’ogni cosa applicarsi a ben regolare il suo interiore per attirarsi gli sguardi del suo divino Sposo, e adornarsi in appresso degli ornamenti esteriori delle virtù, che sono le buone azioni: In fimbriis Circumamictæ varietatibus. Allorché Dio comandò a Mosè d’indorare l’arca dell’alleanza, volle che cominciasse dal di dentro prima d’indorarla al di fuori. Tale è la regola che si deve seguire nella divozione; bisogna che questa divozione sia nell’interiore prima di manifestarsi con le opere. L’anima devota deve riguardarsi come un tempio vivo, ove ella deve offrire a Dio l’incenso delle preghiere più ferventi, il sacrificio delle più care inclinazioni. Questo tempio dee esser ornato al di dentro coll’oro della più pura carità, dell’umiltà più profonda, della purità più inviolabile, in una parola, di tutte le virtù che ne facciano una dimora degna dell’Altissimo. Questo tempio deve altresì esser ornato al di fuori dallo splendore delle buone azioni, che manifestano la bellezza che è al di dentro, azioni che sieno animate dal solo desiderio di piacere a Dio, di edificare il prossimo, di santificare se stesso; che partano, in una parola, da una retta intenzione, che ne è come l’anima e che ne fa tutto il prezzo. Tal è, in poche parole, il carattere della vera pietà e della soda devozione: attenta a nulla trascurare di tutto ciò che può contribuire alla gloria di Dio e alla salute dell’uomo, ella sa unire tutti i doveri della religione con quelli della società per rendere nell’istesso tempo a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio; vale a dire, per adempiere i suoi obblighi a riguardo di Dio e del prossimo. Osservate, fratelli miei, quali sono i vostri doveri per adempirli in tutta la loro estensione: mirate ciò che voi dovete a Dio, ciò che dovete al prossimo, ciò che dovete a voi medesimi. Voi dovete a Dio, il sacrificio d’una viva fede colla sommissione del vostro spirito alle verità ch’Egli vi ha rivelate; gli dovete il sacrificio della volontà per fare tutto ciò che vi ha comandato; gli dovete il culto più religioso, l’amore più perfetto l’attaccamento più inviolabile; attaccamento che sia costante nelle aridità e nei rigori della divozione, come nelle dolcezze; di modo che cerchiate meno le consolazioni di Dio che il Dio delle consolazioni, e siate sempre pronti a fare ciò che non sarebbe di vostro gusto, come ciò che sarebbe più conforme alle vostre inclinazioni, perché vi troverete più la volontà di Dio. Voi siete anche incaricati a riguardo del prossimo di certi doveri che la giustizia e la carità v’impongono; doveri di giustizia, per rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto; doveri di carità, per soccorrere il prossimo nei suoi bisogni; doveri di società, che vi rendono utili ed anche piacevoli a coloro che vi frequentano: mentre la vera divozione, benché severa a se stessa, è dolce a riguardo degli altri; essa vorrebbe sola portar la pena della virtù per loro risparmiarla. Molto differente in questo dalla pretesa virtù dei farisei, che imponevano gravi pesi sopra le spalle degli altri, mentre essi non volevano neppure toccarli con la punta delle dita. Ella non conosce quell’umore stizzoso che rende odiosa la virtù, ma si attrae l’amore e la stima di tutti, perché comparisce sempre gioviale nell’adempimento dei suoi doveri. Ella evita egualmente gli eccessi dell’allegrezza e della tristezza, che sono segni d’una virtù poca soda, ma conserva un giusto temperamento tra l’una e l’altra. Se è triste, lo è d’una tristezza secondo Dio, che opera la salute, dice s. Paolo; se si rallegra, il Signore è il principio ed il fine della sua allegrezza: Gaudete in Domino. Nemica dell’inganno e delta menzogna, che regnano nel commercio degli uomini, ella cammina con la semplicità della colomba e con la prudenza del serpente; ella fassi tutta a tutti per guadagnare tutto il mondo a Gesù Cristo. – Finalmente la divozione v’impone dei doveri riguardo a voi medesimi, che sono la rinuncia agli onori, ai beni, ai piaceri del secolo, la mortificazione delle passioni, il crocifiggimento della carne, la pazienza nelle afflizioni. Voler esser devoto senza farsi alcuna violenza per seguire le massime del Vangelo, pretendere punire la divozione con tutti i comodi della vita è un’illusione; questo non è conoscere il carattere, poiché la vera divozione consiste principalmente nell’imitazione delle virtù di Gesù Cristo. Volete voi dunque essere veramente devoti, fratelli miei? Prendete questo divino originale per modello di vostra condotta. Tutto ciò che voi fate anche di più indifferente fatelo nel nome di Gesù Cristo ed in unione di ciò che Egli ha fatto di somigliante sopra la terra; questa è la miglior pratica di divozione che io possa proporvi per meritare la felicità eterna. Così sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus

Ps XV: 7 et 8. Benedícam Dóminum, qui tríbuit mihi intelléctum: providébam Deum in conspéctu meo semper: quóniam a dextris est mihi, ne commóvear.

[Benedirò il Signore che mi dato senno: tengo Dio sempre a me presente, con lui alla mia destra non sarò smosso.]

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris: et has oblatiónes famulórum famularúmque tuárum benígnus assúme; ut, quod sínguli obtulérunt ad honórem nóminis tui, cunctis profíciat ad salútem.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche, e accogli benigno queste oblazioni dei tuoi servi e delle tue serve, affinché ciò che i singoli offersero a gloria del tuo nome, giovi a tutti per la loro salvezza.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps XXVI: 4 Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ. 

[Una cosa sola chiedo e chiederò al Signore: di abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita].

Postcommunio

Orémus.

Quos cœlésti, Dómine, dono satiásti: præsta, quæsumus; ut a nostris mundémur occúltis et ab hóstium liberémur insídiis.

(O Signore, che ci hai saziato col dono celeste; fa che siamo mondati dalle nostre occulte mancanze, e liberati dalle insidie dei nemici.)

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (118)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXX.

Che non si può negare l’immortalità, dell’anima umana, senza accusare la natura dì stolta.

I. L’arte del giardiniere non consiste nel fornire il terreno di quelle piante che son più elette; consiste in fornirlo di quelle che son più atte ad appigliarsi nel suolo a lui dato in cura. Non vi nego io però, che le ragioni fisiche dianzi addotte non sieno di natura loro le più gagliarde a manifestare, che l’anima non perisca insieme col corpo: ma perché la mente di molti non n’è capace, giusto è ricorrere ad altre, che forse più facilmente vi alligneranno: e tali son le morali. Eccomi pertanto a provar tre proposizioni, che bene intese guadagneranno la causa, se l’anima non fosse immortale, la natura sarebbe stolta; la virtù sarebbe vizio; il vizio sarebbe virtù.

Vada alle altre innanzi la prima.

I.

II. Due insanie distinguono i più intendenti (Ibid.). L’una, che si oppone alla mansuetudine, ed è crudele: l’altra, che si oppone alla ragione, ed è sciocca: ed ambedue queste insanie dovrebbonsi confessare nella natura, se ella avesse soggettata l’anima umana a leggi di tempo.

III. Sarebbe in prima stata ella verso dell’uomo insanamente spietata. Conciossiachè, se l’uomo morendo morisse tutto, ne seguirebbe, che egli solo fra tutti gli altri viventi

fosse un lavoro imperfetto, e si rimanesse quasi una bozza, bella al certo, ma difettosa; né mai fosse un’opra condotta a fine. Considerate i più sordidi animaluzzi: quei che appena distinguonsi da quel fango, onde sono schiusi, quei, dico, stessi furono pur tanto amati dalla natura, che non volle questa in cuor loro accendere alcuna brama, benché lievissima, senza dare loro anche il modo di soddisfarla. Ma forse avrebbe verso l’uomo osservato nel caso nostro un riguardo simile? Tutto il contrario: perché anzi lo avrebbe formato in guisa, che non potesse mai sperare di giungere dove aspira con ardor sommo.

IV. La capacità dell’intendimento umano è sì vasta, che a riempirla non sono bastevoli tutte le cose che sono, mentre vi sopravanza luogo quasi infinito alla cognizione di quelle ancor che non sono, ma posson essere. E la sfera del volere umano è sì ampia, che non basterebbero a renderla giammai paga neppure quegli innumerabili mondi, a cui sospirava Alessandro, quando ben tutti avessero un esser vero, e non puramente fantastico nel cervello di un delirante. Ora, se l’uomo morendo, morisse tutto, quando mai verrebbe a saziarsi in lui questa fame sì prodigiosa di tutto il vero, non ancora a lui noto, e di tutto il buono? Sicuramente non potrebbe essere ciò nella vita presente, dove egli non possiede né tempo, né mezzi, né modo, né forze a tanto. Adunque converrebbe , che in lui si venisse a trovare questo gran vacuo, sì abborrito per altro dalla natura, e che si vedesse un appetito veemente non solamente non pago, ma inappagabile, contra il costume onninamente serbato dalla medesima ne’ suoi parti, di non farvi mai nulla invano.

V. Più beneficati dunque sarebbero in tale evento quelli i quali mai non uscissero a veder luce: o se non tanto, più fortunate sarebbero almen le bestie, cui non s’intorbida giammai punto il sereno del ben presente dalla sollecitudine del futuro, non ancor posseduto, né giammai dal rammarico del trascorso: non le punge l’invidia dell’altrui sorte, non le stimola l’ambizione, non le strugge l’avarizia; ma contente del loro stato, passano i dì quietamente, provvedute le più con piccolo studio di quanto si ricerca ad alimentarle.

VI. Che se pure anche alle bestie convien morire, quanto è per loro meno amaro un tal calice: mentre lo bevono, per così dire, ad un fiato, senza averlo prima dovuto quasi ricevere a sorso a sorso nel pensier della loro mortalità: e mentre ancora lo bevono, dopo aver bene spesso gustato della vita più lungamente che non fa l’uomo! L’uomo vive poco: e in quel poco è comunemente soggetto a mille cure angosciose, a timori, a tedi, a gelosie, a pentimenti, a pianti, a querele; incontentabile nei prosperi avvenimenti, inconsolabile negli avversi: sempre al giogo di quella servitù, che ugualmente è propria della bassa fortuna e della eminente. In ogni caso le fraudi, i fallimenti, le morti de’ più congiunti, le calunnie, i contrasti, le liti, le infamie, le insolenze, le soverchierie che ricevonsi dai potenti, le necessità di vestirsi, di trafficare di trattare, di spendere, son tutti aggravi, de’ quali, quanto è più caricata la vita umana, tanto è più sgombra la vita universale de’ bruti. Onde, se l’uomo sortisse in fine una morte, qual e la loro, non. vi sarebbe tra’ viventi verun di lui più misero, mentre essendo egli per altro superiore d’infiniti gradì nel conoscimento a quello de’ bruti, conviene, a soddisfarsi, che egli abbia pascoli infinitamente ancora più sostanziosi e più soprabbondanti di tutti i loro.

VII. Oltre a che, quel medesimo vivere così corto che gli è prescritto dalla natura, come potrebbe salvare da crudeltà cosi strana madre? Excellens in arte non debet mori, gridavan da per tutto le leggi (L. ad Best. ff. de pœn.). Però, se la natura ha queste leggi dettate ai legislatori, come ella nelle sue opere le disprezza? anzi non le disprezza no , ma le adempie fedelissimamente con tutte l’altre sostanze, fuorché coll’uomo? Veggiamo pure, che tra le sostanze inanimate, quelle che son le più nobili, sono esenti da corruzione, come i cieli, i pianeti, le stelle. E perché dunque tra le viventi non va così, ma invece di vedere l’anima umana adorna di sì bella prerogativa, vederla, non pur morire, ma morir tosto, sicché talora dalla culla alla tomba non sia per lei quasi altro che un breve passo? Non vi pare una cosa stravagantissima, che potendo la natura esentare dalla falce del tempo la miglior parte dell’uomo, ve la sottoponesse sì crudamente, che si dovesse da noi portare invidia ai corvi, alle cornacchie, ed ai cervi del loro lungo durare sopra la terra, e fino alle serpi del loro ringiovanirsi? Io so che ad un uomo grande (Card. Sforza Pallavicini) facea gran forza a tenere per evidente l’immortalità dell’anima umana, mirar quanti erano quei che morivano in fasce.

VIII. Aggiungete, che la natura, non solamente sarebbe stata crudele con tutti gli uomini, se avesse fatte mortali l’anime nostre, ma crudele anche più coi più virtuosi. Quanto l’uomo è più scienziato e più saggio, tanto più conosce egli il pregio dei beni eterni, e più vi sospira, come a sua limpida fonte. Qual dubbio dunque, che tanto più dovrebbe allora egli vivere sempre afflitto, veggendosi ad ora ad ora cader sul capo quella spada fatale, che invece de’ beni eterni, gli ha da recare un sempiterno esterminio?

IX. Anzi da ciò seguirebbe, che crescendo ne’ buoni ogni giorno il merito di vivere lungamente per la loro virtù, e diminuendosi dall’altro canto la vita, verrebbesi dunque sempre a diminuire quel capitale di premio che loro avanza: onde non solamente dovrebbero militare, già veterani, alle spese proprie, senza speranza più di retribuzione, ma vi dovrebbero rimettere ancora tanto, che mai non divenissero più infelici, che quando avessero già finito di vincere: mercecchè per trionfo darebbesj allor ad essi il gastigo sommo, che è il rimanere privi in eterno di ogni essere, tuttoché tanto bene speso.

X. Per lo contrario, se la natura usasse con alcun uomo, in tale presupposizione di cose, alcuna pietà, guardate a chi l’userebbe: l’userebbe solo cogli empi.

XI. E non è pietà grande a un reo condannato, ingannarlo tanto, che non si accorga diavvicinarsi al patibolo? Questa pietà usa la natura co’ bruti, a cui, come non discuopre alcun bene eterno, per l’incapacità la qual hanno di conseguirlo, così tien loro ascosto l’eterno disfacimento, per non affliggere coll’aspettazione del mal futuro chi non può godere altro bene che il ben presente. Ora, una pietà somigliante verrebbe la natura ad usar cogli empi, cioè con quei che, benché uomini, menano vita da bruti: perché, quantunque non asconderebbe loro del tutto l’ultimo fato, né anche molto con esso gli inquieterebbe, mentre eglino, inebriati da’ loro piaceri, si studiano di tener lontano da sé qualsisia, benché lieve, pensier di morte: vittime, è vero, destinate al macello, ma vittime ben pasciute per ogni prato di trastullo corporeo. Così la prudenza e la pietà sarebbero allora i carnefici più crudeli dell’uman genere, e l’inconsiderazione e l’intemperanza sarebbero i suoi maggiori benefattori: onde pur troppo in tal caso si avvererebbero quei sentimenti di Plinio così stravolti, di riconoscere la natura cogli uomini per matrigna più che per madre, mentre ne’ migliori di loro avrebb’egli infuso, più che in altri, un intimo desiderio di beni eterni, quando al tempo stesso voleva, che fosse loro impossibile il conseguirli.

II.

XII. Senonchè con questo io sono disceso parimente a mostrare nella natura l’altra maniera d’insania, la quale, come sciocca, opponendosi alla ragione, consiste singolarmente in non sapere adattare ad un fine degno i mezzi proporzionati. La natura vuole in primo luogo, che l’uomo sia virtuoso, cioè, che egli serbi nel vivere quelle leggi ch’ella gli ha scolpite nel cuore. Ma quali mezzi avrebbe ella adoperati nel caso nostro a conseguir tanto fine? Mezzi impropri ed inefficaci: mentre la malvagità appena avrebbe di che temere, e la bontà di che consolarsi.

XIII. Io so, che il vizio è pena di se medesimo, per lo tormento che dà la mala coscienza: Prima est hæc ultio, quod, se indice, nemo nocem absoìvitur (Iuvenal.). E così pure premio di se medesima è la virtù, per la tranquillità della mente che reca seco. Ma ciò non può essere né tutto il premio delle operazioni rette, né tutto il castigo delle malvagie. Convenne per necessità, che la maggior parte del bene e del male meritato si riserbasse al tempo futuro, come dimostrano ad evidenza que’ due notabili affetti, la speranza e il timore: la speranza propria de’ buoni, e il timor degli empi (Suar. de an. 1. I c. 10. n. 30).

XIV. È per verità, chi non vede, che il buon governo così ricerca? L’agitamento della mala coscienza non è propriamente pena di essa, è natura. La pena convien che sia qualche male distinto dal male innato, che sempre è nella colpa. Altrimenti, che savio legislatore sarebbe mai quello il quale non stabilisse altro supplizio più terribile ai ladri, agli adulteri, agli assassini, di quel che porta nel loro cuore il rubare, l’adulterare, l’assassinare? I più perversi fra i ribaldi sarebbero i men puniti. E dovremo noi figurarci nella natura quella politica insana che non si tollererebbe in un infimo governante? Anzi dobbiamo confessare, che agli empi riserbi questa una pena, non solo contraddistinta da’ loro eccessi, ma ancor perpetua: conciossiaehè tutto quel male che finisce col tempo, può disprezzarsi, senza imprudenza notabile, come quello che non è male assolutamente, ma è male con eccezione, cioè male a tempo: onde l’uomo non sarebbe stato dalla natura intimorito bastantemente a fuggire i vizi, se non dovesse mai temerne altra multa di quella che può ricevere nella sua vita breve sopra la terra. Quid potest grande esse, quod habet finem? dice un Girolamo (In Ps. 89).

XV. Il somigliarne dite altresì del premio dovuto sempre alle opere virtuose: massimamente che la natura. come ricchissima, non poteva essere men cortese di quello che tra noi sieno i principi dominanti. i quali, con tutta la miseria del loro erario, propongono giornalmente ai popoli loro ricompense distinte da quel bene che porta seco il vivere onesto. Anzi conveniva, che la natura procedesse in ciò maggiormente da pari sua, non assegnando premi corti e caduchi, come fanno i principi nostri, ma premi eterni: altrimenti non avrebbe ella a sufficienza allettato il genere umano a calcare animosamente i sentieri spinosi dell’onestà, a fronte ancora di tutti quei prati ameni, da cui lo lusinga a sé la dissolutezza.

XVI. Tanto più che il genere umano, pur ora detto, per altre ragioni ancora non si può reggere senza questa persuasione, che l’anima sia immortale. Questa credenza, che nacque al nascere del mondo, è stata sempre comune a tutte le genti, come argomentò Cicerone (1. Tusc.) dall’alta stima che tutte le genti fecero de’ sepolcri, nulla stimabili, se dopo morte nessuno v’è, né può esservi, che li curi. Che se qualche ingegno stravolto ha tentato di ripugnare al sentimento concorde di tutti i popoli come già fece Epicuro, è stato giudicato un bruto che parli. Ond’è, che contra Epicuro si sollevarono a gara tanti migliori filosofi d’alto grido (Cic. de senect. I. ult.). Ora quale stoltezza maggiore potrebbe figurarsi nella natura, che l’aver lei scritto di sua mano in tutti i cuori un errore di tanto peso, quale sarebbe questo, se fosse errore, che l’anime ragionevoli siano eterne?

XVII. Direte forse, che il buon governo degli uomini così porta: che questi si persuadano di esser tutti immortali nella miglior parte di sé. Sia come dite. Ma se il buon governo degli uomini porta che si persuadano di esser tali, dunque porta ancora che siano. La natura non ha da reggere l’universo per via d’inganni. E qual ragione aveva ella di non far gli uomini quali era meglio che fossero? Miriamo che ella non ha mancato a veruno degli animali in ciò che era necessario a viver da bestie corrispondenti alle spezie loro: e come dunque avrà ella mancato agli uomini in ciò che è necessario a vivere da sensati?

XVIII. E tuttavia quanto si è divisato fin qui, riguarda solamente il bene dell’uomo. Rimane quello che riguarda anche il bene, se pur vogliamo intitolarlo così, della natura medesima.

XIX. E per qual cagione formò già ella questo mondo sì bello, con tanta varietà di lavori, i più artifiziosi che possano immaginarsi? Non lo formò per fare in esso campeggiare la gloria della sua sapienza inaudita? Ora quali hanno ad essere quegli spettatori che lo vagheggino? Non già i bruti, perché non sono abili a tanto. Hanno ad esser gli uomini. Ma dite a me: Come mai potrebbero gli uomini ciò eseguire, se durassero solo quel poco tratto che albergano in su la terra? Nella loro vita mortale è sì leggera la cognizione che hanno essi di quanto per loro fece il loro Creatore, e sì ristretta e sì rozza e sì grossolana, che appena trapassa la superficie, dirò così, delle cose, senza penetrar sino all’intimo, dove è il meglio. Conviene adunque, che tal contezza riservisi ad altro tempo. Altrimenti questa manifattura dell’universo potrebbe quasi dirsi un lavoro gettato, mentre essa, da chi si deve, non sarebbe mai conosciuta perfettamente. E quale dipintor giudizioso sarebbe quello il quale formasse un quadro di beltà somma, in grazia d’una chiesa, o di una città, e di poi glielo desso con legge tale che non si dovesse finir giammai di rimoverne quella tela che lo ricopre? Eppure non altrimenti avrebbe la natura operato nel caso nostro.

XX. Né state a dirmi, che bastavano gli angeli a vagheggiare sì degna tavola non velabile agli occhi loro. Prima, perché gli Angeli non hanno punto bisogno di argomentare da questo mondo corporeo la vasta mente di quell’artefice sommo che lo formò: la sanno in sé molto bene conoscere da se stessi. Poi, perché questo mondo corporeo di cui si parla, non fu prodotto in grazia di alcun di loro: fu prodotto in grazia’ dell’uomo, il qual, siccome da tante opere belle, soggette a’ sensi, doveva sicuramente ricevere il maggior prò, così era giusto, che con modo ancora speziale le conoscesse, affine di potere indi rendere al fattor d’esse quell’omaggio di lodi e di ammirazione, di amore e di gradimento, che gli doveva per un dono tanto magnifico.

XXI. Non è almen certo, troppo essere conveniente, che l’uomo conosca sé, le sue potenze, le sue passioni, i suoi atti, e quanto in sé racchiude di più stimabile, per tenersi da quel ch’egli è? Ma dov’è che qui possa farlo bastantemente? Lascio dunque a voi giudicare, se sia probabile, che in grazia dell’uomo, sia stato fabbricato, oltre al mondo grande, pieno di tanto creature, anche il mondo piccolo, cioè l’uomo stesso, colmo di tante eccellenze; e poi non abbia l’uomo a finir mai di conoscere tutto ciò che per lui è fatto, ma dopo una occhiata datagli di passaggio, abbia da mancare, e da mancare per sempre, senza avere intesa di tante cose, che pur a lui si appartengono, una millesima parte, e questa parte stessa, più indovinando ancora, che argomentando, e più sognandola, dirò così, che sapendola. Tanto apparato di fiumi, di mari, di monti, di animali e di cieli sì riguardevoli; un corpo umano, organizzato con immenso artifizio: un’anima dotata di tanti pregi, che è uno stupore a pensarvi anche grossamente; per nulla più che per un vivere corto, che appena si sa discernere dal perire? Folle dunque natura, che intende un fine dell’anima ragionevole, e poi non le dà neppur agio da conseguirlo! Ma folle al certo la natura non è: folle è chi la finge tale, negando all’anima l’immortalità, tanto propria di ogni sostanza intellettuale.

XXII. Concludiamo dunque così. Se nella natura non si può fingere insania di alcuna razza, né insania di crudeltà, né insania di balordaggine; conviene adunque che tali abbia fatti gli uomini, quali doveva farli una formatrice pietosa insieme e prudente nel suo operare, cioè capaci di una vita anche eterna

SACRO CUORE DI GESÙ (32): IL SACRO CUORE DI GESÙ E LA SUA MORTE

[A. Carmignola: Il sacro Cuore di Gesù; S. E. I. Torino, 1929]

DISCORSO XXXII.

Il Sacro Cuore di Gesù e la sua morte.

Vi ha una specie di morte, che il mondo grandemente ammira e per la quale non di raro nutre sentimenti di invidia: è la morte dell’eroe. Oh sì! il soldato, che ha compreso il gran dovere di esporre, se è necessario, la propria vita per la salvezza della patria, il soldato che nel dì della battaglia, nel furor della mischia, dopo di avere strenuamente combattuto, atterrando un gran numero di nemici, alfine cade ancor egli colpito da una palla improvvisa è un eroe, che muore di una morte degna di ammirazione e di gloria. Tuttavia vi ha un’altra specie di morte, che le Sacre Scritture apprezzano anche maggiormente e dichiarano preziosa, non già al cospetto del mondo soltanto, ma al cospetto dello stesso Dio: è la morte dei santi Pretiosa in conspectu Domini mors Sanctorum eius. (Ps. CXV) E ben a ragione! Perciocché la morte dei santi non è solamente un atto isolato di eroismo, ispirato dall’amore della patria terrena, ma è il coronamento finale di una serie lunghissima di atti eroici, compiuti nell’esercizio delle più eroiche virtù, ed inspirato dall’amore stesso di Dio e della patria celeste. Ma pure nella storia del mondo vi ha una morte, infinitamente superiore, non solo a quella degli eroi, ma anche a quella dei santi, ed è la morte di un Dio. Sì o miei cari, se tutte le morti degli uomini, per quanto belle e preziose, rivelano l’umanità, la morte di Gesù Cristo rivela la divinità; la rivela nella sua sapienza, e nella sua potenza, giacché è solo la sapienza di un Dio che poteva scegliere una morte così ignominiosa, ed è solo la sua potenza che poteva accompagnarla con tanti e sì strepitosi miracoli: ma la rivela soprattutto nella sua carità, perché è solamente l’amore di un Dio per gli uomini, che poteva spingere Gesù Cristo a sacrificarsi in tal guisa per essi. Amore, amore di Dio per l’uomo, ecco il carattere supremo, che manifesta la morte di Gesù Cristo morte di un Dio, e che la pone al disopra delle morti anche più sublimi e più ammirande di tutti gli eroi e di tutti i santi: Christus dilexit nos et tradidit semetipsum prò nobis! Che anzi essendo giunto ormai per Gesù Cristo quel tempo funestissimo, che Egli aveva chiamato « l’ora sua » e stando per consumare del tutto il grande mistero della sua umiliazione, come lo chiama S. Paolo, quando dice che « Gesù Cristo si è umiliato sino alla morte e morte di croce; » la sua carità infinita per noi si dava a conoscere nella sua massima vivezza, nella sua estrema tenerezza, nella sua somma ed immensa generosità: Cum dilexisset suos, in finem, dilexit eos. E d in vero se, come già abbiamo considerato ieri, Gesù Cristo, confitto sopra della croce, in mezzo a due ladroni, attorniato da un popolaccio, che lo insulta e lo bestemmia, affogato in un mar di tormenti, dimentica del tutto se stesso per non pensare che a noi e darci prove supreme del suo amore; e in quelle tre sue parole, che abbiamo ricordate, egli ha implorato perdono per i poveri peccatori, ha assicurato il paradiso ai veri penitenti ed ha animato tutti a non mai abbandonarlo, nelle tre ultime parole che ha pronunziato prima di esalare l’ultimo respiro, e che considereremo oggi, Egli mostrando una sete ardente della nostra salute, ci ha animati a compierne la grande opera.

I. — Sembrava che ornai al Divin Redentore e Maestro più nulla rimanesse a dire, più nulla a fare per noi. Già ci aveva assicurato il perdono dei nostri peccati, ci avea promesso il paradiso, ci aveva donata per madre la sua Madre istessa Maria e ci aveva animati a non mai abbandonarlo: che altro dunque gli restava a dire? che altro gli restava a fare? Lo stesso S. Giovanni osserva, che Gesù Cristo dopo di avere pronunziate le sue prime quattro parole vide che tutte le profezie a suo riguardo erano state compiute; Sciens Iesus quia omnia consummata sunt. (Io. XXI, 28) Tuttavia intorno alla sua morte vi era ancora una piccola circostanza, che i profeti pur avevan predetto e che ancora non si era compiuta; la circostanza cioè che egli avrebbe avuto sete e che allora lo avrebbero abbeverato di aceto: In siti mea potaverunt me aceto. (Ps. LXVIII) E nemmeno questa circostanza, per quanto possa parere da poco, doveva lasciare di avverarsi; anche qui la divina Scrittura doveva avere il suo compimento: Ut consummaretur Scriptum. (Io. XIX, 28) E lo ebbe. Il benedetto Gesù, condotto da questo a quel tribunale, orribilmente flagellato, coronato di spine, obbligato a portare sopra le sue spalle la croce, e sopra di essa inchiodato, si trovava mai colle vene vuote di sangue, sommamente affaticato e con un’arsura sì terribile, che secondo la profezia, il suo vigore era inaridito come un vaso di creta esposto al fuoco, e la sua lingua stava attaccata alle fauci: Aruit tamquam testa virtus mea, adhæsit lingua mea faucibus meis. (Ps. XXI) Chi può dunque immaginare la sete che aveva il divin Redentore ed il travaglio acerbissimo che perciò ne provava? Lo spasimo della sete è senza dubbio uno dei più crudeli tormenti, a cui possa essere assoggettata la nostra natura. La povera Agar vedendo che ella e il suo Ismaele stavano per venir meno dalla sete, dava nelle smanie più affannose. Sansone, dopo di aver ucciso mille Filistei, travagliato dalla sete gridava: Io muoio, io muoio. Un intero esercito, come narra Quinto Curzio, anziché sopportare più a lungo le agonie della sete; preferì di bere nel deserto delle acque avvelenate dal nemico e morire. Il ricco Epulone, sepolto nell’inferno, secondo la divina parabola, non d’altra cosa supplicava il padre Abramo che di mandare laggiù Lazzaro, il quale intinta nell’acqua la punta del dito gliene lasciasse cadere una goccia sola sulle aride labbra. Tale adunque essendo il tormento della sete, e da questo tormento essendo pur assalito Gesù Cristo, affinché quelle sole parti del corpo che non erano state ferite, non lasciassero tuttavia di avere il loro martirio, gridò ancora dall’alto della croce: Sitio! (Io. XIX, 28): ho sete! Ah! che a questo grido avrebbe dovuto commuoversi il cielo, ed esso che versa copiosamente piogge e rugiade per fecondare la terra, per dar vita alle piante ed ai fiori, per rinverdire i prati e i campi, avrebbe pur dovuto lasciar cadere alcune stille d’acqua sulle labbra di Gesù Cristo! A questo grido avrebbe pur dovuto commuoversi la terra, ed essa che si aperse nella solitudine di Bersabea per ristorare il giovanetto Ismaele; che si spaccò nel deserto per soccorrere il popolo giudeo, che tante volte lasciò sgorgare delle fonti prodigiose per la salute degli uomini, avrebbe pur dovuto aprirsi per farne uscir fuori una fonte di refrigerio all’assetato Gesù! A questo grido avrebbero dovuto commuoversi quegli stessi Giudei che stavano attorno alla croce, e ponendo fine agli oltraggi ed ai martirii, che usavano contro di lui, per non essere più feroci di una tigre avrebbero dovuto porgergli tosto un poco di acqua per dissetarlo. Ma no ! né il cielo né la terra, né gli uomini si commuovono a questo grido di Gesù Cristo; che anzi i suoi nemici ne pigliano argomento per incrudelire contro di Lui ancor una volta. Ed in vero uno de’ suoi più barbari crocifissori, all’udire che Egli era tormentato dalla sete, prende in fretta una spugna, la infonde in un vaso pieno di aceto,, che secondo l’uso, ma più ancora per disposizione divina, là si trovava, ed impregnatala ben bene di quell’aspro umore, la colloca sulla punta di una canna insieme con un po’ d’erba di amarissimo isopo, gliel’avvicina alla bocca. Oh crudeltà inaudita! oh barbarie senza esempio! A questo caro Gesù, cui non resta più altro che esalare l’estremo fiato nel martirio terribile della croce, non solo si nega un po’ di acqua, ma a tormentarlo maggiormente gli si dà a bere dell’asprissimo aceto? Eppure Gesù stende a quella spugna le arse sue labbra e succhia e prende di quell’aceto, che gli viene offerto: Curri accepisset acetum. (Io. XIX, 30) E così si adempiva alla lettera la sovradetta profezia: Et in siti mea potaverunt me aceto. Ma prendendo di quell’aceto il nostro divin Redentore non lo fece unicamente per adempiere una profezia e per ristorare l’arsura della sua lingua, ma lo fece altresì per compiere in nostro vantaggio un mistero di amore. Non potendo egli prendere realmente sopra di sé l’agrezza delle nostre impazienze, dei nostri astii, dei nostri rancori, la prese nel simbolo dell’aceto e si dispose in quella vece a trasfondere nel cuor nostro la dolcezza della sua grazia. E quello che dice S. Ambrogio: Bibit Christus amaritudinem meam, ut mihi refunderet suavitatem gratiæ suæ!(Cristo ha bevuto la mia amarezza per darmi la soavità della sua grazia). Tuttavia, o miei cari, coll’avere Gesù manifestata la sua sete non ha voluto soltanto darci questa prova di amore, ma ha voluto darcene un’altra assai più grande, manifestando altresì e più di tutto la sete ardente di nostra salute. Un giorno, durante le sue pellegrinazioni nella Palestina, Gesù, stanco dal viaggio, si fermava presso ad un pozzo di Sichar. Egli che nulla faceva a caso, ma tutto dirigeva a nobilissimo fine, stava là attendendo che venisse ad attingere acqua una povera peccatrice. E la Samaritana venne, e s’intese a dire da Gesù: Donna, dammi un po’ da bere: Mulier, da mihi bibere. (Io. IV, 7) Ma non è già, osserva S. Agostino, che con quella domanda ricercasse da quella povera donna dell’acqua, ma bensì la sua fede e la conversione dell’anima sua. Or bene, la stessa sete, che Gesù manifestò alla Samaritana, è pur quella sete, che come Dio avendo avuto da tutta l’eternità, e come uomo avendo. cominciato a provare fino dal primo istante del suo concepimento, per somma convenienza di tempo e di luogo manifestò morente su della croce; è pur quella sete, che tuttora sul trono della sua gloria, tra gli splendori dei santi, nella sua felicità infinita continua a sentire per tutti gli uomini. – Sì, anche ora dall’alto dei cieli continua a ripetere: « Sitio: ho sete. Ho sete delle vostre anime, o poveri popoli, che ancor giacete nelle tenebre e nelle ombre di morte: deh! Arrendetevi alla predicazione del Vangelo, che vi vanno facendo i miei Apostoli, abbracciate la mia fede, seguite la mia legge e salvatevi. Sitio: ho sete. Ho sete delle vostre anime, o scismatici ed eretici, che vi siete staccati dalla mia Chiesa e vivete negli errori: deh! aprite una buona volta gli occhi vostri alla luce di verità, che vado facendovi balenare dinnanzi, rientrate nel mio ovile a far parte del mio gregge, sotto la guida del vero Pastore, e salvatevi. Sitio: ho sete. Ho sete delle vostre anime, o Cristiani Cattolici, che, pur professando di nome la mia fede e la mia legge, non la professate tuttavia di fatto, vivendo nell’indifferenza, nella colpa e persino nella incredulità: deh! ascoltate la voce de’ miei ministri, che vi invitano alla penitenza, assecondate quelle ispirazioni, che vi mando al cuore, togliete dal vostro animo quei timori, quelle pene, quei disgusti, onde vado amareggiando la vostra colpevole felicità, spegnete del tutto quei rimorsi, che fo sentire alla vostra coscienza, ritornate pentiti al mio seno, e salvatevi. » È a queste voci amorose, con cui Gesù Cristo continua a manifestare tuttora la sete della nostra salute, qual è la risposta, che si dà dagli uomini? Ahimè, che molti tra i gentili si ostinano nel loro culto a satana, e proseguono tuttavia a rifiutarsi di abbracciare la fede di Gesù Cristo e coll’odio ai missionari, colle persecuzioni atroci con cui si scagliano contro di essi, col sangue che ne vanno spargendo-costringono lo stesso Gesù a ripetere: In siti mea potaverunt me aceto: nella mia sete non mi diedero altro che asprissimo aceto. Ahimè che molti tra gli eretici e tra gli scismatici stanno fermi nella loro avversione alla vera Chiesa e negli errori che professano non ostante gli esempi ammirabili di tanti loro confratelli, che nella loro patria, nella loro stessa famiglia si convertono, e continuando a vivere nella loro superbia e diserzione costringono essi pture Gesù a ripetere: In siti mea potaverunt me aceto: nella mia sete non mi diedero altro che asprissimo aceto. Ahimè ancora, che molti Cristiani Cattolici perseverando nella loro indifferenza, nelle loro colpe e nella loro incredulità, e molti altri non danno altro a Dio che qualche preghiera fatta con distrazione, qualche atto di religione compiuto per ipocrisia, qualche elemosina distribuita per vanità, qualche messa ascoltata per costumanza, qualche confessione fatta senza dolore, qualche comunione ricevuta per umani interessi, e pur mantenendo nel cuore l’affetto al peccato, ai piaceri disonesti, ai vizi, alle turpitudini, e l’odio e le inimicizie col prossimo, e l’attacco al denaro e la bramosia degli onori, costringono ancor essi Gesù a ripetere: In siti mea potaverunt me aceto: nella mia sete non mi diedero altro che aceto. E noi, o miei cari, che faremo, che risponderemo a Gesù che ci dice: Sitio: ho sete? Ahi mio amato Gesù, mio Salvatore e mio Dio, se io mi incontrassi in un uomo che non conosco, e che stando per morire mi chiedesse da bere, mi rifiuterei forse di dargliene? Ed avrò ancora l’ardire di negar da bere a voi? No, no, o Gesù amantissimo. Per estinguere la sete misteriosa che vi tormenta, voi volete l’anima mia; prendetela, è cosa vostra. Io sono pieno di commozione e di angoscia nel vedervi soffrir tanto nel vostro sì prolungato supplizio, e san certo che questo popolo che mi circonda divide con me gli stessi sentimenti. Prendete adunque tutte le anime nostre, dacché ne avete sete; fatele entrare nel vostro Cuore adorabile e dateci persino la grazia di potere ancor noi, sul vostro esempio, sentir sete delle anime. Sì, che tutti e ciascuno .di noi andiamo ripetendo efficacemente: Sitio, ho sete dell’anima di mio padre e di mia madre; ho sete dell’anima dello sposo; ho sete dall’anima dei figliuoli; ho sete dell’anima dei fratelli; ho sete dell’anima degli amici; ho sete dell’anima dei poveri peccatori: ho sete, ho sete, ho sete : Sitio, sitio, sitio!

II. — Ma l’ultimo istante si avvicina. Maria, sorretta da S. Giovanni, ha gli occhi fissi sul figlio morente; Maddalena disfacendosi in lacrime se ne sta inginocchiata ed abbracciata alla croce, e Gesù benedetto ha tutto il suo corpo adorabile inondato di un freddo sudore. Ma sebbene vicino a trarre l’ultimo respiro, la sua mente è placida e serena. E con tale placidezza e serenità percorrendo tutti i secoli passati e futuri, vede che tutto è compiuto per gli uni e per gli altri, che il suo sacrifizio è ormai giunto alla perfezione e la sua grande opera di salute è terminata. Ora, non vi ha alcuno, che giunto al termine di difficile e gravosa impresa non n’esprima in qualche modo la soddisfazione e la compiacenza, come non v’ha alcuno che giunto al termine delle sue pene non tragga un sospiro di consolazione e di gioia. Il capitano che ha sconfitto il nemico, nel rimettere entro il fodero la spada sanguinosa, dice esultante in suo cuore: Ho vinto, ho compiuto il mio trionfo. Il pellegrino, che tocca le soglie della patria amata, ripete giulivo: Son giunto, ecco la mèta del mio cammino. L’artefice, che ha dato l’ultimo tocco al suo lavoro, esclama: Ho finito, ecco condotto a perfezione la mia opera. Il carcerato che sente spezzarsi i suoi ceppi e vede aprirsi la porta della sua prigione per riavere la libertà; la vittima infelice della calunnia, che, riconosciuta alfine innocente, riacquista il suo onore ed i suoi beni, respirano dalle subite oppressioni, ed esclamano ancor essi: È finita quella vita sventurata! Non altrimenti fece il divin Redentore, e poiché, dice S. Giovanni, ebbe preso l’aceto che gli fu offerto, gridò: Tutto è consumato: Cum accepisset acetum, dixit: « Consummatum est. » Sì, per Gesù tutto èveramente, interamente, perfettamente consumato. Consummatum est, è consumata, adempiuta la volontà del Divin Padre, che volle la sua Incarnazione, la sua vita di trentatrè anni passata nel lavoro, nell’oscurità, nei travagli e nelle persecuzioni ed il termine di essa con una morte ignominiosa e crudele. Questo comando, benché ampio e difficile, è stato eseguito esattamente, in tutte le parti più minute: Omnis consummationis vidi finem; latum mandatum tuum nimis. (Ps. CXVIII). – L’umiliazione richiesta a cagion del peccato è giunta sino al suo profondo abisso: ed ora é compiuta: Consummatum est! Tutto è consumato, vale a dire tutto quello che è stato scritto e figurato del Messia ha ricevuto il suo compimento: tatto quello che è stato predetto dai Profeti, rappresentato dai grandi personaggi, simboleggiato dai segni, tutto si è ormai realizzato. Il figlio della donna ha schiacciato la testa dell’infernale serpente; il Desiderato delle genti è venuto quando lo scettro era caduto dalle Mani di Giuda; il vero Piglio di Davide è comparso a rialzare l’onore della sua casa; la Sapienza divina si è incarnata ed è stata veramente l’Emanuele, Dio con noi; il profeta e il taumaturgo più grande di Mosè ha fatto udire fra le genti la sua celeste dottrina e l’ha confermata coi più strepitosi miracoli; il vero Davide ha sostenuto gl’insulti e le calunnie de’ suoi più fieri nemici, il vero Giuseppe è stato tradito e venduto per trenta danari, il vero Isacco ha portato Egli stesso il legno del sacrifizio sulla cima del monte, il vero Agnello senza macchia, caricato dei peccati di tutti gli uomini è stato condotto all’uccisione, il vero serpente di bronzo, sola medicina al piagato Israele è stato innalzato sull’albero della croce, il vero Abele sta per cadere estinto, il vero Sansone sta per morire trionfando de’ suoi nemici: Consummatum est. – Tutto è compiuto, vale a dire il sacrifizio della nuova legge, che da solo doveva bastare a riparare tutti i mali, ed apportare tutti i beni, a convertire tutti i peccatori, a santificare tutti i giusti, è fatto; la sentenza di dannazione fu cancellata e così appesa alla croce; la legge di grazia fu sostituita alla legge di terrore, l’uomo fu riconciliato con Dio, fu chiuso l’inferno, fu aperto il cielo, furono vinti i demoni, fu meritata la grazia agli uomini, la Religione cristiana fu fondata, la gran casa di Dio, la Chiesa Cattolica, fu innalzata sopra incrollabile base, la terra fu fecondata e resa atta a produrre fiori eletti di virtù; qui da queste fonti già partono i sacramenti, come fiumi di sangue divino a fertilizzare il mondo e a farlo germinare in ogni luogo e in ogni tempo degli Apostoli, dei Martiri, dei Vergini, dei penitenti, dei Santi, a medicare le piaghe della povera umanità, a recar loro la benedizione e la vita:

Consummatum est. Tutto è compiuto, vale a dire ancora, ogni cosa fu condotta alla sua ultima perfezione, per modo che più nulla, veramente più nulla rimane da fare a Gesù Cristo prima di morire; più nulla gli rimane da patire, le sue acerbissime pene devono aver fine, quanto prima deve cominciare la sua vita di gioia, di gloria, di trionfo immortale, consummatum est! E dove il tutto si è compiuto? Sulla croco, che di infame patibolo diventerà d’ora innanzi strumento di potenza, simbolo di fortezza, vessillo di vittoria: sulla croce, che, inalberata un giorno dal gran Costantino sulle alture di Roma, manderà in polvere gl’idoli infami, farà crollare i templi pagani, porrà termine a bestiali costumi, romperà le catene degli schiavi, mostrerà l’eguaglianza, la fratellanza, la vera libertà; sulla croce che farà sante le nozze, mitigherà la podestà dei mariti e dei padri, apprenderà a tutti l’utilità, la necessità e l’eroismo del patire, sulla croce che divenuta stendardo e speranza dei popoli o sulle spiagge dei mari, o nel cuore delle foreste, o sulle porte delle metropoli arretrerà le barbarie, dileguerà le superstizioni, sfavillerà la luce del vero; sulla croce dinanzi alla quale ogni popolo, ogni regno, ogni nazione, ogni età, ogni stato, ogni sesso, ogni condizione: re e sudditi, nobili e abbietti ricchi e poveri, padroni e servi, dotti e idioti chineranno rispettosa la. fronte; sulla croce divenuta conforto del debole e dell’afflitto, rifugio dell’oppresso e del languente, consolazione della vedova e dell’orfano, refrigerio dell’infermo e del morente, ombra tutelare delle spoglie dei trapassati! Sulla croce, sì, sulla croce… tutto è compiuto, consummatum est. Ma ahi pensiero funesto! ahi vergognosa contraddizione! Perciocché a che giova, o miei cari, che Gesù Cristo abbia per parte sua compiuto tutto ciò che era necessario alla nostra eterna salute, se noi forse da parte nostra non l’abbiamo neppur cominciato? I migliori anni della nostra vita sono trascorsi: noi abbiamo faticato tanto per procacciarci anche non troppo onestamente delle ricchezze, abbiamo tanto sudato per farci un nome grande e riempirci di fumo, abbiamo logorato la sanità per accontentare le nostre passioni, abbiamo gittate insomma la nostra vita per perderci, e nulla, forse meno che nulla abbiamo fatto per salvarci. E quando facciamo conto di pronunziare una volta la gran parola: Nunc cœpi? Ora comincio? Quando ci risolveremo davvero di por fine ad una vita di peccato per cominciare una vita di santificazione? Ci lusinghiamo forse di dover campare cent’anni? E non ci può cogliere da un momento all’altro quella notte di sterili desideri, di inutili rimpianti, in cui più nessuno può operare? E quando pure avessimo a vivere la vita dei più longevi patriarchi, vorremmo continuare così scientemente a disprezzare Iddio, Gesù Cristo, il suo sacrifizio, la sua grazia! E pretenderemmo al termine di una vita scellerata, nel momento stesso cita sta per cominciare l’eternità, aborrire il vizio, praticare la virtù, riparare gli scandali, rifare le confessioni mal fatte, correggere le ingiustizie, troncare gli attacchi, far tutto insomma ciò che appena si può fare in molti anni di vita? Ah! ciò che più facilmente potrebbe accaderci allora sarebbe di gettare lo sguardo sopra la nostra vita passata del tutto nella colpa e coll’accento del rammarico, e Dio non voglia, con quello della disperazione, andar anche noi ripetendo: Consummatum est! Consummatum est! Ahimè, che tutto è finito. Son finiti i piaceri, gli onori, le ricchezze, i divertimenti, i balli, i teatri, i conviti, il lusso, tutto è finito. E che mi resta di tutto ciò? Nient’altro che il rimorso. Ah miserabile che fui! non mi sono attaccato che ai beni del corpo e del tempo, ma ora il tempo è passato, il corpo si dissolve e non mi rimane che l’anima e l’eternità! Dio mio! Dio mio! Tutto è finito! Tutto è finito! Consummatum est! Ah! miei cari, se non vogliamo andar incontro ad una fine così spaventosa, cominciamo senz’altro ad operare il bene. E poiché il buon Gesù nulla tralasciò di fare da parte sua per condurci a salvezza, deh mettiamoci anche noi a compiere la parte nostra per ottenere davvero quel regno che egli a sì caro prezzo ci ha ricomprato. Rammentiamoci bene, che questo regno patisce forza, e che i violenti soli lo rapiscono. Sia dunque fine alla nostra freddezza, alla nostra indifferenza, alla nostra codardia. Convertiamoci tosto e diamoci subito a vivere da veri Cristiani, combattendo da forti ogni difficoltà che a ciò si frapponga; vinciamo ogni umano riguardo, confessiamo e pratichiamo coraggiosamente la nostra fede e la nostra legge dinanzi a tutti e à costo di qualunque sfregio; ed allora potremo ancor noi al punto estremo della vita ripetere con vera soddisfazione, con vera gioia: Consummatum est: tutto è compiuto: ho consumato il mio corso, ho serbata la mia fede, altro non mi rimane che ricevere la corona di giustizia, quella corona che Iddio giusto giudice mi darà nel gran giorno per l’eternità: Cursum consummavi, fidem servavi, in reliquo reposita est mihi corona iustitiæ, quam reddet mihi Dominus in illa die iustus iudex. (II Tim, IV, 7).

III. — Ma ecco che Gesù è giunto all’estremo sfinimento. Già cominciano a mancare le forze ; già il sangue non esce più dalle ferite che a stilla a stilla, già si avanza silenziosa la morte, già è pronta per dargli l’ultimo colpo. Ma sebbene Gesù nella sua carne sia arrivato a questo estremo di debolezza, nel suo spirito conserva tutta la gagliardia e la forza, della quale valendosi manda un nuovo altissimo grido, che lo manifesta Dio, perciocché mentre noi uomini in sul morire perdiamo la voce, Egli che è Dio, sul punto stesso di morire la conserva e la innalza come gli piace. E che esprime egli mai con questo grido? Padre, dice Egli, nelle tue mani raccomando il mio spirto: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum. (Lue. XXIII, 40) Oh tenere parole! Oh parole sublimi! Oh parole preziosissime! Con queste parole, che Gesù pronuncia colla testa sollevata e cogli occhi rivolti al cielo, chiamando Dio non più col nome augusto e terribile di Dio, come aveva fatto poco innanzi, ina col nome dolcissimo di Padre, si dichiara sino all’ultimo per suo divin Figliuolo; e rimettendo nelle mani di Lui il suo spirito rivela la pienezza di confidenza, la uguaglianza di potere, la infinità di amore, che tra di loro esiste. Padre, voleva dire, quando senza lasciar la tua destra, Io discesi in terra e presi questa vita mortale, di pieno accordo fra noi si stabiliva che Io la dessi per la salute del mondo; ed essendo giunto l’istante di adempire questo nostro accordo divino, Io lascio che la morte venga a togliermi la vita separando lo spirito dal mio corpo; e poiché il mio corpo su questa croce, già tutto te l’ho offerto, a rendere perfetto il sacrificio ti offro ancora il mio spirito e lo depongo nelle tue mani: Pater, in manus tua commendo spiritum meum. – Ma certamente non è questo solo che Gesù Cristo ha voluto significare con questa così bella parola. Come in tutte le altre precedenti ha voluto darci sempre altrettante prove di amore, così ha voluto fare in questa. Epperò, siccome nella penultima parola ci ha efficacemente animati a consumare l’opera della nostra santificazione, con questa ultima ha voluto metterci chiaramente d’innanzi il premio che a tal fine ci riserba, una morte cioè in cui il nostro spirito sarà consegnato nelle mani di Dio. Perciocché, dice S. Atanasio, raccomandando Egli il suo spirito al suo Divin Padre, intese particolarmente di raccomandargli al punto di morte tutti gli uomini che per la bontà della vita avrebbero appartenuto non solo al suo Corpo, ma eziandio al suo Spirito. – Animo adunque, o veri Cristiani, che col vero amore di Gesù Cristo, colla imitazione fedele delle sue virtù, coll’esecuzione costante de’ suoi precetti ed insegnamenti, formate con Lui uno stesso spirito. Giungerà pure per voi l’estremo istante della vita; ma all’avvicinarsi di quel momento, da cui dipende la eternità, di quel momento in cui il demonio, sapendo che gli rimane poco tempo, discenderà con grande ira a darvi l’ultimo assalto, di quel momento in cui dovrete separarvi da tutto e non vi resterà più nelle mani che un santo Crocifisso, voi non avrete a temere, perché colla sua estrema preghiera siete stati raccomandati da Gesù Cristo al suo divin Padre, siete stati deposti nelle sue braccia, siete stati affidati al suo amore. Ei fu lo stesso come se avesse detto: Padre, rimetto nelle tue mani lo spirito dei giusti, essi mi appartengono, sono miei veri fratelli, hanno vissuto della mia vita, hanno formato con me una cosa sola; voglio adunque o Padre che dove sono Io, ivi siano i miei servi, i miei ministri fedeli: Volo, pater, ut ubi ego gum, illic sii et minister meus. (Io. XII, 26) Deh! Accogli il loro spirito, abbraccialo, serralo al tuo cuore come lo spirito mio: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum. Oh bontà, oh amore di Gesù Cristo per noi! Ma avremo noi, o miei cari, avremo noi la bella sorte di essere nel novero di questi giusti che muoiono placidamente addormentando il loro spirito nelle mani del Signore? Certamente nessuno degli uomini conosce la fine della sua vita: Nescit homo finem suum (Eccl. IX, 12) Ma è pur vero tuttavia che per mezzo delle buone opere possiamo rendere sicura la nostra vocazione ed elezione al cielo. Su, adunque, uniamoci del tutto a nostro Signor Gesù Cristo, uniamoci nei pensieri, negli affetti, nei sentimenti, nelle parole, nelle opere, aderiamo a Lui interamente, e giacché colui che aderisce a Dio diviene di un solo spirito con Lui: qui adhæret Deo unius spiritus est, (I Cor. VI) potremo così avere certa fiducia di pronunciare anche noi al termine della vita, non solo con Gesù Cristo e in Gesù Cristo, ma per la bocca istessa di Gesù Cristo: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum. Ben cara adunque, ben preziosa, ben consolante è quest’ultima parola pronunciata sulla croce dal divin Redentore. Con essa non ha posto termine soltanto alla sua mortal carriera, ma nel suo infinito amore per noi ha messo ancora a noi innanzi il magnifico premio, la dolcissima morte che coronerà una santa vita! Ma poiché Egli l’ebbe pronunziata, con un estremo atto che l’indicava padrone supremo della vita e della morte, chinò dolcemente sul petto il suo divin capo. Et inclinato capite. (Io. XIX, 30) Oh misterioso chinar del capo! Ancor una volta con esso esprime la sua totale ubbidienza al suo divin Padre, la intera sommissione alla sua volontà; obediens usque ad mortem, mortem autem crucis; (Philipp, II, 8) ancor una volta con esso dimostra a noi quanto brami che a Lui ci appressiamo, chiamandoci, invitandoci, attirandoci a gettarci tra le sue braccia, al suo seno, nel suo amorosissimo Cuore. Ancor una volta con esso chiama la morte; che ritrosa non osava di avvicinarsi, e la incoraggia, e la provoca a venire, e a quest’ultima chiamata la morte viene e mena il colpo fatale. Ahi! che il cielo si fa più oscuro, la terra trema, le rocce si spezzano, le tombe si aprono, le pallide ombre ne escono gemendo, il velo del tempio si squarcia in due parti, gli angeli della pace piangono amaramente, le sante donne svengono, la moltitudine tremante e pentita si picchia il petto, Giovanni dà in iscoppio di pianto, Maria rimane come impietrita! Che è accaduto? Ah, l’ultima fiamma d’amore, che doveva consumar Gesù Cristo, è divampata. Gesù è impallidito, ha chiuso gli occhi, ha versato ancor una lagrima, ha dato ancor un sospiro di carità ed è morto: Et inclinato capite tradidit spiritum. (Io. XIX, 9). Gesù adunque è morto, ed è la carità infinita del Cuor suo che l’ha ucciso! In hoc apparuit charitas Dei in nobis. (Io. iv, 9) E chi mai al mondo, o padre, o sviscerato amico, è giunto a farsi uccidere per amor del figlio o dell’amico? Se mai vi fosso stato, per attestazione medesima di Gesù, egli avrebbe dato prova del più grande amore: Maiorem dilectionem nemo habet, ut animam suam ponat quis prò amicis suis. (Io. XV, 13) Ma Gesù Cristo è morto per amore di noi, che non eravamo suoi amici, ma suoi nemici a cagione del peccato. Oh carità infinita! oh amore senza pari e senza misura! Ben avevano ragione Mosè ed Elia discorrendone con Lui sul monte Tabor di chiamarlo un amore eccessivo: Dicebant excessum eius. (S. Luc. IX, 31). E dinnanzi a tanto eccesso di carità potremo noi, o miei cari, mostrarci indifferenti, insensibili? Gli stessi feroci crocifissori del divin Nazareno al funereo spettacolo della morte di Gesù, conobbero alla fine il loro gravissimo errore, e discendendo dal monte insanguinato si percuotevano il petto ed esclamavano: Vere Filius Dei erat iste! E noi avremmo assistito a quest’Agonia e Morte acerbissima senza aver provato nell’animo un sentimento di commozione, senza aver concepito un pensiero di piangere le nostre colpe e di riformare la nostra vita? Oseremmo forse noi di credere di non aver avuto parte alla morte di Gesù? Oseremmo, stendendo la mano sopra l’affranto suo cadavere, oseremmo giurare che noi non siamo colpevoli? Ah! no che noi possiamo! Quella testa insanguinata dalle spine, quella fronte imperlata di freddo sudore, quel volto impallidito e pendente, quelle labbra violacee e stirate, quelle mani e quei piedi traforati dai chiodi, quel corpo ignudo, straziato, inanimato è l’opera nostra, è il nostro delitto. E dunque resteremo noi col cuore di sasso? Ah no! che tanta non è la nostra durezza. Eccoci, o caro Gesù ai vostri piedi, umiliati e piangenti. Vi adoriamo umilmente come nostro Dio e nostro redentore. Ammiriamo l’infinita vostra carità e misericordia, che vi ha spinto a morire per noi miserabili peccatori fra i più atroci tormenti, e vi ringraziamo senza fine di un beneficio così immenso! Ah! che queste pene e questa morte è a noi che erano dovute. E poiché voi le voleste subire in vece nostra, dateci ora altresì la grazia di pentirci dei maledetti peccati che ve l’hanno cagionate. Sì, perdono, o Gesù, perdono e pietà! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che finora non vi hanno creduto, e che per eccesso di malvagità vi hanno combattuto e bestemmiato, perdono. Perdono e pietà di coloro tra di noi, che interessati unicamente delle cose del mondo, del denaro, dell’onore e del piacere vi hanno dimenticato e messo da parte, perdono! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che sposi e genitori vi hanno disprezzato colle loro infedeltà e cogli scandali che hanno dato ai loro figli, perdono! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che nel fiore della gioventù vi hanno insultato col darsi in preda alle turpi passioni e col seguire ciecamente le più ree dottrine, perdono! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che maestri, professori e scrittori, vi hanno ferito nella pupilla degli occhi, corrompendo la povera gioventù coi loro abbietti insegnamenti e coi sarcasmi sacrileghi contro la vostra fede, perdono! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che ricchi, potenti e magistrati vi hanno conculcato colle ingiustizie, coi furti, colle oppressioni, colle persecuzioni, cogli oltraggi alla cristiana libertà, perdono! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che sacerdoti e religiosi vi hanno disonorato con una vita indegna della loro grandezza e colla loro negligenza hanno rattenuto l’impeto della vostra misericordia sopra gli uomini, perdono! Gesù, Crocifisso nostro bene, noi ci rifugiamo nel vostro Cuore Sacratissimo, e d’ora innanzi non ce ne dipartiremo più mai. Ma voi usateci pietà, dateci il perdono. Perdono e pietà! pietà e perdono!

DA S. PIETRO A PIO XII (2)

DA SAN PIETRO A PIO XII (2)

CATECHISMO DI STORIA DELLA CHIESA

[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]

CAPO II.

IL CRISTIANESIMO NEL MONDO GRECO-ROMANO

PREAMBOLO

San Paolo verso Roma

Ad Atene

Mezzo secolo dopo la nascita di Gesù, S. Paolo toccò l’Europa nel fianco della penisola Macedone. Scese poi lungo la costa frastagliata della Grecia e giunse finalmente ad Atene. – Atene, la città della civetta sapiente, di Minerva, accolse S. Paolo freddamente. Nella più famosa città della Grecia, ormai rattratta e loquace come una vecchia signora di gran nome, gli Dei pagani un giorno lontano avevano avuto le fattezze da Fidia e Prassitele. I templi, non grandi, non sfarzosi, erano miracoli di armonia e di grazia. L’Acropoli era il diadema della città, sulla collina. I retori insegnavano ai giovani la fiorita parola, i filosofi insegnavano agli uomini l’arte dei bei pensieri. Tra quei marmi lievemente ingialliti, tra quei parlatori ingegnosi e oziosi… che cosa poteva fare e dire quell’Israelita deforme, incolto, cattivo parlatore? – S. Paolo s’aggirava avvilito nella città elegante e scema di sé, quando s’imbatté in una solitaria pietra d’altare che portava questa scritta: « Al Dio Ignoto ».

Dunque anche gli Ateniesi avevano sentito che i loro Dei bellissimi non vincevano il mistero dell’universo e dell’uomo? Dunque neppure i filosofi s’appagavano della loro industria, neppure gli artisti erano quieti della loro arte? Sopra le fantasie dei poeti, sopra le arditezze dei filosofi, sopra le istituzioni dei savi, s’alzava, come sull’orlo delle cose si alza lo spazio e il cielo, un margine infinito per un Dio ignoto e presente, sconosciuto e operante, un Dio non di pietra, non d’avorio, non d’oro, ma un Dio vivente nelle anime e nei Cieli: Gesù. – S. Paolo in nome di questo Dio osò parlare anche ad Atene. Lungo le strade e attorno alle piazze correvano i portici: l’agorà era un mercato di parole e di notizie. S. Paolo cominciò a parlarvi arditamente. – Quel piccolo uomo, dalla barba ispida, gli occhi rossi e il naso lungo, quel Giudeo che parlava greco con l’accento del litorale asiatico, destò la curiosità divertita degli Ateniesi. Ne avevano visti e sentiti di tipi buffi. Ascoltarono anche lui.

— « Che cosa vorrà questo giramondo? » — si chiedevano. Ed intanto facevano circolo attorno a lui. Aspettavano che a un tratto cavasse fuori dal suo misero mantello qualche specifico da vendere. Ma l’omiciattolo invece si accalorava sempre di più in discorsi religiosi. Gli Ateniesi trovarono la cosa abbastanza allegra e… invitarono lo strano oratore nell’Areopago Paolo lassù cominciò col dire che egli era il messo del Dio Ignoto Quando cominciò a parlare della Morte e della Resurrezione…. « Ti ascolteremo un’altra volta », dissero. E se ne andarono, lasciandolo piccolo e scuro tra la solitudine dei marmi scoperti e accecanti. Non tutti però s’allontanarono da lui: una donna, Damaris, gli chiese di essere battezzata, e un areopagita, Dionigi, che cercava una religione che gli desse la vita e gli nutrisse l’anima, s’inginocchiò dinanzi all’Apostolo, e con lui l’anima greca si faceva cristiana.

A Roma

Nella primavera del 53 S. Paolo si rimise in viaggio; toccò il centro dell’Asia Minore, poi ripiegò verso Efeso, dove turbò i buoni guadagni che gli orefici della città ritraevano dal culto della Dea Artemide, chiamata la Diana degli Efesini. Dopo due anni la Chiesa cristiana, fondata da Paolo, si era così dilatata che gli argentieri della città temettero non avesse a sparire il culto della Dea Artemide. Perciò si levarono contro l’Apostolo, che dovette fuggire. Navigò verso la Palestina e risalì a Gerusalemme. Qui venne preso dai Giudei nel Tempio e fu incatenato. – Fu chiesto che fosse subito condannato a morte. S. Paolo era cittadino romano; fece valere questo suo diritto, e i cittadini romani non potevano esser ne flagellati, ne giudicati dal Sinedrio. – Fu condotto incatenato a Cesarea, presso il Procuratore Romano. Vi restò due anni. Finalmente si appellò a Cesare, chiese cioè di essere giudicato a Roma. Fu allora imbarcato con buona scorta di soldati. Era l’autunno del 59…. Dopo lunga odissea, finalmente approdava in quella che sarebbe stata, dopo Romolo e Cesare, la città di Pietro e sua, di Cristo e degli uomini salvati.

* * *

1. – GESÙ E IL MONDO GRECO-ROMANO

D. Gesù aveva trovato simpatizzanti tra persone del mondo grecoromano ?

— Sì. Ad es. il centurione romano di Cafarnao, a cui guarì il servo; l’altro centurione romano con i soldati, pur romani, che assistettero alla morte di Gesù sul Calvario e che ne discesero, dicendo: « Veramente costui era figlio di Dio » (Mt. XXVII, 54).

D. Come mai questi ed altri divennero simpatizzanti di Gesù?

— Per i contatti avuti con lui, da quando, divenuto il paese di Gesù provincia dell’Impero Romano, vennero a presidiarlo soldati e impiegati.

2. – CORNELIO IL CENTURIONE

D. Chi fu il primo pagano ad entrare ufficialmente nella Chiesa di Cristo?

— Il centurione Cornelio, che apparteneva alla legione italica di Cesarea.

D. Che uomo era ?

— Uomo pio e timorato di Dio, come tutta la famiglia, e generoso di elemosine con il popolo.

D. Come fu chiamato ad entrare nella Chiesa?

— Un giorno gli apparve un Angelo, che lo invitò ad inviare qualcuno a Joppe, l’odierna Giaffa, a chiamare Pietro e a stare agli ordini di Pietro.

D. Che avvenne intanto a Pietro?

— Una visione particolare gli fece sapere che anche: i gentili (= pagani) potevano, anzi dovevano, venir accettati nella Chiesa di Cristo, quando fossero ben disposti, perché il Signore non fa distinzione tra pagani e giudei.

D. Che fece Pietro appena arrivati i messi dei centurione?

— Si recò con altri fratelli nella fede a Cesarea, dove l’attendeva Cornelio con parenti ed amici, li istruì, nella fede, li battezzò, e lo Spirito Santo scese sopra di loro, primizie del mondo romano per la Chiesa di Cristo.

D. Avvenne altrettanto altrove?

Sì, per opera di fedeli dispersi.

D. Come si chiamarono ad Antiochia i segnaci di Cristo?

— « Cristiani ».

3. – GLI APOSTOLI FRA LE GENTI IDOLATRE

D. Chi lavorò alla conversione dei popoli?

— Ogni Apostolo, benché gli « ATTI degli APOSTOLI » parlino diffusamente solo della prima attività di Pietro e Paolo e diano solo qualche cenno di Giacomo e Giovanni. Ne tratta la Tradizione dei primi secoli.

D. Che sappiamo dalla Tradizione Cristiana dei primi secoli?

— Sappiamo che Pietro, dopo sette anni di permanenza ad Antiochia, nel 42, sotto Claudio imperatore, venne a Roma, dove fondò la prima Chiesa cristiana, che resse fino alla morte nel 67. Nel 51 fu a Gerusalemme al primo Concilio, dove quale Capo della Chiesa e Vicario di Cristo decise che i gentili ricevessero il Battesimo senza prima entrare nel giudaismo, né osservare le pratiche giudaiche.

D. Pietro ritornò a Roma?

— Sì, dopo aver predicato in Grecia e nell’Asia Minore. Da Roma anzi inviò alle Chiese dell’Asia Minore due lettere.

D. Che gli avvenne nella persecuzione di Nerone?

— Fu crocifisso con il capo in giù. Era il 29 giugno dell’anno 67. Fu Sepolto presso il circo neroniano, dove ora sorge la Basilica di S. Pietro. I recentissimi scavi, ordinati dal S. Padre Pio XII, hanno pienamente confermato la tante volte secolare tradizione, facendo ritrovare il sepolcro di Pietro.

D. E gli altri Apostoli?

— Morirono anch’essi tutti martiri, tranne Giovanni.

D. Qual è l’apostolo che emerge su tutti?

— S. Paolo, detto l’Apostolo delle genti.

4. – L’APOSTOLO DELLE GENTI

D. Che fece Paolo dopo la conversione?

— Estese il suo lavoro di evangelizzazione a quasi tutte le nazioni mediterranee, che visitò nei suoi tre viaggi apostolici.

D. Fu sempre bene accolto?

— Subì varie congiure da parte di fanatici Giudei, che lo volevano uccidere. Ma appellatosi a Cesare, venne condotto sotto scorta a Roma; dove dal suo domicilio coatto continuava a predicare. Assolto dall’imperatore, si spinse fino alle coste della Spagna. Ma nel 67, rientrato a Roma, fu decapitato il 29 giugno.

D. E la sua predicazione?

— Anche dopo la morte si può dire che continuò attraverso il Vangelo di S. Luca, che era stato suo segretario e che ne aveva registrato la predicazione, e attraverso le sue 14 lettere, che contengono interi trattati di Teologia.

5. – L’ULTIMO DEGLI APOSTOLI

D. Chi, degli Apostoli, sopravvisse a tutti gli altri?

— S. Giovanni, che visse con Maria SS.ma, poi passò ad Efeso. Novantenne, tradotto a Roma, fu condannato ad essere immerso in una caldaia di olio bollente. Uscitone illeso, fu relegato nell’isola di Patmos, dove scrisse l’Apocalisse. Amnistiato, morì ad Efeso.

D. Che cosa si chiuse con la morte di Giovanni?

— Si chiuse la divina Rivelazione. La Chiesa da quel giorno non fece che conservare il deposito della Fede lasciato dagli Apostoli.

NOTA. – PETRINISMO e PAOLINISMO

La scuola protestante e razionalista di Tubinga verso la fine del secolo XVIII si compiacque, tra le altre novità, sfruttare la divergenza di vedute tra S. Pietro e S. Paolo circa l’osservanza di alcune pratiche giudaiche, ben composta e liquidata nel primo Concilio di Gerusalemme, e trarne ad ogni costo la teoria della divergenza assoluta ed inconciliabile tra Cristianesimo di Pietro e quello di Paolo. – Amenità polemiche le quali hanno la loro smentita non solo nella critica biblica e storica e teologica, ma nella vita stessa della Chiesa e nella solennità bimillenaria della liturgia, che è il respiro del popolo cristiano.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/07/07/da-san-pietro-a-pio-xii-3/

FESTA DEL PREZIOSISSIMO SANGUE DI N. S. GESÙ CRISTO (2020)

FESTA DEL PREZIOSISSIMO SANGUE DI N. S. GESÙ CRISTO (2020)

Doppio di 1^ classe. • Paramenti rossi.

La liturgia, ammirabile riassunto della storia della Chiesa, ci ricorda ogni anno che in questo giorno fu vinta, nel 1849, l a Rivoluzione che aveva cacciato il Papa da  Roma. A perpetuare il ricordo di questo trionfo e mostrare che era dovuto ai meriti del Salvatore, Pio IX, allora rifugiato a Gaeta, istituì la festa del Preziosissimo Sangue. Essa ci ricorda tutte le circostanze in cui fu versato. Questo sangue adorabile il Cuore di Gesù lo ha fatto circolare nelle sue membra; perciò, come nella festa del Sacro Cuore, anche oggi il Vangelo ci fa assistere al colpo di lancia che trafisse il costato del divino Crocifisso e ne fece colare sangue e acqua. Circondiamo di omaggi il Sangue prezioso del nostro Redentore, che il sacerdote offre a Dio sull’altare.

Il gran Sacerdote, attraversando il Tempio, entrava una volta all’anno nel Santo dei Santi col sangue delle incoscienti e forzate vittime, immolate sull’altare degli olocausti. Questo sangue dava soltanto una purezza legale ed esteriore. Il Cristo, è salito fino al vero Santo dei Santi, che è il cielo ed ha presentato al Padre il suo sangue, spontaneamente e liberamente versato sulla croce. Gesù  è dunque il mediatore del Nuovo Testamento, e il suo sangue espia i peccati dapprima degli Israeliti, e poi di tutti gli uomini.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen

Introitus

Apoc V, 9-10
Redemísti nos, Dómine, in sánguine tuo, ex omni tribu et lingua et pópulo et natióne: et fecísti nos Deo nostro regnum.

[Ci hai redento, Signore, col tuo sangue, da ogni tribù e lingua e popolo e nazione: hai fatto di noi il regno per il nostro Dio.]
Ps LXXXVIII: 2

Misericórdias Dómini in ætérnum cantábo: in generatiónem et generatiónem annuntiábo veritátem tuam in ore meo.

[L’amore del Signore per sempre io canterò con la mia bocca: la tua fedeltà io voglio mostrare di generazione in generazione.]
Redemísti nos, Dómine, in sánguine tuo, ex omni tribu et lingua et pópulo et natióne: et fecísti nos Deo nostro regnum.

[Ci hai redento, Signore, col tuo sangue, da ogni tribù e lingua e popolo e nazione: hai fatto di noi il regno per il nostro Dio.

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui unigénitum Fílium tuum mundi Redemptórem constituísti, ac ejus Sánguine placári voluísti: concéde, quǽsumus, salútis nostræ prétium sollémni cultu ita venerári, atque a præséntis vitæ malis ejus virtúte deféndi in terris; ut fructu perpétuo lætémur in cœlis.

[O Dio onnipotente ed eterno, che hai costituito redentore del mondo il tuo unico Figlio, e hai voluto essere placato dal suo sangue, concedi a noi che veneriamo con solenne culto il prezzo della nostra salvezza, di essere liberati per la sua potenza dai mali della vita presente, per godere in cielo del suo premio eterno.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebrǽos.
Hebr IX: 11-15
Fratres: Christus assístens Póntifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum et cinis vítulæ aspérsus inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti? Et ídeo novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem earum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro.

(Fratelli, quando Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraversando una tenda più grande e più perfetta, che non è opera d’uomo – cioè non di questo mondo creato – è entrato una volta per sempre nel santuario: non con il sangue di capri e di vitelli. ma con il proprio sangue, avendoci acquistato una redenzione eterna. Se infatti il sangue di capri e tori, e le ceneri di una giovenca, sparse sopra coloro che sono immondi, li santifica, procurando loro una purificazione della carne; quanto più il sangue di Cristo, che per mezzo di Spirito Santo si offrì senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire al Dio vivente? Ed è per questo che egli è mediatore di una nuova alleanza: affinché, essendo intervenuta la sua morte a riscatto delle trasgressioni commesse sotto l’antica alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna, oggetto della promessa, in Cristo Gesù nostro Signore.]

Graduale

1 Joann 5:6; 5:7-8
Hic est, qui venit per aquam et sánguinem, Jesus Christus: non in aqua solum, sed in aqua et sánguine.

[Questo è colui che è venuto con acqua e con sangue: Cristo Gesù; non con acqua soltanto, ma con acqua e con sangue.]

1 Joann V: 9
V. Tres sunt, qui testimónium dant in cœlo: Pater, Verbum et Spíritus Sanctus; et hi tres unum sunt. Et tres sunt, qui testimónium dant in terra: Spíritus, aqua et sanguis: et hi tres unum sunt. Allelúja, allelúja.

[V. In cielo, tre sono i testimoni: il Padre, il Verbo, lo Spirito Santo; e i tre sono uno. In terra, tre sono i testimoni: lo Spirito, l’acqua, il sangue; e i tre sono uno. Alleluia, alleluia]

V. Si testimónium hóminum accípimus, testimónium Dei majus est. Allelúja

[V. Se accettiamo i testimoni umani, Dio è testimonio più grande. Alleluia.

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann XIX: 30-35
In illo témpore: Cum accepísset Jesus acétum, dixit: Consummátum est. Et inclináto cápite trádidit spíritum. Judæi ergo – quóniam Parascéve erat -, ut non remanérent in cruce córpora sábbato – erat enim magnus dies ille sábbati -, rogavérunt Pilátum, ut frangeréntur eórum crura et tolleréntur. Venérunt ergo mílites: et primi quidem fregérunt crura et altérius, qui crucifíxus est cum eo. Ad Jesum autem cum venissent, ut vidérunt eum jam mórtuum, non fregérunt ejus crura, sed unus mílitum láncea latus ejus apéruit, et contínuo exívit sanguis et aqua. Et qui vidit, testimónium perhíbuit; et verum est testimónium ejus.

[In quel tempo, quand’ebbe preso l’aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto!». Poi, chinato il capo, rese lo spirito. Allora i Giudei, essendo la Parascève, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era, infatti, un gran giorno quel sabato – chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e portati via. Andarono, dunque, i soldati e spezzarono le gambe al primo, e anche all’altro che era stato crocifisso con lui. Quando vennero a Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe: ma uno dei soldati gli trafisse con la lancia il costato, e subito ne uscì sangue ed acqua. Colui che ha visto ne rende testimonianza, e la sua testimonianza è veritiera.]

OMELIA

[A. Rey: Il preziosissimo Sangue – Pia Unione del Prez. Sangue, Roma, 1949]

Discorso I

Motivi e modi per fare con frutto il Mese del Preziosissimo Sangue.

Gratiam fideiussionis ne obliviscaris (Eccles. XXIX, 20)

Nell’anno 68 dell’Era Volgare, sotto il regno di Galba, Giovanni l’Evangelista – è relegato a Patmos, isoletta rocciosa in faccia all’Asia Minore, all’ovest di Mileto (Act. XX, 15)- una delle Sporadi, ov’erano concentrati, pei duri lavori nelle cave di marmo, i condannati di un certo riguardo. Qui egli ha la spettacolare visione (Apoc. V, 1 segg.) apocalittica « di eventi futuri relativi allo sviluppo ed alla consumazione del Regno di Dio sulla Terra – Vede nella destra di Dio, che siede sul trono, un libro misterioso scritto dentro e fuori, serrato da sette sigilli. Un angelo grida:

– Chi è degno di aprire il libro e di romperne i sigilli? – Ma né in cielo, né in terra, né sotto terra si trovò chi potesse aprirlo. Giovanni, dal cuore reso più tenero al contatto di quello del Maestro, rompe in pianto. Uno dei Seniori, adoranti la divina Maestà, gli si appressa, gli dice: – Non piangere! Ecco il leone della tribù di Giuda, la radice di David ha vinto. A lui è dato il potere di aprire il libro, di scioglierne i sigilli! – E su gli occhi velati da lagrime fulge la incantevole scena: In mezzo al trono, a quattro animali ed a ventiquattro Seniori un Agnello come scannato, balza d’improvviso, pieno di vitalità nova; si avanza dinanzi al trono dell’Onnipotente e riceve da la sua destra il libro misterioso. E non l’ha pur aperto che gli animali ed i Seniori gli si prostrano di fronte, suonano le cetre, offrono coppe colme di profumati aromi. Cantano il cantico nuovo: – Degno tu sei, o Signore, di ricevere il libro e di aprirne i sigilli; poiché sei stato ucciso, e col tuo Sangue hai ricomprati a Dio i popoli, le tribù, le lingue, le nazioni, e ci hai fatti pel nostro Dio re e sacerdoti. Regneremo! – Migliaia e migliaia di spiriti luminosi, roteanti quali astri nel cielo, fanno eco: – E’ degno l’Agnello, che fu sacrificato, di ricevere virtù, divinità, sapienza, fortezza, onore, gloria, benedizione! All’acclamazione angelica rispondono cielo, terra, mare; perfino l’abisso: – A Lui che siede sul trono ed all’Agnello la benedizione, l’onore e la potestà, pei secoli dei secoli! – E la circulata melodia si sigilla in un Amen festoso che fa sussultare il cielo, trasalire la terra. – La visione di Patmos è pur dinanzi ai nostri occhi avidi di luce, fra tanta caligine di male, in questo radioso mese di giugno (luglio – ndr.), dedicato al Redentore. Ci si presenta Egli ancora, dopo venti secoli, col misterioso libro nel quale è scritta, a caratteri purpurei, la storia umana, contesta di Sangue divino, la infinita carità di un Dio, per quella svenato, che, con valido clamore, (Hebr. V, 7) protesta una volta di più l’abissale profondità della sua misericordia: in caritate perpetua dilexi te, ideo attraxi te, miserans tui (Ger. XXXI, 3)! – Il Primogenito dei molti fratelli (Rom. VIII, 29) ci invita a meditare il valore, gli effetti, i benefici del suo Sangue per quem salvati et liberati Sumus (Gal. VI, 14). C’invita per mezzo di un santo moderno, che del culto del Sangue divino fu promotore ardente, del gran dono di Gesù fu adoratore inclito, e del Calice di benedizione s’inebriò pienamente: il Beato Gaspare Del Bufalo. Ci richiama egli ai motivi onde far con frutto il Mese che chiama grande (lett. Vol. 8, p. 487); al « modo onde praticarlo » con frutto, gratiam fidejussionis ne obliviscaris; dedit enim prò te animam suam! Non dimenticar l’alta grazia della redenzione. Gesù per te diede l’anima sua ( Predic. Del fondat., p. 441-442)!

I. – Motivi onde far con frutto il Mese

1. Dare un culto di compenso al Sangue divino. Ecco il motivo basilare, che fulge dell’ineffabile amore di Gesù Cristo! Nello sfondo di luce vivissima accesa dai corruschi bagliori del ministro maggior della natura (Par. X, 28), fra i cori esultanti delle creature balzate al fiat (Gen. I) della onnipotenza, l’uomo, il re del creato, con parole, organate dal cuore gonfio di amor purissimo, canta la gloria di Colui (Par. I, 1) che si è benignato di crearlo a sua immagine e somiglianza (Gen. I, 26). – Gli è accanto, nella laude amorosa, la creatura ch’è carne della sua carne, osso delle sue ossa, rifrazione incantevole della suprema bellezza, Eva (Ge. II, 23). Ad essi Dio ha sorriso; e quel sorriso ha colorite le labbra di arcana letizia. Ad essi Dio ha parlato; e le loro orecchie son colpite dal canto che gli Angeli sciolgono nell’empireo. Essi Dio ha guardato con occhio di compiacenza paterna; l’iride s’è avvivata della diafana luce dei cieli. Dio ha toccato quelle carni; e le carni hanno strappato alla rosa il grazioso colore. Dio ha fatto toccare dalle sue prime creature umane i saporosi frutti degli alberi; ed essi se ne sono cibati con giubilo, che assaporavano l’amore stesso di Dio rinserrato nel grembo della terra feconda. –  Vita intera di amore e di pace è la loro. Sono stati unti del crisma dell’immortalità! Vita di luce intellettuale; che della proteiforme natura conosce i misteri, uno ad uno. Hanno avuto il dono della scienza! – Vita di armonia fra corpo ed anima, che la rende ineffabile, amabile: l’integrità li fa per poco inferiori agli angeli ( Ps. VIII, 6)! Ma sono figli di Dio sopra tutto: vos dii estis et filli Excelsi (Ps. LXXXI).

Egli solo sarà per loro, fatti figli ed eredi di Dio (Rom. VIII, 17), la merces magna nimis (Gen XV, 1)). Sono perciò i Sovrani della natura. Poggiano ipiedi su una terra senza insidie, ed hanno la fronte che sfiora l’angelica sostanza! Tanta grandezza è legata però ad una prova: prova di fede al Padre, al Creatore, al Signore: prova di amore. Dinanzi a un albero deve essere vagliata quella umana libertà – di cui più dell’uomo è geloso Dio stesso – con l’obbedienza volontaria a Lui, col riconoscimento dei suoi diritti su tutte le creature. Solo a questo patto rimarrà quella gloriosa grandezza! Purtroppo l’uomo – sedotto dal superbire del maledetto che osò alzar le ciglia contro l’Onnipotente – attratto dalla lusinga di più altezza, quella stessa di Dio, coglie il frutto vietato, preferendo alla divina volontà il suo libito, e, col frutto, strappa la sua condanna: eterna morte! L’incanto è rotto! La mente offuscata, il cuore avvilito, la volontà infiacchita. I sensi son colpiti: per gli occhi la tenebra, per gli orecchi il pianto, per le labbra l’assenzio, per le nari il fetore, per la carne il dolore, la malattia! Dilegua la scienza, avanza la morte, il corpo si ribella all’anima,la natura al suo re. E l’uomo che volontariamente s’è avulso da Dio – vita eterna – è condannato ad eterna dannazione, e con lui l’umanità intera ch’è in lui virtualmente racchiusa come nel germe l’albero. L’uomo è cacciato dal suo paradiso, gettato in una terra che produrrà triboli e spine (Gen. III, 18). Il cielo s’abbuia del lungo ed amaro pianto di questo infelice che non nacque e che dannando sé, dannò tutta la sua prole! Ma su nel cielo si leva un valido clamore (Hebr. V, 7). Il Figlio di Dio, il Verbo eterno si volge al Padre: – Scendo io a salvarlo questo infelice che non vuol salvarsi. Ecce ego, mitte me (Isa. VII, 8)! Anche se volesse versare il suo sangue per l’immolazione completa a te, o Padre, l’uomo non potrebbe riparare l’offesa, infinita perché lanciata contro di te, Infinito! Io son tuo Figlio, come Te Infinito. Posso riparare l’infinito oltraggio a te fatto dall’uomo. E poiché il delitto fu compito nella umana natura, scendo ad assumerla, perché in essa si operi la riparazione, si compia la redenzione! – Il Padre accetta. Il Verbo exauditus… prò sua reverentia, (Hebr. V, 7) freme d’amore, pago alfine: sacrificium et oblationes noluisti, corpus autem aptasti mihi (sacrificio ed oblazioni non hai voluto, ma mi hai fatto un corpo – Hebr. X, 5)! E, nella pienezza dei tempi, missus est ab arce Patris – Pange lingua) il Verbo, nel quale Egli pone le sue compiacenze (S. Matt. III, 17)); s’incarna nel seno purissimo della Eva novella, destinata a mutarne l’amarezza del nome (Ave maris Stella); e, dopo anni di silenzio e di azione riparatrice, sale l’altare per l’olocausto; col suo sacrificio placa Iddio, nelle cui mani pone il Sangue preziosissimo, prezzo delle anime riscattate; e lo facolare sull’umana natura per mondarla, santificarla, ridonarla all’amplesso del Padre (Hebr. XII, 7).Quale amore! Quanto amore! Amore nel Padre che manda il Figlio: sic Deus dilexit mundum, ut Unigenìtum suum daret (Dio ha tanto  amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito – Joan. III; 16). Amore nel Figlio che si sostituisce al peccatore, pagando per lui l’insolvibile cambiale: servus erat morte dignus, rex luit pœnam optimus (In fest. Pr. Sang. Hymn. ad Mat. Ira justa). Gratiam fideiussionis ne obliviscaris (Eccl. XXIX; 20)! Non dimenticare, o uomo, che Gesù si è fatto per te ostaggio; ha sciolto dai tuoi polsi le catene della servitù per legarle ai suoi; ha sostituito te, impossibilitato a mantenere l’impegno con Dio, con la sua adorabile Persona, capace di sorreggerlo, col suo amore fatto obbediente fino alla morte umiliante della Croce! Dedit prò te animam suam (ivi)! Ha dato per te la sua anima, versando il suo Sangue! Si è fatto mediatore fra te e il Padre per la riconciliazione (1 Thim. II; 5 — Ebr. VIII; 6 — 9; 15 — 12). E tu?… Come l’hai tu compensato ? – L’amore non è riamato! ecco l’alta accusa che ti vien da quel legno sul quale salus mundi pependit (Fer. VI in Parasc.: Ecce lignum Crucis etc.)! Da quel labbro che si lamenta della tua voluta ignoranza, della tua colpevole ed inspiegabile indifferenza, della tua strana apatia. Non v’è per te discolpa alcuna. Né puoi attenderti che la Verità, infissa su quel patibolo infame pel tuo peccato, si sollevi con la voce di un isperato perdono, di una longanime attenuazione del tuo misfatto, come fece sul Calvario per i crocifissori: Pater, dimitte illis, non enim, sciunt quid faciunt (S. Lc. XXIII, 34)! Se non fosse Egli venuto, se non ti avesse parlato, se non avesse pagato di persona il fio del tuo peccato, avresti avuto ragione (S. Joan. XV; 22). Ma tu sai chi si è immolato? Dio! Tu sai perché si è immolato? per salvarti! Sai a qual prezzo ti ha salvato? col suo Sangue! Sai qual sia stato il movente di questa generosità? l’amore! Sai con quale intensità ti ha amato? Per te, Egli, Innocente e Santo, si è fatto peccatore (Ebr. VII; 26 – Sap. IV; 10). Sulle sue spalle ha preso l’ignobile fardello delle tue malvagità: svelere nostra ìpse tuit (Isai. LIII, 4- S. Matt. VIII, 17) sulle spalle del Figlio di Dio. apparso peccatore agli occhi del Padre, si è scaricato il furore dell’ira divina: oh scelus populi mei pentissi eum (Jsaj. LIII; 8). Per questa sostituzione e con l’effusione di tutto il suo Sangue ti ha sanato: cuius livore sanati sumus (ibi, LIII; 5)! L’ignoranza di ciò è un delitto! Hai tu un cuore ? Freme ancora di fronte agli attentati contro la giustizia, contro l’amore? L’ingiustizia provoca il tuo sdegno. L’amore conculcato ti fa ribollire il sangue fino all’ira, all’indignazione. Puoi tu rimanere indifferente di fronte ad un’ingiustizia così palese, qual è quella tua stessa, che osa rimanere fredda ed insensibile dinanzi al sacrificio fatto per te dal Cristo, scritto sulle tue carni e sulla tua anima con le arrovellanti stille del suo Sangue? L’indifferenza ti fa ingiusto anche con te, pensa!… – Hai tu un cuore? Lo credo; dal momento che ti ferve nel petto per il grido d’infelicità comune che sale dalle turbo di penanti, colpite dalla sventura, dal dolore. Apri la tua mano al poverello che ti chiede un pane; le braccia a chi, relitto da tutti, domanda rifugio sul tuo petto; ti affianchi all’estraneo che ti vuol guida nel buio tormentoso del suo spirito. E neghi il tuo amore a chi non ti è estraneo ma Redentore, a chi non ti cerca conforto ma solo corrispondenza in nome di un amore infinito, che a posta della tua libertà, ha messo il suo Sangue; a chi non ti chiede pane – te ne dà ogni giorno nella sua regale generosità! – ma un palpito che dica la tua gratitudine!

La tua indifferenza è infamia!

Sei stato redento da Lui, col Sangue, pensa! Senza il suo provvidenziale, volontario intervento, saresti rimasto fra le tenebre e le ombre di morte (S. Luc. I, 79), sempre. Ti ha strappato dal lago fondo del male (Ps. XXIX; 4), della pena; ti ha riportato al Padre; ti ha riposto sul piedistallo di gloria; ti ha voluto fratello, partecipe dei suoi trionfi. Ed osi rimanere nel gelo, mentre dovresti ardere come ferro divenuto incandescente a contatto del fuoco?

La tua apatia è vergogna!

E giusto il suo lamento: Quæ utilitas in sanguine meo? (Ps. XXIX; 10). Quid ultra debui facere vinæ meæ et non feci (Cosa avrei duvuto far di più alla mia vigna, che non ho fatto? – Fer. VI in Parasc. Improperia)? Ma è ingiusta la tua condotta! Nemmen con Giuda puoi e sai dire: tradidi sanguinem Justum (ho tradito un sangue innocente – S. Mt. XXVII; 4).

2) Di qui il giusto richiamo del Beato nell’altro motivo onde dare un compenso al Redentore per te dissanguato: concepire un odio grande alla colpa! La ragione intima di questa ignoranza, indifferenza, apatia è sempre nella apodittica frase del Profeta: non est qui recogitet corde (Jsaj. LVII; 1.)! Chi può comprendere il delitto di lesa Maestà divina? Delicta quis intelligit (Ps. XVIII; 13)? Chi potrà conoscere appieno l’entità di questa manomissione dei divini diritti? Chi lo sprezzo del divino riscatto? Fu, certo, nostra rovina il peccato: per unum hominem peccatum in hunc mundum intravit, et per peccatum mors (il peccato è entrato nel mondo a causa di un uomo, e attraverso il peccato, la morte –  Rom. V, 12 ). E ne sentiamo il morso proprio nella distruzione del nostro essere corporeo, e ne proviamo ripugnanza per egoismo. Ma si pensa mai all’espressione di Paolo, che non riguarda solo noi, bensì lo stesso Figlio di Dio, contro cui si appuntano gli strali della nostra abbietta volontà, refrattaria anche al più sano degli egoismi: la salvezza dell’anima: rursum crucifìgentes Filium Dei (Hebr. VI, 6). Indulgere al peccato vuol dire render vana l’opera della redenzione col Sangue, calpestare quel divin Sangue! Significa ostacolare al Redentore il possesso delle anime, ricomprate col Sangue sparso con tanto fuoco d’amore (S. Cat. da Siena, passim nelle Lettere), mettere in antinomia Dio ed uomo, Creatore e creatura, annullando i frutti della divina liberazione dell’uomo! Ristabilire il chaos magnum (S. Lc. XVI; 26.) superato dal Cristo con la sua passione che ha pacificato nella sua Croce terra e cielo (Col. 1; 20)

Odiare il peccato. Ecco l’imperativo categorico che salva l’uomo e fa splendere nella sua vera luce il Sangue divino: fuge a facie peccati tanquam a facie colubri (Eccli. XXI, 2) perché  possa dirsi di noi: ipsi vicerunt (draconem) propter Sanguinem Agni (Questi vinsero il dragone con il sangue dell’Agnello – Apoc. XII, 11) Nella legge di Dio,  legge d’amore, niun odio è permesso. – Ogni odio esclude dal Regno di Dio! Un odio solo è permesso, odio logico e necessario: odio al peccato, per non esser nemici di Dio, per esser fratelli di Cristo, per partecipare alla sua Passione, e, di conseguenza, alla sua gloria!

3.) Quest’odio logico e legittimo, è indispensabile, per addivenir « zelanti » anche del bene prossimo.

E l’ultimo motivo che il Beato ci porge per far con frutto il Mese dedicato al prezzo di nostra redenzione, e ci si mostra in due aspetti caratteristici: siam debitori ai nostri fratelli; dobbiamo perciò stesso essere apostoli!

Debitori ai Fratelli. — Nati da uno stesso palpito infinito, plasmati dalla stessa mano, fatti tutti a sembianza d’un solo, siamo pure tutti figli di un solo riscatto. Se essi si son distaccati dal Padre, se han disertata la casa natale, perché non dobbiamo andare loro incontro, per riportarli alla grazia profluente del Sangue di Cristo? Se una solidarietà esiste che ci lega nella gioia e nel dolore, che ci fa lietamente dividere un pane benedetto dal sudore, essa non deve limitarsi ai vincoli del sangue, restringersi nella cerchia del domestico focolare, ma dilatarsi, spandersi, estendersi a quanti ci sono fratelli di fede, per aiutarli a che divengano tamquam civitas firma (Prov. XVIII, 19). Ricordiamoci che Cristo disse a noi oltre che a Pietro: Et tu, aliquando conversus, confirma fratres tuos (S. Luc. XXII, 32)! Di essi dobbiamo curarci, perché, come noi, redenti dallo stesso Sangue. L’opera nostra non deve limitarsi a non dar cattivo esempio, non fuorviar le anime con lo scandalo, appunto per non frustare l’opera della redenzione; ma deve spingersi fino a strapparlo da satana, per farlo tuffare, a rigenerazione, nel Sangue prezioso. Se il Cristo per i fratelli peccatori diede la vita, noi abbiamo il categorico dovere di salvarli. L’amore cristiano non si limita alla parola, alla lingua: non diligàmus verbo (non amiamo a parole…  – 1 Giov. III, 18), ma si estende all’opera, alla verità: sed opere et verìtate (ma con l’opera e verità – ibi). San Giovanni è esplicito al riguardo: In hoc cognovimus caritatem Dei, quoniam ille animata suam prò nobis posuit, et nos débèmus prò frutribus animas ponere (Da questo abbiamo conosciuto l’amore di Dio: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. – 1 Giov. III, 16). In quel Sangue c’è un patto di amore che non deve rompersi. Ci sarebbe da rievocare, a giusto sdegno, il monito del poeta: Siam fratelli, siam stretti ad un patto – maledetto colui che l’infrange (Manzoni).

Siamo Apostoli. – Non disse Cristo ai soli Apostoli: – Andate, predicate, diffondete ovunque il Regno di Dio! – A tutti impose l’obbligo perentorio di coadiuvarlo in questa gigantesca opera di ricostruzione morale del mondo, quando invitò a rivolgere al Padre la significativa preghiera: Adveniat regnum tuum (s. Matt. VI, 10)! Debitori ai fratelli di questo verace fondamento (Par. XXIX, 111) dobbiamo ricordare il monito del Maestro: luceat lux vestra coram hominibus, ut videant opera vestra bona et glorificent Patrem vestrum qui in cœlis est (Matth. V, 16 _ 2 Petr. II, 12)! Il nostro apostolato non deve limitarsi alla preghiera, che pure è una gran leva, ma estendersi all’opera, al buon esempio perché i peccatori godano i frutti della redenzione e non sia reso inutile il sacrificio di un Dio. Avrebbe ben ragione di lamentarsi Egli col grido esasperante dell’aspettativa delusa da una ingratitudine senza fine: Quæ utilitas in sanguine meo (Ps. XXIX,10)? – Come intese nella sua vasta portata e nella sua illimitata estensione questo dovere l’umile ma ardente apostola del Sangue la figlia del lanaio di Fontebranda, Caterina da Siena, quando vedendo in ogni anima riflesso il purpureo colore di quel Sangue, ogni anima cercò di avvicinare, per tuffarla ed annegarla in quel mare di infinita misericordia! All’opera dunque, sulle orme della grande Santa, per dare al Sangue divino quel culto di compenso che è la risposta più degna all’immensurabile amore di Dio per le sue creature!

II. – Modo onde praticarlo

In qual modo dobbiamo praticare il pio esercizio del Mese, sacro al ricordo della Redenzione? Su l’altare troneggia, rosseggiante di Sangue, il Dio Crocifisso. Lumi e fiori lo circondano. Occhi ed anime debbono protendersi a Lui, meno indegne certo dei lumi e dei fiori!

1.) Proporsi sott’occhi il Libro della Croce di Gesù Cristo, afferma il Beato Gaspare. Fulget Crucis mysterium (In Vexilla Regis, Vesp. temp. Pasc.)!

La Croce, su cui lampeggia Cristo (Par. XIV, 104) è il libro santo da leggere. Fu scandalo per i Giudei quel condannato all’infame patibolo. Lo dissero maledetto, poiché stava scritto: maledictus qui pendet in ligno (Deut. XXI; 23)! Stoltezza parve ai gentili quella ignobile morte di un essere straordinario che sì nuova ed alta dottrina aveva consegnata all’umanità (1 Cor. I, 23)! – I Giudei, nella loro errata concezione di redenzione, e ligi al programma di un esagerato nazionalismo, dimenticarono che quell’albero di morte, soppiantava quello dell’Eden, il solo letale! Scordarono che questo Adam novus (1 Cor. XV, 45) strappava il chirografo della umana condanna, scrivendo sulle sue stesse carni, col sangue, il decreto della molt’anni lagrimata pace: delens quod adversus nos erat chirographum decreti  (annullando il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli – Col. II, 14). Non seppero guardare nel Re dei Giudei il Salvatore del mondo che pacificava, con la Croce sua, terra e cielo: pacificans per sanguinem crucis ejus sive quæ in cœlis sive quæ in terris sunt (Colos. 1; 20). – Ai Romani parve stoltezza il morire del Cristo, il morire da schiavo! A noi no. Vediamo sulla croce la giustizia e la bontà di Dio. È un Dio che si offre al Padre per noi: oblatus est (Jsaj. LIII; 7); per riparare l’ingiustizia dall’uomo fatta a Dio. È un Dio che per noi, condannati a. morte eterna, offre in espiazione la sua vita col Sangue per riportarci all’amore divino: cuius livore sanati sumus (Ps. CIII, 5) E se il Cristo exauditus est prò sua reverentia (fu esaudito per la sua pietà – Hebr. V, 7), non dobbiamo dimenticare che Egli ha detto al Padre: respice in faciem Christi tui (mira la faccia del tuo Cristo – Ps. LXXXIII, 10).Nella sua umanità senza macchia c’era la nostra umanità contaminata; ma nella sua Persona divina c’era l’immagine e somiglianza di Dio: imago bonitatis illius (Sap. 7, 26). E con la forza del divino amore il Verbo sana, proprio sulla croce, la carne umana, solleva la umana natura fino al trono di Dio, rifacendo gli uomini suoi figli e suoi eredi: filii Dei, cohæredes autem Christi (Rom. VIII, 17)

2) Fulget Crucis mysterium!

Questo prezioso libro, la Croce, ha per noi tre significative parole: conoscere, amare, imitare il Crocifisso!

Conoscere! – Ignoti nulla cupido, dissero gli antichi. Per amare bisogna conoscere; e noi lo abbiamo conosciuto il nostro Dio. Apparve terribile come giustiziere nell’Antico Patto; tangit montes et Fumigant (Ps. CIII, 32) e la sua parola sul Sinai o presso il vitello d’oro, sorge dal fuoco come sull’Oreb e domina il fragore delle folgori e dei tuoni che atterrisce. Ma nel patto novello noi lo abbiamo visto come lo vedeva Giovanni: agnus, agnello (Joan I; 29), come lo aveva veduto il profeta del suo dolore tamquam agnus ad occisionem ductus (Is. LVII, 7) agnello mansueto e pio. Egli ci si è accostato, si è fatto simile a noi, habitu inventus ut homo (Fil. II, 7); ci ha parlato con tenerezza: in mundo conversatus); ha toccate le membra malate per mondarle dalla lebbra, ha sfiorate le anime bacate per riportarle alla grazia: pertransiit benefaciendo et sanando omnes oppressos a diabulo  (il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo – Act. X, 38)! Su noi ha versato, con l’onda del suo amore, il fiume regale del suo Sangue; questo Sangue ha racchiuso nei Sacramenti per la perenne vitalità dell’anima; l’ha spremuto nel calice porgendolo generosamente a bevanda di eterna resurrezione: Accipite et bibite (S. Matt. XXVI, 26)!  Esige dunque che lo amiamo. Ad amore risponda l’amore e sia, il nostro, per il suo amore sovra modo e sovra misura, (S. Bonav.)! Qual carità maggiore di quella dell’amico che s’immola per l’amico? majorem caritatem nemo habet ut ponat quis animam suam prò amicis suis(Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici – S. Giov. XV, 13). Egli si è immolato per i nemici, in amore: Amor sacerdos immolat (Ad regias Agni, etc.)! I nemici ha chiamato non servi ma amici: jam non dicam vos servos vos dixi amicos (S. Joan. XV, 15). Le sue piaghe, fiammanti come rubini, cantano il poema dell’amore; Christi vulnera, immensi amoris pignora, quibus perennes rivuli – manant rubentis sanguinis (Imn. Salvete etc,). La nostra risposta a lui che ci chiede come a Pietro: Diligis me (Mi ami, tu? – S. Giov. XXI, 16)? la sola possibile dopo averlo conosciuto,è: Domine, tu scis quia amo te (Signore, Tu lo sai che ti amo – ivi, v. 17)! E chi ci separerà piùdalla carità del Cristo: quis nos separabit a caritate Christi (Rom. VIII, 35)? Quel Sangue ha cementata la nostra amicizia con Lui. Né la morte, néla vita, né la spada, né le pene varranno a romperla. Ma l’Apostolo ci avverte che per non infrangerla è necessario vivere la vita del Crocifisso, come l’attestato più grande del nostro amore: omnes qui volunt pie vivere carnem suam crucifixerunt cum vitiis et concupiscentiìs suis(Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. – Gal V, 24). A quella carne crocifissa, strappata dai flagelli, tormentata dalle spine, coperta di piaghe a pianta pedis usque ad verticem capiti (dalla pianta dei piedi fino al vertice del capo – Jsaj. LIII, 8)) deve combaciare la nostra carne macerata dalla penitenza, bagnata dal pianto, dalla contrizione: castigo corpus meum (1 Cor. XIX, 27)! I lividori di quel corpo immacolato son frutto dei nostri vizi, delle nostre concupiscenze. Per questi il Padre lo ha percosso: propter scelus populi mei percussi eum (percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti – Jsaj. LIII, 4)! All’opera dunque, per estirpare le scelleratezze dell’anima, cagione di tanto martirio al Figlio di Dio, al nostro fratello primogenito, Gesù, che per noi lo subì: Vere languores nostros ipse tulit, et dolores nostros ipse portavit(Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori – Jsaj. LIII; 4). L’invito è anche dell’Apostolo: Empii estis pretio magno. Glorificate et portate Deum in corpore vestro (Siamo stati comprati a gran prezzo. Glorificate e portate Dio nel vostro corpo- 1 Cor. VI, 20)! Come Paolo predichiamo Cristo, Cristo Crocifisso, ma nel nostro corpo, perché si plachi l’ira divina, scenda col Sangue la virtù risanatrice, sia mitigata la lunga tortura del Cristo. Ed ascoltiamo l’invito del nostro santo: Adeamus ergo cum fiducia ad thronum gratiæ! (Andiamo dunque con fiducia al trono di grazia).  Andiamo a Lui in questo Mese, per mondarci nel suo Sangue, succhiarne l’amorosa onda che trasforma; unirci al suo sacrificio; ed otterremo misericordia: ut misericordiam consequamur (Hebr. IV, 16)! E leviamo a Lui, devoti e grati, amorosamente, la Lauda che gli rivolge la Sposa purpurata del suo Sangue benedetto:

Pange, lingua, gloriosi

Corporis mysterium

Sanguinisque pretiosi

quem in mundi prætium

fructus ventris generosi

Rex effudit gentium!

(Pange lingua, S. Thom.)

ESEMPIO

Nel 1296 dinanzi alla Chiesa di San Vito, patrono di Fiume, Pietro Longarich giocava a carte coi compagni del male. Perdeva in modo insolito, e già negli occhi infiammati brillava, sinistra, l’ira caina. Contrariato dalla fortuna, ruppe in grida oscene ed esecrabili bestemmie, senza curarsi dei passanti che, inorriditi, fuggivano lontano, quasi timorosi che la divina giustizia stesse per scaricarsi su quell’empio. Poi prende da terra un sasso e, con rabbia satanica, lo lancia furiosamente contro un crocifisso di legno ch’era sulla facciata del tempio, colpendolo al lato sinistro del petto. La mano sacrilega è ancor tesa in alto, quasi a maggiore sfregio, mentre il costato del Cristo colpito si squarcia, come fosse viva carne, e dalla ferita fiotta vivo sangue. La terra improvvisamente si apre, ingoia il perverso, di cui lascia al di fuori soltanto l’empia mano, testimonio dell’esecrando delitto! – Il Governatore di Fiume, Barone Rauber, fece bruciar pubblicamente lo empio arto; ed a ricordo del fatto appese ai piedi del simulacro una mano di bronzo. Il sasso col quale fu colpito, ancor oggi si vede, aderente al lato sinistro del Crocifisso e reca al di sotto la leggenda: Hoc lapidis ictu percussus fuit Crucìfixus. La terra bagnata di quel Sangue prodigioso fu portata a Pola, ove. da quel tempo è fatta segno di straordinaria venerazione. Il racconto ci ha fatto rabbrividire, fratelli! Eppur quel sasso lo abbiamo scagliato ancor noi al Crocifisso ogni volta che ci siamo ribellati a Lui con la colpa! – Ripariamo l’insulto sacrilego. Chiediamo perdono a Lui: sorgiamo dalla nostra indifferenza ed apatia; preghiamolo a concederci di soddisfare con l’amore più puro e più grande! E quel sangue cadrà su noi a benedizione!

Preghiera

O Sangue divino, versato per la nostra salute, ci inginocchiamo a te innanzi per adorarti, benedirti, amarti. Per offrirti un culto di compenso, in questo Mese odieremo la colpa e ripareremo il male compiuto col divenire zelanti della salute del prossimo. Ci stringiamo alla Croce con l’amore di Maria Maddalena, in penitenza: benediciamo la tua sovrana bontà! Fa, o Gesù Redentore, che nel tuo sacrificio e nel Tuo Sangue conosciamo sempre più il tuo amore per risponderti con l’amore il più tenero. Concedici di seguirti fin sulla Croce, ove crocifiggeremo la nostra carne con i suoi vizi e le sue concupiscenze. Donaci, col perdono, il tuo Sangue, perché di esso aspersi, possiamo essere forti nella lotta, ed essere accolti, trionfatori per Te, nel Regno che col tuo martirio ci hai acquistato. E canteremo coi quattro animali, coi ventiquattro Seniori, con le schiere degli Angeli e dei Santi l’inno che udiva Giovanni sul Cielo: A Lui che siede sul trono, ed all’Agnello sia benedizione, onore, potestà, per secoli dei secoli. Amen.

Risoluzione

Esser fedele, ogni giorno del Mese, nella recita di qualche orazione o giaculatoria al Preziosissimo Sangue (N. Pagliuca).

Fioretto Spirituale

O Sangue col quale si dissipa ogni timore servile, donaci la tranquillità!

(S. Caterina da Siena)

Giaculatoria

Sangue adorabiledel mio Signore,

di amore fervidom’inebria il core!

Credo

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
1 Cor X:16
Calix benedictiónis, cui benedícimus, nonne communicátio sánguinis Christi est? et panis, quem frángimus, nonne participátio córporis Dómini est?

[Il calice dell’eucarestia che noi benediciamo non è forse comunione del sangue di Cristo? Il pane che noi spezziamo non è forse comunione col corpo di Cristo?]

Secreta

Per hæc divína mystéria, ad novi, quǽsumus, Testaménti mediatórem Jesum accedámus: et super altária tua, Dómine virtútum, aspersiónem sánguinis mélius loquéntem, quam Abel, innovémus.

[O Dio onnipotente, concedi a noi, per questi divini misteri, di accostarci a Gesù, mediatore della nuova alleanza, e di rinnovare sopra il tuo altare l’effusione del suo sangue, che ha voce più benigna del sangue di Abele.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Hebr IX: 28
Christus semel oblítus est ad multórum exhauriénda peccáta: secúndo sine peccáto apparébit exspectántibus se in salútem.

[Il Cristo è stato offerto una volta per sempre: fu quando ha tolto i peccati di lutti. Egli apparirà, senza peccato, per la seconda volta: e allora darà la salvezza ad ognuno che lo attende.]

Postcommunio

Orémus.
Ad sacram, Dómine, mensam admíssi, háusimus aquas in gáudio de fóntibus Salvatóris: sanguis ejus fiat nobis, quǽsumus, fons aquæ in vitam ætérnam saliéntis:

[Ammessi, Signore, alla santa mensa abbiamo attinto con gioia le acque dalle sorgenti del Salvatore: il suo sangue sia per noi sorgente di acqua viva per la vita eterna:]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/