QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]
CAP. IX
CRISTIANIZZAZIONE DEI POPOLI BARBARI
PREAMBOLO
Opera materna
Crollato l’Impero, non rimaneva, erede di esso, se non la Chiesa. Come la madre, alla morte del padre, governa la casa, difende e nutre i figli, conserva come può il patrimonio dilapidato, così la Chiesa, disarmata e indifesa, assunse, come poté con i suoi mezzi e con la sua autorità, il governo dell’Europa Occidentale. I Vescovi, prima di tutto si opposero alle nefandezze dei barbari; difesero i popoli inermi, mantennero le leggi civili. Poi presero l’amministrazione di terre, il governo di città, qualche volta anche il comando d’eserciti.
« Episodi del genere si ripeterono, e in proporzioni ampie — giacché si prestarono non solo i Vescovi, ma anche presso che tutti i Parroci — negli infausti anni della guerra 1940-1945 particolarmente in Italia ». E i barbari, dinanzi all’ augusta autorità del Papa, dinanzi alla paterna fermezza dei Vescovi, dinanzi alla severa autorità dei Monaci, spesso piegarono la fronte e le ginocchia.
D. Vinto il politeismo greco-romano, a che si trovò di fronte la Chiesa?
— All’invasione dei barbari, che a guisa di incontenibili valanghe s’abbatterono su tutta l’Europalatina e l’Africa settentrionale.
D. Quale fu la sorte dell’Italia?
— … di vedersi invasa prima dagli Eruli guidati da Odoacre, poi dagli Ostrogoti di Teodorico, infine dai Longobardi.
D. E la sorte della Chiesa?
— Se non fosse istituzione divina, avrebbe fatto la fine dell’Impero; invece fu la Chiesa a vincere i barbari, guadagnandoli a Cristo e al Vangelo.
D . Come si regolò la Chiesa con i barbari?
— Essa accettò da loro tutto ciò che poteva essere accettato e condannò in loro tutto ciò che era contrario alla legge di Dio.
D. Quale potrebbe essere un esempio?
— Questo: secondo il costume barbarico, i giovani venivano iniziati all’arte delle armi con riti e prove solenni. La Chiesa cristianizzò queste iniziazioni e cercò di elevare il valore militare a legge più alta.
D . Che cosa ne nacque?
— La Cavalleria Cristiana, che dal secolo VII al XIV forma il ceto più caratteristico della società feudale e che ha dato contributi sì alti alla civiltà, alle arti, al costume.
D. Chi è il Cavaliere?
— Non è più il milite che va a cavallo o, come a Roma, una classe di appaltatori; è il tipo dell’uomo, educato dalla fanciullezza alle armi, scelto tra i cadetti ( = figli non primogeniti) delle famiglie nobili, libero combattente del diritto e del capriccio.
D. Quali difficoltà incontrò la Chiesa per conseguire la sua vittoria sui barbari?
—- La più grave fu quella di trovare una parte di barbari infetti di arianesimo, propagato da Costantinopoli, nemica di Roma. Tuttavia con lavoro paziente e costante vinse anche i più gravi ostacoli.
D. Quali furono i popoli guadagnati?
— I Franchi, il cui re Clodoveo ricevette il battesimo a Reims nel 496 dalle mani di S. Remigio;
la Scozia e l’Irlanda per opera di S. Patrizio;
l’Inghilterra per opera di S. Gregorio Magno, che v’inviò S . Agostino di Canterbury con 40 monaci;
i Longobardi, attratti al Cattolicesimo dall’esempio e dall’opera della loro regina Teodolinda;
la Germania, guadagnata nel 700 da S. Bonifacio;
gli Slavi, convertiti dai fratelli S. Cirillo e S. Metodio;
i Magiari, conquistati alla Chiesa dal re S. Stefano.
LETTURA
IL CAVALIERE IDEALE
Nel grande poema « La canzone dì Rolando » e raffigurata mirabilmente
in questo eroe il tipo del cavaliere ideale del secolo XI. La formazione di lui è attribuita a Carlo Magno (Rolando, infatti, è nipote di lui) che così parla al figlio Luigi:
— Tu che finora non hai conosciuto altra legge che il tuo arbitrio, ti sottometterai ai comandi della Chiesa e proteggerai i templi e i monasteri. Tu che hai disprezzato i deboli e i poveri diventerai il protettore dì essi, il difensore dei fanciulli, delle vedove, dei malati.
« Verso i poveri ti dovrai umiliare ». Tu che finora sei stato mancatore di parola e sprezzatore di ogni diritto, sarai invece fedele alla parola, leale, generoso: « Senza macchia e senza paura ».
Quattro secoli dopo — quando il compito storico della Cavalleria sta per tramontare — la madre dì Pietro du Terrail, signore di Baiar do (e perciò detto « Boiardo ») benedice suo figlio che va in guerra. Pietro le dice:
— Madre, benedite vostro figlio affinché, lontano da voi, non commetta errori.
E la madre dice:
— Pietro mio caro, tu stai per allontanarti da me! Quanto posso io ti raccomando tre cose: « La prima è che sopra tutto ami e serva Dio senza offenderlo mai, perché Lui ti fa vivere e ti salverà. Tutte le mattine e tutte le sere, raccomandati a Lui. Egli ti aiuterà. La seconda è che tu sii dolce e cortese con i tuoi compagni d’armi. Non sii orgoglioso con quelli che sono da meno di te: non disubbidire ai tuoi superiori. La terza è che tu sii generoso e puro e che dei tuoi doni faccia profittare quelli che ne sono sprovvisti. Dare in nome di Dio non impoverisce ».
Il buon cavaliere rispose commosso, ma risolutamente :
— Madre mia, dei vostri insegnamenti vi ringrazio! E spero che, grazie a Dio, sarete contenta di me. Baiardo combatté da eroe (morì in Italia nella battaglia di Romagnano nel 1524) e la storia lo chiamò « cavaliere senza macchia e senza paura ».
La Chiesa, facendo cristiana la Cavallerìa, dava alla giovinezza una scuola di energia e di ideale; fondendo l’antico e il nuovo, la Chiesa dava modo ai giovani dì realizzare le virtù dell’atleta e del soldato in perfetta combinazione con le virtù più alte, con la lealtà e la generosità, il rispetto alla donna e la protezione dei deboli, il sentimento dell’onore e del sacrificio, la difesa del diritto e della Fede. L’educazione del cavaliere s’iniziava a sette anni, con l’esercizio di giuochi e di prove, che oggi diremmo ginniche e sportive; dopo qualche anno, veniva ammesso in qualità di paggio in un castello baronale e qui, insieme con le abitudini di corte (la « cortesia ») sì dava ai cimenti della caccia, dell’ippica, della scherma; divenuto poi scudiero, serviva alla tavola i signori del castello, e seguiva quale aiutante il suo cavaliere ai giuochi d’ arme e alla guerra; finalmente, alla maggiore età, era fatto cavaliere. – La Chiesa mentre cristianizzava la istituzione, interveniva alla cerimonia del conferimento della spada, che in origine era laica e militare; a poco a poco, la Chiesa benedice la spada, fa precedere il conferimento con una veglia di anni nella quale si celebra la Messa, e finalmente fa consegnare la spada da un sacerdote.
IL FENOMENO ISLAMICO
ISLAMISMO – Da Islam, abbandono fatalistico a un Dio rivelante la sua volontà in Maometto suo profeta. – Dal giorno in cui Maometto, unificate le genti dell’Arabia, le catapulta contro il mondo degl’infedeli con la guerra santa, fin verso il sec. IX, l’Islam realizza un’immensa unità territoriale, dall’India e dal centro dell’Asia a tutta l’Africa del Nord e alla Spagna. Sarà disgregata dall’interno e colpita dall’esterno; l’impero ottomano ricostruirà, fino a un certo punto, l’unità antica, per cadere poi fradicio sotto i colpi dell’Europa e dar luogo alle autonome sistemazioni moderne. Entro questa sua storia l’Islam fu ed è una delle massime civiltà mondiali. Qui interessa sopra tutto il suo contenuto religioso ed umano.
Il suo dogma dominante ne fa un rigoroso monoteismo, strumento definitivo ed esclusivo del quale è la rivelazione personale di Maometto e la sua legge coranica, sanzionata per i fedeli dal dogma di una vita futura, con pene e premi adeguati ad una mentalità spiritualmente non depurata dal senso e dalla fantasia. La sua morale riprende motivi naturaliter christiani [– ereditati dagli ebioniti – ndr.], sostanzialmente presenti anche nei quattro precetti delle cinque preghiere quotidiane, del digiuno del Ramadan, della elemosina (imposta) e del pellegrinaggio alla Mecca. La sua legge, che dal Corano scende sempre più concreta e particolareggiata alla Sunna (tradizione), poi all’igmà (fissazione canonica di leggi) e, infine, al gijas (interpretazione giuridica degli ulema), colloca tutto lo sviluppo del diritto sotto il segno della religione; solo che l’umanità infedele che ne viene esclusa non ha altra scelta che l’accettazione integrale dell’ Islam o la guerra di sterminio, o — se si tratta di Ebrei o Cristiani — il tributo del sottomesso. [Oggi sappiamo da ricerche storiche approfondite, che in realtà il Corano – non essendo stata mai dimostrata la presenza di comunità giudaiche a La Mecca con presenza di rabbini, né la storica esistenza di Maometto – è l’opera di monaci ebioniti, ebrei cristianizzati a metà, legati al vecchio Testamento e feroci nemici di san Paolo e della sua teologia – ndr. -].
La sua gerarchia di Muftì non ha carattere di sacerdozio organico, ma di magistratura religiosa; il che esclude senz’altro il concetto di Chiesa. Nel complesso abbiamo, dunque, non uno strumento di salvezza spirituale e universale visibilmente concretato in una Chiesa, ma una concezione religiosa, organica, sì, e nobile in se, ma di cui l’esclusivismo particolaristico connaturato, non solo, ma potenziato dalla proclamata religiosità dell’odio verso gl’infedeli e sanzionato dalla morte comminata agli apostati, fa uno strumento squisitamente politico; e ciò prova tutta la storia dell’Islam, anche se i punti spirituali di contatto con il Cristianesimo siano evidenti, e facciano dell’Islam la religione più vicina — dopo l’ebraica — a quella di quel Gesù che i musulmani venerano insieme con Mosè come profeta precursore.
D . Mentre in Occidente si affermavano le conquiste della Chiesa, che avveniva in Oriente?
— In Oriente si addensava la nube minacciosa dell’Islam.
D. Che cos’è l’Islam?
— È la dottrina di Maometto e significa « abbandono i n Dio ».
D. Chi è Maometto?
— Un solitario e contemplativo, nato in Arabia nel 570, [in realtà non esiste nessun documento storico e nessuna testimonianza valida in tal senso… -ndr.-] che prese a fondere insieme tutte le disunite tribù arabe,dando loro una religione comune, che gli aveva suggerito, così dava ad intendere, l’Arcangelo Gabriele.
D. Qual è la sua dottrina?
— Questa: esiste un solo Dio e Maometto è il suo profeta. Abramo e Cristo furono profeti veri e quindi da venerarsi, ma Maometto è a loro superiore.
D. Quali sono i precetti dell’Islam?
— Preghiera 5 volte al giorno;
— digiuno nel mese di Ramadan;
— elemosina;
— pellegrinaggio alla Mecca da farsi almeno una volta in vita;
— guerra santa.
D . La morale dell’Islam s’accorda con il Cristianesimo?
— Affatto. Per trovare aderenti, Maometto permette pieno sfogo alle passioni umane, approvando la poligamia, insinuando l’odio contro i Cristiani, insegnando il fatalismo, affermando che chi muore in battaglia contro i nemici dell’Islam ha il massimo grado di gloria in paradiso e un paradiso sensuale.
D. Che fecero questi brutali insegnamenti?
—- Fecero degli Arabi un vero serio pericolo per la cristianità e la civiltà.
— Contro di esso si eressero i Papi, specialmente con le Crociate,
[E. Hugon: Le méritedansla vie spirituelle, – LES ÉDITIONS DU CERF JUVISY — SEINE-ET-OISE – 1935]
VII.
L’ENTITÀ DEL MERITO
San Tommaso (Ia, IIa, q. 114, a. 8) stabilisce il principio che il merito si estenda anche oltre la nozione soprannaturale che Dio usa per condurci al nostro fine. Ora, l’ “impulso” del motore celeste ci è dato non solo per il fine supremo, ma per tutta la marcia, per tutta la durata e tutto il progresso del movimento: il fine è la gloria; la marcia ed il progresso sono l’aumento della grazia. In altre parole, il merito dà il diritto alla gloria ed all’incremento di gloria per la patria, alla grazia e all’incremento di grazia anche quaggiù. Il Concilio di Trento ha definito che il merito dell’uomo giusto si estenda a tutto questo: “L’aumento della grazia, la vita eterna, il possesso di quella felicità se si muore in amicizia divina, e l’aumento della gloria” (Sess. VI, can. 32). Nel dichiarare che il merito cresce attraverso ciascuno degli atti che si ripetono sotto l’influenza della grazia, bonis operibus quæ per Dei gratiam fiunt, il Concilio indica sia che è richiesta la grazia, sia che il merito cresce tanto più spesso quanto noi facciamo il bene. Pensiamo, dunque, che ogni nostra buona azione ci dà diritto ad un nuovo grado di gloria per l’eternità e, quaggiù sulla terra, ad un nuovo grado di grazia per la nostra anima. Meravigliosa fertilità della vita spirituale! Ma, d’altra parte, la dottrina cattolica predica la vigilanza: se cadiamo, le nostre giustizie saranno dimenticate: « Ma se il giusto si allontana dalla giustizia e commette l’iniquità e agisce secondo tutti gli abomini che l’empio commette, potrà egli vivere? Tutte le opere giuste da lui fatte saranno dimenticate; a causa della prevaricazione in cui è caduto e del peccato che ha commesso, egli morirà » (Ezechiele, XVIII, 24), e non potremo meritare che Dio ci ripari dopo la nostra caduta, poiché la mozione divina, indispensabile al merito, viene fatalmente interrotta e fermata dall’atto stesso del peccato (S. Tommaso, 1a, IIa, q. 114, a. 7). Ciò che dobbiamo chiedere a Dio in ciascuna delle nostre preghiere è di tenerci per mano, di non lasciarci mai separare da Lui dall’offesa mortale e, se questa sventura estrema dovesse colpirci, di sollevarci subito per la sua misericordia. Ne consegue anche che la perseveranza finale non rientra nel merito proprio (cfr Concilio di Trento, sess. VI, can. 16 e 32, e cap. 16). Perseverare è unire lo stato di grazia con la morte; solo questo, quindi, può assicurarci questo successo definitivo, che è del sovrano Padrone della morte e della grazia, il nostro Creatore e Redentore divino. Non possiamo, con le nostre azioni, assicurarci che la nostra morte arrivi esattamente nel momento in cui godiamo dell’amicizia divina: tutto questo va al di là della portata dei nostri sforzi. Poiché la perseveranza è l’effetto proprio della predestinazione, è ovvio che essa sfugge, come quella, alla sfera del merito; ma, d’altra parte, cade in qualche modo nell’ambito dell’impetrazione, perché Nostro Signore l’ha promessa a tutti coloro che la chiedono nel suo Nome con le necessarie disposizioni, con umili e costanti suppliche: supplicibus precibus emerci, come dice Sant’Agostino (De dono persever…), c. V, n. 10, P. L., XLV, 999). – È in questo modo di impetrazione, che sembra bisogni ricondurre la grande promessa fatta dal Sacro Cuore a Santa Margherita Maria. La pratica della Comunione consecutiva durante i primi nove venerdì del mese non dà diritto alla perseveranza finale, in quanto abbiamo diritto a ciò che rientra nel merito propriamente detto; ma Nostro Signore, per l’eccessiva misericordia del suo Cuore e per puro amore, promette questo immenso favore a coloro che degnamente soddisfano le condizioni prescritte. L’efficienza viene dalla promessa divina; non siamo più nell’ambito del merito e della giustizia, ma in quello dell’impetrazione e della bontà (a questo proposito, vedi P. Bainvel, La dévotion au Sacré-Coeur, Paris, Beauchesne, e art. du Dict. Théol. P. Vermeersch, S. J., Pratique et doctrine de la dévotion au Sacré-Coeur, Casterman, Tournai, 1908; Van der Meersch, De gratia, p. 377). – Qualunque siano le spiegazioni, è sovranamente opportuno meditare sulle belle parole di San Bernardo: « La perseveranza è la figlia del Re sovrano, la fine delle virtù e la loro incoronazione, la sintesi di tutti i beni, la virtù senza la quale nessuno vedrà Dio » (San Bernardo, Serm. de diversis, XLI, P. L. CLXXXIII, 658). Senza di essa, né il combattente otterrà la vittoria, né il vincitore avrà la palma. Essa è la sorella della pazienza, la figlia della costanza, l’amica della pace, il nodo delle amicizie, il vincolo della concordia, il baluardo della santità (Idem., epist. 129 (al. 35a), P. L. CLXXXII, 283- 284). È ad essa che viene restituita l’eternità, ed è essa sola che restituisce l’eternità all’uomo (Idem., De considera, I, V. v. XIV, n. 31, P. L. CLXXXII, 806). – Le altre grazie sono l’effetto della Provvidenza ordinaria e sono distribuite alla folla; procedono da una Provvidenza molto speciale e sono riservate all’amato, allo scelto, all’eletto. – Chiediamo al Sacro Cuore quando lo possediamo al momento della Comunione; che non ci permetta mai di separarci da Lui: numquam me a te separari permittas!
VIII.
IL PAGAMENTO DEL MERITO
È ovvio che la gloria sarà pagata solo in cielo. L’aumento della grazia potrebbe essere conferito qui sulla terra, se le nostre disposizioni fossero abbastanza perfette e se i nostri atti superassero in intensità l’abitudine stessa. Così si ammette che nella Beata Vergine l’impulso iniziale sia stato trasmesso con una forza tale che Ella lo moltiplicava ogni volta; la prodigiosa somma dell’origine è stata raddoppiata nel secondo atto e così via all’infinito, senza limiti e senza sosta. Ma nei giusti ordinari, è così? San Tommaso dice molto chiaramente: « La grazia non viene aumentata immediatamente, ma a suo tempo, cioè quando l’uomo è sufficientemente disposto a riceverne l’aumento: Nec gratia statim augetur, sed suo tempore, cum scilicet aliquis fuerit dispositus ad gratiæ augmentum. (Vedi, per la teoria di San Tommaso, i commentatori in Ia, IIæ, q. 114, a. 8, i Salmanticenses, disp. VI, n. 81; Billuart, De caritate, diss. 1, 3; per l’altro opinione: Suarez, lib. IX, n. 232; Began, III P., tr. Io, Cap. XXII, q. III). – (Ia, IIæ q. 114, a. 8, ad 3). Al contrario, Suarez e i suoi discepoli credono che tutti i gradi di grazia che ci meritiamo, anche con i nostri atti più deboli, siano conferiti all’anima senza indugio. – Non è questo il luogo per affrontare in profondità una questione metafisica molto interessante, ma le anime pie trarranno beneficio dal conoscere i sentimenti di San Tommaso, in modo che possano scegliere il modo più sicuro di comportarsi e dare più fervore e più slancio alla loro vita. – Il principio tomistico che regola tutte le questioni è questo: una qualità, una perfezione, non può essere introdotta in un soggetto se il soggetto non è portato a suo livello, cioè sufficientemente disposto, degnamente preparato. Se, nell’ordine fisico, per aumentare di un grado il calore dell’acqua, è necessario una nuova attività, allo stesso modo, nell’ordine spirituale, per elevare la vita soprannaturale ad un livello superiore, è necessaria un’energia che superi in intensità l’ordine precedente. Altrimenti la grazia, anche se dovuta alle nostre buone opere, non sarà conferita immediatamente; ciò che la ferma e la tiene in sospeso è l’imperfezione dell’atto o la sua mancanza di intensità. La grazia sacramentale è certamente immediatamente riversata nell’anima dall’efficacia stessa del rito sacro, ex opere operato; ma l’incremento che si fa per via del merito, richiede un atto più vigoroso che l’abitudine preesistente. Quando l’ostacolo cade, quando l’anima, per esempio, lasciando il suo corpo compie l’atto di carità perfetta, il pagamento ritardato si completa in un istante, la grazia finora sospesa e trattenuta come da una barriera si riversa nell’anima a fiotti sospinti. – La conclusione che emerge molto chiaramente e che sarà accettata da tutte le scuole è che uno dei più formidabili nemici del merito è la tiepidezza e che uno dei nostri migliori titoli nell’aumento della grazia è il fervore e la generosità. Questo è il vero modo di imitare la Santa Vergine in cui si realizza la perfezione del merito: continuità delle azioni, dignità della persona, eccellenza delle opere, rese ancora più grande dall’influsso dei doni e dal tocco divino dello Spirito Santo. Grazie a Maria, c’è stata nell’umanità una creatura che ha praticato alla lettera il consiglio dell’Apostolo: «Tutto ciò che fate sia a gloria di Dio ». – Il nostro modesto studio avrà dimostrato ai nostri lettori che il merito è la vera corona del libero arbitrio, l’apice dell’attività umana ed angelica, la vera vita spirituale, la vita feconda, la vita intensa, poiché è vita piena di immortalità e di eternità.
[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]
CAP. VIII
LA CADUTA DELL’IMPERO ROMANO
PREAMBOIO
Sic transit gloria mundi
Fino alla morte di Teodosio il Grande (395) i confini dell’Impero Romano si mantennero a un dipresso quali furono ai tempi della sua massima floridezza; vale a dire, ad Occidente l’Atlantico; a settentrione il muro dei Caledoni (nella Brettagna), il Mar del Nord (Mare Germanicum), i corsi del Reno e del Danubio; ad Oriente il Mar Nero, l’Altopiano Armeno, il corso dell’Eufrate, il deserto di Siria; a sud il Mar Rosso, l’Egitto fino alla prima cateratta del Nilo, i deserti di Libia, la catena del grande Atlante. Ad eccezione della Dacia di Traiano, che, invasa dai Goti nella seconda metà del sec. III, era stata abbandonata dall’Imperatore Aureliano, Roma aveva potuto conservare fino al principio del sec. V le sue frontiere quasi intatte. Questa stabilità di confini era dovuta principalmente al fatto che le frontiere militari erano ad un tempo frontiere naturali. Vi contribuì pure l’opera degl’imperatori così detti Restauratori, quali Diocleziano, Costantino, Teodosio. Se non che la morte di Teodosio e la divisione dell’ impero tra i suoi due figli, Àrcadio e Onorio, oltre rompere l’unità di azione, tanto necessaria in quei momenti, contribuì ad aumentare l’antagonismo tra le due stirpi; la latina e la greca; antagonismo che si rileva tosto potentissimo anche nella gelosia tra le due corti. Di questa condizione di cose approfittarono tosto i barbari che circondavano l’Impero. E prima i Visigoti, poi gli Unni, i Vandali, gli Ostrogoti ne provocarono la irreparabile caduta.
D. Che avvenne nel 476?
— La caduta del Romano Impero per opera dei Barbari, che, guidati da Odoacre, capo degli Eruli, deposero l’ultimo imperatore Romolo Augusto, il cui nome raccoglieva, per colmo d’ironia, le glorie del fondatore di Roma (Romolo) e gli splendori dell’età d’oro dell’impero (Augusto); glorie e splendori che ora andavano interamente sciupati.
D. Che impressione fece la caduta dell’impero romano?
— Lasciò nei contemporanei un’impressione così tremenda, che ne rimasero come trasognati. Sembrò loro che ogni cosa crollasse, e si parlò sul serio della imminente fine del mondo.
D. Non erano esagerate quelle previsioni così nere?
— Sì, a guardarle a tanti secoli di distanza e dopo che dalle rovine della vecchia civiltà si è veduto sorgere una più vigorosa civiltà nuova. Ma se ci riportiamo a quei tempi, le dobbiamo dire giustificate.
D. Che cosa si riteneva allora?
— … che il mondo non avesse potuto sussistere, quando Roma non l’avesse governato con le sue leggi e tenuto in pace con la sua forza.
D. Ora qual era lo spettacolo che si presentava alla vista di tutti?
— Quello di torme di barbari feroci, che, con la furia di un ciclone, percorrevano da un capo all’altro le regioni occidentali e talvolta anche le orientali, lasciando sul loro passaggio stragi e rovine spaventose; mentre i cittadini dell’impero erano condotti via schiavi, con le catene al collo, a branchi, come bestie; la città stessa di Roma, la dominatrice dell’universo, era presa e saccheggiata per ben due volte in meno di cinquantanni; dovunque era il disordine, la morte, il terrore.
D . Come mai uno Stato così potente crollò così presto e con tanta rovina?
— L e ragioni sono varie.
D. Sono fondate le accuse che incolpano di tale caduta il Cristianesimo?
— No e presentano buona dose di ingenuità, per non dire malignità.
D. Quali sono queste accuse?
— Allora si diceva: il sorgere e l’affermarsi del Cristianesimo coincide con il decadere e lo sfasciarsi dell’impero, dunque il Cristianesimo fu la causa della rovina di Roma.
— Si diceva inoltre: si sono abbandonati gli dei dell’Impero, si sono tralasciati i sacrifici in loro onore, si sono chiusi i loro templi; ora essi si vendicano. E lanciano contro di noi le schiere feroci dei barbari, e non aiutano più come una volta gli eserciti romani. (De Civitate Dei).
D. Quali sono le accuse moderne ?
— Poiché le accuse citate fanno sorridere i moderni, questi le formulano in altro modo, cioè incolpano della caduta dell’impero il Cristianesimo, perché esso ha inaugurato il disinteresse per i beni della terra, predicando che i veri beni sono soltanto quelli dell’altra vita, mentre questo mondo è come un’ombra che passa, è come erba che inaridisce. Dopo questa predicazione gli uomini si chiesero : — A che lavorare, combattere, soffrire per la potenza dello Stato? Il nostro attaccamento dev’essere non per le cose della terra, ma del cielo. E intanto i barbari travolsero e abbatterono l’Impero.
D. Quale altra causa si porta?
— Che la Chiesa avrebbe creato ostacoli all’opera dello Stato.
D. Quali ostacoli?
— Innanzitutto, la Chiesa, perché vincitrice della lotta di tre secoli con l’Impero, agiva ormai come potere indipendente e in molte cose contrario. Per esempio, lo Stato aveva bisogno di soldati e la Chiesa gli strappava a migliaia uomini validi, per farne chierici e monaci. Aveva bisogno di popolazione numerosa e la Chiesa, predicando l’eccellenza della verginità, popolava i deserti e i monasteri di gioventù che non dava più discendenti alla patria. Aveva bisogno di spirito combattivo e la Chiesa insegnando l’amore per tutti, anche per i nemici, spegneva o attenuava quell’odio, senza il quale la lotta o non è possibile, o non si porta a fondo.
D. Sono queste le vere ragioni?
— No, certo.
D. Quali dunque?
— Vediamo quali erano le condizioni dell’Impero Romano: Bisogna tener presente che nell’Impero il potere supremo era tutto, in realtà, nelle mani dell’esercito, il quale difendeva le frontiere dai barbari e manteneva l’ordine interno; non solo, ma altresì faceva e disfaceva gl’imperatori e ne contrapponeva l’uno all’altro. Di qui guerre continue. – In una sola parola, il governo dell’Impero Romano non era che una « dittatura militare » . Imperatore infatti significa generalissimo d’esercito.
D. Quale altro fatto bisogna tener presente?
— L’imbarbarirsi dell’esercito romano, attraverso l’arruolamento di barbari, che arrivarono a costituirne la quasi totalità. Tali barbari miravano a far bottino nelle guerre e a passare sotto il comando di chi li pagava di più. L’amor di patria non lo conoscevano neppur di nome.
D. Che cosa ci fu a dare il tracollo?
— L’ammissione nei territori dell’Impero di intere tribù barbare, che continuavano a vivere con le loro consuetudini, ubbidire ai loro capi, armarsi e combattere a modo loro, con il solo obbligo di difendere i confini dell’Impero.
D. Che risultato finale si ebbe?
— L’esercito così imbarbarito si fece sempre più turbolento; le ribellioni erano a getto continuo; veri padroni dell’Impero divennero i generali, i quali spadroneggiavano dovunque, eleggevano e deponevano l’imperatore. Intanto le tribù barbare dei confini facevano continue scorrerie, razzie, … sicché i barbari fuori dell’Impero trovarono le frontiere senza difesa e ne approfittarono per le loro invasioni.
D. Come mai s’arrivò a tal disastro senza pensare a qualche rimedio?
— Lo impedì l’allargamento dell’Impero e l’esercito permanente. Finché lo Stato fu piccolo, le sue sorti erano quelle di tutti i cittadini; in caso di bisogno ognuno era soldato. Estesosi lo Stato, fu necessario un esercito permanente, che, disgraziatamente, fu composto non di sudditi, ma di volontari, sicché il servizio militare fu, non un dovere per tutti, ma un mestiere per pochi. Il peggio però si fu che l’esercito fu sempre più lasciato a schiavi liberati, a servi della gleba, a barbari. – Tuttavia la causa più grave di tanta rovina fu la profonda corruzione della società romana, sia nobili che plebei, tutta gente oziosa e guasta. Se la Chiesa non fosse stata, per ben 300 anni, perseguitata, avrebbe potuto esserne la salvezza.
D . Che cosa ha sempre inculcato la Chiesa?
— Austera onestà della vita, generosità e sacrificio per il bene comune; ha sempre fatto obbligo a chiunque, anche ai governanti, di rispettare scrupolosamente i giusti diritti e la giusta libertà degli altri.
D. Furono praticate queste dottrine dalla società romana?
— No; se le avesse praticate, sarebbe guarita dalla sua spaventosa corruzione e dal suo egoismo gretto, causa fondamentale del sorgere, del persistere, dell’aggravarsi di tutti gli altri mali.
D. Negli ultimi tempi dell’Impero non divennero quasi tutti Cristiani?
— Per molti il Cristianesimo non era che la religione di moda; si accettava esteriormente, ma nella pratica della vita si rimaneva pagani; perciò la mancata pratica della dottrina cristiana contribuì alla rovina e non già il Cristianesimo veramente vissuto.
N O T A . – Con la pace costantiniana si chiuse l’èra dei martiri nell’Impero; i Cristiani, che finora erano relativamente pochi, si vedevano raggiunti da innumerevoli fratelli; le conversioni, prima difficili, diventavano facili, troppo facili; le chiese erano poche e piccole a contenere la folla dei cattolici…. Spettacolo in parte consolante; ma anche terribilmente ammonitore. – Quella folla, infatti, trascinava con sé non solo i buoni, ì bravi, i leali — che cercavamo la Fede — ma anche i deboli, gli opportunisti, i profittatori, le « canne al vento » che, nella conciliazione (tra Chiesa e Stato) vedevano un’ottima occasione di abbandonarsi alla corrente e, forse, di fare gli affari loro. – Il pericolo era mortale. La vita cristiana rischiava di perdere quella legge di eroismo che fa di essa una continua lotta e un continuo esercizio contro il male e il peccato.
D. Che vale l’accusa che la Chiesa abbia strappato migliaia dì uomini validi per farne chierici e monaci?
— Nulla, perché l’Impero Romano non adottò mai la coscrizione obbligatoria generale; inoltre il monachismo acquistò importanza per il numero apprezzabile di militanti solo intorno al 350. Tale numero però, di fronte alla massa, è sempre esiguo e fatto di uomini non tutti validi, né tutti obbligati al servizio militare. Sicché si può esser certi che l’esercito romano non si sentì mai in crisi per la loro esenzione.
D. La Chiesa ha contribuito ‘allo spopolamento predicando la verginità!
— L o spopolamento, dovuto soprattutto alla corruzione dei costumi, era già in atto fin dai tempi di Augusto, che tentò porvi riparo con leggi tendenti a combattere la denatalità. La pratica della verginità fu di pochi m confronto alla massa, (« Chi ha mai cercato moglie e non l’ha trovata?», chiede s. Ambrogio nel « De Virginitate » 35-36) , e quella pratica fu una vigorosa forza di opposizione al male, cioè a quella deficienza di senso morale, che è la causa fondamentale della decadenza demografica.
D. E’ ammissibile che lo spirito guerriero si affievolisse per effetto delle dottrine cristiane?
— Neppure. Come osserva s. Agostino, i precetti del Cristianesimo
(amore per tutti, anche per 1 nemici) non si oppongono a una guerra giusta, ma solo a quei sentimenti inumani di vendetta e di crudeltà, che anche i migliori tra i pagani avevano riprovato. Al soldato fu detto sempre di combattere con coraggio, ma non per spirito di odio, bensì di amore, per la giustizia e per l a Patria. E l’amore accende fortemente gli animi alla lotta, eleva moralmente il combattente e ne fa il costruttore della civiltà. Del resto va notato che l’Impero Romano era in decadenza quando le dottrine cristiane non potevano ancora avere nessuna sensibile efficacia sulla politica.
D. Che dire della coincidenza tra l’avvento del Cristianesimo e la rovina dell’Impero?
— Quando il Cristianesimo intraprese a percorrere la strada dell’Impero, questi era già stanco per il lungo cammino già percorso; aveva infatti già mostrato dei gravi sintomi di malessere prima che venisse il Cristianesimo, quali le guerre civili che portarono all’abolizione della Repubblica e alla costituzione dell’Impero.
[E. Hugon: Le méritedansla vie spirituelle, – LES ÉDITIONS DU CERF JUVISY — SEINE-ET-OISE – 1935]
V.
IL RUOLO DELL’IMPERFEZIONE NELLA VITA SPIRITUALE
Un’obiezione viene spontanea alla mente; se nei giusti tutti gli atti sono meriti o peccati veniali, non c’è più spazio per l’imperfezione! Su questo tema dell’imperfezione sono state costruite molte teorie che eviteremo qui di discutere. Ecco come i nostri principi tomistici ci autorizzano a concepire l’imperfezione. È lecito innanzitutto definire indeliberati gli atti di imperfezione che non siano né cattivi né meritori, e di cui potremmo diminuire la quantità se fossimo più attenti. Quanti atti ogni giorno ci sfuggono, ed impediscono la nostra riflessione, la nostra deliberazione, la nostra libertà! Ma proprio perché non sono umani, non sono degni di alcuna sanzione, punizione o ricompensa, e non contano nella nostra storia. Tuttavia, fermano o interrompono la trama della perfezione, impediscono che la nostra vita sia completamente piena, mettono il vuoto nei nostri giorni… – L’anima di Nostro Signore non ha mai conosciuto un atto indeliberato, non più di quanto non sia stato sottoposto all’ignoranza (vedi il nostro libro Il mistero dell’Incarnazione, p. 265 ss.; e il decreto del Sant’Uffizio, Acta Apostolicæ sedis, 1° luglio 1918). Allo stesso modo, molti teologi considerano certo che non c’è mai stata nella Beata Vergine alcuna azione indeliberata, almeno durante il tempo di veglia. Perché, allora, i nostri atti impediscono il controllo dell’intelligenza e dell’impero della volontà? È grazie all’ignoranza, alla concupiscenza. Niente del genere in Maria. La sua scienza infusa la garantisce contro ogni imprevedibilità, e la sua Immacolata Concezione, con il privilegio dell’integrità assoluta, le assicura l’immunità dalla concupiscenza e dalle tempeste dei sensi (cf. Maria piena di grazia, p. 117.). I Santi, senza riuscire a sopprimere tutti gli atti indeliberati, avanzano nella perfezione nella misura in cui li diminuiscono. Sono quelle che si possono chiamare imperfezioni, né colpevoli né meritorie, ma che la santità si sforza di rendere sempre più rare, quando geme di non poterle eliminare completamente. – La nostra dottrina si applica ad atti che sono veramente umani; per questi, nei giusti, non esiste una via di mezzo: o il merito o il peccato veniale. L’imperfezione può quindi essere intesa come un atto buono, onesto, persino lodevole in sé, ma che rimane un po’ non coronato perché avrebbe potuto essere migliore. Gli esempi qui sono numerosi e familiari; si accetta una soddisfazione consentita, come rinfrancarsi al di fuori dai pasti, fumare o prendere il tabacco da fiuto per puro piacere e senza necessità; si prolungano conversazioni utili ma che avrebbero potuto essere accorciate; si permette agli occhi di vedere, alle orecchie di sentire, quando sarebbe opportuno mortificare la curiosità, ecc. ecc. Tutto questo, pur rimanendo nella cerchia di ciò che è lecito, rimane anche nella cerchia di ciò che è meritorio; ma quanto più velocemente si sarebbero compiuti progressi e quanto più intenso sarebbe stato il merito se fosse stata scelta l’altra alternativa! Questo non obbliga, tranne forse in alcune circostanze particolari, dove il rifiuto sarebbe resistenza alla grazia e ingratitudine a Dio; facendo uso della propria libertà, si fa ancora del bene: ma non si sale fino alle regioni dell’ideale soprannaturale. Possiamo dire di questi atti che siano poco coronati, e quindi, delle imperfezioni che i Santi si rifiutano di concedersi (anche senza aver fatto il voto del perfetto o del più perfetto), ma che non sono private di alcuna ricompensa. – Così il tomismo evita ogni esagerazione: pur facendo risuonare il più spesso possibile il sursum corda nelle orecchie dei giusti, non scoraggia nessuno; dice alle buone volontà che ciò che non è peccato veniale, anche se rimane imperfetto, è comunque degno dell’eternità: Habentibus caritatem omnis actus est meritorius vel demeritorius.
VI.
IMPORTANZA DI QUESTA DOTTRINA DI SAN TOMMASO PER LA VITA SPIRITUALE
Si vedrà ancora una volta come la vera spiritualità debba essere basata su una sana teologia. Questo insegnamento del Dottore Angelico non ha lo scopo di promuovere il quietismo o l’indolenza spirituale. Al pensiero che uno dei propri atti non sia diretto all’ultimo fine, o sia disordinato, guastato dal demerito, l’uomo giusto si sforzerà di rivolgersi a Dio molto spesso, di orientare tutta la sua giornata verso di Lui fin dal mattino con una sorta di patto che intende fare tutto per la gloria divina, e con ogni sua azione, dolore o gioia procurare al Signore tutta la lode che gli Angeli e i Santi gli procurano nell’eternità benedetta. E poiché il grado dell’amore è il grado del merito, egli rinnoverà frequentemente gli atti di carità con il dolce patto che ha già dato l’impulso e lo slancio soprannaturale alle opere ed ai doveri di stato. Egli rimarrà anche molto attento a diminuire la somma degli atti indeliberati o imperfetti e a dare alla sua esistenza quella pienezza di merito che è, in senso pieno, la vita feconda, la vita intensa. – D’altra parte, quanto è consolante dire a se stessi che la giornata non è sprecata, che una carriera è riempita nella misura in cui è tenuta libera dal peccato veniale! Tutte le azioni sono allora piene di eternità e le parole di San Paolo si realizzano in tutta la loro portata: « … il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria » (II Cor., IV, 17). Guardate come l’Apostolo ricorre ad antitesi e superlativi per darci un’idea del valore meritorio: ciò che è momentaneo quaggiù, produce l’eterno; ciò che è leggero vale una quantità immensa; ciò che è tribolazione nella vita presente produce gloria per l’aldilà; e tutto questo senza limiti, in una sublimità che sfida il nostro linguaggio e le nostre concezioni. – Ma cerchiamo di capire ancora meglio e consideriamo i tre principali capi che moltiplicano i nostri titoli per la ricompensa. Prima di tutto la carità; poiché è essa il principio del merito, la ricompensa dovuta ad atti di carità supera incomparabilmente la ricompensa dovuta all’oggetto (“Præmium respondens merito ratione caritatis, quantum cumque sit parvum, est majus quolibet prœmio respondente actui ratione sui generis“. (S, Tommaso, IV Sent, dist. 49, q. 5, ad 5). Perciò, in cielo, il giusto che ha più carità è posto più in alto, qualunque sia il numero di anni trascorsi quaggiù. – In secondo luogo, l’eccellenza delle opere. Così come c’è una gerarchia nelle virtù, c’è un ordine nelle azioni, e quando la carità è uguale da entrambe le parti, la preminenza appartiene indiscutibilmente all’opera il cui oggetto è più nobile, così come la verginità supera la continenza coniugale e la contemplazione attiva prevale sulla mera vita attiva. San Tommaso (San Tommaso, Quodlib. VI, a. n; Comm. in I Cor., c. II, Lezione II) dà altri esempi più suggestivi: come l’architetto è meglio pagato del semplice operaio, anche se l’operaio soffre di più, così nell’ordine soprannaturale chi lavora ad opere più alte, più nobili, più squisite, come Vescovi, i Dottori, se la carità non ne è inferiore, ha diritto ad una ricompensa migliore. Ecco perché le opere della Beata Vergine erano più meritorie dei tormenti dei martiri, non solo per la maggiore carità eroica, ma anche per l’oggetto e il termine più alto e perfetto a cui erano dirette. L’unico consenso dato al messaggio di Gabriele: Fiat mihi secundum verbum tuum, aveva più valore, dice San Bernardino da Siena (San Bernardino, Œuvres, t. II, sermone 51, cap. 12), che gli atti più meravigliosi degli Angeli e dei Santi. – In terzo luogo, la difficoltà o la quantità delle opere. È ovvio che se il lavoro è costato più fatica, è durato più a lungo, debba essere ripagato più abbondantemente. Tuttavia, questo punto di vista è solo secondario e guarda solo alla ricompensa accidentale, mentre la ricompensa essenziale viene sempre dal lato della carità. Supponiamo che due uomini giusti in cielo abbiano lo stesso grado di carità, ma uno di loro abbia faticato più a lungo, ha sofferto tormenti maggiori, è passato attraverso il martirio: la ricompensa essenziale, la visione beatifica e l’amore, saranno uguali, ma il martirio avrà in aggiunta questa aureola, maggiori gioie e glorie accidentali. – Si ricava da questo una conclusione molto chiara per la vita spirituale: occorre sviluppare sempre più la carità, cercare delle opere squisite, affrontare le lotte del dovere, superare le difficoltà, per avere un’eternità più piena e dare a Dio più gloria.
« Noi, la legge sulla separazione della repubblica portoghese e della Chiesa, legge che disprezza Dio e ripudia la professione di Fede Cattolica; che abroga i patti solennemente concordati fra il Portogallo e la Sede Apostolica; che opprime la stessa libertà della Chiesa e distrugge la sua divina costituzione; che infine colpisce di ingiuria e di offesa la maestà del Pontificato Romano, l’ordine dei Vescovi, il clero e il popolo del Portogallo e allo stesso modo tutti i Cattolici che si trovano su tutta la terra, in forza della Nostra Autorità Apostolica, la disapproviamo, condanniamo, rifiutiamo. Poiché deploriamo fortemente che una simile legge sia promulgata, ratificata, pubblicata, ed eleviamo solenne protesta a tutti coloro che ne furono autori o partecipi, per questo proclamiamo e annunciamo che qualsiasi cosa sia stato stabilito contro i diritti inviolabili della Chiesa, è e deve essere ritenuto nullo e senza valore». Questo è il grido di condanna, praticamente un anatema, di Papa S. Pio X, e questa volta tocca al Portogallo! La conventicole malvagie dedite al culto del baphomet, infiltrate fino ai livelli più alti del potere politico, opprimono senza ritegno la Chiesa in ogni modo loro possibile, come descritto nella lettera di denunzia del Sommo Pontefice. Grande è la dignità del Santo Padre nel rispondere a ribaldi ed indegni figuri, asserviti al “nemico di sempre”, satanisti travestiti da ipocriti e malvagi governanti, insediati dai soliti poteri massonici tracimati fino all’estremo della penisola iberica. I diritti più elementari vengono negati con inusitata violenza come già sperimentato in diversi luoghi della terra, in tutto il secolo XVIII e XIX e seguenti, fino a raggiungere la copertura mondiale attuale che ha generato un vero pandemonio [chiamato pandemia della “corona” indicando non già un innocuo virus, bensì il primo sephirot cabalistico: Lucifero]. In tutto questo però c’era a parziale ed autorevole conforto, l’intervento del Vicario di Cristo che interveniva con parole misurate sì, ma forti e decise a rivendicare i diritti civili, ma soprattutto spirituali che le sono propri per diritto divino. Oggi quei ribaldi sono in compagnia del loro padre, “il menzognero e l’omocida” e presto saranno raggiunti dagli attuali loro colleghi diffusi in tutti gli Stati mondiali, tutti uniti nella guerra contro Dio, il suo Cristo e la sua Santa Chiesa Cattolica, che hanno sì reso eclissata e rifugiata nel deserto, come la Donna dell’Apocalisse, ma che non possono né mai potranno prevalere come da promessa del divin Maestro. Il grande attivismo attuale nella diffusione di errori teologici, di violazioni delle leggi naturali che ripugnano persino agli animali più selvaggi, non sono la dimostrazione di potenza, ma di fretta e di agitazione estrema perché… il tempo che resta al demonio per portare a termine la destabilizzazione dell’umanità, volge oramai al tramonto, il Signore Gesù come ladro nella notte distruggerà in un’ora sola la citta maledetta e condannata di Babilonia, cioè tutto il mondo dedito alla malvagità, all’impurità, alla concupiscenza che freme di terrore sentendo tremare la terra sotto i piedi e vedendo già il fumo dell’incendio divoratore che presto avvamperà con la sua città, la bestia con il suo corpo mistico, parte nel mondo e parte nella falsa chiesa dell’uomo, la sinagoga che abita dove satana ha posto la sua cattedra di abominio e pestilenza. Muovetevi, agitatevi, gridate, urlate… avete poco tempo da vivere, ma… farete tutto inutilmente: la vostra miserevole fine è già segnata: governerete un’ora sola, parola dell’Apocalisse, poi sprofonderete tutti, senza eccezione, nella voragine dello stagno di fuoco ove avrete il privilegio di essere al posto più infimo in eterno…. allontanatevi da me, maledetti! andate nel fuoco eterno, preparato pel demonio e per coloro che l’hanno imitato….
San Pio X
Iamdudum in Lusitania
Lettera Enciclica
La Chiesa Cattolica in Portogallo
Noi riteniamo che a voi tutti sia ben noto, venerabili fratelli, come già da tempo sia in atto in Portogallo un indicibile susseguirsi di eventi volto ad opprimere la Chiesa con misfatti di ogni genere. Chi ignora infatti che da quando ha assunto la forma di repubblica il governo di quella nazione ha immediatamente intrapreso, in un modo o in un altro, a decretare cose tali che manifestano un odio implacabile verso la Religione Cattolica? Abbiamo visto che sono state tolte di mezzo con la forza le famiglie dei religiosi, e questi, in massima parte, sono stati espulsi in modo rozzo e disumano dai confini del Portogallo. Abbiamo visto che, con la pervicace intenzione di profanare ogni civile disciplina e di non lasciare nessuna vestigia di realtà religiosa nei comportamenti della vita sociale, sono stati eliminati dal numero delle festività i giorni festivi della Chiesa; il giuramento è stato privato dell’intrinseca caratteristica religiosa; è stata promulgata in gran fretta la legge relativa al divorzio; è stato eliminato l’insegnamento della dottrina cristiana dalle scuole pubbliche. Infine, lasciando da parte altre cose che sarebbe lungo elencare, in modo ancor più violento da costoro sono stati attaccati i sacri presuli, e due fra i più ragguardevoli Vescovi, quello di Porto e quello di Beja, uomini illustri sia per integrità di vita che per grandi benemerenze verso la patria e la Chiesa, sono stati cacciati dalle sedi della loro onorabile funzione. – Avendo poi i nuovi governanti del Portogallo prodotto tanti e tali esempi di imperioso arbitrio, voi sapete con quanta pazienza e moderazione si è comportata questa Santa Sede nei loro confronti. Con estrema attenzione infatti abbiamo ritenuto che si dovesse evitare di compiere qualsiasi cosa che potesse ritenersi compiuta in modo ostile verso la repubblica. Conservavamo infatti qualche speranza che costoro manifestassero infine progetti più ragionevoli, e finalmente, con un qualche accordo, dessero soddisfazione alla Chiesa riguardo alle offese perpetrate. In verità ci siamo del tutto sbagliati: ecco che all’infame comportamento impongono quasi un compimento con la promulgazione di una pessima e dannosissima legge relativa alla separazione degli affari dello stato e della Chiesa. A questo punto la coscienza dell’Ufficio Apostolico non Ci permette più in alcun modo di sopportare con rassegnazione e di lasciar correre nel silenzio una ferita così grave inferta al diritto e alla dignità della Religione Cattolica. Quindi, con questa lettera, facciamo appello a voi, venerabili fratelli, e denunciamo alla Cristianità universale l’indegnità di questo fatto. – Prima di tutto, che la legge di cui parliamo sia qualcosa di assurdo e di mostruoso appare dal fatto che essa stabilisce che lo stato sia esente dal culto divino, come se non dipendessero da Colui che è il Creatore e il Conservatore di tutte le cose sia i singoli cittadini sia qualsiasi associazione di uomini e comunità: e così dispensa il Portogallo dall’osservanza della Religione Cattolica, di quella Religione cioè che a questa gente fu sempre di presidio e ornamento e che la quasi totalità dei cittadini professa. Tuttavia ammettiamo: si è voluto rompere l’unione tra lo stato e la Chiesa, unione che era stata stabilita con patti solenni. Posta questa separazione sarebbe stato senza dubbio coerente lasciar da parte la Chiesa, e permettere che essa facesse uso della libertà e del diritto comuni, di cui fanno uso qualsiasi cittadino e qualsiasi onesta società di cittadini. Siamo invece di fronte al contrario. Questa legge infatti prende nome dalla separazione, ma da questo stesso fatto prende la forza di ridurre la Chiesa in estrema povertà, spogliandola dei beni esterni, e di trascinarla con l’oppressione nell’asservimento allo Stato, in quelle cose che spettano alla potestà sacra e allo spirito. – In primo luogo, per quanto riguarda le cose esterne, la Repubblica Portoghese si separa dalla Chiesa in modo da non lasciarle assolutamente nulla per poter conservare il decoro della casa di Dio, nutrire i Sacerdoti, adempiere i molteplici servizi della carità e della pietà. In realtà, con la prescrizione di questa legge, non solo la Chiesa è privata del possesso di tutte le cose immobili e mobili che possiede, anche se queste sono state acquisite in modo giuridicamente valido; ma le è anche sottratto qualsiasi potere di acquisire qualcosa in futuro. Si dispone infine che determinate corporazioni di cittadini presiedano all’esercizio del culto divino; tuttavia la facoltà che è loro concessa di ricevere ciò che viene offerto per questo scopo, è singolarmente circoscritta in angusti confini. Inoltre la legge ha estinto e soppresso le obbligazioni con le quali i cittadini Cattolici erano soliti offrire un qualche stipendio o sussidio al proprio parroco, proibendo che venga preteso qualcosa sul loro fondamento. Permette comunque che gli stessi Cattolici provvedano con una volontaria raccolta di denaro alle spese da sostenersi per il culto divino; prescrive tuttavia che dalla somma conferita per questo scopo venga detratta la terza parte e questa venga utilizzata per le necessità della beneficenza civile. E a tutte queste cose, quasi a coronamento, si aggiunge con questa legge che gli edifici che in seguito dovesse succedere di comprare o costruire per gli usi sacri, questi, dopo che sia trascorso un determinato numero di anni, rimossi i legittimi possessori, e per senza alcuna indennità, vengano trasferiti allo Stato. – Riguardo poi alle cose nelle quali la sacra potestà della Chiesa si esercita in modo proprio, è molto più grave e molto più dannoso l’oltraggio di questa Separazione,che, come si è detto, diventa una indegna servitù della stessa Chiesa. Prima di tutto, proprio la Gerarchia, del tutto ignorata, non viene presa in considerazione. Se si fa una qualche menzione degli uomini dell’Ordine Sacro, questo avviene per proibire loro di occuparsi in un qualsiasi modo dell’ordinamento religioso del culto. Tutta questa cura è demandata ad associazioni di laici che siano già costituite, o che lo debbano essere in futuro, a scopo di beneficenza, e per di più istituite e a norma del diritto civile, per autorità dello Stato repubblicano, senza che dipendano per alcun motivo dall’autorità della Chiesa. Al punto che se, riguardo all’associazione cui questo dev’essere conferito d’ufficio, ci fosse dissenso fra chierici e laici, o non ci fosse accordo fra gli stessi laici, la cosa non viene affidata per una decisione alla Chiesa, ma al giudizio dello Stato. Anche nella disposizione del Culto Divino coloro che sono al governo in Portogallo non permettono che ci sia spazio per il clero, come è apertamente prescritto e stabilito; non possono, coloro che sono addetti ai ministeri religiosi, essere nominati nel collegio decanale delle parrocchie o essere fatti partecipi dell’amministrazione o del governo delle associazioni di cui abbiamo parlato: di questa disposizione non si può pensare nulla di più iniquo e intollerabile, dal momento che rende l’ordine dei chierici proprio in quella cosa nella quale è superiore, in una condizione inferiore a quella degli altri cittadini. – E quasi impossibile credere quali siano i vincoli con i quali la legge portoghese costringe e imprigiona la libertà della Chiesa; quanto contraddica le istituzioni della nostra epoca ed anche le pubbliche proclamazioni di tutte le libertà; quanto sia indegna per qualsiasi essere umano e popolo civile. È anche proibito, con gravi pene, dare alle stampe qualsiasi atto dei Vescovi, e per nessun motivo, neppure dentro le mura delle Chiese, è lecito esporli al popolo, se non con l’autorizzazione dello Stato. È inoltre proibito, fuori dei luoghi sacri, celebrare qualsiasi cerimonia senza l’autorizzazione del governo repubblicano, compiere una qualsiasi processione, portare ornamenti sacri e neppure la stessa veste talare. È parimenti vietato, non solo negli edifici pubblici, ma anche nelle case private, esporre qualcosa che sappia di Religione Cattolica; mentre non è affatto vietato ciò che offende i Cattolici. Ancora, non è lecito costituire associazioni che abbiano lo scopo di praticare la Religione o la pietà: le società di questo genere sono considerate alla stessa stregua di quelle infami che vengono costituite a scopo delittuoso. E per di più, mentre a tutti i cittadini è concesso di poter fare uso a proprio arbitrio delle proprie cose, ai Cattolici invece, contro il giusto e il lecito, è fortemente ristretta una simile potestà, nel caso in cui vogliano che qualcosa del loro sia conferito a conforto delle opere delle persone pie o a sostegno delle spese per il culto divino: e le cose di questo genere che sono già state piamente stabilite, empiamente stravolte, vengono trasferite ad altro uso, violando i testamenti e le volontà di coloro che li hanno fatti. Infine lo Stato – cosa questa amara e grave al massimo grado – non esita ad entrare nel dominio specifico dell’autorità della Chiesa, e a prescrivere molte cose in quell’ambito che, riferendosi all’ordinamento stesso dell’Ordine Sacro, pretende per sé le migliori attenzioni della Chiesa: parliamo della educazione e della formazione della gioventù consacrata. Non solo infatti costringe gli alunni del clero, per gli studi delle scienze e delle lettere che precedono la teologia, a frequentare i pubblici licei, dove l’integrità della loro fede, per il tipo di istruzione estraneo a Dio e alla Chiesa, è sicuramente esposto a pericoli del tutto evidenti; ma il governo repubblicano si introduce anche nella vita e nella organizzazione interna dei seminari, e si arroga il diritto di designare i professori, di approvare i libri, di programmare gli studi sacri dei chierici. Sono rimessi così in vigore i vecchi decreti dei Regalisti; questi poi, dal momento che erano già colmi di pesantissima arroganza, mentre c’era ancora concordia fra lo Stato e la Chiesa, ora che lo stato vuole non avere nulla in comune con la Chiesa, non sembreranno forse contraddittori e pieni di stoltezza? – Cosa si deve dire dato che questa legge innanzi tutto è stata fatta anche per corrompere i costumi del clero e per provocarne la defezione dai loro propositi? Assegna anche infatti una certa pensione a carico dell’erario a coloro che, per l’autorità dei Vescovi, abbiano ricevuto l’ordine di astenersi dai Sacramenti, e ricolma di straordinari benefici i sacerdoti che, miserevolmente dimentichi delle loro funzioni, abbiano avuto l’ardire di sposarsi, e, cosa disdicevole a riferirsi, estende gli stessi benefici alla compagna e alla prole della sacrilega relazione qualora sopravvivano. – Infine, lo Stato non si accontenta di imporre alla Chiesa del Portogallo, spogliata dei propri beni, un giogo quasi servile, ma ancora cerca, per quanto le è possibile, sia di farla uscire dal grembo della cattolica unità e dalla comunione della Chiesa Romana, sia di impedire che la Sede Apostolica estenda la sua autorità e provvidenza ai religiosi del Portogallo. Quindi, in base a questa legge, non è permesso divulgare le prescrizioni del Romano Pontefice, se non quando ufficialmente concesso. Ugualmente al sacerdote che, presso un qualche ateneo istituito dall’Autorità Pontificia, abbia conseguito i gradi accademici nelle discipline sacre, anche se abbia poi terminato il tempo della teologia in patria, non è concesso di esercitare le funzioni sacre. In questo appare chiaro che cosa voglia lo Stato: fare in modo che i chierici adolescenti che desiderano perfezionarsi e conseguire una più raffinata cultura, non vengano, per tale motivo, in questa città, la capitale del Cattolicesimo: dove, certamente in modo molto più agevole che in nessun luogo altrove, avviene che le menti si conformino all’incorruttibile verità della Dottrina Cristiana e gli animi alla sincera pietà e fiducia nella Sede Apostolica. Questi, tralasciandone altri, che tuttavia non sono di minore iniquità, sono dunque i principali capitoli di questa malvagia legge. Pertanto, ammonendoCi la coscienza dell’Ufficio Apostolico, affinché, in tanto grande insolenza e audacia dei nemici di Dio, difendiamo con grande vigilanza la dignità e il decoro della Religione, e salviamo i sacrosanti diritti della Chiesa Cattolica, Noi, la legge sulla separazione della repubblica portoghese e della Chiesa, legge che disprezza Dio e ripudia la professione di Fede Cattolica; che abroga i patti solennemente concordati fra il Portogallo e la Sede Apostolica; che opprime la stessa libertà della Chiesa e distrugge la sua divina costituzione; che infine colpisce di ingiuria e di offesa la maestà del Pontificato Romano, l’ordine dei Vescovi, il clero e il popolo del Portogallo e allo stesso modo tutti i Cattolici che si trovano su tutta la terra, in forza della Nostra Autorità Apostolica, la disapproviamo, condanniamo, rifiutiamo. Poiché deploriamo fortemente che una simile legge sia promulgata, ratificata, pubblicata, ed eleviamo solenne protesta a tutti coloro che ne furono autori o partecipi, per questo proclamiamo e annunciamo che qualsiasi cosa sia stato stabilito contro i diritti inviolabili della Chiesa, è e deve essere ritenuto nullo e senza valore. – Senza dubbio questi difficilissimi tempi nei quali il Portogallo si trova in grande travaglio, dopo che è stata dichiarata guerra alla Religione in nome dello Stato, Ci procurano una grande preoccupazione e tristezza. Ci rattristiamo soprattutto per un così grande spettacolo di mali che opprimono una popolazione a Noi particolarmente diletta; soffriamo nell’attesa di cose ancora più violente che certamente la sovrastano, se, coloro che detengono il potere, non si dedicheranno in modo ragionevole alla loro funzione. – Ci consola però moltissimo la vostra esimia virtù, venerabili fratelli che guidate la Chiesa portoghese, e l’ardore di questo clero così mirabilmente in sintonia con la vostra virtù, e arreca una buona speranza che potranno alfine ivi esserci, con l’aiuto di Dio, cose migliori. Voi tutti infatti, non avete di certo considerato una ragione di sicurezza o comodo, ma di dovere e di dignità, quando avete ripudiato l’iniqua legge della separazione con una indignazione aperta e libera; quando in modo unanime avete professato di volere piuttosto acquistare la libertà del Servizio Sacro con la perdita dei vostri beni, che procurarvi la schiavitù per un modesto compenso; quando infine negaste che mai per nessuna astuzia o violenza dei nemici la vostra unione con il Vescovo di Roma potesse essere scossa. Queste testimonianze illustri di fede, di costanza e di grandezza d’animo che al cospetto della Chiesa Universale avete dato, sappiate che furono fonte di gioia per tutti i buoni, di onore per voi, di aiuto non piccolo allo stesso travagliato Portogallo. – Per questo continuate, come avete intrapreso, a perseguire con tutte le forze la causa della Religione, con la quale è congiunta la salvezza stessa della patria comune; ma soprattutto cercate di conservare attentamente e di confermare il massimo consenso e la concordia voi stessi fra di voi, e il popolo cristiano con voi, e tutti con questa Cattedra del beato Pietro. Questo infatti si prefiggono gli autori della legge sciagurata, come abbiamo detto: separare la Chiesa portoghese, che depredano e opprimono, non dalla repubblica (come vogliono fare apparire), ma dal Vicario di Gesù Cristo. Poiché se a questo progetto e delitto degli uomini voi attivamente cercherete di opporvi e resistere, già per mezzo vostro alle cose del Portogallo cattolico si sarà provveduto in modo adeguato. Noi intanto, per la singolare carità con cui vi amiamo, eleveremo suppliche a Dio Onnipotente, perché venga in aiuto del vostro diligente impegno. – Preghiamo poi voi, Vescovi del rimanente mondo cattolico, affinché vogliate mostrare la stessa cosa, in un tempo tanto critico del dovere, ai tormentati fratelli del Portogallo. – Auspice dei doni divini e a testimonianza della Nostra benevolenza, a voi tutti, venerabili fratelli, al clero e al vostro popolo, impartiamo con grande amore la benedizione apostolica.
Roma, presso san Pietro, 24 maggio 1911, festa di Maria Nostra Signora, Aiuto dei Cristiani, anno VIII del Nostro pontificato.
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Semidoppio. – Paramenti verdi.
In questa settimana non si poteva scegliere una lettura migliore nel Breviario, del doppio racconto degli ultimi giorni di David — poiché, dice S. Girolamo, « tutte le energie del corpo si indeboliscono nei vecchi, mentre solo la sapienza aumenta in essi » (2° nott.) — e della storia di suo figlio Salomone, che fu celebre fra tutti i re per la sapienza. – David, sentendo avvicinarsi il momento della morte, designò come suo successore, fra i suoi figli, Salomone, il diletto da Dio. E Natan profeta, condusse Salomone a Gihon, ove il sacerdote Sadoc prese dal tabernacolo l’ampolla d’olio e unse Salomone; si suonò la tromba e tutto il popolo disse: « Viva il Re Salomone! ». David disse a suo figlio: «Sarai tu a innalzare il tempio del Signore. Mostrati forte e sii uomo! Osserva fedelmente i comandamenti del Signore, affinché si compia la parola che pronunciò su me: « Il tuo nome si è affermato e i tuoi discendenti regneranno per sempre! Tu agirai secondo la tua sapienza, poiché sei un uomo saggio ». E David s’addormentò coi suoi padri e fu sepolto nella città che porta il suo nome dopo aver regnato sette anni a Ebron e trentatré anni a Gerusalemme, la fortezza inespugnabile che egli aveva preso ai Filistei. E Salomone si assise sul trono di suo padre, ed il suo regno fu ben sicuro. Era un giovane di diciassette anni, amava il Signore e gli offriva olocausti. – Iddio apparve in sogno a Salomone e gli disse. «Chiedi tutto quello che vuoi e io te lo darò ». Salomone gli rispose: « Signore, io non sono che un fanciullo per regnare al posto di David, mio padre; accordami la sapienza affinché io possa discernere il bene dal male e conduca il tuo popolo sulle tue vie ». E Dio aggiunse: « Ecco io ti dono un cuore saggio e intelligente, tale che tu supererai tutti i sapienti che furono e quelli che verranno, e ciò che tu non mi hai chiesto (lunga vita, ricchezza, trionfi) te lo darò in più ». Secondo la promessa del Signore, Salomone non solo fu il più sapiente, ma il più splendido e possente re d’Israele. Tutti i re gli apportavano i loro doni e tutte le nazioni che fino allora avevano disprezzato Israele, ne ricercavano l’alleanza. La regina di Saba venne a consultarlo e rimase piena di ammirazione per tutti quello che vide e intese da lui. Il Faraone, re d’Egitto, gli dette la figlia in isposa; Hiram, re di Tiro, fece con lui alleanza e un trattato, pel quale, in compenso del grano, dell’orzo, del vino, dell’olio, che le campagne della Palestina producevano abbondantemente, gli forniva legni preziosi delle foreste del Libano, e operai per la costruzione del tempio. Salomone insegnò al popolo il timor di Dio e questi lo protesse in tutte le imprese e lo aiutò quando il suo fratello maggiore avrebbe voluto regnare in sua vece. Così si realizzarono le parole che Salomone medesimo pronunciò e che S. Girolamo ci ricorda nell’ufficio di oggi: « Non disprezzare la sapienza e questa ti difenderà. Mettiti in possesso delia sapienza e acquista la prudenza; impadronisciti di essa ed essa ti esalterà, tu sarai glorificato da essa e, quando l’avrai abbracciata, ti metterà sul capo splendori di grazia e ti coprirà di una gloriosa corona ». « Infatti colui che giorno e notte, commenta S. Girolamo, medita la legge del Signore, diventa più docile con gli anni, più gentile, più saggio col progresso del tempo e negli ultimi giorni raccoglie i più dolci frutti dei suoi lavori d’altri tempi » (2° Nott.). – Laddove, « Quale frutto, chiede l’Apostolo, avete tratto dal peccato, se non la vergogna e la morte eterna? », mentre « ricevendo Dio voi producete frutti di santità e guadagnate la vita eterna » (Ep.). E nostro Signore dice nel Vangelo: « Si riconosce l’albero dai suoi frutti. Ogni albero buono porta frutti buoni e ogni albero cattivo porta frutti cattivi ». E aggiunge: « Non sono già quelli che mi dicono: Signore, Signore, che entreranno nel regno dei cieli, ma quelli che fan la volontà del Padre mio che è nei cieli • Cosi, commentando l’Introito di questo giorno, S. Agostino dice « È necessario che le mani e la lingua siano d’accordo: che l’una glorifichi Dio e che le altre agiscano ». La vera sapienza non consiste solamente nell’intendere le parole di Dio, ma nel realizzarle; né pregare Dio, ma anche nel mostrargli con le opere che lo amiamo ». « Il Vangelo – dice S. Ilario – ci avverte che le parole dolci e gli atteggiamenti mansueti debbono essere valutati dai frutti delle opere e che bisogna apprezzare qualcuno non secondo quello egli si mostra a parole, ma secondo quello che si mostra ai fatti, perché spesso la veste dell’agnello serve a nascondere la ferocità dei lupi. Dunque, attraverso la nostra maniera di vivere noi dobbiamo meritare la beatitudine eterna, di modo che noi dobbiamo volere il bene, evitare il male e obbedire di tutto cuore ai precetti divini per essere gli amici di Dio mediante il compimento di questi propositi » (3° Nott.). – Salomone, il re pacifico, non è che una figura del Cristo: il suo segno che tutti acclamano (Intr., Alt.) annuncia quello del Messia che è il vero Re della pace; Salomone, il più saggio dei re, presagisce il Figlio di Dio del quale il Padre disse sul Tabor: « Ascoltatelo » (Grad.). Egli presagisce la Sapienza incarnata che ci insegnerà il timor di Dio (id.) e il modo per distinguere il bene dal male (Vang.). Gli olocausti, fatti al tempo della consacrazione del Tempio di Salomone (Off.) sono, come quello di Abele (Secr.), ombra dell’unico sacrificio cruento, che Cristo offrì sul Calvario; che coronò in cielo, ove entrò dopo aver ottenuta la vittoria su tutti i suoi nemici. Questo dichiara il Salmo XLVI (Intr.), nel quale i Padri hanno visto, sotto il simbolo dell’Arca dell’alleanza che il popolo di Dio fa passare, in mezzo alle acclamazioni, dai campi di battaglia sulla montagna di Sion, una figura dell’Ascensione di Gesù nel regno celeste.
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps XLVI:2.Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis.
[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]
Ps XLVI: 3Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis: Rex magnus super omnem terram.
[Poiché il Signore è l’Altissimo, il Terribile, il sommo Re, potente su tutta la terra.]
Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis.
[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]
Oratio
Orémus.
Deus, cujus providéntia in sui dispositióne non fállitur: te súpplices exorámus; ut nóxia cuncta submóveas, et ómnia nobis profutúra concédas.
[O Dio, la cui provvidenza non fallisce mai nelle sue disposizioni, Ti supplichiamo di allontanare da noi quanto ci nuoce, e di concederci quanto ci giova.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom VI: 19-23
“Fratres: Humánum dico, propter infirmitátem carnis vestræ: sicut enim exhibuístis membra vestra servíre immundítiæ et iniquitáti ad iniquitátem, ita nunc exhibéte membra vestra servíre justítiæ in sanctificatiónem. Cum enim servi essétis peccáti, líberi fuístis justítiæ. Quem ergo fructum habuístis tunc in illis, in quibus nunc erubéscitis? Nam finis illórum mors est. Nunc vero liberáti a peccáto, servi autem facti Deo, habétis fructum vestrum in sanctificatiónem, finem vero vitam ætérnam. Stipéndia enim peccáti mors. Grátia autem Dei vita ætérna, in Christo Jesu, Dómino nostro”.
Omelia I
[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]
IL PECCATO
“Fratelli: Parlo in modo umano, a motivo della debolezza della vostra carne. Come deste le vostre membra al servizio dell’immondezza e dell’iniquità per commettere l’iniquità; così ora date le vostre membra al servizio della giustizia per la santificazione. Perché quando eravate servi del peccato, eravate liberi rispetto alla giustizia. Ma qual frutto aveste allora da quelle cose, delle quali adesso arrossite? Giacché il loro termine è la morte. Ma adesso, affrancati dal peccato e fatti servi di Dio, avete per vostro frutto la santificazione e per termine la vita eterna. Perché la paga del peccato è la morte, ma il dono grazioso di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore…” (Rom. VI, 19-23).
L’Epistola è un brano della Lettera ai Romani. Il Cristiano, liberatosi con l’aiuto di Dio dalla servitù del peccato, è passato a servire la giustizia. Sarebbe un controsenso, se tornasse ancora al peccato. Egli deve continuare nella giustizia a servir Dio con altrettanto zelo, con quanto prima ha servito al peccato. Quand’era schiavo del peccato, commetteva azioni di cui ora deve arrossire, le quali avevano per termine la morte spirituale, che è la paga del peccato. Ora, invece, lontano dal peccato, fatto servo di Dio, deve, con la grazia di Lui, compiere buone opere, che conducano alla vita eterna. Questo brano ci porge occasione di parlare del peccato, il quale:
1. È una dura servitù,
2. Che ci riempie di confusione
3. E ci conduce alla eterna rovina.
1.
Quando eravate servi del peccato, eravate liberi rispetto alla giustizia. Eravate da essa lontani, esenti dal suo giogo. Se il vostro padrone era il peccato, non potevate attendere alle opere della giustizia. Chi vive schiavo del peccato, non è libero di far quel che vuole; ma deve fare la volontà del padrone che odia la giustizia, e impedisce che i suoi servi, attendendo alle opere della giustizia, procurino la propria santificazione. L’Apostolo parla a coloro che avevano cessato di esser servi del peccato, e che, aiutati dalla grazia di Dio. attendevano alla propria santificazione. Anche noi nel Battesimo siamo stati affrancati dal peccato; ma non saremmo per avventura ritornati sotto il suo giogo, invece di attendere alla nostra santificazione! Pensiamo un po’ quanto sia deplorevole la condizione di chi è schiavo. Il cuore ci si commuove quando leggiamo di tanti nostri fratelli, che nei paesi barbari vengono catturati, venduti, comperati come schiavi. Approviamo l’opera di coloro che si adoperano per togliere o ridurre questa piaga; lodiamo i governi energici che, con il loro intervento, troncano questo turpe mercato. Ma una schiavitù da compiangersi anche maggiormente, è la schiavitù del peccato. «Chi commette il peccato è schiavo del peccato». (Giov. VIII, 34). – Si comprende che uno schiavo preferisca a un padrone crudele un padrone che abbia sentimenti di umanità. Quando si commette il peccato, invece avviene precisamente il contrario. Si abbandona Dio, bontà infinita, che non lascia senza ricompensa il più piccolo sacrificio fatto per lui, e si va a servire un tiranno inesorabile. – Il suo primo atto è quello di spogliarci di tutti i beni spirituali. Di tante lotte sostenute, di tante privazioni, di tanti sacrifici, che cosa rimane, per la vita eterna? – Il peccatore si è incontrato in un ladrone che lo ha spogliato di tutti i meriti che s’era acquistati servendo Dio, quend’era nella sua grazia. Avutici in suo potere, non ci lascia un momento di tregua. Comanda sempre. Se, caduto una volta in peccato, l’uomo non cerca, con l’aiuto di Dio, di sottrarsene subito al grave giogo, presto cadrà di nuovo. Commetterà un altro peccato, quasi per far dimenticare il primo; se ne aggiungeranno altri; si formerà l’abitudine; e, fatta l’abitudine, la servitù è completa. Non farà neppur più il tentativo di rompere i legami che l’avvolgono: «Purtroppo resterà schiavo delle sue passioni e stretto nelle catene dei suoi peccati» (Prov. V, 22.). – Come non gli bastasse, poi, un tiranno solo, il peccatore si cerca tanti tiranni quante sono le passioni a cui cede. Egli sarà schiavo della superbia, dell’avarizia, della gola, della lussuria, dell’empietà ecc.: tutti padroni che, messe una volta le catene al piede del loro schiavo, son decisi a non levarle più. «Quanti sono i peccati, quanti sono i vizi, altrettanti sono i tiranni» (S. Ambrogio. In Ps. CXVIII Serm. 20, 50. 1). –
2.
S. Paolo si domanda: Ma qual frutto aveste allorada quelle cose, delle quali adesso arrossite?Nella domanda è inclusa la risposta: Il frutto avuto fu la confusione. Si allude specialmente ai peccati impuri, ma vale per qualunque peccato. Qualunque peccatore, dopo la sua conversione, considerando qual era il suo stato durante la vita di peccato, non può sottrarsi a un certo smarrimento d’animo, vedendo a quale punto si era degradato. Dio ha dato all’uomo la ragione, con cui possa governare tutte le sue facoltà. Quando invece di governare, lascia che prendano sopravvento dalle passioni, la ragione è come sbalzata dal suo trono; l’uomo perde la sua dignità, e scende al livello degli esseri irragionevoli, «che non hanno né il giudizio con cui giudicare e governarsi, né lo strumento del giudizio, la ragione» (S. Bernardo – In Cant. Serm. 81. 6). Dio rimproverò amaramente Israele : «Il mio popolo sostituì la sua gloria con un idolo (Ger. II, 11). Chi offende Dio si prostra innanzi all’idolo mostruoso del peccato. La disillusione segue necessariamente, e sempre, il peccato. «Ogni peccato ha questo: prima che si commetta ha un certo qual piacere; commesso che sia, il piacere cessa e inaridisce: vi subentra il dolore e la tristezza » (S. Giov. Crisost. In Epist. ad Thim. Hom. 2, 3). E quanto più uno si sforza di trovar soddisfazione nel peccato, tanto più si sente oppresso dal dolore e dalla tristezza. Nonostante tutta l’apparenza esterna: allegria, divertimenti, piaceri, ricchezze, onori, il peccatore è nella più stretta miseria spirituale. Nonostante i frizzi, l’ostentato disprezzo, il compatimento per coloro che servono Dio, egli gli invidia. Essi godono un bene che manca a lui: la serenità dello spirito. Il nostro cuore è fatto per Dio, e i piaceri di quaggiù non possono appagarlo. L’anima si trova a posto quando è con Dio: lontana da Lui, non c’è che lo smarrimento, l’angoscia, la confusione.
3.
Non solo le azioni peccaminose ci rendono infelici in questa vita; esse ci conducono all’eterna dannazione, giacché il loro termine è la morte. Questo è il soldo che il peccato paga ai suoi seguaci per il servizio prestato. «La via dei peccatori — dice S. Agostino — ti piace perché è larga, e molti vi camminano: tu ne vedi la larghezza, ma non ne vedi il termine. Dove essa finisce, sta il precipizio; essa conduce in fondo a un baratro: quivi finiscono quelli che spaziano allegramente in questa via» (En. in Ps. CXLV, 19). Chi comincia male, finisce peggio. Ai nostri giorni hanno preso grande sviluppo le escursioni in montagna. Sono comitive, più o meno numerose, che togliendosi dalla vita agitata e dall’afa della città, vanno a respirare l’aria libera e a godere lo spettacolo della natura. Come sono allegre, chiassose alla partenza! Come fanno pompa del loro sacco e della loro piccozza! Ma non è sempre così al ritorno. Non di rado la salita è troncata a metà. Alcuni s’affrettano a casa, con l’angoscia nel cuore, a portare alla madre, alla sorella, alla sposa d’uno dei gitanti una triste notizia: « È precipitato in un burrone!» Altri rimangono sul posto come impietriti, o vanno in cerca, di coraggiosi alpigiani che, affidati alle corde, scendano nel precipizio a rintracciare e a riportare il cadavere dello scomparso. Quante volte la morte assale, lungo il cammino incompiuto, il peccatore nella sua spensieratezza, e lo precipita nel baratro dell’inferno! E da quel baratro nessuno lo toglierà più. « Chi vuol passare da qui a voi non lo può » (Luc. XVI, 26), dice Abramo, invocato dal ricco epulone. Laggiù in quel baratro non ci sarà la pace e la tranquillità, che regna nei burroni delle montagne. Laggiù ci sarà il rimorso, lo strazio d’ogni pena, la lontananza da Dio. Se noi quaggiù perdiamo un amico, ne possiamo trovare un altro, forse migliore del primo. Ma Dio, non si può sostituire ; né il dolore della sua perdita può venir lenito dal tempo. La stessa pena che si soffre, parla della potenza e della giustizia di Lui. Nuovi ricordi, nuove distrazioni non ce lo potranno far dimenticare. Quale pena! Essere creati per amar Dio, per goder Dio, e dover starsene lontani per sempre, sotto i colpi della sua giustizia punitrice. Il padre Giovanni Mazzucconi, primo missionario e martire della Melanesia, trovandosi, da fanciullo, in collegio, vide un compagno commettere una grave mancanza contro di un altro. Diede in un pianto dirotto. Uno gli si accostò e gli fece la domanda: «Perché piangi ?» — « Piango — rispose — perché quello ha peccato » (Cenni sul sacerdote Giovanni Mazzucconi. Milano .1857, pagina 11). Se si considerasse sul serio la bruttezza e le conseguenze del peccato, ci sarebbe veramente da piangere. Ma, purtroppo, non si considera la malizia e la bruttezza del peccato prima di commetterlo, e non la si considera, generalmente, dopo che si è commesso; e così, un peccato tira l’altro. Prendiamo un po’ per noi le parole del profeta ai Giudei: «Applicatevi col vostro cuore a riflettere sui vostri andamenti» (Agg. 1. 5), e se scorgiamo che la nostra vita è peccaminosa, mutiamo subito condotta. « È bello non peccare, ma è anche buona cosa convertirsi dopo aver peccato; come è cosa eccellente esser sempre sani, ma è bello anche guarire dalla malattia» (S. Clemente Alessandrino. Pedag. L . 1 , c. 9).
Graduale
Ps XXXIII: 12; XXXIII: 6
Veníte, fílii, audíte me: timórem Dómini docébo vos. – V. Accédite ad eum, et illuminámini: et fácies vestræ non confundéntur.
[Venite, o figli, e ascoltatemi: vi insegnerò il timore di Dio. V. Accostatevi a Lui e sarete illuminati: e le vostre facce non saranno confuse.]
Alleluja
Allelúja, allelúja
Ps XLVI: 2 Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis. Allelúja.
[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt VII: 15-21
“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Atténdite a falsis prophétis, qui véniunt ad vos in vestiméntis óvium, intrínsecus autem sunt lupi rapáces: a frúctibus eórum cognoscétis eos. Numquid cólligunt de spinis uvas, aut de tríbulis ficus? Sic omnis arbor bona fructus bonos facit: mala autem arbor malos fructus facit. Non potest arbor bona malos fructus fácere: neque arbor mala bonos fructus fácere. Omnis arbor, quæ non facit fructum bonum, excidétur et in ignem mittétur. Igitur ex frúctibus eórum cognoscétis eos. Non omnis, qui dicit mihi, Dómine, Dómine, intrábit in regnum coelórum: sed qui facit voluntátem Patris mei, qui in cœlis est, ipse intrábit in regnum cœlórum.”
[“In quel tempo disse Gesù a’ suoi discepoli: Guardatevi dai falsi profeti, che vengono da voi vestiti da pecore, ma al di dentro son lupi rapaci: li riconoscerete dai loro frutti. Si coglie forse uva dalle spine, o fichi dai triboli? Così ogni buon albero porta buoni frutti; e ogni albero cattivo fa frutti cattivi. Non può un buon albero far frutti cattivi; né un albero cattivo far dei frutti buoni. Qualunque pianta che non porti buon frutto, si taglia, e si getta nel fuoco. Voi li riconoscerete adunque dai frutti loro. Non tutti quelli che a me dicono: Signore, Signore, entreranno nel regno de’ cieli; ma colui che fa la volontà del Padre mio che è ne’ cieli, questi entrerà nel regno de’ cieli”]
Omelia II
Sopra le buone opere.
[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]
“Omnis arbor, quæ non facit fructum bonumexcidetur, et inignem mittetur.”
Matth. VII.
Qual è, fratelli miei, quell’albero sfortunato, che Gesù Cristo nel suo sdegno minaccia di far tagliare e gettar nel fuoco, per non aver portati frutti buoni? Voi mi prevenite senza dubbio nella risposta, che debbo farvi, e, per poco che abbiate penetrato il senso misterioso delle parole di Gesù Cristo, comprendete facilmente che quell’albero infruttuoso è il Cristiano sterile in buone opere. L’uomo cristiano, infatti, è come un albero, che Dio ha piantato nel suo campo, facendolo nascere nel seno della vera religione. Dio ha coltivato quest’albero con gran cura, a fine di renderlo fertile; egli ha dunque motivo di aspettarne del frutto, e se non produce, meritamente lo condanna ad esser gettato nel fuoco: excidetur. Bisogna dunque produrre frutti di buone opere, e a questa regola vuole Gesù Cristo, che noi riconosciamo i buoni Cristiani. Guardatevi dai falsi profeti, dice Egli nel Vangelo: essi vengono a voi sotto la pelle di pecora, ed al di dentro sono lupi rapaci; voi li conoscerete dai loro frutti: a fructibuseorum cognoscetis eos. Un buon albero non può produrre cattivi frutti, né un cattivo albero buoni frutti; ed ogni albero, che non porterà frutto buoni, sarà tagliato e gettato nel fuoco: Omnis arborquæ etc. Or vi sono tre sorta di alberi sterili, che non portano frutti buoni, dice s. Bernardo; gli uni che non ne portano affatto, sunt, qui fructumnon faciunt; gli altri, che ne portano, ma che non convengono loro, qui fructumfaciunt, sed non suum; finalmente, che portano frutti buoni, che sono lor propri, ma non li producono in tempo: sunt, qui faciunt fructum suumsed non suo tempore. Così vi sono Cristiani, che non fanno veruna affatto opera buona, altri che ne fanno, ma non sono loro proprie; altri finalmente, che fanno buone opere, che loro convengono, ma non le fanno nel tempo e nel modo, che Dio vuole. Bisogna dunque, fratelli miei, per evitare la sorte degli alberi sterili, che saranno gettati al fuoco, produrre frutti di buone opere, produrne che vi siano propri, e produrli nel tempo e modo, che Dio domanda, come dice il profeta, allorché, parlando dell’uomo, che si attacca alla legge di Dio, lo paragona ad un albero, che piantato lungo le acque, produce frutti nel suo tempo: fructum dabitin tempore suo (Ps.I). Al che vengo ad esortarvi, fratelli miei, facendovi vedere la necessità delle buone opere; sarà il mio primo punto. Quali sono le buone opere, che Dio domanda da voi: secondo punto.
I. Punto. Egli è un errore assai comune ai Cristiani di credere, che, per esser salvo, basti non far del male, e che le buone opere non siano d’obbligo che per le persone impegnate in uno stato di perfezione. Ma non è così fratelli miei, che Dio l’intende. Egli non solamente vuole, che noi evitiamo il male, ma vuole ancora: che pratichiamo il bene; a tutti gli uomini indifferentemente è indirizzato questo precetto: fuggite il male, e fate il bene; Declinaa malo, et fac bonum ( Ps. XXXVI). Se vi sono Cristiani dannati per aver fatto il male, che loro era proibito, non ve ne saran meno e forse molti più per non aver fatto il bene, che loro era comandato. Per maggiormente convincerci ancora di questa verità, apriamo i libri santi; noi vi apprenderemo, che senza le buone opere non possiamo esser salvi, che le buone opere al contrario sono il solo titolo, che rende certa la nostra predestinazione. – Senza lasciare l’odierno vangelo, prendiamo di nuovo il sacro testo, che vi ho citato, per dargli una maggiore spiegazione. Ogni albero, dice Gesù Cristo, che non porterà frutti buoni sarà tagliato e gettato al fuoco.* omnis arborquæ etc.; cioè, ogni uomo, ogni cristiano, che trascura le buone opere, che non fa il bene che Dio gli comanda, che è sterile in virtù, sarà condannato alle fiamme eterne dell’inferno, se ne richiede di più per provare la necessità delle buone opere? Non basta già, affinché un albero sia buono, che getti molti rami, che produce foglie ed anche fiori; egli ancora deve produrre dei frutti: nello stesso modo un Cristiano non deve contentarsi delle apparenze delle virtù, simili alle foglie, che il minimo vento rapisce, che possono bensì ingannare gli uomini, ma non già Dio; egli non deve neppure limitarsi a semplici desideri, che uccidono i poltroni, come dice la Scrittura, né a belle parole, che sono senza effetto, come i fiori che non sono seguiti da alcun frutto; ma deve esser fertile in buone opere, altrimenti sarà tagliato come un albero infruttuoso, e gettato nel fuoco eterno: excidetur, et inignem mittetur. Non evvi strada di mezzo, ripiglia su di ciò s. Agostino; bisogna che il tralcio della vite produca uve, o che sia messo nel fuoco: aut vitis,aut ignis. Affinché dunque non cada nel fuoco, egli deve dare del frutto: ut ergonon sit in igne, sit in vite. A che infatti vi servirà, fratelli miei, aver formati bei progetti di conversione, aver concepiti buoni proponimenti, aver risoluta quella restituzione della roba altrui, quella riconciliazione col vostro nemico, avere sovente promesso di adempiere ai doveri di cristiano e a quelli del vostro stato, se le vostre risoluzioni non hanno alcun effetto, se voi non mettete la mano all’opera. Sareste voi ben ricevuti al tribunale di Gesù Cristo, non presentandogli che desideri e parole? No, senza dubbio fratelli miei; sono virtù, che converrà presentargli; voi sarete condannati coi vostri desideri e con le vostre parole. Se l’inferno fosse aperto ai vostri occhi, voi vi vedreste un’infinità di persone, che han formati, come voi, bei progetti, e forse ancora dei più belli, che voi: ma per non averli effettuati, eccole condannate, come alberi sterili, a bruciare nel fuoco, che non le consumerà giammai. Oh alberi disgraziati e vittime delle vendette eterne! Dovevate dunque gettare radici sì profonde nella terra, spingere verso il cielo una sì gran quantità di rami, dare con le vostre foglie e coi vostri fiori sì belle speranze, per avere la trista sorte d’essere gettati nel fuoco ? Il padre di famiglia nulla aveva dimenticato per rendervi fertili; egli vi ha piantati in buon terreno facendovi nascere nel seno della Chiesa; vi aveva coltivati colle sue attenzioni, riscaldati coi raggi del suo sole; vi aveva innaffiati con le piogge celesti della sua grazia; aveva tagliata una parte dei vostri rami con le afflizioni, di cui erasi servito per purificarvi e farvi portare degni frutti di penitenza; ma voi non avete corrisposto alle sue cure, voi avete resi inutili tutti gli aiuti, ch’egli vi ha dati; voi avete languito in una vita molle e sterile in buone opere; eccovi per sempre tolti dalla terra dei viventi, condannati ad ardere eternamente in una regione di morti: excidetur, et in ignem mittetur(Matth. VII). – Non deplorerò io qui anticipatamente, fratelli miei, la sorte funesta d’un gran numero di coloro che mi ascoltano, i quali si rassicurano, perché non fanno del male, perché non sono soggetti a vizi enormi, perché non fan torto ad alcuno, perché sono anche moderati nelle loro passioni; ma tralasciano il bene, non praticano veruna virtù e trascurano le buone opere. Alberi sterili ed infruttuosi, che occupate inutilmente la terra, non temete voi le minacce, che il santo precursore del Messia faceva altre volte a quelli che vivevano come voi, quando loro annunziava, che la scure era di già alla radice, e che fra poco sarebbero tagliati e gettati nel fuoco? Piacesse a Dio, fratelli miei, che questa minaccia facesse su di voi le medesime impressioni che fece su coloro cui s. Giovanni Battista la indirizzava! Che faremo noi, dicevan essi, per evitare la disgrazia, che è pronta a piombarci addosso? Fate degni frutti di penitenza, rispondeva loro l’uomo di Dio; colui che ha due vesti ne dia a chi non ne ha, e colui, che ha di che mangiare, faccia lo stesso; ecco quello ch’io vi dirò. Praticate queste opere di misericordia e le altre virtù, che il vostro stato vi permette, e alle quali v’impegna, poiché questo è il solo mezzo di riparare i colpi onde siete minacciati. Non vi lusingate d’essere i figliuoli di Abramo, diceva il Battista ai popoli che l’ascoltavano: non vi rassicurate, vi dirò io altresì, sopra l’augusta qualità di cristiani, che avete ricevuta al Battesimo, sopra la fede di cui fate professione; sappiate che questa fede, questo carattere di cristiano a nulla vi serviranno senza le buone opere; che la fede sarà per voi al contrario un motivo di riprovazione, se non è animata dalle altre virtù, che debbono accompagnarla. La fede è un talento che Dio ci ha dato; bisogna dunque far valere questo talento nelle mire di Dio, altrimenti risolvervi a subire la stessa sorte che quel servo del Vangelo, il quale non aveva fatto profittare il talento, che il suo padrone gli aveva confidato. Come fu egli trattato? Voi lo sapete e l’avete sovente udito dire: il suo padrone fece levargli il suo talento; comandò che quel servo codardo fosse rinchiuso in una stretta prigione, che fosse gettato nelle tenebre, ove erano pianti e stridori di denti: Inutilem serranieiicite in tenebras exteriores, illic erit fletus et stridor dentium [Matth. XXV). Che aveva dunque fatto quel servo peressere trattato con tanto rigore? Aveva forse involato alcun, che al suo padrone?Non l’aveva all’opposto difeso contro gl’ingiusti usurpatori? Erasi egli forse servito del suo talento per con tentare passioni malvage, per farne materia di dissolutezze? No, Cristiani, non ne aveva punto abusato: al contrario egli l’aveva nascosto, sotterrato, per timore che non gli venisse rapito; sudi che egli pretese scusarsi: io sapeva disse al suo padrone, quale è la vostra esattezza a domandar conto delle cose che confidate ai vostri servi: e perciò io ho avuto la precauzione di nascondere il mio talento sotto terra, a fine di ritrovarlo quando voi me lo richiedereste. Ma la sua scusa non fu ricevuta;il motivo su cui pretese egli giustificarsi fu appunto, dice s. Girolamo,ciò che lo fece condannare. Giacché voi sapevate, dice il padrone, che io mieto dove non ho seminato, dovevate dunque far profittare il mio danaro, affinché al mio ritorno io potessi trarne qualche vantaggio: e perciò io vi tolgo il talento, e vi condanno al castigo, che avete meritato. Applicate a voi medesimi, fratelli miei questa parabola: voi non siete soggetti,dite voi, a grandi vizi; voi non fate alcun male, non siete né bestemmiatori né calunniatori né impudici né ubriaconi né ingiusti usurpatori dei beni altrui. Io lo concedo; voi non sarete condannati per questi vizi ma lo sarete per non aver fatto il bene, che Dio domandava da voi nello stato in cui vi ha posti; voi lo sarete per non aver fatto valere il talento della fede, per non averlo renduto fruttifero con le buone opere meritorie della vita eterna; voi lo sarete per aver lasciata languire questa fede in una vita molle ed effeminata. – Quand’anche voi aveste tanta fede da trasportare i monti, da fare i più grandi prodigi, questa fede, questi prodigi a nulla vi serviranno senza le buone opere.. Voi avrete la medesima sorte al giudizio di Dio che quelli di cui parla Gesù Cristo, i quali gli diranno, per aver parte alle sue ricompense, che hanno profetizzato nel suo nome, che hanno scacciati i demoni, che hanno fatti grandi miracoli, e che non saranno tuttavia riconosciuti per suoi veri servi, perché non avranno fatta la volontà di Dio, e non avranno buone opere da presentargli. Il supremo giudice vi dirà, come a quegli sterili operai, che non vi conosce punto: Nunquam novi vos (Matth.VII). Egli pronuncerà contro di voi una sentenza di maledizione, che vi separerà per sempre dalla sua divina presenza: Discedite a me, omnes, qui operaminiiniquitatem (Ibid.) Mentre non basta, dice Gesù Cristo, per entrare nel regno dei cieli, non basta dire: Signore; ma bisogna fare ha volontà del Padre celeste con la pratica delle buone opere: Quoti facit voluntatem patris mei,ipse intrabit in regnum coelorum (Ibid). Quindi, fratelli miei, l’omissione delle buone opere sarà il motivo particolare su cui cadrà la condannazione, che Gesù Cristo pronuncerà contro, i reprobi. Ritiratevi da me, loro dirà Egli perché io ha avuto fame e sete nella persona dei poveri, e voi non mi avete dato a bere e a mangiare; io sono stato infermo e prigioniero, e voi non mi avete visitato; il che è come se loro dicesse (nota s. Agostino): no, no, non è già per la cagione che voi credete che io vi condanno, non è solamente per avere commessi delitti; mentre se voi avreste fatte buone opere, che li avessero cancellati, se avreste redenti i vostri peccati con limosine, io non vi condannerei: ma perché avete trascurate le buone opere né avete fatto il bene, che io domandava da voi, vi riprovo e vi condanno alle fiamme eterne. Vergini insensate, voi non entrerete nella sala del convito, non solamente per aver perduta la vostra verginità, ma perché le vostre lampade non sono ripiene dell’olio delle buone opere, voi sarete escluse dal banchetto eterno degli eletti: Nescio vos, io non vi conosco. Le buone opere sono dunque il solo titolo, che può assicurarvi l’entrata nell’eredità del Signore: il che possiamo noi ancora osservare nella sentenza, che Gesù Cristo pronuncerà in favore degli eletti. Venite, loro dirà egli, o benedetti dal mio Padre, possedete il regno, che vi ho preparato; io ho avuto fame e sete, e voi mi avete dato a mangiare e a bere; io sono stato nudo, e mi avete rivestito; prigioniero ed infermo, e mi avete visitato: ecco ciò, che fa il vostro merito avanti a me. Non è già per aver avuto ricchezze sopra la terra, per avervi posseduti onorevoli impieghi, che io vi do luogo nel mio regno, ma perché avete fatto un uso santo delle ricchezze, soccorrendo i poveri, perché vi siete serviti della vostra autorità per farmi onorare e rispettare; si è per questo, che io vi do le mie ricompense. Non è già a cagione della scienza, della fama, della gloria che vi siete acquistata sulla terra, né a cagione delle grandi conquiste che vi avete fatte; ma si per esservi umiliati negli onori, per esservi mortificati in mezzo dei piaceri, o per aver sopportati con pazienza i sinistri accidenti, le malattie, le afflizioni, in una parola, per avere adempiuti i doveri veri di cristiano, per aver osservati i miei comandamenti; si è per questi, che io vi metto in possesso della mia eredità, che io vi dò l’entrata nell’allegrezza del vostro Signore: qui super pauca fuisti fidelis, intra in gaudium Domini tui (Matth. XXV). Voi vedete dunque, fratelli miei, che solamente le buone opere vi meriteranno un accesso favorevole al tribunale di Gesù Cristo, mentre non è già del vostro Dio, come dei grandi della terra, presso di cui la qualità, il danaro, il credito hanno più accesso che il merito. Dio, presso cui non è accettazion di persone, non avrà riguardo che alla virtù; egli renderà a ciascheduno secondo le sue opere, dice Paolo. Il più abbietto tra gli uomini, arricchito del merito delle buone opere, sarà infinitamente più grande avanti a Dio, che tutti i potentati del mondo, che saranno sprovveduti di questi meriti. – Tali sono, fratelli miei, le vere ricchezze, i soli tesori che voi dovete esser solleciti di accumulare; questi sono i soli beni, che porterete con voi dopo la vostra vita; la morte, l’implacabile morte, che non risparmia alcuno, che fa cadere sotto i suoi colpi i grandi come i piccoli, vi toglierà i beni, che possedete; le case, che occupate per farle passare ad altri: ma ella non può toglierci il merito delle opere buone; questo tesoro è inaccessibile ai vermi, alla ruggine, ed ai colpi della morte; egli seguirà la nostr’anima al tribunale di Gesù Cristo, ed è il solo bene, che ci resterà. O figliuoli degli uomini, che vi date tanta sollecitudine per accumular ricchezze, che non porterete con voi, quanto siete ciechi nel non far provvisione di quelle, che vi seguiranno nell’eternità! Perciocché, come dice l’Apostolo, voi non mieterete, se non ciò, che avrete seminato: Quae seminaverit homo, haecet metet (Gal. VI). Sforzatevi dunque di rendere la vostra vocazione certa pel mezzo delle buone opere: esse vi sono necessarie in qualunque stato siate, giusti o peccatori; quest’obbligo vi riguarda tutti. Se siete peccatori, dovete fare buone opere per trarre su di voi grazie di conversione che cancellino i vostri peccati e vi riconcilino con Dio. Battete alla porta della misericordia del Signore con preghiere continue, ed Egli ve l’aprirà; riscattate i vostri peccati con le vostre limosine, e vi saranno perdonati; mortificatevi con opere di penitenza, e rientrerete nei diritti che il peccato vi ha rapito. Fate servire, come dice l’Apostolo, alla santità quei membri, che hanno servito all’iniquità. Quelle mani cariche d’ingiustizia, apritele per fare le restituzioni cui siete obbligati e per spargere le vostre liberalità nel seno dei poveri. Di quei piedi, che vi conducevano nei luoghi di dissolutezza, servitevi per visitare Gesù Cristo nel suo santo tempio e nei suoi membri pazienti, che sono gl’infermi: Sicut exhibuistis membra vestra servire iniustitiae, et iniquitati, ita nunc exhiletemembra vestra servire iustitiae(Rom. VI). Giusti, voi dovete altresì praticare le buone opere per perseverare nella grazia di Dio; mentre tostochè cesserete di far il bene commetterete il male, non essendovi alcun mezzo tra una vita malvagia ed una vita sprovveduta di buone opere. Come, infatti, resisterete voi senza la pratica delle buone opere alle tentazioni dei vostri nemici? Come domerete voi le vostre passioni senza gli atti delle virtù, che loro sono contrarie? Come combatterete voi la superbia senza l’umiltà, l’avarizia senza la liberalità, l’ira senza la mansuetudine, l’amore dei piaceri senza la mortificazione dei sensi? Bisogna dunque far il bene per evitar il male: Declinaa malo, et fac bonum. Ma quali sono le buone opere, che ciascuno deve fare? Secondo punto.
II. Punto. Dalla qualità dei frutti si conosce quella dell’albero; un buon albero, dice Gesù Cristo, non può produrre cattivi frutti, ed un cattivo albero non ne può produrre di buoni: non si raccolgono uve dalle spine né fichi dai triboli. Un buon albero deve dunque portare il frutto, che gli è proprio; vale a dire, un Cristiano deve fare le azioni, che gli convengono, e che Dio domanda da lui, e farle nel modo che Egli vuole. Non basta operare, né anche operar molto; la perfezione cristiana non consiste nemmeno in far grandi cose, ma in far le azioni proprie del suo stato, in farle con una retta intenzione di piacere a Dio. Tali sono le condizioni necessarie per rendere le nostre opere degne della gloria eterna. Primieramente convien fare le azioni proprie del nostro stato, cioè quelle, che dipendono da noi, e a cui siamo obbligati. No, fratelli miei, Dio non domanda da noi cose impossibili e superiori alle nostre forze; Egli vuole che siamo santi, e noi possiamo divenirlo. Or, se la santità consistesse in far cose che non dipendono da noi, in far azioni straordinarie, noi non potremmo pervenirvi, poiché non tutti trovano l’occasione, od hanno i talenti e le forze necessarie per quelle grandi azioni. Non è già dato a tutti di avere estasi, rapimenti nella orazione; non conviene a tutti fare la funzione di apostolo, annunziare il Vangelo alle nazioni della terra; non tutti hanno la forza di soffrire ciò, che i martiri hanno sofferto, e Dio non lo domanda da noi; Egli non esige che, come i solitari, noi abbandoniamo tutti i nostri beni per ritirarci in profonde solitudini, ed abbandonarci a tutti i rigori delle penitenze, che essi han praticate. Ciò dunque, che Dio domanda da voi, fratelli miei, si è che adempiate i doveri del vostro stato, che facciate le azioni, che vi convengono, conformemente ai talenti e alle grazie, ch’Egli vi conferisce. Voi non avete, per esempio, lo spirito bastantemente Elevato e penetrante per intertenervi con Dio nella contemplazione; voi non ne avete neppure il tempo; gli affari, che vi occupano, e la cura, che dovete alla vostra famiglia, non ve ne lasciano la libertà; le vostre occupazioni non vi permettono di passare una parte del giorno in chiesa, come tanti altri; ma qualunque occupazione voi abbiate, non potete forse e non dovete anche dare qualche tempo all’orazione, come la mattina ela sera, tempi in cui non dovete mai tralasciarla? Chi v’impedisce ancora, durante il lavoro, di sollevare qualche volta il vostro cuore a Dio? Non fa d’uopo per questo di aver scienza, penetrazione di spirito; basta richiamarvi alcune volte alla sua santa presenza per onorarlo, ringraziarlo, amarlo, offrirgli le vostre azioni, le pene annesse al vostro stato. Chi v’impedisce ancora, nei giorni in cui siete meno occupati, di fare qualche lettura di pietà in un buon libro, di rendere qualche visita a Gesù Cristo nel suo santo tempio, giacché voi trovate benissimo il tempo di renderne alle persone, che amate, o cui volete voi domandar qualche grazia? Voi non siete provveduti dei beni di fortuna per fare abbondanti limosine ai poveri; i ricchi vi sono obbligati; ma se non avete ricchezze, non avete voi altre occasioni di esercitare la carità a riguardo del prossimo, rendendo alcuni servigi a coloro che hanno bisogno di voi, consolando gli afflitti, visitando gl’infermi, i prigioni, o servendovi di qualche altro mezzo, che una carità industriosa sa benissimo ritrovare. Voi non siete d’un temperamento forte abbastanza per mortificarvi con digiuni continui e rigorosi; ma non potete per lo meno, e non dovete voi forse osservare quelli, che la Chiesa vi comanda? Non potete voi per ispirito di penitenza sminuire in altri tempi qualche cosa dei vostri banchetti? Il che voi fate molto spesso per sanità o anche per risparmio di spesa. Voi non potete, come gli apostoli, o come i ministri del Vangelo, annunziare la parola di Dio ai popoli; ma quante occasioni non avete voi di esercitar lo zelo nel ricinto della vostra famiglia, istruendo, correggendo quei di casa, insegnando agli ignoranti le verità della salute, rimettendo con un buon avviso sul diritto sentiero un peccatore, che se ne allontana? In una parola, voi non avete che ad adempiere i doveri del vostro stato, fare il bene che si presenta secondo le diverse occasioni e circostanze, che la provvidenza di Dio vi offre secondo i vostri lumi, i vostri talenti e la vostra condizione; ed ecco i frutti delle buone opere, che voi potrete presentare al padre di famiglia da collocare nel suo granaio.. Un’ampia messe vi è aperta, voi non avete che a raccogliere per arricchirvi. Non vi lamentate dunque che la salute vi sia impossibile o anche difficile: il regno di Dio è dentro di voi, dice Gesù Cristo, fate ciò, che dipende da voi, e che Dio vi domanda: e sarete quel buon albero, che porta buoni frutti. Io dirò, fratelli miei, ciò che Dio domanda da voi; fatevi ben attenzione, per non lasciarvi sedurre da una divozione falsa, che si fatica inutilmente, e fa molte cose senza merito, perché non sa la volontà di Dio. Bisogna dunque attaccarvi alle opere di precetto, a preferenza di quelle, che sono di puro consiglio. Voi siete inclinati a fare limosine ai poveri; ma che vi serviranno quelle limosine, se avete debiti a pagare, e fate soffrire con le dilazioni i vostri creditori? Voi visitate le chiese, e vi passate un certo tempo a spandere il vostro cuore avanti al Signore: io lodo la vostra pietà, se essa non vi allontana dagli altri vostri doveri; ma se la vostra presenza è necessaria nella famiglia per vegliare sopra i vostri figliuoli, sopra i vostri servi che vivono nel disordine per difetto di vigilanza dal canto vostro, la vostra pietà non è più a proposito. I frutti di virtù, che Dio domanda da voi sono la cura, che dovete prendervi della salute di coloro, che da voi dipendono. Voi amate la lettura dei buoni libri e v’impiegate un certo tempo; occupazione molto lodevole, ma essa non deve involarvi il tempo, che dovete all’esercizio d’un impiego, agli affari di cui siete incaricati. Voi avete zelo per riformare i difetti altrui, ma bisogna cominciare dai vostri. Voi seguite scrupolosamente certe pratiche di pietà, che vi siete prescritte, voi recitate preci di confraternite, cui siete aggregati; ma poi trascurate i vostri doveri essenziali a riguardo di Dio e del prossimo; così tutto il bene che fate a nulla vi serve; bisogna prima d’ogni cosa fare ciò, che è d’obbligo. Tali sono i frutti, che dovete portare per essere un buon albero, un buon cristiano: Fructum suumdabit. Non basta ancora fare le buone opere cui siamo obbligati, ma convien farle con retta intenzione. Ed invero, fratelli miei, l’intenzione è per riguardo alle nostre azioni ciò che l’occhio è al corpo, la radice all’albero, il sole all’universo; siccome il corpo è nelle tenebre, se non ha alcun occhio , l’albero è sterile senza la radice, l’universo senza il sole non è che un caos tenebroso; così un’azione, benché buona sia pel suo oggetto, se non è animata da retta intenzione di piacere a Dio, è un’azione tenebrosa, inutile a chi la fa. Il che Gesù Cristo ha voluto farci intendere quando ci disse: se il vostro occhio è semplice, tutto il vostro corpo sarà luminoso; ma se l’occhio è guasto, tutto il corpo sarà nelle tenebre: si oculus tuns fuerit simplex, totumcorpus tuum lucidum erìt; si autem oculustuus fuerit nequam, totum corpustenebrosum erìt (Matth. VI.) Or quest’occhio semplice o tenebroso, che dà luce o oscurità al corpo delle nostre azioni, è, secondo sant’Agostino, la buona o cattiva intenzione, che le accompagna. Se l’intenzione è buona e pura nel suo motivo, tale sarà ancora l’azione; ma se l’intenzione è viziosa, essa comunicherà all’azione il suo difetto. Questa retta intenzione è, per così dire, il fondamento e l’anima della vita spirituale. Ella distingue i figliuoli di Dio da quelli, che non lo sono. Con essa le azioni più comuni, più abbiette, sono azioni grandi avanti a Dio; senza di essa le azioni più straordinarie non hanno alcun merito, e nulla servono. Date tutti i vostri beni ai poveri, fate le azioni più gloriose avanti agli uomini; se non siete animati da una retta intenzione, voi non avete fatto cosa alcuna, non meritate più ricompensa che i farisei, i quali digiunavano, facevan limosine e lunghe preghiere, ma perché facevano le loro opere per attirarsi la stima degli uomini, che dice Gesù Cristo parlando di essi? Che han ricevuta la loro ricompensa: receperuntmercedem suam (Matth. VI). Lo stesso si dirà di voi, fratelli miei, qualunque buona opera voi pratichiate: se vi proponete altro fine che di piacere a Dio, voi avrete tutta la pena della virtù, e non ne avrete in alcun modo la ricompensa. Quindi uno dei più pericolosi artifizi di cui si serve il demonio per allontanare gli uomini dalla salute non è di impedirli di fare buone azioni, ma di render queste per quanto può difettose, facendovi entrare qualche motivo capace di viziarle, come il rispetto umano, l’interesse, la vanagloria; Satanasso, trasformato in angelo di luce, spesso c’induce alla pratica di certe buone opere, che, essendo più capaci di attirarci la stima del mondo, sono più soggette a perdere il loro merito avanti a Dio. Nel che dovete, fratelli miei, porre tutta la vostr’attenzione quando si presenta una buona opera da fare. Bisogna aver cura di ben rettificare l’intenzion vostra con il motivo di piacere a Dio, che vi faccia rigettare ogni motivo umano, che s’insinua pur troppo nelle migliori azioni. Oimè! Quante azioni inutili per il cielo, quante virtù senza merito, perché Dio non vi vede quella retta intenzione di piacergli! Si fanno da molti preghiere, limosine; ma sono ben contenti che gli uomini le conoscano per averne l’approvazione. Essi non cercano Dio nella maggior parte delle loro migliori azioni: voi vedrete alcuni casti e modesti nel loro esteriore; ma se voi penetrerete il motivo, che li anima, vedrete che è l’onor del mondo, che è il timore d’esser biasimati per azioni, che non convien fare. Voi vedrete nemici riconciliarsi insieme; ma con qual mira lo fanno? per certe considerazioni verso le persone da cui sono stati pregati, o per il timore delle conseguenze funeste che si tiran dietro le inimicizie e le vendette. Quanti Cristiani sono ornati di belli esteriori della virtù, ma al di dentro sono, come dice Gesù Cristo, ripieni dell’infezione del vizio, sotto la pelle di pecora nascondono il furore di lupi rapaci! Oh quanto spesso siamo ingannati dalle apparenze! E quanto vi vuole affinché certi uomini siano tali al di dentro, quali compariscono al di fuori! È la buona intenzione, che loro manca. Or tostochè l’interiore non è regolato secondo Dio, tutto ciò che si fa esteriormente a nulla serve. Le migliori azioni senza la retta intenzione rassomigliano a certi frutti, che hanno una bella scorza, e al di dentro sono guasti. Al contrario, fratelli miei, quando l’interiore è ben regolato, quando non si cerca che di piacere a Dio, tutto ciò che si fa gli riesce grato e ci serve per la salute, quand’anche fosse soltanto un bicchiere d’acqua dato nel nome di Gesù Cristo, avrà la sua ricompensa. La vedova del Vangelo, che mise due soli danari nella cassetta delle limosine fu lodata da Gesù Cristo, come se avesse dato più che i farisei, i quali v’avevano messe più grosse somme, perché la sua intenzione era migliore. Iddio non ha tanto riguardo ai doni, che gli si fanno, quanto all’affermazione, che li accompagna. Anzi, fratelli miei, le azioni medesime più indifferenti, come il bere, il mangiare ed altre simili, divengono azioni meritorie pel cielo, tosto che si fanno per Dio. Oh quale eccellente mezzo avete di arricchirvi, di accumular tesori pel cielo! La retta intenzione di piacere a Dio in tutte le vostre azioni, ecco quella pietra preziosa del Vangelo, che converte in oro tutto quel che tocca, che renderà le vostre azioni degne di eterna corona; poiché, senza cangiar di stato, senza far altra cosa, che quel che fate, senza accrescervi pena e travaglio, non avete che a cangiare d’oggetto, ed a far per Dio ciò, che fate per il mondo; allora voi accumulate ricchezze immense per l’eternità. In tal guisa un gran numero di santi ha guadagnato il cielo nel medesimo stato che voi. Fate, come essi, le vostre azioni ordinarie con la mira di piacere a Dio, cercate in ogni cosa la sua gloria, e voi avrete fatto tutto per acquistare la sanità.
Pratiche. Osservate dunque, fratelli miei, ciocché potete fare di bene nel vostro stato, le buone opere, che dipendono da voi, per praticarle con la mira di glorificar Dio. Riferite tutto alla gloria o a qualche motivo, che gli piaccia; tostochè questo motivo sarà buono, voi opererete per la gloria di Dio: scacciate da tutte le vostre opere, dalle vostre pratiche di pietà il capriccio, l’usanza, il costume, il rispetto umano. Pregate nella solitudine, affinché Dio solo sia testimonio della vostra preghiera; quando date la limosina, fuggite la vieta degli uomini, la vostra sinistra medesima ignori ciò, che fa la vostra destra. Vi sono nulla di meno di certe occasioni, in cui voi dovete fare pubblicamente opere di virtù, per edificare coloro, che vi conoscono, e che resterebbero scandalizzati, se non ve le vedessero fare. Gesù Cristo vuole che la luce delle nostre buone opere risplenda agli occhi degli uomini, affinché il Padre celeste ne sia glorificato, ma è sempre alla gloria di Dio che deve tutto riferirsi: Sic luceat lux vestra coramhominibus, ut videant opera vestribona, et glorificent Patrem vestrum, quiin coelis est (Matth. V). Ma in che conoscerete voi che siete animati da una retta intenzione? Ciò sarà quando farete buone opere, che non saranno di vostro gusto, come se fossero le più conformi alle vostre inclinazioni; quelle che vi attireranno meno di gloria, come quelle, che vi meriterebbero gli applausi degli uomini. Per ben fare ancora le vostre azioni, fatele ciascheduna come se non aveste, che quella sola a fare, senza occuparvi di ciò, che avete a far in un altro tempo, molto meno ancora di ciò che fareste in un altro stato, ove vi pare che operereste meglio la vostra salute. Dio non vi domanda che le opere dello stato in cui siete, ed è una tentazione particolare per la salute il pensare a far altre cose, che quelle che siamo obbligati di fare, perché questo pensiero distoglie dal far bene ciò che dobbiamo nel nostro stato. Fate altresì ognuna delle vostre azioni come se essa fosse l’ultima della vostra vita, come se doveste essere giudicati dopo averla fatta: quando pregate, accostandovi ai Sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, domandate a voi medesimi: come pregherei, mi confesserei, mi comunicherei, se non avessi più che questa volta a pregare, a confessarmi, a comunicarmi? Ah! che le vostre azioni sarebbero perfette, se voi le fareste sempre con questa disposizione. – Finalmente, per rendere le vostre opere meritorie pel cielo , mettetevi in istato di grazia, perché tutto ciò che si fa in questo stato è degno d’una corona eterna; laddove le azioni fatte in istato di peccato, benché buone, lodevoli e salutari, non saranno punto ricompensate nel cielo. Bisogna nulladimeno sempre farne delle buone in qualunque stato voi siate; perché siccome ho detto, queste buone opere traggono sui peccatori la grazia della conversione, e sui giusti quella della perseveranza. – Non vi contentate dunque, fratelli miei, di fuggir il male che Dio vi proibisce; fate ancora il bene, ch’Egli vi comanda: ammassate, per quanto potete tesori di buone opere sulla terra; questo è il solo bene, che porterete con voi nell’eternità beata. Cosi sia.
“Sicut in holocáustis aríetum et taurórum, et sicut in mílibus agnórum pínguium: sic fiat sacrifícium nostrum in conspéctu tuo hódie, ut pláceat tibi: quia non est confúsio confidéntibus in te, Dómine”.
[Il nostro sacrificio, o Signore, Ti torni oggi gradito come l’olocausto di arieti, di tori e di migliaia di pingui agnelli; perché non vi è confusione per quelli che confidano in Te.]
Secreta
Deus, qui legálium differéntiam hostiárum unius sacrifícii perfectione sanxísti: accipe sacrifícium a devótis tibi fámulis, et pari benedictióne, sicut múnera Abel, sanctífica; ut, quod sínguli obtulérunt ad majestátis tuæ honórem, cunctis profíciat ad salútem.
[O Dio, che hai perfezionato i molti sacrifici dell’antica legge con l’istituzione del solo sacrificio, gradisci l’offerta dei tuoi servi devoti e benedicila non meno che i doni di Abele; affinché, ciò che i singoli offrono in tuo onore, a tutti giovi a salvezza.]
Si risponde alle opposizioni addotte cantro l’immortalità dell’anima.
I . Non rileverebbe i pregio dell’opera trattenersi a ribattere i colpi degli avversari nella questione intrapresa con esso loro, se nel ribatterne i colpi non ci dovesse riuscir ancor di ferirli più gravemente, come c’insegnano le buone leggi di scherma. Addurremo qui pertanto quel più che essi oppongono alla immortalità dell’anima umana, perché da questo medesimo si chiarisca quanto essi vadano non solo fuor di ragione, ma infino contra, quasi ribelli alla luce.
I .
II. La prima loro istanza si è dire, con un tal fasto di derisione, che se l’anima fosse immortale, non par possibile che non ne ritornasse più d’una a ripatriare sopra la terra, o farsi vedere, per darci almeno contezza dell’altro mondo (Questa obbiezione suppone, che l’anima umana non possa altrimenti esistere e manifestarsi che involta nell’organismo corporeo. Il che non è. Per altra parte se i morti tornassero al mondo, il mondo non sarebbe più mondo, ma apparirebbero nuovi cieli e nuova terra, come appunto avverrà nel risorgimento universale della morta umanità). E pur chi è, che possa tra noi gloriarsi di una tal visita 1 Non est agnitus qui sit reversus ab inferis (Sap. II. 1).
III. Ma quale scipidezza maggiore! Volere i sensi per testimonii di ciò che trascende i sensi! Iddio non ha commessa questa causa alla camera bassa della esperienza; l’ha commessa al parlamento supremo della ragione, o (dove questa non operi) della fede. Vero è, che non mancano ancora di tali prove sperimentali: mentre più volte l’anime de’ defunti sono tornate a dar di sè conto ai vivi. E siccome il prestar credenza a ciascuna di simili narrazioni sarebbe al certo debolezza di spirito: così il negarla a tutte, è perversità, ripugnando a ciò che più d’uno scrittore illustre ha testificato in qualunque secolo. Quanto è stolto quel gioielliere il quale tenga per diamante ogni berillo, tanto si e quello il quale per berillo giudichi ogni diamante.
IV. Senonchè, chi può dubitare, che tali apparizioni non hanno ad essere sì frequenti, come le vorrebbono alcuni, mentre non sono conformi alle leggi della natura, ma contrarissime, onde han bisogno di espressa derogazione? Siccome i cadaveri non debbono ad ogni tratto levarsi dalle lor tombe, e tornare a vivere; così non debbono l’anime, separate da ‘quei cadaveri, uscir da’ luoghi assegnati loro da Dio, e tornare a discorrere co’ viventi. Se stanno in luogo di miseria, vi stiano incessantemente, portando tutte da sé le loro pene senza sollievo; e se sono in luogo di felicità, si riposino, godendo quivi lietamente il lor premio, senza più tornare in iscena dopo gli applausi che riportarono tanto gloriosamente, terminata che v’ebbero la lor parte. Lasciare che un recitante rimonti in palco dappoiché egli, soddisfatto al suo debito, ne calò, è un volere apportare disturbo all’opera. Il nodo non lo comporta. E ciò singolarmente nel caso nostro. Perciocché, essendo la futura beatitudine il premio della virtù, conviene che resti oscura, affinché questa medesima oscurità accresca il pregio dell’istessa virtù, e stabilisca meglio la proporzion convenevole che va sempre tra il merito e la mercede.
II.
V. L’altra obbiezione ha un poco più di apparenza, e cosi parimente di serietà. Ed è l’affermare che l’anima, dipendendo nell’operare dagli organi corporali, non può sussistere separata dal corpo. E di fatti si vede che qualor per qualche accidente gli spiriti animali non possano più salire e scendere come prima dal cerebro per li nervi, rimane impedito all’uomo ogni uso, quantunque minimo, di ragione. Ma ciò come accadrebbe, se ogni operazione sua ragionevole non dipendesse per forza da quegli spiriti? Oltre a che ciascuno prova in sé che non può concepire alcuna verità, senza che egli nella sua fantasia se ne formi un simulacro, e quasi un ritratto figurandosi gli angeli e fin Dio stesso in sembianti umani: Nihil sine phantasmate intelligitanima (Arist. 3. de anim. tex. 30). Dal che si rende manifesto altresì che quanto le operazioni della fantasia dipendono dalla materia, altrettanto ne dipenda ancor l’intelletto, che senza la fantasia rimane quasi un dipintore svaligiato, senza colori, senza tavola, senza tela, senza pennelli.
VI. Per non prendere errore in questo discorso, che ha fatto abbagliar più d’uno, adulatore eccessivo del proprio corpo, convien distinguere due guise di dipendenze, una essenziale, e sempre necessaria all’operazione, e l’altra accidentale, e solo necessaria per alcun tempo. Il vedere dipende essenzialmente dall’occhio: ma dagli occhiali dipende per accidente; ond’è che veder senza occhiali tuttora accade, ma non accade che mai si vegga senza occhio. Ora la dipendenza, che nell’intendere ha l’anima da’ fantasmi, non è del primo genere, è del secondo: ch’è accidentale; cioè fino a tanto che l’anima unita al corpo nello stato presente vivo in mezzo a quella nebbia, che le cose corporee d’ogni intorno sollevano contra il vero. Ma sciolta che ella ne sia, non è più così. Perché allora, separata da ogni materia, ella può operare in un modo molto diverso, cioè contemplando le cose intelligibili direttamente in se stesse, e non di riflesso nelle immagini grossolane, colorite ad essa dai sensi (S. Th. 2. p. q.89. art. 1).
VII. Che poi l’anima di verità non dipenda assolutamente dagli organi materiali nel suo operare, né da’ fantasmi, si è da noi già dimostrato abbastanza con più ragioni. Ma oltre a quelle, confermasi di vantaggio con altro ancora. Prima, perchè nessun’altra cosa brama l’anima d’intendere maggiormente, che le spirituali, le sublimissime, le divine, le quali non sono, per alcun modo, oggetto della fantasia. Segno dunque è che l’anima nel suo intendere non dipende essenzialmente dai sensi, altrimenti non bramerebbe ella tanto di sollevarsi di là dai sensi.
VIII. Oltre a ciò l’operazione più propria dell’intelletto consiste singolarmente, non nell’intendere ciò che se gli rappresenta, ma in giudicarne. E pure ad un tal giudizio non solamente non è giovevole il voto della immaginativa, ma spesso è pregiudiziale, porgendo ella all’intelletto frequente occasion di errare, se questo non sia molto avveduto nel correggere da se stesso le apparenze fallaci di quei fantasmi. Che segno è dunque, senonchè egli non è loro soggetto, ma che li domina? Comparisce il sole sull’orizzonte, e gli occhi recandone tosto all’anima le novelle, gliele dipingono per alto poco più di due palmi, per piano affatto, e per abbandonato da tutte quelle stelle festose, che in tanto numero già popolavano il cielo. Ma tacete pure, tacete, o semplici messaggeri, ripiglia l’anima. Voi siete in ciò tanto lontani dal vero, quanto lontani da quel corpo solare da voi descritto. Quello che a voi sembra sì angusto, supera nella mole sino a trentottomila seicento volte tutta la terra. Quello che voi stimate sì piano è un globo perfetto altrettanto luminoso, quanto egli è immenso [purtroppo anche il Segneri era imbevuto di eliocentrismo cabalistico, contro tutte le rappresentazioni bibliche contenute nelle sacre Scritture che il Concilio di Trento definisce inerrabili, senza errore, perché ispirate direttamente da Dio. Era diventato anch’egli un eretico, pensando che Dio avesse sbagliato nell’ispirare i libri della Genesi, di Giobbe, dei Salmi, etc.?]. E quello stelle che voi credeste sì tosto da lui fuggite por non parere a lui serve, non si sono rimosse neppure un’orma dalla loro ordinanza: tutte gli assistono, benché da noi non vedute. Or come l’anima sarebbe mai si contraria alle deposizioni dei sensi nel giudicare, se ella dipendesse essenzialmente da’ sensi? È vero che ella, come padrona, sa valersi a tempo e luogo de’ loro riporti; ma sa ancora sprezzarli, dove è mestieri, sa screditarli. Come dunque è loro affissa tanto altamente? Non potrebbe ella posseder mai quell’amplissima libertà di giudicare in un modo più che in un altro, a dispetto di tutti loro, se tal libertà non fosse a lei derivata da quella sublime origine che la fa superiore al corpo di modo, che sappia un dì ancora starsene senza il corpo: Conditiodomini melior fieri potest per servos, deteriorfieri non potest (L. Melior. ff. de reg. iur.).
IX. Quindi è che l’anima quanto va più innanzi negli anni, tanto più si rinvigorisce; al contrario de’ sensi, che più invecchiano, più diventano deboli e disadatti. Questa ragione facea gran forza alla mente di quel sagace re Alfonso, come racconta l’istorico suo fedele (Panor. l. 4. de gestis Alphonsi); e la fa parimente in tutti coloro i quali considerano che ne’ senati si sogliono prima udire i vecchi che i giovani: Ut quisque ætate antecellìt, sententiæprincipatum tenet (Cic. de senectute). Ma come ciò, se l’anima non crescesse di abilità? Né perché ne’ vecchi decrepiti torni talora a rimbambire il discorso, perde punto di forza un tale argomento: atteso che non è l’intelletto quel che in essi s’infievolì, sono gl’istrumenti di cui l’intelletto legato al corpo si serve nelle sue operazioni. Ad un cerusico, cui por l’età cadente tremi la mano, non manca l’arte, manca soltanto l’istrumento dell’arte , che è il braccio saldo. Nel rimanente l’arte ogni dì più si raffina con lo studiare. Rinvigorite il braccio, e vedrete se l’arte v’è. Così interviene anche all’anima. Donde appare che le suo operazioni non dipendono essenzialmente dagli organi corporei, ma solo accidentalmente, cioè secondo lo stato di questa vita: mercecchè essendo l’anima in tale stato forma del corpo, convien che al corpo si accomodi in modo tale, che concepisca tutte le cose come corporee, o ciò per mezzo di potenze sensibili, che sono tutte soggette a logoramento. Verrà ben quel tempo, che rotti sì duri lacci potrà ella vagare liberamente per gl’immensi spazi del vero, e fissare il guardo immediatamente nel sole delle beltà intelligibili, senza abbagliarsi la vista: Cum veneritdies ille, qui mixtum hoc divini humaniquesecernat, corpus hoc ubi inveni relinquam: ipseme Diis reddam, diceva Seneca. (Ep. 102).
III.
X. Ma perché, ripiglierete voi, questo parentado infelice tra il corpo e l’anima? Non era meglio che l’anima si rimanesse fin da principio lungi dal consorzio de’ sensi, mentre dalla lor compagnia non doveva apprendere altro che il tralignare dalla sua nobiltà? E facile il farvi pago.
XI. In una perfetta armonia i semitoni sono richiesti, non sono esclusi. Conveniva pertanto che in questa grande armonia che vien formata dalla simmetria delle cose, siccome si trovava un ordine di viventi puramente spirituali quali sono le intelligenze celesti, e si trovava un ordino puramente materiale, quali sono i bruti, animali non ragionevoli (Suarez de anim. 1. 2 . e. 6. n. 16); così venisse a trovarsi un ordine parimente di mezzo, che unisse il supremo e l’infimo in un confine; fosse l’infimo del supremo, fosse il supremo dell’infimo; fosse come un passaggio contenente il bello de’ puri spiriti, cioè l’anima, e il bello delle pure materie, cioè il corpo: e fosse (come molti il chiamarono) un orizzonte, dove si congiungessero due emisferi tra lor sì opposti, quello dell’eternità e quello del tempo (Ci piace riferire qui un brano di G . Tiberghien, dove saggiamente e bellamente si chiarisce la ragione metafisica dell’esistenza dell’uomo: « Perché lo spirito si congiunge col corpo? Perché l’universo deve realizzare tutte le possibilità dell’esistenza. La pura materia ed il puro spirito sono esseri incompiuti, esclusivi, e meramente costituiti sotto un punto di vista determinato. Perché siavi equilibrio nella creazione, occorre che scompaia l’antagonismo tra il mondo spirituale ed il fisico. Quest’equilibrio si avvera per appunto nell’umanità – Psicolog. pag. 14 ».) (S.Th. contra gentes 1. 1. c. 81).
XII. Inoltre succede all’anima come ad un mercante mandato in paesi poveri, dove, se egli vuole arricchire, fa di mestieri che aiutisi con l’industria. Gli angeli sono nati in paese doviziosissimo, e però a locupletare di operazioni sublimi la loro mente non ha bisogno di accettare fuori di sé le spezie dello cose: hanno l’emporio in sé stessi: mercecchè con quelle furono già prodotti dal loro fattore nel primo istante. Ma l’anima (creata povera affatto di tali specie) per fornirsene, conviene che le cerchi fuori di sé, e così vagliasi del ministero de’ sensi, entrando, quasi dissi, in lor compagnia, affine di stabilire per mezzo loro questo negozio, da cui dipende tutto il suo capitale (S. Th. 1. p. q. 89. art. 1. in c.). Ecco dunque ove stia fondata la necessità che ha l’anima di unirsi da principio col corpo; sta fondata sulla necessità che ella ha di pigliare in prestito dalla immaginativa i fantasmi su i quali traffichi, giusta l’abilità che possiede, a divenir ricca di splendide intelligenze. Ma un tal contratto di società fra l’intelletto e i sensi, non è d’uopo che duri sempre (Questa proposizione dell’autore, che pone tra l’anima ed il corpo nell’uomo una unione meramente contingente e temporanea, anziché necessaria ed eterna, non bene si concorda con quanto venne enunciato nel numero precedente, e nemmeno mi pare conciliabile col dogma cristiano del risorgimento dei corpi e del perenne loro ricongiungimento coll’anima). Ove l’anima sia bastevolmente provvista, può lietamente sciogliere un tal contratto, e negoziar da sé sola, separandosi dal corpo, e operando senza di lui nella contemplazione di tutto il vero da lei bramato, e di tutto il buono, a somiglianza degli spiriti puramente intellettuali, coi quali ella è confinante (S. Th. 1. p. q. 88. art. 6 ) . Anzi da questi potrà ella venire vieppiù arricchita, e massimamente quando per la poca dimora che fece in terra poco tempo ancor ebbe da trafficare. Vero è che l’anima non può capir bene al presento quello stato più alto che sortirà divisa dal corpo; o però tanto s’inorridisce al pensiero di morte prossima (s. Th. c. gent. 1.2.c. 81. et 1. p. q.89.a. 1. ad 2).
IV.
XIII. E questa è l’altra obbiezione che adducono certi contra l’immortalità dell’anima umana: l’orror dell’uomo alla morte, non considerando essi tra sé che quell’orror naturale è più nell’apprensione e nell’appetito, a cui di verità toccherà perire, che non è nella ragione, a cui tocca restare eterna. Questa negl’intendenti sa piuttosto reprimere un tal orrore. Tanto che talor li fa giungere, non già a darsi audacemente la morte da sé medesimi; mentre è noto che senza la permissione del generale non può un soldato voltare al campo le spalle (Cic. Tusc. q. 1. 1), ma a sospirarla, come facea chi già disse: Cunctis diebus, quibus nunc milito, expecto donec veniat immutatici mea (aspetterei tutti i giorni della mia milizia finché arrivi per me l’ora del cambio! Iob. XIV. 14). Senzachè, qual mEraviglia, se all’anima, per l’amore che ha preso al corpo, dispiaccia di abbandonarlo fin in pascolo ai vermi? Basti di risapere che le fu compagno in un traffico, qual si disse, di tanto lucro più a lei, che a lui. Ma soprattutto non è ciò quel che rende la morte così terribile ai più degli uomini. È non saper qual sorte debba lor finalmente toccar di là, se beata, o misera. Ma se è così, tal orrore dunque conforma l’immortalità dell’anima umana, non la sconfìgge, mentre ciò mostra, che niuno sa svellersi, benché voglia, dal cuore quest’alta aspettazion di premio o di pena che duri sempre.
XIV. Finalmente l’ultima opposizione è una fuga vergognosissima, sotto nome di ritirata. Dicono che le ragioni addotte a favor della combattuta immortalità non sono evidenti, ma che vi si può rispondere molte cose. Però che posso io qui dire? se le mentovate ragioni non compariscono di buon aspetto allo menti de’ libertini così stravolte, non è discredito della verità, n’è trionfo. Come poteano risplendere fedelmente sì belli oggetti in tali specchi tutti imbrattati di fango? Ma frattanto se le ragioni addotte non sono evidenti a loro, sono evidenti all’ingegno di maestri eccelsissimi, che per tali, almeno in gran parte le definirono (V. Suar. de anim. 1. 1. c. 20. Et Gregor. de Valent. 1. p. disp. 6. q. 1. p. 3. S. Th. contra gentes 1. 2. c. 79. sub. init.). E singolarmente sono evidenti a due gran luminari nel cielo della sapienza, ad Agostino, e all’Angelico, ciascun de’ quali sarebbe da se solo bastevole a far di chiaro. Che se qualche scolastico, ancor sottile, si studiò di annobiliare tal evidenza, riducendo il tutto alla fede (Che la spiritualità e quindi l’immortalità dell’anima umana non sia un mero oggetto di fede sovrannaturale, ma altresì una verità dimostrabile dalla ragione, è questa una proposizione sancita dalla Santa Sede romana con decreto 11 giugno 1855, dove si legge: « Ratiocinatio Dei existentiam, animæ spiritualitatem, hominis libertatem cum certitudine probare potest. »), già si scorgo che ciò egli fece piùper vaghezza di contenzione, che di vittoria,come osservossi anche da’ suoi più devoti commentatori: onde in ciò godé poco applauso e pochi aderenti.
XV. Finalmente quando anche si dovesse concedere in cortesia che le prove addotte per l’immortalità dell’anima umana non fossero evidentissime, rimane evidentissimo almeno che sono degne di esser preferite alle prove opposte: sicché nessuno intelletto, senza nota di somma temerità, si possa mai sposar più a queste, che a quelle. Pertanto a fingere parimente che tale immortalità fosse una causa tuttor pendente al gran foro della ragione, converrebbe pure, ad operar con senno, che ciascun giuocasse al sicuro: Spem ac metumexamina (scrive Seneca (Ep. 5) al suo Lucilio), et quoties incerta erunt omnia, tibi fave. Che perderete voi dunque , se vi atteniate al partito di riputare la vostr’anima eterna; e per contrario che non perderete in riputarla mortale? Eccoci giunti al dì ultimo, voi ed io: voi , cui l’opinion di morir tutto abbia consigliato il vagare liberamente per ogni campo di piacere interdetto; io, cui la fede di non dover mai morir secondo il meglio di me, mi sia stata alquanto di freno. Che vi par ora? Per ciò che si appartiene al passato siam già del pari. E per voi finito ogni spasso, per me ogni stento. Ma da ora innanzi, oh che alta diversità! Se l’indovinate voi, godeste, è vero, per breve corso di anni, ma non godete ora più, come nemmen io. Ma se io sono quegli che l’indovini, io regnerò fortunato per tutti i secoli co’ seguaci della provvidenza divina già trionfante, e voi per tutti i secoli gemerete co’ suoi ribelli, oppresso dal peso d’una sterminata miseria, che sempre vi aggraverà più spietatamente, né mai però finirà di schiacciarvi il capo. Qual senno dunque sarebbe, quando le cose nel pellegrinaggio di questa vita restassero ancora dubbio, non voler pendere dalla banda del monte, piuttosto che dalla banda del precipizio? E nondimeno da questa pendete voi.
XVI. Se l’anima è caduca, dicea quel savio (Cato apud Tull., de senect.) non vi sarà chi dopo la morte nostra ci possa rimproverare l’abbaglio tolto in riputarla immortale. E se immortale, oh come a noi toccherà di rimproverare con piacer sommo chi se la finse caduca! Ma io non vi dico nulla di ciò, perché voglia quasi permettere al vostro cuore un piccolo dubbio in cosa che è tanto certa. Vel dico a soprabbondanza di verità: mentre quest’istesso vedere quanto più operi prudentemente chi tiene l’immortalità dell’anima umana, che chi la nega, dimostra evidentemente qual sia la sentenza vera.
XVII. Lasciamo dunque di voler disputare contra noi stessi e contra tutti i lumi della natura, la quale da tanti versi ci fa apparire la nobiltà del nostro essere sempiterno, affinché ci andiam disponendo, dopo una breve fatica, a goderne i frutti. Muoiano pure queste membra lotose che sono sottoposte alla morte: rovinino le pareti di questo carcere che ci tien ristretto lo spirito nato al soglio: usciamo dallo squallore di queste sì nere tenebre a quella luce che sopra noi dovrà subito folgorare nell’istantaneo tragitto da un mondo all’altro. Che temer tanto? Dies iste,quem tamquam extremum reformidas, æterninatalis est; depone onus, etc. Quid, ista sic dìligisquasi tua? Istix opertus es. Veniet qui terevelet dies, et ex contubernio fœdi atque olidieentris educat. Aliquando naturæ arcana tibiretegentur: discutietur ista caligo, et lux undiqueciana percutiet etc. (Senec. ep. 100). Credete forse che la fede sola sia quella che faccia parlar così? Così ancor fece, che favellasse un filosofo, la natura.
[E. Hugon: Le méritedansla vie spirituelle, – LES ÉDITIONS DU CERF JUVISY — SEINE-ET-OISE – 1935]
III.
IL PRINCIPIO DEL MERITO
La grazia è il primo e radicale principio dal quale procede il merito: così come la nostra anima è la fonte delle nostre azioni, così come il tronco dell’albero è la causa dei fiori e dei frutti; così come l’albero porta frutto attraverso i suoi rami, e l’anima opera attraverso le sue facoltà, così la grazia produce l’opera salutare e meritoria attraverso l’intermediazione delle abitudini infuse, cioè: le virtù teologali, che hanno Dio come oggetto e sono radicate nella vita divina; le virtù morali, con le loro innumerevoli ramificazioni; i doni dello Spirito Santo, che ci dispongono a ricevere il tocco del divino Paraclito in modo docile e sono in noi come dei germi di eroismo, come una pianta il cui eroismo è il fiore o una lira il cui eroismo è il suono. Ora è in virtù della carità che la grazia è il principio del merito, cosicché gli atti delle altre virtù diventano meritevoli nella misura in cui sono informati dalla carità. Certamente la carità non è l’unica ad essere incoronata, l’unica virtù che onori Dio (cfr. Concilio di Trento, cap. X e XVI del sess. VI, e le prop. 55 e 56 condannate in Quesnel, – apud Denzinger, 1405, 1406). L’impulso e il motivo delle altre virtù sono lodevoli; possono tutte ascendere a Dio; ma è essa che le dirige, che le informa, che le rende gradevoli al supremo Remuneratore. Allo stesso modo, infatti, che la volontà è la potenza maestra che comanda tutte le altre, la carità è la regina che impone i suoi ordini a tutte le virtù (cf. S. Tommaso, Ia, IIa, q. 114, art. 4); essa è anche l’organo della vita attraverso il quale la grazia fa giungere il merito ai vari atti, così come il cuore irrora sangue in ogni parte del nostro corpo. La Scrittura indica soprattutto il motivo della carità nelle opere che Dio benedice: è perché esse sono fatte per amore, nel nome di Gesù, per la gloria di Dio: « In nomine meo, quia Christi estis… omnia in gloriam Dei facite » (S. Marco IX, 40; I Cor. XI; Colos., III, 17). San Paolo dichiara che gli atti, per quanto squisiti, della fede più convinta, come trasportare montagne, subire le torture del fuoco, hanno valore per la vita della carne solo se ispirati dalla carità (I Cor. XIII, 1-3). Le nostre opere, infatti, per essere degne di merito, devono essere degne di Dio, devono essere dirette verso il nostro fine ultimo; ed è la carità che le dirige verso questo destino. Poiché la carità è la virtù sovrana, essa governa tutte le altre virtù; poiché ha per oggetto il fine universale, deve comandare a dei fini particolari, dirigere tutte le abitudini con i loro atti verso la meta unica e suprema. Poiché nessun mezzo è messo in atto se non per il desiderio del fine ultimo, nessuna opera sale effettivamente a Dio se non attraverso la carità (cf. “Fuori dalla Chiesa nessuna salvezza”, 2a ed., pp. 186-7). Ma in cosa consiste questo impero della carità senza il quale le nostre opere sarebbero sterili? Qui alcuni teologi si allontanano da San Tommaso; secondo alcuni è sufficiente un’influenza abituale che deriva dall’esistenza stessa della carità nell’anima (cf. Vasquez, Disp. CXXVII, CCXVII); secondo altri, l’influenza abituale è sufficiente per gli atti di virtù soprannaturali, ma l’influenza abituale è necessaria per gli atti di virtù acquisite (cf. Vasquez, Disp. CXXVII, CCXVII;. Suarez, de Gratia, XII, c. VIII-X; Mazzella, De virtutibus infusis, n. 134.); secondo San Tommaso e la sua scuola, non è richiesta l’influenza attuale, ma è necessaria per tutti i casi almeno l’influenza virtuale (molti altri teologi concordano qui con il Dottore Angelico, v. g. San Bonaventura, II Sent, diss. 4; Bellarmino, De Justif., cap. XV.2). – Non vogliamo entrare in discussioni scolastiche; basterà qui esporre la dottrina del Dottore Angelico. – L’influenza abituale è insufficiente, perché, come osserva il santo Dottore, nessuno opera finché le sue energie rimangono nello stato abituale (S. Tommaso, Il Sent., dist. 40, q. I, a. 5, ad 6.). Non è necessario, invece, che l’intenzione attuale intervenga in ogni azione per indirizzarla verso l’ultimo fine; ma deve esserci un’intenzione virtuale, una scossa efficace che continui anche dopo la cessazione dell’ordine. Ora tutto ciò presuppone un precedente atto di pensiero e di volontà, che ha ordinato tutti i seguenti atti e continua in essi, come impulso dell’inizio, nel movimento che ha provocato: Sed oportet quod prius fuerit cogitatio de fine, qui est caritas, et quod ratio actionnes sequentes in finem ordinaverit (S. Thom., II Sent., dist. 38, q. I, art. I, ad 4). La nozione stessa di merito richiede che le opere siano soprannaturali e si riferiscano al fine ultimo. Ora gli atti delle virtù acquisite non sono essenzialmente soprannaturali, ma lo sono nella misura in cui l’intenzione della carità le ha diretti e fecondati. Quanto agli atti delle virtù infuse, pur essendo di per sé soprannaturali, essi sono effettivamente legati al fine ultimo ed alla gloria di Dio solo se sono informati dalla virtù che ne ha per oggetto il fine ultimo, cioè quella carità divina alla quale appartiene il muovere le altre virtù e dirigere i loro atti, così come nell’ordine naturale la volontà mette in moto tutte le altre facoltà e le applica ai rispettivi atti. Questa direzione, questo orientamento, questo scossone, implica necessariamente un atto la cui energia si mantiene in tutta la serie di movimenti che ne derivano. E questo è proprio quello che chiamiamo l’influenza virtuale della carità.
IV.
IN PRATICA, TUTTI GLI ATTI DEL GIUSTO CHE NON SONO PECCATI VENIALI SONO MERITORI.
San Tommaso afferma molto categoricamente che, nell’uomo in stato di grazia, non può esserci atto di indifferenza: se l’atto è buono, è meritorio; se non è buono, è demeritorio. Peccatori e miscredenti possono certamente nascondere certi atti che non sono meritori, non ancora vivificati dalla grazia, ma che, d’altra parte, conservano la loro naturale bontà (Spieghiamo a suo lungo questa dottrina in Fuori dalla Chiesa Nessuna salvezza, 2a ed., pp. 59 e segg.), come onorare i genitori, pagare i debiti, rispettare la fede dei giuramenti e dei trattati. Nel giusto, invece, l’atto che è buono nell’ordine naturale assume anche, per l’influsso della carità, il carattere del merito: Habentibus caritatem omnis actus est meritorius vel demeritorius (S. Thomas, Quæst. Disp., de Malo, q. 2, a. 5, ad 7). Abbiamo esposto altrove questo insegnamento del Maestro Angelico (Marie pleine de grâce, pp. 114-116, Parigi, Lethielleux). Lo stato di giustizia, infatti, richiede la carità, e la carità è attiva: non può non provocare, eccitare le nostre energie, inclinarle verso Dio. Essa orienta la nostra intenzione originaria verso il fine ultimo, e con questo primitivo movimento comunica la sua influenza a tutte le virtù, così come la volontà impone il suo comando a tutte le potenze: questo impulso continua anche dopo che l’ordine sia cessato; rimane ancora nelle virtù e nelle opere, e in questo modo tutte le nostre opere sono vivificate dalla carità e diventano meritorie. – Stimolata dalle sue forze native ad agire, la carità rinnova il suo impulso abbastanza spesso affinché la nostra intenzione sia sufficientemente diretta verso Dio, affinché tutti i nostri buoni atti siano coinvolti da questo impulso generale e trasportati nell’eternità. Ecco come tutte le azioni del giusto vengono trascinate nella corrente che santifica, come in virtù dell’impressione ricevuta rimangono sempre orientate verso il fine della carità e si relazionano con Dio, senza che noi, attualmente, ci pensiamo. Nel bere e mangiare secondo la misura della temperanza, avere una onesta ricreazione, in tutto quanto è fuori dal cerchio della volgarità, non c’è più nulla della banalità: tutto è grande, tutto è nobile, perché queste azioni hanno come misura l’eternità che ne è in gioco. Riassumiamo questa bella e consolante dottrina in un unico argomento: ogni buona azione si riduce alla fine ad una virtù, ogni virtù converge verso il fine della carità, perché la carità è la regina che comanda tutte le virtù, così come la volontà comanda tutte le potenze. Tutti gli atti buoni sono quindi legati al fine della carità, sono soggetti alla sua influenza, e diventano meritori. Le azioni che sfuggono a questo impero universale sono necessariamente al di fuori del fine ultimo, squilibrate, macchiate dal demerito. Questo, in una parola, è lo scopo di questo insegnamento tomistico: nel giusto, ogni atto ragionevole e deliberato deve essere o all’interno del cerchio dell’ultimo fine e, così vivificato dalla carità, è meritorio; o al di fuori di questo cerchio, e così è disordinato e peccato veniale: Habentibus caritatem omnis actus est meritorius vel demeritorius.
[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]
CAPO VI.
I PADRI DELLA CHIESA
PREAMBOLO
Gli avvocati del Cristianesimo
Dopo Origene si accesero dispute gravissime. A Cesarea sorse una scuola di suoi seguaci. Ad Antiochia invece ne sorse una contraria. Gli Origenisti, che si potrebbero paragonare a certi idealisti di oggi, e gli Antiorigenisti, che si potrebbero paragonare a certi positivisti dei nostri giorni, si combatterono a lungo. La dottrina cattolica, che venne proclamata via via in definizioni dogmatiche, da Concili e da documenti pontifici, corse i suoi più gravi rischi tra codesti due turbini. Ma con l’assistenza dello Spirito Santo e in virtù della forza e della santità di altri potenti pensatori, il Magistero ecclesiastico uscì sempre trionfatore da tutte le eresie.
Quegli scrittori ecclesiastici che portarono nuova luce di dottrina alle verità cristiane e nuovo fervore di carità nella vita della Chiesa, furono poi chiamati Padri. Padri greci e Padri latini secondo che scrivevano in greco o latino. La loro opera d’immensa mole e d’immensa portata sorpassa il quadro della prima Chiesa, e i limiti d’un periodo. Sono gli avvocati del Cristianesimo, i maestri dell’umanità cristiana e la voce della Chiesa. Essi recinsero le nude verità, predicate da Gesù, della gloria del pensiero e della parola e furono tanto più efficaci dei filosofi d’ogni tempo, perché vissero ciò che scrissero. Furono grandi scrittori di Dio, perché grandi cuori, prima che grandi intelletti; santi, prima che dotti, e perciò due volte dottori, anzi «padri».
D. Chi sono i Padri della Chiesa ?
— Sono scrittori ecclesiastici, che si distinguono sopra tutti per quattro motivi:
1) L’ortodossìa, cioè che sia sempre rimasto fedele alla dottrina cattolica;
2) la santità di vita;
3) l’antichità, cioè che appartenga all’età d’ oro della primitiva letteratura ecclesiastica; (per i Greci va fino a S. Giovanni Damasceno (753) e per i Latini fino a S. Gregorio Magno (604).
4) L’ approvazione della Chiesa.
D. Chi sono i Dottori della Chiesa?
— Alcuni Padri che per la loro scienza eminente si sono distinti in modo particolare.
D. Chi sono i Padri greci?
— Sono i dottori della Chiesa Orientale, quali: S. Atanasio, martello degli Ariani; S. Basilio, difensore della divinità dello Spirito Santo contro l’eretico Macedonio; S. Gregorio Nazianzeno, profondo teologo e poeta; S. Giovanni Grisostomo, grande oratore, chiamato perciò « Bocca d’oro ».
D. Chi sono i Padri latini?
— I dottori della Chiesa Occidentale, quali: S. Ilario di Poitiers, grande difensore della Trinità contro gli ariani propagatisi in Occidente; S. Ambrogio di Milano, grande oratore, benemerito della liturgia e del canto sacro, propugnatore della virtù e della vita veramente cristiana. Morì dopo 23 anni di attività intensamente apostolica il 4 aprile 397. S. Girolamo, eccezionale studioso di retorica e di ebraico,: tradusse in latino la S. Scrittura (Volgata). Morì nel 420. S. Agostino di cui s’è detto.
CAPO VII.
IL MONACHISMO
PREAMBOLO
L’ascetismo
La parola ascesi in greco significa esercitazione. Come un atleta, come un soldato, l’asceta si esercita per avere una vittoria. Ma la vittoria dell’asceta cristiano non è sua; è della grazia di Cristo…. Ben presto si formarono, nel seno stesso delle comunità cristiane, nuclei di uomini e di donne, che intendevano dedicarsi alla loro perfezione ascetica. Giovani che si consacravano alla carità; vedove che non passavano a seconde nozze e restavano al servizio della comunità; poveri volontari, che donavano tutto ai poveri involontari; eremiti che si isolavano nella preghiera. – Fu necessario che la Chiesa pensasse anche a loro e ben presto si ebbe una legislazione che li governava, perché nella Chiesa non esistono « irregolari ». Anche le forme più alte dell’ascetismo, anche le manifestazioni, che al mondo potevano apparire più assurde, dell’amor di Dio, erano attività della vita cristiana, e dovevano essere regolate dal magistero e governo della Chiesa. I primi tre secoli conobbero molte forme di vita ascetica. Ma quella più estesa e portentosa prese il nome di «Monachismo»; fiorì dal deserto dell’Egitto, nel IV secolo, con S. Antonio.
La pace, dopo la conversione di Costantino, aveva condotto nella chiesa molti uomini, Cristiani più per convenienza che per convinzione. Alcuni sentirono il bisogno di vita ascetica, non per superbia, ma per risanare con il loro maggior sacrificio il corpo rilasciato della Chiesa. Tra questi fu Antonio. La fama della sua santità andò così alta, che si ebbe un moto incontenibile di Cristiani, i quali, per imitare Antonio, fuggivano dalle città e dai paesi per vivere nei deserti. Parve per un momento che non si potesse essere Cristiani senza essere monaci. E la Chiesa ebbe in questo popolo di monaci la necessaria reazione al popolo d’eretici; come le accadrà quando il Protestantesimo scinderà dal suo seno gli Anglosàssoni e la Chiesa si rifarà con nuove innumerevoli, varie e potenti famiglie religiose.
D. Chi sono i Monaci?
— Validi fattori di civiltà. Se i Padri e Dottori della Chiesa giovarono tanto con il chiarire e difendere le dottrine del Vangelo, i Monaci furono benemeriti nel farle penetrare con il loro esempio e con la loro attività nella vita e nei costumi dei popoli ancora idolatri.
D. Chi fu l’ideatore del Monachismo?
— Si può dire che fu N. S . G . CV, che dettò i tre « consigli evangelici », che contengono in germe tutta l’essenza della vita religiosa, cioè povertà volontaria, castità perfetta e ubbidienza ad un superiore liberamente scelto.
D. Chi furono gli attuatori del Monachismo?
— Coloro che, molestati dai persecutori nell’esercizio dei propri doveri religiosi, abbandonarono le città e l’abitato, per rifugiarsi nella solitudine dei deserti africani.
D. Quali furono i suoi inizi e i suoi sviluppi?
— Cominciò con la « vita eremitica » nel deserto della Tebaide con Cristiani fuggiti alla persecuzione di Decio nel 3° secolo. Tra essi S. Paolo eremita e S. Antonio abate, padre del monachismo orientale, e S. Pacomio, S. Basilio, che con l’invitare i monaci alla vita in comune diedero origine alla vita cenobitica e monastica.
D. Qual era la regola monastica dell’Oriente?
— A capo del cenobio vi era l’ABATE, cui tutti dovevano ubbidire; intorno a lui i religiosi, occupati sempre in preghiera, opere di penitenza, lavori manuali, e nello studio specie della S. Scrittura e della Teologia.
D. Chi dettò la Regola Monastica dell’Occidente?
— San Benedetto di Norcia nell’Umbria, che si ritirò da prima a Subiaco a far vita solitaria, poi passò a « MONTECASSINO », dove fondò la prima grande abbazia dei Benedettini.
D. Che cosa imponeva la sua regola?
— Oltre i precetti evangelici, l’obbligo ai monaci di prendere stabile dimora nell’abbazia, in modo che dove entravano, là morivano. Ogni abbazia formava come una piccola repubblica democratica con capi eletti dal voto dei monaci.
D. Quale ne era il motto?
— « Ora et labora » , cioè preghiera e lavoro.
Il monaco non doveva mai stare in ozio, ma attendere al lavoro dei campi, al lavoro manuale e anche al lavoro intellettuale. I monaci dovevano leggere anche a mensa. In modo particolare poi dovevano attendere a copiare antichi volumi. Dovettero inoltre, in un’epoca in cui gli uomini erano costretti dalle guerre ad abbandonare i campi, farsi maestri d’agricoltura. Così mentre il mondo imbarbariva, i monasteri benedettini erano isole dove si salvava la civiltà.
D. Ebbe sviluppi rilevanti il monachismo? — Con la pace costantiniana (313) prese proporzioni grandiose e divenne la scuola permanente della perfezione e della milizia cristiana. I giovani generosi che abbandonano la patria, la famiglia, la posizione sociale (spesso elevata) si contano a migliaia, sia in Oriente che in Occidente
[E. Hugon: Le méritedansla vie spirituelle, – LES ÉDITIONS DU CERF JUVISY — SEINE-ET-OISE – 1935]
Il merito nella vita spirituale
NIHIL OBSTAT
Fr. ÉT. LAJEUNIE Fi. P. BOISSELOT
Lecteur en théologie. Lecteur en théologie.
Fr. J. PADÉ Pr. Prov.
Parisiis, 15 Sept. 1935.
NIHIL OBSTAT
F. MAINIL, cens. libr.
IMPRIMATUR
Tornaci, die 11 Octobri 1935
J. LECOUVET, vic, gen
IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE
La vita spirituale non è altro che la vita del merito; perché se la vita dell’anima è grazia. Patto di questa vita è l’atto meritorio. Camminare sulla via della perfezione significa avanzare nel merito; c’è quindi progresso o regresso, a seconda che il merito cresca o si fermi. Questo è ciò che dovrebbe essere l’esame di coscienza nei giusti. Fare l’equilibrio nella vita spirituale significa determinare in che misura la somma dei nostri meriti superi quella dei nostri demeriti. È quindi importante spiegare la dottrina cattolica su questo tema e ricordare i principi teologici che sono alla base della vera spiritualità. Il nostro studio prenderà in esame questi punti essenziali, evidenziando come si proceda lungo le applicazioni dell’ordine pratico: la nozione di merito, le condizioni di merito, il principio del merito, l’entità del merito, la ricompensa del merito.
I.
LA NOZIONE DEL MERITO
Questa deriva dalla nozione stessa della grazia, di cui il merito è il germoglìo, la fioritura, il frutto e la corona. La Grazia è chiamata dalle Sacre Lettere una seconda nascita immacolata, incorruttibile, che ci dà il titolo e la qualità di figli di Dio: Sono nati da Dio, dice San Giovanni (S. Giovanni I, 13: “ex Deo nati sunt“). E San Pietro: Tu sei rigenerato non da un seme corruttibile ma incorruttibile (I Pietro, I, 23: “renati non ex semine corruptibili, sed incorruptibili“.2). Chiamati figli di Dio, noi lo siamo in effetti (I Giovanni, III, 1: “ut filii Dei nominemur et simus“). Dopo il nostro Battesimo, nostro padre e nostra madre, contemplandoci con amore nella nostra culla, hanno detto di noi in un dolce trasporto: « Rallegriamoci, ci è nato un figlio! » La famiglia celeste, l’adorabile Trinità, che si china ancora più teneramente su quella stessa culla, ha detto di noi: Ci è nato un Dio, un uomo è nato da Dio, ex Deo nati sunt. Ma cosa ci dà la nascita? La caratteristica della generazione è quella di comunicare un Essere fisico simile al principio che genera: nascere è ricevere da un vivente qualcosa di lui che passa in noi, e che rimane sempre come suo specchio e sua immagine; in una parola, è una nuova natura che sboccia al sole di una nuova vita. Nascendo dall’uomo, noi riceviamo una natura umana e riproduciamo la figura dei nostri genitori; nel nascere da Dio, noi dobbiamo partecipare alla natura divina per riflettere il volto divino. Questo è ciò che ci insegna la scrittura. Dopo aver detto che la grazia è la nostra seconda creazione, una seconda nascita, nova creatura, renati, la si chiama comunione all’Essere di Dio, una partecipazione della sua natura: Divinæ consortes naturæ (II Pietro 1,4: – Vedi il nostro libro: Fuori dalla Chiesa Nessuna salvezza, 2a edizione, p. 128). – Se abbiamo ricevuto per grazia una natura divina, dobbiamo avere operazioni dello stesso suo ordine. Secondo la bella espressione di un Padre della Chiesa, il Cristiano è un “Dio in fiore”; esso deve portare frutti divini, cioè operazioni degne di Dio. Da quel momento in poi, c’è un triplice valore soprannaturale nelle opere del giusto:
Il valore meritorio è la proprietà che possiede l’opera del giusto, in tanto che divina, di essere accettata da Dio come degno di ricompensa;
il valore soddisfattorio è la proprietà che possiede l’opera del giusto, in tanto che divina, di essere accettata da Dio come riparazione per l’offesa fatta all’infinita Maestà;
il valore impetratorio è la proprietà che possiede la preghiera del giusto, come divina, di ottenere da Dio i beni necessari o utili alla salvezza.
Il merito è come la radice ed il fondamento degli altri due valori, e si potrebbe anche dire che la soddisfazione e l’impetrazione sono una sorta di merito, perché l’opera santa è degna o meritevole dell’accettazione di Dio come riparazione, e la preghiera fatta in stato di grazia e nel nome di Cristo è degna di essere ascoltata da Dio. Ma, prese nello stretto senso, queste nozioni devono essere accuratamente distinte. Il merito si riferisce soprattutto al diritto alla ricompensa, che è l’aumento della grazia in questo mondo, la gloria e l’aumento di gloria nell’altro; la soddisfazione si riferisce alla riparazione dell’offesa; l’impetrazione implica l’efficacia della preghiera in relazione ai beni della salvezza, e l’anima in stato di peccato mortale, non potendo ancora meritare, può pregare. – Il merito è personale, nel senso che l’uomo giusto non può meritare de condigno per gli altri, a meno che non sia costituito il capo morale dell’umanità; la soddisfazione può essere ceduta agli altri; l’impetrazione si estende al di là del merito, perché la perseveranza finale cade al di fuori della sfera del merito, mentre rientra in qualche modo nell’ambito dell’impetrazione, essendo stata promessa da Cristo alla preghiera perseverante fatta nel suo nome. La soddisfazione ha diversi aspetti: dal momento che l’opera del giusto calma l’ira di Dio, essa è propiziatoria; dal momento che inclina Dio a cancellare la colpa del peccatore, è espiatoria; poiché paga il debito dovuto alla giustizia divina, è propriamente soddisfattoria. La propiziazione agisce prima della remissione del peccato, rendendo propizio il Dio irritato dalla colpa; l’espiazione mira alla remissione stessa del peccato, che si fa mediante la grazia santificante; la soddisfazione viene dopo la giustificazione e mira alla soluzione della pena, una volta cancellata la colpa. (cf. “Il Mistero della redenzione” – 2a ed., pp. 262-3). – È soprattutto questo primo valore che consideriamo qui. C’è il merito propriamente detto, il merito della condegnità de condigno, quando l’opera è veramente degna della sua ricompensa, quando c’è una sorta di uguaglianza o proporzione tra le due, in modo che la ricompensa sia dovuta a titolo di giustizia; il merito di convenienza, “de congruo”, è quello che si basa non sulla stretta giustizia, ma su certe esigenze morali che il Remuneratore misericordioso non manca mai di soddisfare: è il diritto dell’amicizia alla ricompensa, jus amicabile ad præmium. – La Chiesa ha definito, contro i protestanti, l’esistenza del merito propriamente detto nei giusti. « Una volta che gli uomini sono giustificati – dice il Concilio di Trento – bisogna loro proporre le parole dell’Apostolo, promettendo alle opere meritorie la corona della giustizia. Come la testa influenza gli arti e la vite influenza i germogli, così Cristo comunica ai giusti la virtù che precede sempre le loro opere buone, li accompagna e li segue, e senza la quale questi atti non potrebbero essere graditi. (Sess. VI, c. 16, can. 32).
II.
LE CONDIZIONI DEL MERITO
Esse devono essere considerate dal lato dell’opera, dalla parte di chi agisce, dalla parte del Remuneratore supremo. L’opera deve essere libera, buona e soprannaturale. Come perfezione della nostra attività, il merito non può che coronare l’Atto veramente umano, che proceda cioè da entrambe le nostre due facoltà principali, l’intelligenza e la volontà; l’atto che è in nostro potere, di cui abbiamo il pieno controllo, e non quello che ci viene imposto da una costrizione esterna o da un impulso fatale della nostra natura (La Chiesa ha dichiarato, contro Giansenio, che il merito richiede questa doppia esenzione, sia della violenza esterna, e sia dalla necessità naturale – Cfr. Denzinger, n. 1094). Così, gli atti puramente naturali o irriflessivi o involontari, esulano dalla sfera del merito. La conclusione che si deve trarre per la vita spirituale è che le persone che desiderano la perfezione devono stare continuamente in guardia, per diminuire gli atti indeliberati ed accrescere così il tesoro dei loro meriti. – L’opera deve essere buona e soprannaturale, perché è evidente che il movimento non può avvicinarci efficacemente al termine supremo, la gloria, se non sia dello stesso suo ordine e, per così dire, dello stesso grado. Ciò che è essenzialmente richiesto dal canto della persona è lo stato di viatore, perché il merito, come abbiamo appena notato, è un movimento e il movimento si ferma non appena si arrivi al termine. Nostro Signore afferma chiaramente questa verità quando dice: « Devo compiere le opere di Colui che mi ha mandato, fintantoché è giorno. Ecco, viene la notte, quando non si può più lavorare: venit nox, quando nemo potest operari » (Giov. IX, 4). Il giorno è la vita presente; la notte è la morte. Questa è l’interpretazione comune dei Padri, da Origene a Sant’Agostino. Molti teologi protestanti del XIX secolo hanno pervertito questo punto dell’insegnamento tradizionale sostenendo che non tutto è immutabilmente fissato dopo la morte, che la salvezza continua negli inferi, nell’intervallo tra la prima e la seconda venuta, presso quei settori dell’umanità che non sono stati messi in condizione nell’esistenza terrena di decidersi a favore o contro Cristo (A. Grétillat, “Exposé de théologie systém.”, vol. IV, p. 949, Parigi, 1900). La minima esitazione è impossibile su questo argomento. L’anima, uscendo dal corpo, compare alla barra di Dio per subire un giudizio irreformabile, e, se è in stato di peccato mortale, scende immediatamente all’inferno, mox post mortem, dove subisce un castigo che non avrà fine (Benedetto XII, Constit. Benedictus Deus del 29 gennaio 1336; – Concilio di Firenze, Decreto, pro Græcis; cf. Denzinger, 531, 693). Uno degli schemi del Concilio Vaticano, pur non avendo valore giuridico, traduce fedelmente la credenza certa ed infallibile della Chiesa: « Dopo la morte, che è la fine della nostra vita, l’anima appare immediatamente davanti al tribunale di Dio per rendere conto di ciò che ha fatto nel corpo, sia nel bene che nel male; e dopo questa vita mortale non c’è più spazio per il pentimento ed il ritorno alla penitenza » (cf. Granderath, Acta et Decreta Conc. Città del Vaticano, Friburgo, Brisgou, 1892, p. 564, col. 2). Si potrebbe pensare, di rigore, che il merito accidentale possa accrescersi nell’aldilà; perché seppur la beatitudine essenziale è immutabile, le anime sono capaci di provare nuove gioie accidentali che completano la loro felicità. Ma la dottrina comune in teologia è che anche il merito accidentale si fermi alla morte, e che le glorie accidentali, aggiunte successivamente, sono dovute ai meriti della vita presente, quelli cioè che l’uomo giusto ha meritato quaggiù, e che gli siano conferite nuove gioie in cielo, secondo il suo stato o la sua condizione. La ragione di questo insegnamento è la ragione stessa dell’unione dell’anima con il corpo: l’uomo deve acquisire la sua perfezione nello stato di unione e finché duri l’unione. Per questo San Paolo attribuisce il merito o il demerito solo alle opere che sono state compiute nel mentre l’uomo aveva il suo corpo: « Noi tutti, dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva nel suo corpo ciò che ha meritato stando nel suo corpo, secondo le sue opere, buone o cattive che siano” (II Cor.., V, 10: “Ut referat unusquisque propria corporis prout gessit, sive bonum, sive malum“. Cfr. come da S. Tommaso e P. Cornely, in h. 1). – Un’altra condizione altrettanto indispensabile è lo stato di grazia e di carità. Nostro Signore dichiara che possiamo portare frutti soprannaturali solo se rimaniamo uniti a Lui; così come il tralcio è fecondo solo se attinge la sua linfa dal tronco nutritizio della vite (Giovanni, XV, 4). Ora è la grazia santificante che ci fa vivere e abitare in Cristo. San Paolo ha proclamato la necessità e l’eccellenza della carità e della grazia, dalla quale essa è inseparabile, in una famosa pagina che è stata definita una delle più eloquenti e sublimi di tutti i linguaggi umani, e che può essere riassunta come segue: « Senza la carità non sono niente, tutte le cose non mi servono a niente, e con essa posso tutto » (I Cor. XIII). – Basti ricordare alcune dichiarazioni del Magistero infallibile. Il Secondo Concilio di Orange definisce: « La ricompensa è dovuta alle opere buone se esse hanno luogo, ma la grazia, che non è dovuta, precede perché esse abbiano luogo” (Can. t8, cfr. Denzinger, 191). – I Padri di Trento concludono precisando: questa grazia che precede l’opera meritoria è la grazia della giustificazione o la grazia santificante, ed è per questo che il Concilio attribuisce il merito solo alle opere dell’uomo giustificato (Sess. V, cap. 16, can. 32). La ragione teologica è abbastanza evidente. Poiché la ricompensa è l’eredità stessa di Dio, la persona capace di meritare è quella che ha il diritto di ereditare da Dio, cioè colui che è suo figlio; poiché il figlio è l’erede di diritto: Si filii et hæredes (Rom., VIII, 17). Solo la grazia santificante può infonderci questa ineffabile filiazione, renderci degli dei e permetterci di portare questa particella della più sublime nobiltà: di Dio, genus sumus Dei – di Lui stirpe noi siamo. (At XVII, 28). È, quindi, questo il primo ed indispensabile principio di ogni merito: una vita che non sia stata feconda è persa in cielo. – Dal canto del supremo Remuneratore, ci deve essere una promessa di ricompensa, perché le nostre opere non potrebbero essere un titolo di giustizia per l’eredità di Dio, a meno che Egli stesso non le abbia ordinate a questo scopo ed abbia promesso di coronarle. Per questo motivo la Sacra Scrittura indica espressamente la promessa divina: « Beato l’uomo che sopporta la prova!….. Egli riceverà la corona della vita che Dio ha promesso a coloro che lo amano » (Giac., I, 12: “Accipiet coronam vitæ quam repromisit Deus diligentibus se“). Si può dire che questa promessa si comprende nel fatto stesso della nostra elevazione soprannaturale e che la volontà di conferirci la grazia in vista del fine ultimo equivale ad una promessa: come colui che sparge il seme della pianta vuole i fiori e i frutti che ne sono la corona, così Dio, nell’infonderci la grazia, che è il seme della gloria, ci offre la vita eterna. Concludiamo con il Concilio di Trento: « A coloro che lavorano bene fino alla fine e sperano in Dio, bisogna proporre la vita eterna, sia come grazia misericordiosamente promessa ai figli di Dio da Nostro Signore, sia come ricompensa che sarà fedelmente data, in virtù della promessa divina, alle loro buone opere e ai loro meriti” (Sess. VI, cap. 16). Incoronando i nostri meriti, Dio incorona certamente i suoi doni; ma poiché si è impegnato nei nostri riguardi con le sue promesse, i nostri meriti ci danno diritto alla corona, e questa corona ci viene conferita a titolo di giustizia dal giusto Giudice: San Paolo la chiamava: La corona della giustizia che il Giudice giusto mi darà (« Corona Justitiæ, quam reddet mihi Dominus, in illa die, justus Judex » – II Tim. IV, 8). Da queste poche nozioni teologiche scaturiscono importanti applicazioni per la vita spirituale. Le anime che ci tengono alla loro santificazione dovrebbero spesso ricordare che sono diventate, per grazia, partecipi della natura divina che le pone al livello di Dio, e di conseguenza di operazioni divine di valore inestimabile. Supponiamo che, nella bilancia della giustizia eterna, la preghiera di un uomo giusto, il sospiro di un innocente, la lacrima di una povera madre, da un lato, e tutte le meraviglie del genio e dell’energia umana, dall’altro, siano poste sulla bilancia della giustizia eterna: questa preghiera, questo sospiro e questa lacrima pesano più di tutti i beni della natura insieme… Ma, d’altra parte, quanto dobbiamo essere vigili per rimanere a questo livello soprannaturale, per evitare la dissipazione, per diminuire sempre più gli atti indeliberati, per non perdere nulla del tempo che ci è stato dato nella vita presente, periodo unico per meritare, e per orientare tutte le nostre azioni verso l’eternità e verso la gloria di Dio! Ci resta da esporre una bella dottrina di San Tommaso: siccome nei giusti tutte le azioni che non sono peccati veniali rimangono meritorie, ci resta da spiegare, nello stesso tempo, la natura dell’imperfezione nella vita spirituale. Ciò che è stato appena detto basterà già a farci apprezzare una riflessione del Dottore Angelico: il più piccolo merito o « il bene di una sola grazia vale più del bene della natura intera » (S. Thom., Ia IIæ, q. 113, a. 9, ad 2.). « O parole d’oro – esclama il Cajetano, – parole che dovrebbero essere meditate giorno e notte! Una sola grazia vale più dell’intero universo! Considerate, quindi, l’immensa perdita di coloro che non sanno apprezzare un tale tesoro » (Cajet., Comm. in hunc loc.).