LO SCUDO DELLA FEDE (117)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXIX.

L’istessa verità si deduce dalle operazioni dell’anima volontarie.

I . Quell’ammirabile proporzion che si scorge tra due corde tirate all’unisono in dotta cetra, si può contemplare, di modo ancora più alto, fra le due potenze supreme dell’anima, l’intelletto e la volontà. Non se ne può mai toccare una, che l’altra non si risenta (L’intendere ed il volere sono due virtù distinte, ina pur indisgiungibili nella personalità umana. Mercé il libero volere l’uomo domina se stesso e gli atti suoi: ora un volere, non illuminato dalla luce dello intendere, è un volere cieco, epperò non libero, ma fatale, non dominatore ed arbitro di sé, ma dominato da forze esteriori e senza libertà non si dà persona. Così pure non è persona un soggetto, che fosse un puro e mero pensare e conoscere senza la virtù dell’attività volontaria). Onde, quanto dell’istinto, dell’indole, e della natura immortale, posseduta dall’anima ragionevole, ci hanno fin ora dimostrato le operazioni dell’intendere, tanto seguiranno a dimostrarcene le operazioni ancor del volere: salvo che intorno a queste ci si offerisce a considerar di vantaggio la libertà, propria affatto delle sole potenze spirituali che si determinano da se stesse; a differenza delle potenze corporee, le quali sono sempre determinate dai loro oggetti.

II. Se l’anima dipendesse dal corpo, dovrebbe necessariamente seguire tutte le inclinazioni del corpo, come le bestie. Un cavallo cui sia posta innanzi la biada, non saprà mai comandare al suo vorace talento, che se ne astenga, s’egli non è ben satollo. E cosi dovrebbe a proporzione far l’anima in simil caso, dov’ella fosse corporea: onde, alla presenza dell’oggetto giocondo, mai non saprebbe dargli un rifiuto animoso per anteporgli l’onesto, quantunque acerbo. E pure veggiamo accader tuttora l’opposto in tanta gente, quanta è quella che milita alla virtù. Veggiamo avverarsi in essa ciò che osservava Aristotile, cioè, che l’appetito superiore comanda all’inferiore, quasi re dominante ad un suo vassallo. Veggiamo che il tiene in briglia, sicché non trascorra i termini del permesso. Veggiamo, che quando questo pur li trascorre, è perché la volontà, condiscendendo di suo grado alle istanze che ne riceve, gli abbandona le redini sopra il collo, e consente a ciò che ben potrebbe impedire, s’ella volesse risolutamente valersi del suo dominio. Adunque, se è tanto libera a non seguire le inclinazioni del corpo, chi mai dirà, che l’anima non sia d’indole assai maggiore?

III. E pur v’è di più. Conciossiachè, non mirate voi tutto giorno la padronanza che esercita la medesima volontà sopra il corpo stesso nel soggettarlo ai dolori, o nel disprezzarlo, mandandolo fin incontro all’istessa morte? Dove troverete una bestia che si affligga di sua elezione, come si affliggon tanti uomini penitenti, disciplinandosi, dimagrandosi, cingendo le loro reni di acuti pungoli: o dove troverete una bestia che, potendo campar felice da morte, vada a sfidarla? E pure ancora a sfidarla perviene l’anima, comandando nelle guerre a tanti soldati, non pur che facciano argine all’avversario co’ loro petti, ma che lo vadano generosi a investire nelle trincee. Dirò cosa di più stupore. Nella guerra che Dario imprese co’ greci, mentre una barca dei persiani fuggiva alla disperata, ecco un soldato nimico che la afferrò dalle sponde con una mano per arrestarla: ma non poté, perché gli fu quella mano da quei di dentro troncata a un attimo. Allora egli l’afferrò veloce con l’altra; ma vanamente, perciocché l’altra ancora gli fu recisa. Che fe’ però così monco? Né il sangue, né lo spasimo, né quel peggio che egli si poteva aspettare, poté far sì, che non si attaccasse coi denti alla fusta odiata, per farle quasi di se stesso una remora; sinché, troncatogli il collo, allora solamente fini di perseguitarla quando finì di spirare. (Ap. Herod.). Or come mai potrebbe l’anima umana in questi ed in altri mille accidenti simili necessitare il corpo a cose sì ardue, se ella dipendesse dal corpo nel suo durare? Ove nella morte delle membra a lei serve morisse anch’ella, qual dubbio v’è, che null’avrebbe ella mai tanto in orrore, quanto che l’essere a quelle cagion di morte; né vi sarebbe moneta di bene alcuno, della quale ella non facesse rifiuto prodigalissimo, per sottrarsi dal sommo di tutti i mali? Allora sì, che la morte del corpo si meriterebbe quel titolo spaventoso che falsamente le scrisse in fronte il filosofo, quando la chiamò, ultimum terribilium: mentre sarebbe questa per l’anima un naufragio, in cui farebbe getto di ogni suo bene, senza speranza di ripescarne mai dramma. Or l’anima ben si accorge, che tal getto per lei non v’è; però non è meraviglia, se mandi il corpo con tanta risoluzione ad incontrare tuttodì le procelle più burrascose.

IV. Di vantaggio apparisce nella libertà del nostro volere una possanza quasi infinita, mentre né alcuna creatura da sé, né tutte anche insieme, sian terrestri, sian celesti, sian infernali, la possono mai violentare a sposarsi con un oggetto, o a ripudiarlo, se ella liberamente non vi acconsenta. Or come dunque materiale può essere quella forza che non può abbattersi da veruno di tanti spiriti più sublimi, non che dai semplici corpi? Questo dominio, che in sé possiede la volontà de’ suoi atti, mostra che ella muove se stessa, e che non è mossa da alcun agente creato, né si può muovere, se non in quella maniera che è a lei conforme, cioè diamore: e però mostra ancora ch’ella è perpetua, giacché ad esser distrutta naturalmente, le converrebbe avere nell’ordine della natura un nimico sì poderoso, che (come fu notato di sopra) fosse finalmente bastevole a torle l’essere. E pure né anche v’è chi sia bastevole a torle l’operazione.

V. Solo potrebbe l’anima dubitare di venir distrutta da Dio (Assolutamente parlando non ripugna il concepire una forza, che per quantunque inferiore a Dio, sia nondimeno di tanto superiore all’anima umana, da togliere a questa il libero dominio di sé e la virtù, che ha di muovere se stessa.), che siccome dal niente già la cavò, così potrebbe ancora ridurla al niente. Ma si dia pace. Nessuno agente naturale ha per fine diretto ildistruggimento di alcuna cosa, ma solo ilprò che egli dal distruggerla ne trarrà, o per sé, o per altri (S. Th. 1. p. q. 60. ar. 9. et q. 49. a. 2. In c.): tanto che l’istesso leone, se uccide il cervo, non l’uccide per recare a lui quel male di ucciderlo; lo uccide per cavare da ciò quel bene dialimentare o sé, o i suoi leoncini inetti alla caccia. Ma quanto a sé, qual bene può Dio cavare dal tórre a un’anima quell’essere che le die’quando creolla capace di durar sempre? E quanto agli altri, un’anima non esige, per conservarsi, la distruzione dell’altro corpo. Sicché, quando Dio la uccidesse, bisognerebbe che la volesse uccidere per ucciderla. Ma di ciò non tema ella punto. I doni divini non soggiacciono a pentimento: Dona Dei sunt sine pœnitentia, son veri doni, datio irreddibilis, sono un oro fisso, non un mercurio volante (Arist. 1. 4. top. c. 4. n. 12). Onde non può perdere l’essere a sé natio chi non può perderlo senza che gli venga puramente ritolto dal primo Essere.

VI. Finalmente la nostra volontà può spontaneamente determinarsi col libero amore del bene onesto a disprezzare tutti gli oggetti sensibili, a dilettarsi puramente della virtù, della giustizia, della pudicizia, della pietà, della religione, ed a costituire la sua felicità in un bene spiritualissimo, quale è Dio. Adunque ella è puramente spirituale, siccome quella che può nell’operare prefiggersi un fine tale, ed andarvi con tali mezzi, che il corpo nulla di comune abbia in essi, nulla ve n’abbiano i sensi (Veramente tutta l’argomentazione dell’autore conchiude alla spiritualità dell’anima umana, anziché alla sua immortalità, ed il suo ragionare sarebbe stato più opportuno e più stringente, se egli avesse posto in chiara luce l’immortalità come conseguenza della spiritualità, dimostrando come l’intendere ed il volere dell’uomo avendo per obbietto il Vero ed il Buono divini, che sono infiniti, non possono raggiungere nel tempo la loro perfezione).

VII. Anzi se con tali operazioni vien l’anima sommamente a perfezionarsi, che cercar più? Non si può concepir, che quella sostanza, la quale acquista la perfezione del suo operare, con sollevarsi dal corpo più che ella può, debba mai perdere la perfezione dell’essere, se si separi dal medesimo corpo. Nulla res corrumpitur ab eo in quo consistit eius perfectio, dicono i dotti (S. Th. 1. 2. contra gentes c. 79): conciossiachè perfezionare una sustanza e distruggerla, son due cose del tutto opposte. E pur qual è la somma perfezione dell’anima unita al corpo? E quando nel corpo ell’opera, più che può, come se fosse separata dal corpo.

II.

VIII. Che dite dunque? Non vi sembra ormai, che comunque si guardi l’anima umana, o si guardi secondo l’intelletto, o si guardi secondo la volontà, ci si renda assai manifesta la sua natura indipendente dal tempo? Quel semplice pastorello che lassù nel monte Ida calpestava la calamita come una selce volgare, al mirar poi quel potere stupendo che ella esercitava sul ferro delle scarpe contadinesche da lui portate, mutò sentenza, e cominciò a venerare con occhio attonito ciò che dianzi premeva con pie indiscreto. Saranno però bene di mente affatto selvaggia tutti coloro che, riflettendo su gli atti delle loro potenze spirituali (conforme comandò quell’oracolo sì famoso, nosce te ipsum), non confesseranno, che l’anima è di natura superiore a tutto il caduco, e che però non dee pagar tributo anch’essa alla morte, come pure amerebbero quei meschini i quali assai più paventano di morire, secondo la metà sola, che non paventerebbero di morire secondo il tutto: tanto male conoscono se medesimi.

IX. Ma come non si conoscere ? Sperimentano pure dentro se stessi che l’intelletto, più che sa, più è disposto a conseguire di nuova scienza; e sperimentano, che la volontà più che gode, più è vaga di acquistar nuovi diletti. Or come dunque possono tuttavia divisarsi, che queste sieno potenze limitate dalla materia? Le materiali, quando anche fossero tante conchiglie marine, pasciute ad un certo segno, convien che insino alla rugiada del cielo chiudano al fine la bocca, con dichiararsi insufficienti a riceverne di vantaggio. Quelle potenze però le quali più che ricevon di pascolo nel loro seno sono capaci di riceverne sempre più e più, senza mai finire; anzi per questo medesimo son capaci di riceverne più, perché n’hanno molto: sono indubitamente potenze spirituali (S. Th. 2. 2. q. 24. art. 7. in c.). E se sono spirituali, che dubitar della loro immortalità?

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

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