La Decet quam maxime è una lunga lettera enciclica, nella quale il Sommo Pontefice Clemente XIV, pone dei limiti ben precisi a richieste economiche di prelati riguardo alle funzioni loro affidate dalla Santa Chiesa Cattolica: « … È assolutamente opportuno che i ministri della Chiesa ed i dispensatori dei misteri di Dio si mantengano completamente estranei anche al più piccolo sospetto d’avarizia e altrettanto ne tengano lontano il loro ministero, al quale sono stati chiamati da Dio; in tal modo potranno gloriarsi a buon diritto e con merito di aver tenuto le loro mani monde da ogni vantaggio ». Tale è l’inizio della lettera che poi enumera e regola i possibili abusi che tutti vengono condannati secondo norme ecclesiali. Questa è la vera Chiesa Cattolica, nella quale vanno evitate tutte le occasioni di accaparramento di beni e denaro, o di avarizia sotto qualsiasi forma, a fronte di una carità sempre sollecita verso l’indigenza e la povertà materiale. I veri servi del Signore non cercano per sé o per i propri familiari prebende o compensi oltre quelli lecitamente concessi dai sacri canoni ecclesiastici che assicurano la sussistenza minima del prelato. Guadagni illeciti o truffaldini sono stati compiuti da individui che hanno tradito il mandato evangelico mettendo in cattiva luce la Chiesa di Cristo, fondata sulla povertà evangelica materiale, e sulla Provvidenza divina circa la soddisfazione dei bisogni minimi leciti e necessari alla sussistenza. Qui non è neppure il caso di sottolineare quanto la voracità di falsi “principi” della sinagoga di satana usurpante i sacri palazzi vaticani in particolare, getti fango e discredito sul Cristianesimo tutto con l’istituzione addirittura di strutture di credito colluse con operazioni economiche illecite e gestite da trafficanti ed “esperti” di mercato con immunità diplomatica. Ma sono cose sotto gli occhi di tutti e che non meritano se non il disprezzo ed il discredito riservato a strutture a conduzione massonico-luciferina. A noi, piccolo gregge cattolico, l’azione di lode a Dio e di preghiera perché il Signore liberi quanto prima la vera Chiesa ed il Santo Padre dagli impedimenti attuali ai quali è relegata nella eclissi della sua passione e a seguire, nella morte (apparente) e nel sepolcro, e le dia la resurrezione attesa dai veri Cristiani e da tutte le creature dell’universo, perché possano rendere culto e lode al loro Creatore, Redentore, e Santificatore, al Dio uno e Trino.
Clemente XIV
Decet quam maxime
1. È assolutamente opportuno che i ministri della Chiesa ed i dispensatori dei misteri di Dio si mantengano completamente estranei anche al più piccolo sospetto d’avarizia e altrettanto ne tengano lontano il loro ministero, al quale sono stati chiamati da Dio; in tal modo potranno gloriarsi a buon diritto e con merito di aver tenuto le loro mani monde da ogni vantaggio. Questo per primo raccomandò Gesù Cristo ai suoi discepoli quando li avviò a predicare il Vangelo con queste parole: “Gratis avete ricevuto e gratis donate” (Mt XVIII, 8). In più occasioni (1Tm III, 8; Tt 1,7)Paolo l’ha specificamente raccomandato come carattere distintivo di coloro che dovevano essere chiamati al ministero dell’altare. Questo, infine, inculcò Pietro in coloro che furono preposti alla cura delle anime, dicendo: “Pascolate il gregge di Dio che vi è stato affidato, non per l’aspettativa di un turpe lucro, ma volontariamente” (1Pt V, 2). A questo divino mandato si debbono uniformare per primi, con diligenza e con cura, i pastori delle chiese, che debbono essere d’esempio ai fedeli nella predicazione, nella conversazione, nella carità, nella fede: impegno invero minimo se si mostreranno irreprensibili in prima persona. Compete loro inoltre di darsi da fare attivamente affinché nessuno dei ministri ai quali comandano, in nessun modo si permetta di condurre a termine azioni contrarie a tale dettame, tenendo sempre presente l’insigne frase di Ambrogio: “Non basta che tu non cerchi il vantaggio economico; anche le mani dei tuoi familiari devono essere tenute a freno. Dai dunque istruzioni alla tua famiglia, ammoniscila, custodiscila; e se un servitorello ti avrà ingannato, una volta scoperto dovrà essere ripudiato a titolo d’esempio” (S. Ambrogio, In Lucam, lib. IV, n. 52). Partendo da queste ottime, saggissime leggi, sia i santissimi Concili sia i Romani Pontefici Nostri predecessori hanno ritenuto di dover rendere sempre più stretto il passaggio, affinché malvagi abusi in materia non s’introducano mai nella Chiesa di Dio, o – se per caso vi si fossero già introdotti – vengano radicalmente tolti di mezzo. C’è tuttavia da lamentare che presso alcune diocesi queste decisioni delle Costituzioni apostoliche e dei sacri Canoni (così opportune e così ricche di dignità religiosa) rimasero prive del loro effetto e risultarono senza forza e senza valore, impossibilitate a svellere dalle radici ogni comportamento ad esse contrario. Dunque venimmo a conoscere che ciò accadeva perché coloro cui competeva occuparsene con il massimo impegno mettevano avanti varie scuse, invocando antiche, inveterate consuetudini oppure la necessità di versare qualche ricompensa ai ministri della curia ecclesiastica, oppure persino la mancanza del denaro necessario per condurre una vita decente, onesta e dignitosa. – Rendendosi conto di tutto ciò, il Nostro predecessore Innocenzo XI, di venerabile memoria, per apportare un rimedio costruttivo e rendere vane e fuori di luogo tutte le scusanti di qualunque natura, nel 1678 comandò che venisse redatto un tariffario nel quale fossero raccolti tutti i tributi indicati qua e là nei sacri Canoni e opportunamente sanciti dal Concilio Tridentino, secondo l’interpretazione data dalle sacre Congregazioni del predetto Concilio, nonché secondo i pareri espressi dai Vescovi. Ordinò inoltre che tutti gli interessi ecclesiastici fossero chiaramente individuati ed elencati analiticamente; in nome di essi non doveva assolutamente essere consentito ad alcuno, né nel foro ecclesiastico né nelle curie vescovili, percepire emolumenti, eccezion fatta per quel che va versato al banco del cancelliere e quel che va pagato per la necessaria mercede. Contemporaneamente fu assicurato che in questa materia la regola fosse uguale in tutte le curie ecclesiastiche ed identica, com’è giusto, fosse la disciplina, annullata ogni diversa consuetudine. Lo stesso sommo Pontefice Innocenzo XI il primo ottobre dello stesso anno approvò con la Sua autorità questo tariffario, lo controfirmò e ne dispose la promulgazione e l’osservanza. – Tuttavia neppure questo bastò a rinsaldare ovunque la disciplina ecclesiastica, ormai abbandonata, e a metter freno alle cattive usanze che già da tempo avevano preso piede in varie diocesi. Subito venne avanzata l’obiezione perché la citata tariffa non dovesse venire osservata anche dalle curie ecclesiastiche esistenti fuori d’Italia. Per altro non si poteva fingere di ignorare che tutti i decreti in essa contenuti derivavano dai sacri canoni ed in particolare dal Concilio Tridentino; di conseguenza era assolutamente necessario che tutte le diocesi li rispettassero con la massima religiosità.
2. Questi dunque furono i motivi, Venerabili Fratelli, per cui – non senza grave dolore ed afflizione dell’animo Nostro – Ci rendemmo conto che nelle vostre curie avevano trovato spazio molti abusi contro l’esercizio della potestà spirituale; abusi che sconvolgono profondamente la disciplina ecclesiastica, la snervano e recano sommo disdoro alla grandissima dignità della quale risplendete ed all’autorità che vi è stata trasmessa per realizzare la perfezione dei santi e i compiti del ministero per l’edificazione del Corpo di Cristo. Noi abbiamo ben presenti la vostra religiosità, la vostra santa pratica, la premura nei confronti delle Vostre chiese; sappiamo anche che gli abusi in materia di pagamenti individuati nel tribunale ecclesiastico delle vostre diocesi, introdotti in tempi passati da qualche ministro di secondaria importanza, per l’esempio di questi si sono poi propagati gradatamente di diocesi in diocesi, forse all’insaputa degli stessi Vescovi, ed in qualche caso si sono sviluppati persino in funzione di una più marcata dignità della Chiesa. O perché al problema veniva attribuita pochissima rilevanza, o perché i successori nel ministero seguirono incautamente la strada tracciata dai predecessori, si arrivò al punto che questi stessi abusi, ormai rafforzati dalla continua pratica, sembrarono meritevoli di essere convalidati da costituzioni sinodali su proposta degli stessi ministri. In nessun modo, assolutamente, queste colpe possono essere addebitate a voi, che anzi siete soprattutto degni di lode, in quanto abbiamo visto che voi siete colpiti dal più grande dolore per queste iniquità e più che mai desiderosi di estirparle. Tuttavia, rendendoci conto che perseguendo questo scopo vi sareste attirati contro l’odio più forte, e che ostacoli enormi sarebbero stati frapposti alla realizzazione dell’obiettivo, se la stessa autorità apostolica non si fosse affiancata, per questo motivo interveniamo; in particolare a proposito della diversità delle tariffe e dei diversi comportamenti vigenti nelle diverse diocesi, affinché non solo siano tutti riportati ad un’equa e giusta misura, ma perché assumano tutti una lodevole uniformità procedurale. Perciò confidiamo in Voi, nel nome del Signore, affinché osserviate con la massima cura i decreti che vi mandiamo con la Nostra autorità apostolica, su richiesta del Nostro carissimo figlio in Cristo Carlo Emanuele, illustre Re di Sardegna, di cui rilucono continuamente il singolare rispetto per Noi e per questa santa Sede apostolica, l’affetto e l’impegno religioso: provvedete che da tutti e da coloro cui compete essi siano osservati con grandissima diligenza.
3. In primo luogo per quanto riguarda le ordinazioni sacre, non vi possono assolutamente sfuggire le numerosissime ed altrettanto sante leggi della Chiesa, con le quali in qualunque tempo è stato vietato che i Vescovi e gli altri collaboratori nel conferimento delle sacre ordinazioni, o comunque rappresentanti ufficiali trattenessero alcunché dai donativi degli ordini. Questo è stato chiaramente sancito nel sinodo ecumenico di Calcedonia nel 451 (canone 2); in quello di Roma sotto san Gregorio Magno nel 600 o nel 604 (canone 5, ovvero epist. 44, lib. 4, indiz. 13); nel secondo sinodo ecumenico Niceno dell’anno 787 (canone 5); in quello di Salegunstadt dell’anno 1022 (can. 3); nel quarto Lateranense, sotto Innocenzo III, nel 1215; in quelli di Tours, di Bracara, di Barcellona e di altri luoghi riferiti da Cristiano Lupo (dissert. 2, proemio De simonia cap. 9, tomo 4) e da Gonzalez (capitolo Antequam 1, De simonia, n. 9), e più recentemente dal Concilio di Trento (sess. 21, cap. 1, De reformatione), dal quale sono stati perfezionati gli antichi canoni, che permettevano che si potesse ricevere un’offerta spontanea, ed è stata ricondotta all’antica ed originaria purezza la disciplina ecclesiastica sulle sacre ordinazioni. – Il decreto del Concilio così recita: “Poiché ogni sospetto d’avarizia dev’essere lontano dall’ordine ecclesiastico, i vescovi, gli altri collaboratori nell’impartire gli ordini o i loro ministri non debbono per alcun motivo accettare alcunché – anche se spontaneamente offerto – in occasione dell’attribuzione di qualunque ordine: né per la tonsura clericale, né per lettere dimissorie o testimoniali, né per il sigillo, né in qualunque altra circostanza. I notai, per altro, soltanto in quei luoghi nei quali non vige la lodevole abitudine di non accettare compensi, a fronte di ciascuna lettera dimissoria o testimoniale, possono accettare soltanto la decima parte di un aureo, a patto che non sia fissata per loro alcuna ricompensa per il lavoro svolto. Al vescovo non può essere trasferito – direttamente o indirettamente – alcun emolumento proveniente dalle rendite che competono ai notai per il conferimento degli ordini; infatti egli sa di essere tenuto a prestar loro la propria opera assolutamente gratis. Le tariffe contrarie a questa norma, gli statuti e le consuetudini locali, per quanto d’immemorabile origine (che a buona ragione possono essere ritenuti piuttosto abusi e fonti di corruzione e colpa simoniaca)debbono essere assolutamente abolite e vietate; coloro che si comporteranno diversamente, sia dando sia ricevendo, oltre che nel castigo divino incorreranno immediatamente nelle pene fissate per legge“.
4. In linea con questi argomenti, vi ordiniamo e notifichiamo, Venerabili Fratelli, di non accettare alcuna offerta – nemmeno se spontaneamente donata – per il conferimento di qualunque ordine, nemmeno per la tonsura ecclesiastica; né per la lettera dimissoria o testimoniale o per il sigillo, o per qualunque altra ragione o causa o pretesto, eccezion fatta soltanto per l’offerta della candela di cera che suole esser fatta sulla base del pontificale romano; e tuttavia in modo tale che la qualità ed il peso della candela siano assolutamente lasciati all’arbitrio ed alla libera volontà di coloro che debbono ricevere gli ordini. Alla vostra disposizione dovranno uniformarsi anche i vicari generali o foranei, i cancellieri e gli altri ministri, i familiari e i servi, ai quali venne già specificamente vietato dal Sacro Concilio Tridentino di accettare o esigere qualunque remunerazione, offerta o regalo in occasione delle sacre ordinazioni.
5. Se però in codeste diocesi non è fissato per il cancelliere o per i notai della curia ecclesiastica alcuno stipendio o salario per le mansioni svolte, ad essi soltanto consentiamo che – per ogni lettera testimoniale di un ordine conferito, compresa la tonsura ecclesiastica, o per la lettera dimissoria relativa alla stessa tonsura, o per gli ordini da ricevere da un Vescovo estraneo – possano esigere al massimo la decima parte di un aureo, ovvero dieci oboli di moneta romana, e se lo trattengano, purché non siano Regolari legati da uno strettissimo voto di povertà, ai quali non è assolutamente consentito maneggiare denaro. – Ordiniamo che sia osservata la stessa entità di remunerazione anche se la predetta lettera testimoniale o dimissoria riguarda una pluralità di ordini, e fa riferimento ad ordini già attribuiti o in via di attribuzione da parte di un altro Vescovo; di conseguenza in nessun modo sarà consentito aumentare la predetta remunerazione di dieci oboli o moltiplicarla in funzione dei singoli ordini contenuti nella lettera testimoniale o dimissoria. Con queste norme non intendiamo certo indurre i cancellieri o i notai ad indicare in uno stesso documento testimoniale ordini diversi, conferiti in momenti distinti e con distinti dispositivi; in verità in passato abbiamo ordinato che ciò avvenisse; limitatamente a quegli ordini – cioè i minori – conferiti con una sola ordinazione. Quanto alla lettera dimissoria relativa a più ordini da conferirsi da un altro vescovo, vietiamo che vengano moltiplicate le scritture e che si richieda qualunque sovrapprezzo o donativo per la rogazione dell’atto di conferimento degli ordini o per l’accesso al luogo dell’ordinazione o per qualsiasi altro motivo.
6. Nel conferimento del suddiaconato, quando il cancelliere o il notaio siano costretti ad un maggior lavoro per comprovare la verità e l’idoneità del patrimonio e del beneficio al cui titolo l’ordinando aspira, occorre premettere necessariamente altre procedure per gli atti di conferimento del predetto ordine. In questo caso consentiamo loro di poter percepire una mercede proporzionata alla loro fatica, da stabilirsi dal Vescovo a suo coscienzioso giudizio. Tuttavia, tenuto conto della redazione dell’atto, del sigillo e di tutto il resto, non si può superare la somma di un aureo, ovvero di sedici giulii e mezzo. Vogliamo inoltre che gli ordinandi e i loro parenti siano liberi di ricorrere a qualunque notaio abilitato alla sottoscrizione ed alla rogazione dell’atto, senza che possano essere costretti verso qualcuno; così pure per i testimoni necessari a presenziare nelle predette curie alla costituzione ed alla stipulazione del patrimonio ed al perfezionamento degli altri atti consueti. Il notaio della curia, cui venga affidata una pratica di questo tipo, non potrà a nessun titolo esigere alcuna altra somma oltre la mercede definita dal Vescovo – come sopra specificato – o la somma di un aureo o di sedici giulii e mezzo, sia per la stesura dell’atto, sia per qualunque altra incombenza; né potrà ricevere altro denaro per la pubblicazione del decreto o per la lettera pubblicatoria o per qualunque altra ragione, sotto qualunque pretesto, come si legge chiaramente nel citato decreto del Concilio di Trento e come venne dichiarato apertamente nella sacra Congregazione del Concilio a Vicenza il 7 febbraio 1602, nella sacra Congregazione dei Vescovi a Gerona il 25 ottobre 1588, come si legge nel Fagnani (De simonia, cap. sulle Ordinazioni, n. 32 ss.).
7. Tuttavia, consentiamo che dai notai o dal cancelliere possa essere richiesto un compenso, sempre nell’ambito della legge, purché sia sempre dichiarato, qualora non sia stato fissato per il loro lavoro alcun salario o stipendio; comunque, assolutamente, nulla dei loro emolumenti può pervenire, direttamente o indirettamente, a voi o a chiunque altro, ufficiale o ministro, che conferisce gli ordini, così come venne sancito dal Concilio Tridentino. Queste due disposizioni, che con questa nostra lettera stiamo fissando, vogliamo che siano sempre rispettate in ogni occasione.
8. Riteniamo che difficilmente possa sfuggire all’accusa di lucro turpe e al sospetto d’avarizia l’iniqua consuetudine, che abbiamo saputo aver preso piede in alcune di codeste curie, di esigere denaro per l’autorizzazione (che deve provenire da voi o dai vicari generali) affinché coloro che sono stati recentemente ordinati sacerdoti celebrino la prima Messa, ovvero per altra simile autorizzazione, come quella di ammettere agli uffici divini i sacerdoti stranieri, per quanto muniti di lettera commendatizia dei rispettivi Ordinarii. Disponiamo pertanto che sia assolutamente eliminata codesta consuetudine, per quanto mantenuta fin qui e conservata a titolo di stipendio o di mercede da garantire a chi è incaricato di verificare l’idoneità dei sacerdoti nelle cerimonie e nei sacri riti; essa infatti è contraria ai sacri canoni ed è stata più volte riprovata.
9. Quel che abbiamo detto precedentemente a proposito delle sacre ordinazioni dev’essere applicato con pari diritto nel conferimento, o assegnazione, dei benefici ecclesiastici; ciò vi apparirà chiaro ed evidente se terrete davanti ai vostri occhi i canoni della Chiesa, fissati proprio per svellere dalle radici gli abusi instauratisi in diversi tempi in questa materia (cap. Si quis, q. 3; cap. Non satis; 8 cap. Cum in ecclesiae; 9 cap. Jacobus; 44 cap. De simonia; Cristiano Lupo, dissert. De simonia, cap. 10). E sebbene il santo Concilio Tridentino non abbia stabilito niente di preciso a questo proposito, tuttavia la sacra congregazione del Concilio, con l’approvazione del sommo Pontefice Gregorio XIII, dichiarò che il decreto cap. 1, sess. 21 De ref., avesse un ruolo anche nel conferimento dei benefici, in particolare degli amministratori, e che non si dovesse ricevere alcunché in cambio del sigillo, nonostante qualunque antica consuetudine (Garz., De benef. part. 8, cap. 1, n. 76 e seg.; Fagnani nel cap. In ordinando de simonia, n. 31; Gallemart, nel cap. 1, sess. 21, De reform.). – Questa stessa sacra Congregazione, nella lettera inviata al Vescovo di Melfi, con il parere favorevole del sommo Pontefice, giudicò, dichiarò e dispose che i conferitori di benefici – qualunque sia la loro dignità – non possano accettare od esigere alcunché per il conferimento o per qualunque altra pratica inerente i benefici, sotto qualunque forma o aspetto, direttamente o indirettamente, anche se il donativo sia presentato come frutto dell’annata o di qualunque altro frazionamento, nemmeno se dato spontaneamente come offerta. A queste norme debbono assolutamente attenersi anche i notai dei conferitori e tutti gli altri impiegati, per i quali tuttavia è previsto in altra parte un salario garantito; altrimenti, sia chi dona sia chi riceve sarà ritenuto colpevole ipso facto ed incorrerà nelle pene previste dai sacri canoni per i simoniaci; i notai, inoltre, e gli altri impiegati saranno sospesi dai loro incarichi (Garz., loc. cit.).
10. Abbiamo ritenuto di comunicarvi tutto ciò, Venerabili Fratelli, perché comprendiate quanto siano lontane dalla disciplina ecclesiastica le abitudini nel conferimento dei benefici che qua e là hanno preso piede nelle vostre diocesi, e con quanto impegno dobbiate sforzarvi affinché siano radicalmente rimosse. Sarà dunque vostro compito di ribadire per primi questa regola e di rispettarla santissimamente, affinché nei benefici ecclesiastici – di cura d’anime o residenziali, semplici o manuali, o di cappellania –che conferirete con procedura ordinaria non richiediate od accettiate alcun compenso, a qualunque titolo o forma, nemmeno di dono augurale, beneficenza o contribuzione volontaria, in particolare per l’approvazione, la preselezione del più degno nel concorso per le chiese parrocchiali ed il possesso dei benefici. – Saranno vincolati alla stessa sanzione canonica anche tutti gli altri conferitori, vicari generali, cancellieri, vostri consanguinei, parenti e servi, ai quali vietiamo comunque di percepire alcunché.
11. A questa regola generale fanno eccezione soltanto i cancellieri o i notai per i quali – come altrove abbiamo accennato – non è fissato alcuno stipendio a fronte del loro lavoro. In questo caso il cancelliere, se l’atto sia per benefici con cura d’anime, per un editto o per la lettera con cui viene indetto un concorso pubblico potrà esigere dieci oboli, e cinque per ciascuna copia ed altri cinque per le affissioni di rito. Se la lettera dovrà essere affissa fuori città, le spese di viaggio e le altre derivanti saranno ripagate sulla base dei rimborsi giornalieri vigenti nelle rispettive diocesi. Per la spedizione della lettera di conferimento, sia dei predetti benefici con cura d’anime, sia di quelli semplici, il cancelliere riceverà per il suo lavoro una remunerazione adeguata, fissata a giudizio del vescovo: remunerazione che comunque, tenuto conto della scrittura, del sigillo e di tutto il resto, non potrà superare un aureo, ovvero dieci giulii di moneta romana, come più volte è stato fissato dalla sacra congregazione del Concilio, ed in particolare il 15 gennaio 1594 (Gallemart., loc. cit.) e a Vicenza l’8 marzo 1602 (Fagnani, loc. cit., n. 32) e dalla sacra congregazione dei Vescovi il 25 ottobre 1588 (Fagnani, ibid., n. 35). Infine per quanto si riferisce agli atti di possesso degli stessi benefici, riceverà tre giulii per la sottoscrizione del documento, se i benefici saranno dentro la città, quattro se nel suburbio; se più lontani ancora, saranno osservati i tariffari vigenti nelle rispettive diocesi per le diarie, come abbiamo spiegato sopra. Ma se nel luogo in cui è situato il beneficio risulterà operante un cancelliere del vicario foraneo, o un suo notaio, colui che sta per entrare in possesso del beneficio può avvalersi liberamente degli uffici di questi e per rogare l’atto di possesso non potrà in alcun modo essere obbligato a rivolgersi al cancelliere della curia vescovile. Per una lettera che testimoni l’esito favorevole in un concorso, secondo la relazione degli esaminatori, e della quale sono soliti valersi coloro che l’hanno richiesta per dimostrare la propria idoneità, permettiamo che il notaio riceva come compenso massimo due giulii.
12. Non ci sfugge certo che al cancelliere, o notaio, tocca una fatica tutt’altro che lieve nello svolgimento dei concorsi per le chiese parrocchiali, sia quando comincia l’esame dei testimoni che i concorrenti presentano per dimostrare le loro qualità, i meriti e le lodevoli azioni compiute al servizio della Chiesa; sia quando inserisce negli atti del concorso i cosiddetti requisiti presentati dai concorrenti, e poi li riassume per iscritto e li trascrive in più copie per il vescovo, o per il vicario generale che interviene in sua vece, e per ciascuno degli esaminatori esterni del concorso, affinché possano formulare un giudizio sulla cultura, le abitudini, i comportamenti e le altre doti necessarie a reggere la Chiesa; quando risponde inoltre ai quesiti morali posti dagli stessi esaminatori, riporta il giudizio degli esaminatori stessi; stende l’atto di preselezione; rimane a custodia dei concorrenti per due e talora tre giorni ed in qualche caso presenzia anche allo scrutinio delle predette questioni morali. Abbiamo considerazione di quale possa essere la mole di tale impegno, affidando al giudizio ed alla coscienza del vescovo la determinazione della remunerazione, purché essa corrisponda soltanto all’entità della fatica.
13. Per quanto poi riguarda i benefici che vengono conferiti dalla Sede apostolica, poiché ad essa riservati: per i benefici “curati” per i quali è consuetudine presentare alla Dataria Apostolica una lettera testimoniale di approvazione e di preselezione nel concorso svolto secondo le norme fissate dal Concilio di Trento, ed ancora per i benefici non “curati”, in particolare quelli residenziali, per i quali parimenti è d’uso presentare alla Dataria Apostolica una lettera testimoniale sulla vita, le abitudini e l’idoneità di coloro che richiedono il beneficio, i cancellieri si guardino bene dall’esigere, per queste lettere, alcun emolumento o mercede, nemmeno un donativo spontaneo, eccetto che due giulii per la scrittura, la carta e il sigillo della lettera di idoneità e due giulii per la lettera testimoniale sullo stile di vita e sui costumi.
14. Per l’esecuzione delle lettere apostoliche, quando queste siano spedite in forma – come si dice – graziosa, né il Vescovo, né gli altri prelati Ordinarii dei luoghi, né i loro vicari, i cancellieri e gli impiegati ritengano di poter rivendicare a sé l’incarico di esecutori; dipenderà completamente dalla volontà di coloro che saranno stati dotati del beneficio la scelta dell’esecutore o del notaio cui affidare l’atto per l’entrata in possesso del beneficio stesso. Se il provvisto di un beneficio sceglierà l’Ordinario e il suo cancelliere, ovvero se la lettera apostolica sarà stata mandata nella cosiddetta forma dignum, indirizzata all’Ordinario, o al suo cancelliere o vicario, al quale compete l’obbligo di eseguirla; in entrambi i casi, se mancherà un legittimo contraddittore, in modo che l’esecutore sia uno solo, il cancelliere (esclusi comunque da qualunque emolumento, dono e volontaria offerta il vescovo o altro prelato, il suo vicario, l’impiegato, i familiari e i servi, come abbiamo disposto sopra a proposito dei benefici di libero conferimento), per la stesura di questa lettera apostolica e per la sua trascrizione negli atti, così come per tutti gli adempimenti consueti inerenti la pratica, potrà ricevere la remunerazione che il Vescovo, a proprio giudizio e secondo coscienza, riterrà congrua: essa non potrà comunque superare la somma di uno scudo d’oro o di sedici giulii e mezzo. Se invece fosse presente un contraddittore, in modo che si debba istituire un processo giudiziario, parimenti lasciamo all’arbitrio ed alla coscienza del Vescovo, che graviamo anche di questo peso, di fissare la mercede che corrisponda all’impegno ed alla fatica del notaio o del cancelliere addetto; purché niente di quanto riscuote il cancelliere o il notaio sia trasferito al vescovo o agli altri, come abbiamo detto prima, direttamente o indirettamente. Per l’atto di presa di possesso del beneficio, debbono osservarsi le stesse norme che abbiamo indicato sopra.
15. Per i benefici di giuspatronato, se sorge il dubbio – con il promotore fiscale o con colui che avrà richiesto il beneficio – sull’esistenza del predetto giuspatronato e qualcuno si oppone al conferimento gratuito, dovranno essere rispettate tutte le norme che abbiamo fissato in precedenza a proposito dei benefici di libero conferimento con contraddittore favorevole. Per un editto contro il contraddittore – o i contraddittori – il cancelliere riceverà due giulii; per ogni copia dieci oboli; per la pubblicazione di detto editto si dovrà osservare quanto abbiamo disposto per i benefici con cura d’anime; inoltre, per una lettera d’istituzione, un aureo ovvero sedici giulii e mezzo. Se invece non vi sia alcun dubbio sull’esistenza del giuspatronato, e tuttavia nasca una lite sulla competenza fra gli avvocati o fra coloro che da questi sono rappresentati, allora s’instaurerà una causa profana e per essa potranno essere pretesi emolumenti che corrispondano alle tariffe vigenti in ciascuna curia.
16. Procedendo analiticamente, del pari vietiamo che i vescovi, o gli altri prelati, o i loro vicari o comunque incaricati possano esigere alcunché sia in quelle che chiamano “cappellanie mobili”, sia nelle nuove fondazioni e nelle istituzioni di benefici, cappellanie, confraternite e congregazioni, ovvero nelle fondazioni, benedizioni, consacrazioni, visite ed approvazioni di chiese e di oratori derivanti da autorità apostolica o vescovile. Il cancelliere potrà ricevere soltanto una paga commisurata all’impegno, fissata dal vescovo a suo giudizio e coscienza, purché non superi i sedici giulii e mezzo.
17. Per quel che riguardai matrimoni o comunque le attività propedeutiche alle nozze, vi suggeriamo di osservare ciò che hanno disposto i sacri canoni (cap. Cum in ecclesia 9; cap. Suam nobis 29, De simonia), San Gregorio Magno nella lettera a Gennaro, Vescovo di codesta sede cagliaritana (lib. 4, indict. 12, epist. 27), ed altri ancora, come riferisce lo spesso lodato Cristiano Lupo nella citata dissertazione (cap. 7) e, da ultimo, il Concilio Tridentino (sess. 22, cap. 5, De reformat. matrimon.). I vescovi, naturalmente, i loro vicari, tutti gli incaricati, i loro familiari e gli addetti devono prestare gratuitamente la loro attività in questa materia e non pensare di ricevere alcuna remunerazione o premio od offerta volontaria, né per il decreto di dispensa matrimoniale ottenuto dalla Sede Apostolica, né per l’impegno ad esaminare i testi in merito o per il completamento delle certificazioni connesse, sia per la lettera di attestazione di stato libero e di mancanza di qualunque impedimento canonico, sia per la dispensa dalle pubblicazioni previste dal Concilio di Trento (in chiesa, per tre giorni festivi consecutivi, fra le messe solenni), da effettuarsi dal parroco dei contraenti, sia per la facoltà di celebrare il matrimonio a casa, o altrove, o in tempo non consueto e vietato, oppure di fronte ad un sacerdote diverso dal parroco, sia infine per qualunque atto che di necessità o d’abitudine si deve compiere, come è stato disposto dalla sacra Congregazione del Concilio, con l’approvazione del sommo Pontefice, nonostante qualunque precedente consuetudine, anche antichissima, come riferiscono Garzonio (De benefic. part. 8, cap. primo, n. 102 seg.) e Fagnani (cap. Quoniam ne proelati vices suas, n. 30).
18. Questo atteggiamento va mantenuto soprattutto in relazione alle deroghe che i Vescovi sogliono concedere ai parroci, sia in relazione alla pubblica comunicazione, in chiesa, in tre giorni festivi, dei matrimoni imminenti, sia per presenziare alla celebrazione degli stessi matrimoni, quando sappiano che non vi sono impedimenti. D’ora in avanti sarà necessario non solo che le licenze di questo tipo siano concesse gratuitamente; ma anche che si controlli che, prima della celebrazione dei matrimoni, non venga reso più complicato il contratto nuziale con la richiesta indiscriminata della predetta deroga, sulla base di una presunta necessità; cosa questa che sarebbe fonte di parecchi disagi. La sacra Congregazione dei Vescovi riunita a Gerona il 25 aprile 1588 (cf. Fagnani, cap. In ordinando de simonia, n. 41) ritenne necessario opporsi ad entrambi i mali. Quando infatti i canonici e il capitolo di Gerona posero la questione in merito all’editto con il quale il Vescovo aveva proibito ai parroci di unire gli sposi in matrimonio – pur avendo espletato tutte le norme solenni imposte dal Concilio di Trento – se non avessero la deroga scritta, che veniva concessa solo dopo il pagamento di mezzo giulio, la stessa sacra Congregazione rispose così: “Il Vescovo non deve emettere alcun provvedimento scritto, se per qualche ragione proibisce che i parroci possano congiungere le persone in matrimonio secondo gli usi fissati da detto Concilio. Infatti, rispettata assolutamente la sostanza della norma conciliare, quel che riguarda le cerimonie è affidato soltanto alla coscienza del Vescovo ed al suo stile. Allo stesso modo, infatti, in qualche villaggio o città è opportuno proibire ciò che tuttavia, sulla base di qualche urgente necessità, si dovrebbe fare. Così il vescovo deve impegnarsi a fondo perché non si celebrino matrimoni senza le predette procedure, ma deve anche stare attento affinché non siano resi più complicati i contratti di matrimonio, con l’aggiunta di nuove esigenze infondate. Se vi sarà bisogno di qualche licenza, il notaio non sarà pagato per questo. Ma se, per antica – forse anche scritta – consuetudine, quasi in segno di letizia, ci sia l’abitudine di fare un regalo al Vescovo, non ci pare affatto che questo sia da contestare“.
19. Soltanto al cancelliere per il quale non sia fissato uno stipendio garantito, sarà lecito ricevere, a titolo di pagamento del suo impegno e per il necessario sostentamento, un emolumento calcolato con questo parametro: per l’esecuzione della lettera apostolica sulla dispensa matrimoniale, se egli compia in prima persona l’escussione dei testi per accertare la veridicità delle affermazioni esposte nel libello di supplica, potrà esser pagato più o meno, in funzione del numero dei testimoni e della gravosità dell’impegno, ma comunque non più di cinque giulii. Se invece questo esame sarà affidato ad un’altra persona, avrà soltanto due giulii per la lettera di delega e assolutamente null’altro per il decreto, per il sigillo o a qualunque altro titolo. Per la lettera testimoniale di stato libero, tenuto conto della stesura, della carta, del sigillo e del resto, avrà due giulii. Per l’esame dei testimoni per l’accertamento dello stesso stato libero e per dimostrare la mancanza di qualunque impedimento canonico, dieci oboli per ogni testimone; per il riconoscimento della lettera testimoniale di stato libero di persone nate altrove, dieci oboli se non ci sia bisogno dell’esame di un secondo testimone per eliminare tutti i dubbi. Se per caso ciò occorresse, ed infine per la dispensa dalle pubblicazioni, ogni volta che occorra l’escussione di testimoni, dieci oboli soltanto per tale escussione.
20. A buon diritto è sempre stata ritenuta detestabile – e figlia dell’avarizia e della cupidigia – l’esazione di denaro o di qualunque altro bene a fronte della distribuzione dei Sacramenti. Perciò i sacri canoni bollarono spesso questa azione come intrisa di malvagità simoniaca e si preoccuparono di eliminarla con le dovute pene e con le censure ecclesiastiche (cf. Cum in ecclesiae corpore, 9, cap. Ad apostolicam, 42, De simonia)e in numerosi decreti conciliari riferiti da Cristiano Lupo (loc. cit., cap. 7 e 8). Confermando con ogni fermezza questa convinzione, la sacra congregazione del Concilio non ha mai tollerato che per l’amministrazione dei Sacramenti venisse preteso alcunché. Per tacere di tutti gli altri, il 20 febbraio 1723, nel giorno dei funerali del Vescovo di Albano, quando fu sottoposto ad esame se si dovesse permettere che i parroco accettasse la patena, cioè il disco del quale egli si serviva nell’amministrare l’estrema unzione, al quesito: “Potrà essere accettata l’offerta del disco?“, la stessa sacra Congregazione rispose che “non si dovesse permettere di accettare tale offerta” (Thes. resolut. tomo 2, p. 280). Allo stesso modo, quando il Vescovo di Vaison, nel sinodo del 1729, aveva stabilito una tassa da rispettare nella sua diocesi, in base alla quale, oltre ad altre procedure relative al battesimo, veniva stabilito che: “Il padrino o la madrina, per la cerimonia del battesimo forniranno almeno un cero ed un telo di lino candido e brillante, a meno che non preferiscano per tutto ciò e per la registrazione negli atti pubblici dei battezzati pagare cumulativamente cinque assi“, fu allora proposto il dubbio se la tassa prescritta in questo sinodo dovesse essere rispettata. La sacra Congregazione, nella riunione di Vaison del 6 febbraio 1734 rispose di no. (per maggiori informazioni cf. Thes. resolut., tomo 6, p. 209).
21. Fra le altre materie, che più di frequente o con maggior rigore sono state riprovate dai sacri canoni e dai concilii, una delle principali riguarda l’abitudine – qua e là invalsa in passato – di riscuotere denaro per il ricevimento del crisma e dell’olio santo, che i Vescovi cercavano invano di giustificare presentandola sotto vari nomi: a titolo cattedratico, quale prestazione pasquale, quale consuetudine episcopale (cap. Non satis, 8 cap. Eaquœ, 16 cap. Ad nostram, 21 cap. In tantum, 36 De simonia, ed altri ancora come indicato da Cristiano Lupo, loc. cit., cap. 7, paragrafo Secundum sacramentum). Di conseguenza, quando il Patriarca dei Maroniti di Antiochia prese l’abitudine, quando distribuiva gli olii sacri, di esigere un’offerta in denaro, sebbene fosse evidente che il denaro non veniva certo dato e ricevuto con lo spirito di mercanteggiare gli olii sacri, ma per sostentamento del Patriarca e per far fronte agli oneri che incombono all’ufficio e alla dignità patriarcali, tuttavia, per cacciare ogni sospetto di simonia, tale consuetudine fu disapprovata dalla particolare Congregazione alla quale è demandata la competenza per gli affari dei Maroniti. Benedetto XIV confermò tale sentenza (Constit. Apostolica 43, Bullar. tomo 1).
22. Ci pare che questo basti ed avanzi, Venerabili Fratelli, perché comprendiate a perfezione quali sono i vostri compiti nell’amministrare i sacramenti e li perseguiate con ogni cura, applicandovi totalmente affinché sia eliminata ovunque la malvagia consuetudine, vigente in alcune diocesi, in base alla quale per la distribuzione degli olii viene richiesto denaro o da parte del v Vescovo o dal prefetto della sagrestia. Già in precedenza la sacra Congregazione del Concilio lo aveva prescritto spesso, in particolare nella riunione di Amalfi del 18 luglio 1699, ribadendolo il 6 febbraio 1700, a proposito del quesito 12: “Se l’arcivescovo sia obbligato a garantire che l’olio santo sia consegnato gratuitamente dalla cattedrale alle chiese parrocchiali“. Ad esso fu risposto affermativamente. Identico orientamento prese la sacra Congregazione dei vescovi nella riunione di Acerenza, cioè di Matera, il 18 marzo 1706 (Ad. 2 apud Petram, Comment. ad constitut. 5 Innocentii IV, n. 38).
23. Per quanto riguarda poi l’offerta della candela, che abbiamo sentito viene fatta, in diverse diocesi di codesto regno, al vescovo che amministra la Confermazione, in primo luogo non va taciuto che a tal proposito nel libro pontificale non c’è nemmeno una parola. Inoltre, la sacra funzione del sacerdozio vincola tutti i ministri, i quali, nell’accettare le offerte, si devono regolare con moderazione e senso della misura, per evitare che, incorrendo nell’accusa di avarizia e di turpe negozio, il ministero stesso non finisca vituperato e si svilisca la riverenza dovuta ad un così grande sacramento. C’è da guardarsi bene che l’offerta della candela non degeneri in un’esazione sospetta, dalla quale derivi che i fedeli, specialmente i poveri, si ritraggano dal ricevere il sacramento, o ne rinviino più del giusto la somministrazione. Perciò c’è soprattutto da augurarsi che questa consuetudine sia completamente abolita e che si mantenga soltanto in quei casi in cui dipenda esclusivamente dalla decisione dell’offerente.
24. Le stesse norme impongono che tanto i vescovi quanto i loro cancellieri o notai debbano esercitare gratuitamente il loro ministero, sia quando – previo esame ed approvazione – concedono a qualcuno la facoltà di raccogliere le confessioni sacramentali, di amministrare i sacramenti e di esercitare ogni ministero ecclesiastico, sia quando giudicano l’idoneità dei vicari – sia perpetui, sia rimovibili ad nutum –, degli economi e dei coadiutori, come si legge nel capitolo Ad nostrum de simonia e come fu disposto nelle spesso citate assise di Vicenza (7 febbraio e 8 marzo 1602) e di Gerona (25 ottobre 1588, Ad. 7), in cui comunque si rigetta anche la remunerazione per la lettera che formalizza la concessione dei predetti ministeri e l’esercizio degli incarichi.
25. Riteniamo che nessuno di voi ignori quanto frequenti e quanto severe leggi vietino di esigere denaro per le sepolture e per le esequie funebri (cf. Cristiano Lupo, loc. cit., cap. 12 e Van Espen in Jus eccles. univ., par. 2, tit. 38, cap. 4). Basterà comunque citarvi San Gregorio Magno, che, scrivendo a Gennaro, vescovo di Cagliari (lib. 9, indict. 2, epist. 3, e lib. 7, indict. 2, epist. 56), così si duole: “La famosissima signora Nereida si è lamentata con noi del fatto che vostra fraternità non si è vergognato di chiederle cento solidi per la sepoltura della figlia. Se è vero, è davvero troppo grave e distante dalla dignità sacerdotale chiedere un prezzo per la terra concessa alla putrefazione e voler trarre un utile dal lutto altrui. Nella nostra chiesa noi l’abbiamo vietato, e non abbiamo mai consentito che la malvagia consuetudine si ripristinasse. Attenzione, a non ricadere in questo vizio dell’avarizia o in altri!“. – Nessuna legge mai ha vietato la lodevole e pia abitudine, invalsa nella Chiesa fin dai primi secoli, di fare offerte a favore dei morti durante i funerali; né nell’accettarle, veniva meno la libertà dei sacerdoti. Perciò il sommo Pontefice Gregorio aggiunse tosto: “Se qualche parente del morto, congiunto o erede desidera offrire spontaneamente qualcosa per l’illuminazione, non vietiamo di accettare. Proibiamo invece che venga chiesto o preteso alcunché” (Pontificale Romanum). Analogo ordine impartì, con parole chiare, Innocenzo III nel concilio Lateranense (cap. Ad Apostolicam, 42 De simonia).
26. In verità, venendo a mancare le decime personali e quelle, sia reali sia miste, a favore dei monasteri e dei capitoli dei canonici, fu in un certo senso necessario che i laici venissero quasi costretti alle pie offerte, fin qui consuete, con le quali si provvedeva alle necessità dei parroci e delle chiese parrocchiali. Tuttavia si tenne sempre presente la santità della disciplina ecclesiastica per garantire che non ci si allontanasse troppo da queste lodevoli consuetudini: i chierici per eccesso, i laici per difetto. Tra l’altro fu sancito in particolare che esequie, funerali e sepolture di defunti – sia cittadini sia stranieri – non dovessero essere impediti o ritardati per poter ottenere il denaro derivante da questa pia consuetudine; inoltre, che non si dovesse pretendere niente per il permesso di trasferire i cadaveri e seppellirli in un luogo piuttosto che in un altro.
27. Da ciò dunque avrete compreso, Venerabili Fratelli, che è intollerabile che nelle vostre diocesi si accetti denaro, al di là delle consuete offerte collegate alle pietose incombenze che si prestano al cadavere ed in suffragio dell’anima. Né il parroco – attuale o abituale – dev’essere pagato in funzione della condizione del morto, della distinzione del grado, ovvero in relazione alla posizione favorevole ed al decoro dei luoghi nei quali i cadaveri devono essere inumati, sia in chiesa, sia in luogo più prestigioso della chiesa. È inoltre aberrante per i sacri canoni che il Vescovo pretenda o riceva denaro per seppellire qualcuno, sia adulto, sia bambino, in qualsiasi chiesa diocesana o anche delle comunità religiose. La sacra Congregazione del Concilio, intervenendo contro il Vescovo vicentino e la sacra Congregazione dei Vescovi riunita a Gerona (Ad. 10, Fagnani., cap. In ordinando de simonia, n. 32 ss.) hanno espresso chiara condanna nonostante qualunque consuetudine contraria, anche antichissima.
28. Nella visita pastorale alla diocesi, eviterete con poca fatica qualunque sospetto di avarizia e sarà chiaro a tutti facilmente che voi chiedete non nel vostro interesse ma in quello di Gesù Cristo, se vi atterrete scrupolosamente a quanto raccomandarono in materia i Padri del Concilio Tridentino: “Si curino i Vescovi in visita di non essere onerosi per nessuno con inutili spese; né personalmente né attraverso qualcuno del seguito, accettino alcunché: né per aver in qualche modo propiziato la visita, né per le pietose abitudini dei testamenti, eccetto quel che deriva per legge dai lasciti pii. Non accettino, dunque, né denaro né doni di qualunque tipo né a qualunque titolo offerti, nemmeno se in tal senso esistano abitudini, anche antichissime. Restano esclusi soltanto gli alimenti, che verranno forniti al vescovo ed al suo seguito in misura frugale, e soltanto per il tempo necessario alla visita e non oltre. Coloro che ricevono la visita possono decidere se preferiscono consegnare una somma di denaro predeterminata, come solevano fare in precedenza, oppure fornire le citate vettovaglie (Sess. 24, cap. 3, De ref.).
29. Su questo decreto vennero prodotte diverse dichiarazioni e decisioni della sacra Congregazione del Concilio, alcune delle quali è qui opportuno riportare. Il primo argomento del quale si discusse più volte fu se il vescovo potesse esigere le cosiddette “provvigioni” in occasione della visita alla cattedrale ed al clero della città – o altro luogo – in cui risiede abitualmente. Quando fu chiaro che la “provvigione” era stata istituita dal Concilio di Trento per la visita alla diocesi, e che non si faceva alcuna menzione della città; inoltre che lo stesso Concilio aveva imposto la somministrazione di vettovaglie “soltanto per il tempo necessario“, e che pareva pertanto non ce ne fosse alcuna necessità quando il Vescovo visita luoghi nei quali è tenuto a risiedere ovvero nei quali trascorre parte dell’anno; la sacra Congregazione stabilì che gli antichi canoni di diverso avviso ed ogni usanza contraria erano stati rimossi dal decreto del citato Concilio di Trento, e pertanto rispose costantemente in modo negativo al dubbio proposto (in particolare per la “provvigione” nel caso di Castres del 17 novembre 1685, per quella di Alife del 18 luglio 1705, per quella di Policastro del 1 giugno 1737 e recentemente per quella di Valenza del 30 gennaio 1768). Di identico parere era stata la Congregazione dei Vescovi, come emerge dalla lettera al Patriarca di Venezia datata 26 maggio 1592, nonostante gli usi e qualunque motivazione contraria.
30. Oltre a ciò che è sancito nel citato decreto del Concilio di Trento (in relazione alla materia trattata anche nel cap. Si episcopus de off. Ordinarii, 6) si presti specifica attenzione affinché né il Vescovo né chiunque del suo seguito, invocando la “provvigione”, accetti denaro o doni di qualunque natura, anche se spontaneamente offerti, eccezion fatta soltanto per le vettovaglie, o per l’offerta corrispondente ad esse, se coloro che vengono visitati avranno preferito questa forma di contribuzione. Nondimeno, alcuni ritennero che fosse loro lecito ricevere, oltre che il denaro delle vettovaglie o le vettovaglie stesse, anche vetture a cavalli per sé e per il proprio seguito ed anche qualcos’altro, con qualche motivazione non religiosa. Essi tuttavia furono sempre condannati dalla sacra Congregazione del Concilio ed il loro comportamento costantemente contestato, in quanto contrario sia ai sacri canoni sia al Concilio Tridentino. Nella visita pastorale di San Marco, tra gli altri vennero proposti questi due quesiti: “V) Se il clero sia obbligato a pagare qualcosa ai ministri ed agli altri rappresentanti del vescovo in visita; VI) Se lo stesso clero sia tenuto a pagare al vescovo in visita la vettura a cavalli“. Il 7 luglio 1708 questa fu la risposta: “Si doveva tener conto dei decreti già precedentemente pubblicati ed in particolare, per il V quesito, della sessione Amalfitana del 18 luglio 1699 (lib. 3, Decr. 49, p. 252); per il VI, di quella Abruzzese del dicembre 1784 (lib. 4, Decr. p. 10)”. Il senso che derivava dalla risposta e che si desume anche dagli altri decreti citati è chiaramente questo: per il quesito V, l’obbligo riguarda soltanto le vettovaglie, secondo la norma conciliare; per il quesito VI, la risposta è negativa. – Si ritornò in argomento in un’altra causa di San Marco il 16 gennaio 1723, al III quesito: “Se la predetta “provvigione“ abituale sia da pagare per intero, nella solita quantità di denaro, secondo gli usi di ciascun luogo che viene visitato, quando al vescovo ed al suo seguito vengono offerti anche tre pranzi, le vetture, l’alloggio e tutto il resto necessario, secondo l’invocata, antichissima consuetudine“. Il IV quesito proponeva: “Se al Vescovo ed al suo seguito debbano essere assicurati i cibi e tutto il necessario per tutto il tempo della visita“. Al III quesito la sacra Congregazione rispose che “dipendeva da coloro che ricevevano la visita pagare la “provvigione“ in natura o in denaro, esclusi comunque i tre pranzi nel caso che si sia scelto il denaro; quanto alle vetture con cavalli si facesse riferimento al decreto del 7 luglio 1708, in sancti Marci ad VI“.Per il IV quesito valeva quanto risposto al terzo. Analogamente, per la “provvigione” di Policastro, quando fu presentato il II dubbio “se il predetto Vescovo possa pretendere dallo stesso arciprete e dai chierici, oltre alla “provvigione“ di 15 ducati, pagati in moneta, anche le vettovaglie e le carrozze per sé e per il suo seguito, nel caso che, ecc.“, il giorno 1 giugno 1737 giunse il responso al II dubbio: “Negativo“”.
31. Si discusse anche se il vescovo e i suoi ufficiali potessero pretendere ed esigere qualche emolumento qualora, durante la visita pastorale, convalidassero testamenti per cause pie e legati pii, e curassero di avviarne l’esecuzione. In questa materia la sacra Congregazione del Concilio deliberò nella seduta di Maiorca del 7 agosto 1638, asserendo che il vescovo e i suoi ufficiali non possono ricevere pagamenti per i decreti emessi durante la visita, e nemmeno per le delibere di esecuzione dei legati pii, anche se in tal senso esistano consuetudini antichissime. Questione non dissimile sorse nel 1645 fra il vescovo di Vicenza da una parte ed i giurati del re della città di Minorissa Pratorum dall’altra. Sottoposta la materia alla stessa santa Congregazione, la risposta giunse sotto la data del 18 marzo dello stesso 1645 e fu del seguente tenore: “La sacra Congregazione ha stabilito che il vescovo in visita e i suoi incaricati non possono ricevere alcunché per i decreti o per le delibere di esecuzione dei testamenti o dei legati, ma debbono compiere il tutto gratuitamente, nonostante qualunque precedente consuetudine, anche antichissima. Al di fuori della visita, il Vescovo ed i suoi incaricati possono ricevere denaro per decreti di questo tipo e per le delibere, ma solo quel tanto che verrebbe pagato – senza sprechi – al notaio per la stesura e per l’impegno, così come affidato alla coscienza del vescovo, nonostante qualunque consuetudine, anche antichissima“. Ciò fu deliberato anche ad Elnen il 28 marzo 1648, al quesito VIII. – A questo non sarà superfluo aggiungere quel che leggiamo essere stato sapientemente fissato nel consiglio provinciale di Milano V: “Il notaio o il cancelliere non esiga alcunché durante la visita pastorale da parte di coloro che sono visitati e non accetti doni di alcun tipo, nemmeno piccolissimi, offerti in qualunque modo; niente neppure per la emanazione dei decreti e delle ordinazioni effettuata durante la visita, per la scritturazione o per la riproduzione delle copie, né da singoli, né da chiese, né da sacerdoti, né dagli altri che ricevono la visita, come dispone l’editto di visita. È invece consentito che sia pagato (secondo il tariffario vigente o da fissare nel tribunale ecclesiastico) per la fatica e l’impegno profusi nel trascrivere le copie di cui – in tempo successivo – qualcuno interessato avrà fatto domanda“.
32. Queste norme debbono essere rispettate anche nella ricognizione dei libri che contengono i legati pii e il loro adempimento, nonché nella resa dei conti delle amministrazioni ecclesiastiche, delle confraternite, dei monti di pietà, e delle altre istituzioni pie, per il cui sviluppo sia il vescovo sia i suoi rappresentanti debbono impegnarsi gratuitamente, come si evince da quanto detto precedentemente e come ha dichiarato la sacra congregazione nel concilio di Vicenza del 27 giugno 1637, affermando: “Né al vescovo né ai suoi rappresentanti è lecito accettare alcunché per l’amministrazione delle opere pie o per l’esecuzione dei testamenti e delle volontà pie, ma tutto dev’essere fatto gratuitamente, nonostante qualunque consuetudine, anche contraria“. Il 20 settembre 1710, durante la confraternita di Lanciano, al X dubbio, nel quale si chiedeva “Se l’Arcivescovo debba valersi, per la stesura dei bilanci, di sindaci ovvero di persone esperte elette dai confratelli, oppure possa rivolgersi a chi gli pare meglio“, la sacra Congregazione rispose “negativo“al primo quesito ed “affermativo” al secondo, ma gratuitamente (tomo 6, Thes. resolut., p. 164). Nonostante il Vescovo debba darsi da fare affinché la revisione dei libri sia effettuata gratuitamente e la relazione sia stesa dal suo notaio o da un economo di casa o da chiunque altro addetto al suo servizio; tuttavia può accadere talvolta che per gravi ed urgenti motivi sia opportuno designare a pagamento un estraneo che non abbia alcun obbligo. Ogni volta che ciò accada, il vescovo stabilirà secondo giudizio e coscienza la congrua remunerazione per il revisore, commisurata al puro e semplice impegno, come sancì la sacra Congregazione a Veroli il 30 gennaio 1682 (lib. 35, Decret. f. 283), a Benevento il 7 giugno 1683 ed a Pesaro l’11 dicembre dello stesso anno.
33. A fronte di queste affermazioni della sacra Congregazione, solidamente basate sui sacri canoni, e dei decreti del Concilio Tridentino, non possono assolutamente essere accettate alcune consuetudini, che hanno più l’aspetto di corruzione, in forza delle quali alcuni vescovi e loro rappresentanti, mentre effettuano le sacre visite, ricevono qualche pagamento per l’esame di alcuni testamenti, oppure per la relazione contabile che esigono dagli amministratori di chiese o luoghi pii; oppure approfittano per tutto il tempo della visita della carrozza a cavalli o di qualche pranzo; oppure cercano di ottenere i lumini o le candele collocate sull’altare principale del tempio o anche su altri altari. Tutte queste abitudini, e le analoghe che sussistano, contrarie alle predette sanzioni, debbono essere assolutamente abolite: lo disponiamo ed ordiniamo!
34. Sebbene, sulla base della citata decisione della sacra Congregazione, adottata in Vicenza il 18 marzo 1645, il vescovo o il suo rappresentante, sia durante la visita sia al di fuori, non possa accettare alcunché per i decreti o le deliberazioni di esecuzione testamentaria di legati, ma debba svolgere ogni incarico gratuitamente, tuttavia durante le sacre visite può accettare la parte dovuta dei legati pii, delle offerte e delle altre beneficenze che vengono fatti alla chiesa in occasione dei funerali; tale quota parte viene popolarmente definita come “quarta canonica“, come fu risposto dalla stessa sacra Congregazione nelle riunioni di Urgel il 25 gennaio 1676 ed il 14 febbraio 1693 all’ottavo dubbio. I vescovi traggono questo diritto dai sacri canoni (cap. Officii 14, e Requisiti 5 de testamentis) che il Concilio Tridentino volle mantenere in vigore, come dimostra il fatto che proibì severamente ai vescovi di accettare alcunché per la visita, nemmeno in funzione dei pii usi dei testamenti, “eccetto ciò che per diritto è dovuto per i legati pii” (cit. sess. 24, cap. 3 De ref.). Ovviamente i vescovi devono mantenersi moderati nell’esigere questa parte, ossia la “quarta canonica“, e osservare i limiti fissati dagli stessi sacri canoni nel capitolo finale De testamentis, dove così si legge: “La parte canonica non deve essere dedotta da quelle offerte che vengono fatte alla chiesa, o alle altre strutture ecclesiastiche, per ornamenti, per l’edificio, per le luminarie, o in occasione di un anniversario, di un settimo giorno, di un vigesimo o di un trigesimo, o in modi diversi per la prosecuzione del culto divino“. Analoghi concetti si leggono nel capitolo “Ex parte de verb. signif.“. Inoltre non si deve operare alcuna deduzione dai legati per il matrimonio delle fanciulle – come dispose la sacra Congregazione dei Vescovi nella riunione di Nocera dei Pagani il 14 Settembre 1592 – né da quelli per la celebrazione delle messe (come stabilì la Sacra Congregazione del Concilio in un’altra seduta a Nocera dei Pagani, con il decreto Quartae canonicœ, 13 gennaio 1714, lib. 64), sebbene a tempo immemorabile al Vescovo venisse versata la quarta parte da tutti i legati pii.
35. Per quanto riguarda i monasteri delle monache o le case religiose nelle quali le donne vivono come monache, solitarie e lontane dagli impegni del mondo, è stato spesso ribadito dalle Costituzioni apostoliche e dalla sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari (con il parere favorevole e l’autorevole approvazione dei sommi Pontefici) che né i vescovi, né altri prelati o loro vicari generali, delegati speciali, rappresentanti, ministri, consanguinei o addetti possano assolutamente esigere o accettare emolumenti in denaro o in altra natura per l’ammissione delle fanciulle all’abito monastico; per l’approvazione del deposito della dote; per la verifica della volontà e della disposizione d’animo ad assumere l’impegno della vita regolare; per la pronuncia della professione; per l’accesso delle fanciulle al beneficio dell’educazione; per la rinuncia prima dell’ammissione alla professione; per l’elezione della badessa o di altra superiora; per l’autorizzazione a far entrare in monastero il medico, il chirurgo od altri operatori; per la facoltà di parlare alle monache o alle altre persone che vivono entro i chiostri del monastero; per la delega dei confessori, dei cappellani, dei procuratori, degli amministratori dei beni temporali e degli altri ministri, ed in generale per ogni atto necessario al regime monastico.
36. Da questa regola generale fanno eccezione soltanto le vettovaglie, che possono essere offerte al Vescovo o ad altro prelato, in occasione di alcuni dei predetti atti; purché ciò sia l’unico introito e donativo e non ecceda quel che può loro servire per il tempo di tre giorni. Il cancelliere, per il documento delle rinunzie e per l’atto di deposito della dote, riceverà un onorario adeguato al lavoro e comunque non superiore a dieci giulii.
37. Oltre a queste, in molte altre situazioni che appartengono all’esercizio della potestà spirituale (dalla quale dev’essere assolutamente assente ogni retribuzione umana) e che competono al vescovo (per il cui sostentamento e per la cui gestione sono destinati gli introiti della mensa), ai vescovi non è consentito accettare nessun ulteriore emolumento, diretto o indiretto, a qualunque titolo e proposto con qualunque motivazione, nemmeno se spontaneamente donato; analogamente, ciò non è consentito ai loro vicari, né a qualunque rappresentante o impiegato. – Qui elenchiamo, Venerabili Fratelli, le voci principali, desunte dai sacri canoni, dalle Costituzioni apostoliche e dai decreti delle sacre Congregazioni, delle quali più frequente e nota è la menzione presso i dottori.
38. Per le cosiddette lettere patenti, cioè per il permesso di predicare in quaresima e in avvento, o in altro tempo e luogo (Conc. Trid., sess. 5, cap. 2, De reform.). – Per la licenza di dedicarsi a lavori servili, per gravi motivi, nei giorni festivi (Urbano VIII, Constit. Universa e numerose sacre Congregazioni del Concilio e dei vescovi, apud Ferrar. verb. festa, n. 31 seg.), anche se il denaro derivante dall’autorizzazione venga destinato a scopi pii. – Per la resa dei conti dell’amministrazione delle chiese e dei luoghi pii e per la revisione dei libri della stessa amministrazione, sia che sia fatta dal vescovo, sia da un altro incaricato del vescovo con delega generale o speciale, con l’eccezione, tuttavia, indicata precedentemente. – Per il riconoscimento, l’approvazione e la promulgazione delle reliquie, delle indulgenze e degli altari privilegiati. – Per l’autorizzazione a chiedere elemosine ed altro, anche se concessa a forestieri. – Per la nomina dei custodi delle chiese, i cosiddetti eremiti. – Per la lettera testimoniale di povertà o di qualche altro requisito. Il cancelliere tuttavia potrà percepire complessivamente dieci oboli. – Per la lettera con la quale si attesta che uno non ha ricevuto alcun ordine, nemmeno la tonsura clericale. Al cancelliere tuttavia potranno essere dati al massimo dieci oboli. – Per l’atto di rinuncia allo stato clericale, e per la sua ammissione, o anche per la lettera o attestazione della rinuncia stessa. Per questa lettera tuttavia il cancelliere potrà esigere dieci oboli. – Per la consultazione dei libri parrocchiali già trasferiti nell’archivio vescovile: libri nei quali sono indicati i battezzati, i cresimati, gli sposati e i morti. Per ciascuna consultazione su domanda, il cancelliere potrà ricevere al massimo venti oboli ed altrettanti per l’autenticazione del dato richiesto, a meno che la dignità della persona richiedente oppure l’uso della lettera testimoniale oltre i confini della diocesi o del regno non consentano un onorario maggiore. – Nel caso in cui la certificazione richiesta non risulti dai libri parrocchiali, e per ricavarla sia necessario mettere a confronto dei testimoni, oltre la mercede nella misura stabilita per l’escussione dei testi e per la redazione dell’atto, al cancelliere sarà consentito ricevere altri quindici oboli per la pubblicazione della lettera testimoniale; al vicario generale saranno pagati trenta oboli per i decreti con i quali avrà disposto la raccolta di informazioni e – dopo averle assunte e verificate personalmente – avrà ordinato la spedizione della lettera testimoniale. – Per l’autorizzazione a lasciare la chiesa o il beneficio (Conc. Trid. sess. 23, cap. 1 De ref.). Inoltre per le lettere commendatizie che vengono consegnate ai sacerdoti, ai chierici e a coloro che sono in partenza per altre diocesi. – Per le lettere ammonitorie di scomunica che palesino segreti, autorizzate dalla curia vescovile e dall’Ordinario, o quando si tratti di pubblicare lettere ammonitorie apostoliche. Il cancelliere riceverà dieci oboli per l’impegno della stesura. Lo stesso cancelliere sarà gratificato di un ulteriore compenso da parte del vescovo, che ne fisserà anche l’importo, per completare la trascrizione delle notizie che vengono rivelate, previo decreto del vicario. – Per la trascrizione di un’ammonizione, di una sentenza o della dichiarazione di censure nelle quali sia incorso qualcuno per avere percosso degli ecclesiastici o per qualsiasi altra causa, anche nel caso di sentenza assolutoria e della stessa assoluzione dalle censure (cap. Ad aures de simonia). Il cancelliere potrà ricevere al massimo venti oboli in pagamento della stesura, purché non si tratti di lettere provenienti dalla sacra Penitenzieria apostolica; per quelle che si riferiscono alla predetta assoluzione, il cancelliere non potrà ricevere alcun compenso. Venti oboli spetteranno al cancelliere anche per le schede di censura – i cosiddetti “cedoloni” – e per la loro affissione come d’abitudine. Analoga norma sarà applicata per la liberazione da un giuramento, con l’avvertenza che se essa sarà concessa nella curia ecclesiastica il cancelliere potrà ricevere per l’attestazione soltanto venti oboli; se essa verrà concessa fuori curia, per la lettera di delega allo stesso cancelliere verranno pagati altrettanti oboli.
Per l’autorizzazione a tenere pontificali.
Per dar corso alle lettere apostoliche che impartiscono benedizioni o assoluzioni; per le lettere con le quali la stessa facoltà viene attribuita ai parroci o ad altri, con l’inserimento di dette lettere apostoliche, al cancelliere saranno pagati, tutto compreso, soltanto trenta oboli. – Per l’esecuzione delle lettere apostoliche relative all’autorizzazione impetrata presso la sacra Congregazione ad alienare o permutare i beni delle chiese e dei luoghi religiosi, oppure ad imporre censi, il cancelliere riceverà un compenso proporzionato alla fatica compiuta per completare la pratica e le scritture. Comunque esso non supererà i dieci giulii. Se la Santa Sede avrà incaricato l’Ordinario di accertare la veridicità di quanto esposto nella supplica, allora al cancelliere toccheranno dieci oboli per ogni teste sottoposto ad esame. Tenuto conto della mole del lavoro, gli si potrà anche assegnare un certo compenso, secondo il giudizio e la coscienza del vescovo, per gli editti, ogni volta che siano prescritti; per l’esame dei testimoni teso ad accertare l’utilità dell’alienazione; e per tutti gli altri adempimenti che – come di consueto occorre portare a termine in questa materia. – Per il decreto d’alienazione che, in base al cap. Terrulas 12, q. 2, viene emesso solo dall’autorità ordinaria.
39. Infine le multe o le pene pecuniarie – quando saranno rese necessarie dalla natura del reato o dalle caratteristiche di chi lo commette – saranno devolute a scopi pii e per l’attuazione della giustizia, in modo che nulla torni a vantaggio personale del vescovo o dei suoi vicari o di chiunque dei suoi rappresentanti, né direttamente né indirettamente. Per eliminare ogni dubbio o sospetto di non corretta applicazione delle multe, sarà meglio – e perciò lo riteniamo necessario – che nelle sentenze stesse siano designate le istituzioni religiose o le chiese a favore delle quali devono essere destinate le predette pene pecuniarie, tenendo sempre conto, in ciò, di quelle che hanno maggior bisogno ed anche del domicilio di coloro che hanno commesso il reato.
40. Bisognerebbe aggiungere a questo punto alcune note sul foro del contenzioso, affinché la disciplina ecclesiastica anche sotto questo profilo riconquisti la dignità e lo splendore originari. Di questo tuttavia converrà deliberare dopo un giudizio più approfondito e una volta assunte informazioni complete sulle consuetudini in uso in codeste diocesi. Vi è un principio, per ora, sulla quale non possiamo mantenere il silenzio e che anzi vogliamo trasmettervi ed inculcarvi con forza: gli ecclesiastici impegnati nell’emettere sentenze nelle cause spirituali svolgano il loro compito santamente, pietosamente e religiosamente, in modo che in loro non appaia nulla che offuschi con la minima ombra il candore della purezza ecclesiastica. Ne discenderà in primo luogo che i giudici ecclesiastici delle vostre diocesi non richiederanno o accetteranno alcun pagamento né per gli atti né per le sentenze pronunciate nelle cause spirituali; in particolare in quelle che riguardano la religione (come quelle contro i sospetti di eresia e i colpevoli di superstizione) o i fidanzamenti, i matrimoni, le censure, eccetera. Per questo motivo, “Ricordatevi (sono parole di Innocenzo III ai prelati e ai sacerdoti della Lombardia, nel cap. Cum ab omni, sui comportamenti e l’onestà dei religiosi) che le entrate ecclesiastiche sono destinate a favore vostro e degli altri chierici, perché con esse dobbiate vivere onestamente e non vi sia necessario stendere la mano verso turpe lucro, oppure abbassare gli occhi verso impegni non corretti. Poiché le vostre opere debbono essere di luminoso esempio ai laici, non vi sia lecito cogliere l’occasione di fare turpe commercio del diritto, come fanno i civili. Perciò ordiniamo e disponiamo che – astenendovi per il futuro da esazioni di questo tipo – individuiate come trasmettere gratuitamente ai litiganti il vigore della decisione giudiziaria, nonostante ciò che viene proposto fraudolentemente da alcuni, secondo i quali la stessa cifra venga pretesa a favore degli assistenti, poiché al giudice non è lecito commerciare un giudizio equo, e le sentenze a pagamento sono vietate anche dalle leggi civili“.
41. Questi sono, Venerabili Fratelli, gli obiettivi che abbiamo ritenuto giusto sottoporvi, in favore della causa apostolica, per la quale siamo impegnati, e per gli obblighi assunti. Se, come è giusto e come speriamo in Dio, voi li realizzerete, tutto ciò gioverà allo splendore della disciplina ecclesiastica, alla tranquillità delle vostre coscienze e soprattutto al benessere del gregge a voi affidato. – Riteniamo che questi adempimenti non vi risulteranno né onerosi né molesti, quantunque vediamo che con queste norme verrà meno una parte dei vostri consueti emolumenti. Un sospetto di questo tipo nei vostri confronti ci è comunque impedito dalla vostra attenta devozione, dalla vostra ben nota religiosità e dall’impegno per mantenere la disciplina ecclesiastica, sulla base dei quali giudicherete certamente un danno per Cristo ciò che finora rappresentava per voi un vantaggio economico. Individuerete come autentico motivo di guadagno esclusivamente il fatto che nelle vostre diocesi cresca sempre più l’adorazione per Dio ottimo e massimo, e che i popoli affidati alla vostra fede e alla religione si nutrano più facilmente e più felicemente della vostra parola e del vostro esempio. – Inoltre siamo stati pienamente informati da coloro che ben conoscono le vicende ecclesiastiche di codesta isola, ed in particolare a nome del re, che per voi rappresentano un vantaggio coloro che, ritagliandosi piccoli compensi (che non vi sarà consentito d’ora in avanti esigere), si curano del decoro e della dignità del loro Vescovo e provvedono alle necessità delle chiese. Per non sperare di ricevere alcun aiuto da coloro ai quali vi siete appoggiati fin qui per antichissima consuetudine, converrà che vi ricordiate la famosa frase di Alessandro III (cap. Cum in ecclesia, de simonia)con la quale quel sommo Pontefice rimproverava coloro che inopportunamente si tenevano attaccati alle loro abitudini: “Molti ritengono che ciò sia loro lecito, poiché pensano che la legge della morte si sia rafforzata per la lunga consuetudine, non riflettendo a sufficienza – accecati come sono dalla cupidigia – che quanto più gravi sono i peccati tanto più a lungo le loro anime saranno incatenate“. –Dunque rigettiamo e condanniamo queste abitudini, anche se antichissime e persino immemorabili; anche se corroborate e confermate da costituzioni sinodali o da qualunque altra autorità, anche apostolica. Dichiariamo, stabiliamo ed ordiniamo che debbano essere considerate come abusi e fonte di corruzione. Animati da sollecitudine per le vostre chiese. come questa lettera ampiamente dimostra, abbiamo in Noi saldissima la speranza che voi non lesinerete impegno, diligenza ed attenzione. – Frattanto, in pegno del Nostro amore paterno nei vostri confronti e della Nostra benevolenza, vi impartiamo la Benedizione Apostolica.
Dato a Roma, in Santa Maria Maggiore, il 21 settembre 1769, nel primo anno del Nostro Pontificato.