Paolo SEGNERI S. J.:
L’INCREDULO SENZA SCUSA
[Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884]
PARTE PRIMA
CAPO XXVI.
Si risponde al più che arrechino i genetliaciin difesa della loro arte.
I. Ad un falsario contumace, convinto, e colto col fallo in mano della moneta adulterata da lui, con rovina pubblica, non si farebbe alcun torto, quando gli si negassero lo difese. Ma tale è lo stato dell’astrologia giudiziaria, giusta il processo finor su lei fabbricato da tanti capi. Con tutto ciò siccome i professori di essa hanno tra gli altri bugiardi questo vanto, che laddove agli altri per una menzogna che dissero, non si crede di poi verità veruna, e ad essi, per una verità, si credono di poi menzogne infinite: così presumono di avere fra gli altri rei questo privilegio, che non si possa mai lasciar di ascoltarli; altrimenti protestano incontanente di nullità. Dunque, a cessar liti, udiamoli ancor noi, se noi di giustizia, almeno di cortesia. E perché per viadi ragione non possono più nulla a proprio favore che non sia stato abbattuto già chiaramente; diamo loro campo di andare per via di fatto, non ci sdegnando che formino una superba enumerazione di varie predizioni famose da loro uscite, e non per tanto avveratesi, non meno all’età presente, che alle passate.
I.
II. Ma che? Non si nega mai, che ancor essi talvolta non indovinino. Si nega, che indovinino a forza d’arte; mentre le loro regole hanno contro di sé strepitante sì la ragione, sì l’esperienza, e sì l’autorità di tutti i maggiori uomini stati al mondo. Anche i sortilegi antichi, anche gli auguri, anche gli aruspici, anche gli interpreti del cielo tonante, e più altri, non lasciavano in Roma d’indovinare; altrimenti non si può dubitar, che mentendo sempre, non sarebbero giunti a sì grande stima. Per questo diremo noi, che i loro indovinamenti fosser da arie di antivedere il futuro, non da superstizioso vaneggiamento tratto da ciò che secondo loro dicevano, a chi le sorta chi gli animali, a chi l’aria, ed a chi i semplici ondeggiamenti del fumo che su volava, ora diritto, oro distorto, ora denso, ora dilatato? Certo è, che un cieco non può mai scorgere il segno. Eppure anche un cieco tanto può tornare a tirare, che al fin vi colga: Quis est, qui totum dìem iaculans, non aliquando collimet? diceva Tullio (De div.) nel favellar degli astrologi de’ suoi tempi. E non meno graziosamente lo notò di poi Seneca in que’ de’ suoi, quando egli disse, che avevano ritrovata la vera via d’indovinar la morte di Claudio Cesare, con predirgliela, prima ogni anno, poscia ogni mese, finché ella avvenne. Patere mathematicos aliquando veruni dicere, qui Claudium, postquam princeps factus est, omnibus annis, omnibus mensibus efferunt (Inludo sup. mort. CI. Cæs.). Che se questi istorici,i quali hanno riferito il vero apporsi che fecero i genetliaci, avessero riportato con pari fedeltà il vero abbagliarsi, ritroveremmo, che questi, prima di dar nel punto una volta sola avevano esausti mille turcassi di strali volati in fallo: Ista omnia, quæ aut temere, aut astute vera dicunt, præ cæteris, quæ mentiuntur, pars ea non est millesima (GelL. 1. 14.c. 1). Tanto asserì di loro il filosofo Favorino: e con ragion somma: mentre, predicendo essi cose che non dipendono da cagioni naturali, ma libere, o non ne dipendono almeno individualmente, forza è che i loro vaticini, se mai si avverano, sian colpi di fortuna, mirabile nei suoi giuochi, non tiri d’arte. Il crescer di patrimonio, o lo scapitare, proviene o dalia industria umana o dalla provvidenza divina, o per dir meglio, da ambedue unitamente. Come entra qui dunque Giove a versare in seno a veruno ricchezze grandi, o come v’entra Saturno a legare a Giove le mani perché non versile? Questo non è né freddo ne caldo né umido né secco, che sono la più ampia sfera che possa concedersi all’efficienza de’ pianeti, se si vuole discorrere da filosofo, il quale cerca la cagion delle cose, non da favoleggiatore, che ve la finge.
III. E ciò che io dissi degli avvenimenti morali, dicasi de’ casi fortuiti, d’incontrar tesori, d’incorrere traversie, di cader nell’acqua o nel fuoco, ove men si pensi. Questi casi, come non hanno sotto Dio cagion propria, ma accidentale, così non sono sottoposti ad altra scienza, che alla divina, la quale però può saperli, perché essa è quella che vuole, o che permette un tal combinamento di operazioni, onde seguono quegli avvenimenti improvvisi ad ogni umano intelletto, senza che le stelle formate ad ogni altro fine, vi abbiano alcuna parte.
IV. Degli altri effetti poi che tutta han la cagion loro nella natura, nemmeno sogliono gli astrologi arrivar nulla, se non che andando a tentone: e ciò perché non osservano altre cagioni in predirli, che le universali, le quali non han virtù di terminare gli effetti, ma solo di concorrere a questo, o a quello, soggetto alla sfera loro, secondo che le immediate a ciò le costringano. Chi rimira in cucina acceso un gran fuoco, non può indovinare, se non temerariamente, di qual foggia debba riuscire il banchetto meditatosi dallo scalco, posciachè, ad apporsi con arte, converrebbe osservar di più le cacciagioni apparecchiate in dispensa, il pollame, le pesche, le selvaggine, e quanto è d’uopo a un magnifico imbandimento: perché il fuoco dal canto suo è indifferente a cuocere tutto ciò che gli sia parato dinanzi allo stesso modo. Così il sole, la luna, e molto più i pianeti e le costellazioni di forze tanto più incognite, sono dal canto loro cagioni indifferentissime degli effetti sullunari, e lasciano variamente determinarsi dalla materia che incontrano per la via, e dalle disposizioni, or avverse ed ora propizie, a produr la forma.
V. Quinci è l’indovinare che fan spesso i medici, i marinari, gli agricoltori, perché osservano le cagioni particolari, e le disposizioni che trovano ne’ corpi, nelle nuvole, nelle nebbie, e in tutto l’emisfero, aperto ai lor guardi. E quindi altresì l’abbaglio che prendono gli astrologi tutto dì ne’ loro almanacchi,a segno tale, che Pico asserì (L. 2. Inastrol. n. 9) da uomo di onore, che di centotrenta giorni osservati da lui, secondo le predizioni astrologiche di quell’anno, appena ne trovò sei o sette, che non si dilungassero assai dal vero. Ciò appare più manifesto, quando gli astrologhi si danno a pronosticare successi più disusiti: perciocché in questi si appongono men che in altri. Eppure, se la loro arte fosse arte veramente, e non fondaco di chimere, in questi si dovrebbero apporre più, da che gli effetti più strani (come quei che provengono da cagioni più solenni e più segnalate) sarebber loro più agevoli a dar su gli occhi. Riferisce lo Scaligero (Millet. 1. c. prop. 6). che nell’anno 1186 congiugendosi i pianeti superiori cogl’inferiori, predisser gli astrologi tali turbini e tali tempeste, da metter terrore infino alle torri. Eppure quell’anno fu il più pacato che mai. Similmente l’anno 1524 per alcune magne congiunzioni de’ pianeti ne’ segni acquosi, e per alcune mediocri predissero nel venturo febbraio un diluvio inaudito a tutta la terra, con tale asseveramento che, spaventatene varie provincie di Europa, si apparecchiarono da più d’uno barche ben corredate, ben chiuse, e ben anche fornite di vettovaglie, per divenire ciascuno alla sua famiglia quasi novello Noè, in quell’universale naufragio. E pure corse quel febbraio poi tutto così sereno, che mai non cadde dal cielo una sola gocciola, a confusione di tanti ingannatori dell’universo e tanti ingannati. Ma ciò vuol dire badare alle cagioni remote, più che alle prossime. Onde qui può calzare opportunamente la sentenza che die quel famoso principe, il quale, animato dall’astrologo ad intimare una bella caccia, sotto promessa di tranquillissimo cielo in tutto quel dì, si udì per via dire da un rustico, il quale guidava l’aratro, che si guardasse, perché poco poteva tardare a piovere, e fu così. Onde alterato quel grande, chiamò il bifolco per astrologo in corte, e dannò l’astrologo ad ir per lui dietro i buoi (Cornelio a Lap. in Ier. c. 10. n. 2).
VI. Ora se non sanno essi cogliere quei germogli che hanno le loro radici nella natura, con quale uncino arriveranno a que’ frutti che sono parti del solo libero arbitrio?
II.
VII. Senonchè dissi male quando affermai che i genetliaci indovinan senz’arte. Anzi indovinano spesso con arte grande, ma di fallacia. Primieramente sogliono predir cose che, non avvenendo, sarebbero più ammirabili che avvenendo: Una gran dama viaggia con riuscimento poco felice. Una gran lite si termina con la concordia delle parti. Un corriere porta gran nuove. Guerre, sedizioni, ire de’ principi, minacciate da Marte opposto a Mercurio. Matrimoni sconcertati da Mercurio nella settimana. Prodigalità e scialacquamenti, significati da Marte nell’undecima. E che proposizioni sono mai queste, da porsi in conto di predizioni, quando chi dicesse vero, negando dover succedere alcuna di esse, sarebbe maggior astrologo di tutti quei che lo dicano, sostenendole? Eppure un solo annuncio di tali, che si verifichi in tutta la latitudine dell’Europa, ecco l’astrologia canonizzata da loro per venerabile.
VIII. Dall’altro lato puntellano con tante condizioni questi pronostici, tuttoché universali, che ben si scorge, come neppure i loro architetti medesimi gli han per saldi: Un potentato risanerassi di una gran malattia. S’intende, dicon eglino, quanto a ciò che vien dalle stelle, rimanendo poscia a vedere che il medico non tradisca, che la medicina non tardi, che lo ammalato dal lato suo non disordini, che Dio non voglia punirlo per altro capo : vi potrebbero aggiungere questo ancora: Che egli non muoia prima di alzarsi di letto, e con questo avanzare tutto lo studio sulle tavole di Tolomeo, tutta l’inspezion degli astri, e tutto l’impazzimento degli astrolabi. E qual è quel contadinello che non sappia’ predire qualunque effetto, sotto questa limitazione: purché conspirino tutte fra sé di concerto quelle cagioni, cui si appartiene il produrlo?
III.
IX. Ma forse che la leggerezza degli uomini non concorre fortemente ancor essa ad accreditare un’arte sì fallita? Possiamo dir che i pronostici avverati in alcuna parte son tanti, quante son le foci del Nilo, e i non avverati son quante le sue renuzze. E pure il volgo seppellisce in perpetua dimenticanza le continue falsità degli astrologi, come si fa de’ morti in campagna, e quell’unico riuscimento, che sia felice, vien da lui portato in trionfo su tutti i fogli volanti, come un campione. Quanti predissero a Pompeo l’imperio di Roma? Quanti il predissero a Cesare? E pure di tanti astrologi falsi niun sapria nulla, se non l’avesse narrato a loro smacco un uomo sensato, qual era Tullio (L. 2. de div.). All’incontro perché Nigidio. al nascer di Augusto, disse ad Ottavio, padre di lui, esser nato il padron del mondo, E nome di Nigidio, quando Augusto imperò, volò su le stelle. E pure non poté dir egli ciò che per adulazione riuscita prospera dalla combinazion di mille accidenti, impossibili allora ad indovinarsi da mente umana? Se non fosse riuscita, Nigidio non ne avrebbe patito nulla – asserendo tutti gli astrologi ad una voce (lui. Firm. il. 2. c. ult. Card. sect. 1, aph. ult. et in genit. Caroli V. et alii), che dall’oroscopo di una persona sola non sì può sapere ciò che spettasi alla repubblica, e molto meno alla mutazion di repubblica in monarchia- ; e perchè riuscì, potè Nigidio porre in eredito l’arte a onta della ragione.
X. Parimente non sa il popolaccio avvertire che bene spesso non fa preveduto il successo come futuro, ma succedette, perché si stimò Preveduto. Mi spiegherò. Per incalorire il suo esercito alla battaglia, che voleva dare a’ Romani, gli disse Annibale. quartierato alle Canne, che la vittoria era certa, perché le stelle l’avevano a tutti prenunciata a quel passo, colma di gloria. E tale ella fu, non perché le stelle l’avessero prenunziata, ma perché avvivati da quella falsa persuasione i soldati combatterono con tal animo, che fecero de’ nemici una immensa strage. Così colui conseguì il matrimonio predettogli dall’astrologo, quell’altro la dignità, quell’altro il danaro, non per virtù de’ pianeti che si sbracciassero a favorirli, ma per l’industria risvegliata in coloro dal vaticinio. Questo fe’ che si dessero a portare i trattati del parentado più caldamente, a corteggiare, a contrattare, ad imprendere tutto ciò, donde si promettevano ogni fortuna, e così l’ottennero. All’incontro il pronosticamento di avere a morir di parto, mise in colei tal tristezza, che ne mori. Il pronosticamento di avere a perdere la lite, fece che si trascurasse la causa; e il pronosticamento di avere a perdere il lucro, fe’ che si troncasse il commercio. E così tutto questo fu male vero. Ma perché fu? Perché l’uomo lo fece divenir vero da se medesimo, non perché il facesser le stelle.
XI. In ogni caso è certissimo che gli eventi più belli, addotti dagli astrologi in prova della lor arte, non potevano prevedersi, anche stando a ciò che ne affermano i loro autori: perché i più belli sono quelli che più vengono all’espressione di tutte le circostanze individuali. E pure Tolomeo, seguito in tale scuola come il maestro più irrefragabile, asserisce che non posson gli astrologi, secondo l’arte, predire senonchè cose grosse, generiche e indefinite. A cagion d’esempio, possono predire bensì breve o lunga vita ad un uomo, ma non già il dì per appunto della sua morte, e molto meno il modo, se di laccio, se di spada, se di sasso, se di pistola, perché in ordine a questi predicimenti le stelle non vi s’impacciano: vi vuol Dio: Solo numine afflati dice Tolomeo (Quadr. 1.2. cent. n. 2) prædicunt particularia. Pertanto il dire che Marte nell’ottava casa significa morte di veleno, o che la cagiona; e il dire che Mercurio combusto predice incendi derivati da fuoco artifiziato, essendo Mercurio il padre delle arti; non solo è sognare a occhi veggenti, ma è un contravvenire agl’insegnatori della professione medesima, travalicando di molto i limiti stabiliti dalle lor leggi. Onde quell’astrologo (Al. de Ang. 1. 4. c. 37), il quale di sé predisse in Milano che sarebbe morto di trave a lui caduta sul capo, e non di mannaia (cui l’avea dannato il suo duca, solo affine di farlo apparir bugiardo), se di trave in capo veramente morì quando andava al ceppo, sicuramente nol potea saper dalle stelle sue famigliari, perché in tutte le stelle non v’è aspetto, non v’è combinazione, non v’è congresso, che significhi morte di trave in capo, come egli stesso secondo le sue regole, avea a tenere per saldo.
XII. A restringere dunque le molte in poche: ecco a quali miniere infin si riduca quell’oro che tanto i giudiziari ci spacciano per eletto. Se v’ha mai nulla di vero, o lavorollo il caso, con favorire, quasi suo benemerito, chi più tirò a indovinare: o lavorollo una tale alchimia furbesca di forme ambigue, e di finzioni avvedute, che tra lor corre: o lavorollo la credulità della gente, vaga di accettar per oracoli le imposture, solo che ne speri alcun prò.
IV.
XIII. A chi poi tali miniere non paiono sufficienti, sant’Agostino ne addita un’altra più cupa, alla quale io non ardirei di discendere se un tant’uomo, animandomi per la via, non mi conducesse laggiù fin di mano propria (S. Aug. 1. 1. de doctor. Chr. c. 21. 22. Et 23. et. 1. 2. de Gen. ad litt. c. 18). E tal miniera è l’intimo degli abissi: portando egli opinione, che tali indovinamenti di leggieri procedano in vari casi per opera de’ demoni. His omnibus consideratis (ecco le parole giuste del santo – De civ. Dei 1. 5. c. 7. in fine -, dopo lungo discorso da lui tenuto su tali indovinamenti) His omnibus consideratis, non immerito creditur, cum astrologi mirabiliter multa vera respondent, occulto instinctu fieri spirituum non honorum, quorum cura est has falsas et noxias opiniones de astralibus fatis inscrere humanis mentibus, atque firmare, non oroscopi notati et inspecti aliqua arte, quæ nulla est.
XIV. Né sia chi opponga essersi da noi detto già che il futuro accidentale, o arbitrio, di cui si parla, sia occulto a’ demoni ancora: perché molto essi ne giungono a presagire con la loro acuta sagacità, molto con la loro antica sperienza, molto con la loro attenta investigazione, e molto ancora più con quella possanza che Dio lor talora permette di effettuarlo (S. Aug. 1. 3. de Gen. ad lit. c. 17. Et de div. dem.), ad ingannamento maggiore di quei meschini, i quali non essendo più che uomini come gli altri, si danno all’astrologia, perché la vorrebbero fare da Dii tra gli uomini: illudentibus eos, atque decipientibus prævaricatoribus angelis, quibus ista pars mundi infima, secundum ordinem rerum divinæ providentiæ lege. subjecta est (S. Aug. 1. 2. De doctr. Chr. c. 23). E cosi appunto Iddio lasciò che restasse malamente ingannato Giuliano apostata, scrivendo il Nazianzeno di lui, che la sua dimestichezza esecrabile co’ diavoli principiò dall’astrologia, cioè dall’arte di formare la natività a questo ed a quello, e dalla voglia di risaper da quei maligni il futuro, nascoso al mondo: Quas artes secuta est postea præstigiarum exercitatio.
XV. Quinci notò dottamente sant’Agostino ne’ luoghi addotti, che quando il Signore nelle sue divine scritture ci vietò di andar dietro ai divinamenti, non cel vietò, perchè questi talora non si avverassero; cel vietò, perché quantunque si avverino, sono infidi; anzi allora più sono infidi, che più si avverano; perché allora riescono più possenti ad avviluppare gl’incauti, che mal discernano ciò che fann’essi. da ciò che fanno i diavoli, pronti ad intromettersi (ancorché non chiamati) nel cuor dell’uomo, quando questi superbo vuol elevare ancor egli sé sopra sé, come fe’ lucifero e farsi nella scienza simile a Dio.
XVI. E questa anche fu la cagione, per cui da’ dottori sagri dalle leggi civili o dalle canoniche, dalle bolle pontificali, e da qualsisia magistrato universalmente (L. Artem. c. de male!’, et math. I. nemo eodem tit. lib. Etsi cod. tit. I math. c. de Ep. aud. decr. 26. q. 2, c. sed et illud, et q. 3. c. illud legis, et q. 5. c. non liceat. Conc. Bracar, can. 10. et lat. sub. Leon. X . Sixt. V. in bull. adv. astr. etiamsi asserant se non certo affìrmare quæ die de futuris contingentibus aut actionibus ex hum. volunt. pendentibus; 1. 2. c. 17), sieno i genetliaci stati sempre perseguitati, come peste della repubblica, non solamente per la perversion de’ costumi che essi cagionano in altri, massimamente dall’ingenerare ne’ cuori questa opinione, che invece della provvidenza divina sieno le stelle natalizie quegli arbitri che a ciascuno dispensano il bene e il malo; ma molto più per quella perversità di cui conviene che sien già colmi in se stessi, mentre divengono scolari pessimi di maestri peggiori, con soggettarsi, tuttoché non volendo, alle fraudolenze ancor essi degli spiriti ribelli, padri egualmente, come chiamolli Lattanzio ( L . 7. e. 17), e della astrologia e della magia.
XVII. Chi pertanto sarà quel giudice iniquo, che dopo avere ascoltato questa razza di rei, pur li voglia assolvere, quasi che si difendano a sufficienza. Anzi ciascuno gli ha da dannare senza indugio, non si potendo tollerare nel genero umano un momento solo chi, per sottrarsi alla provvidenza celeste, elegga più volentieri di sottoporsi alle illusioni diaboliche, gravi nella magia, ma forse più gravi ancor nell’astrologia. Nella magìa ritengono i demoni la propria forma di larve spaventose e di lamie sozze: nell’astrologia vengon sott’abito trapuntato di stelle.