DOMENICA III DOPO PASQUA (2020)
Semidoppio. •
Paramenti bianchi.
La Chiesa è nella gioia perché Gesù è risuscitato e ci ha fatti liberi (All.). Essa dà quindi gloria a Dio (Intr.) e ne canta le lodi (Off.). «Ancora un poco di tempo e non mi vedrete più, aveva detto Gesù nel Cenacolo, allora piangerete e vi lamenterete; ancora un poco di tempo e mi rivedrete e il vostro cuore si rallegrerà» (Vang.). Gli Apostoli, vedendo Gesù risuscitato, provarono quella gioia che risuona ancora nella liturgia pasquale; e come la Pasqua è un’immagine della Pasqua eterna, questa gioia è la stessa che avrà la Chiesa quando, dopo aver, nel dolore, generato anime a Dio, vedrà Gesù apparire trionfante nel cielo alla fine dei secoli, tempo assai breve, se paragonato all’eternità (Mattutino). « Egli allora cambierà la nostra afflizione in un gaudio che nessuno potrà più rapirci » (Vang.). Questo gaudio santo comincia già su questa terra, poiché Gesù non ci lascia orfani, ma viene a noi per mezzo dello Spirito Santo; e nella grazia sua siamo colmati di gioia nella speranza di una felicità avvenire. Non attacchiamoci ai vari piaceri del mondo, dice San Pietro, noi che siamo stranieri e viandanti avviati verso il cielo al seguito del divino Risuscitato, ma osserviamo i precetti tanto positivi, quanto negativi del Vangelo (Ep.), affinché, facendo professione di Cristianesimo, possiamo evitare quello che disonora questo nome e praticare quanto vi è conforme (Or.) e giungere cosi alla celeste Gerusalemme. « uno dei sette Angeli mi disse: Vieni e ti mostrerò la novella sposa, la sposa dell’Agnello. E vidi Gerusalemme che scendeva dal cielo, ornata dei suoi monili, alleluia. Come è bella la sposa che viene dal Libano, alleluia » (Respons.). L’eucaristico e divino alimento delle anime nostre protegga i nostri corpi (Postcomm.), affinché mitigando in noi l’ardore dei desideri terrestri, ci faccia amare i beni celesti (Secr.).
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps LXV: 1-2. Jubiláte Deo,
omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi
ejus, allelúja, allelúja, allelúja.
[Giubila in Dio, o terra tutta,
allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi,
allelúia, allelúia, allelúia.]
Ps LXV: 3 Dícite Deo, quam
terribília sunt ópera tua, Dómine! in multitúdine virtútis tuæ mentiéntur tibi
inimíci tui.
[Dite a Dio: quanto sono terribili le
tue òpere, o Signore. Con la tua immensa potenza rendi a Te ossequenti i tuoi
stessi nemici.]
Jubiláte Deo, omnis
terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus,
allelúja, allelúja, allelúja.
[Giubila in Dio, o terra tutta,
allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi,
allelúia, allelúia, allelúia.]
Oratio
Orémus. – Deus, qui errántibus,
ut in viam possint redíre justítiæ, veritátis tuæ lumen osténdis: da cunctis,
qui christiána professióne censéntur, et illa respúere, quæ huic inimíca sunt
nómini; et ea, quæ sunt apta, sectári. [O Dio, che agli erranti mostri
la luce della tua verità, affinché possano tornare sulla via della giustizia,
concedi a quanti si professano cristiani, di ripudiare ciò che è contrario a
questo nome, ed abbracciare quanto gli è conforme.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Petri
Apóstoli: 1 Pet II: 11-19
“Caríssimi: Obsecro vos tamquam
ádvenas et peregrínos abstinére vos a carnálibus desidériis, quæ mílitant
advérsus ánimam, conversatiónem vestram inter gentes habéntes bonam: ut in eo,
quod detréctant de vobis tamquam de malefactóribus, ex bonis opéribus vos
considerántes, gloríficent Deum in die visitatiónis. Subjécti ígitur estóte
omni humánæ creatúræ propter Deum: sive regi, quasi præcellénti: sive dúcibus,
tamquam ab eo missis ad vindíctam malefactórum, laudem vero bonórum: quia sic
est volúntas Dei, ut benefaciéntes obmutéscere faciátis imprudéntium hóminum
ignorántiam: quasi líberi, et non quasi velámen habéntes malítiæ libertátem,
sed sicut servi Dei. Omnes honoráte: fraternitátem dilígite: Deum timéte: regem
honorificáte. Servi, súbditi estóte in omni timóre dóminis, non tantum bonis et
modéstis, sed étiam dýscolis. Hæc est enim grátia: in Christo Jesu, Dómino
nostro.”
OMELIA I
[A. Castellazzi:
Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929 – imprim.]
SOGGEZIONE ALLE
AUTORITÀ
“Carissimi: Io vi scongiuro che da
stranieri e pellegrini vi asteniate dai desideri sensuali, che fanno guerra
all’anima. Tenete una buona condotta fra i gentili, affinché, mentre sparlano
di voi quasi foste malfattori, considerando le vostre buone opere, diano gloria
a Dio nel giorno in cui li visiterà. Per amor di Dio siate, dunque, sottomessi
a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come
da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Poiché
questa è la volontà di Dio, che, operando il bene, chiudiate la bocca
all’ignoranza degli uomini stolti. Diportatevi da uomini liberi, che non fate
della libertà un mantello per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio.
Onorate tutti, amate la fratellanza, temete Dio, rendete onore al re. Servi,
siate con ogni rispetto sottomessi ai padroni, e non soltanto ai buoni e
benevoli, ma anche agli indiscreti; poiché questa è cosa di merito; in Gesù
Cristo Signor nostro” (1 Piet. II, 11-19).
La lezione è tolta dalla prima lettera
di S. Pietro. Precede immediatamente quella che abbiamo considerato la domenica
scorsa. Vi si parla dei doveri sociali e in modo particolare dei doveri verso
l’autorità civile. Dobbiamo essere soggetti all’autorità e a quelli che
dall’autorità suprema sono incaricati di amministrare la giustizia, punendo i
cattivi e premiando i buoni. Così, piaceremo a Dio e faremo tacere l’ignoranza
dei cattivi. La nostra ubbidienza, poi, all’autorità dev’essere fatta da veri
servi di Dio; cioè, per dovere di coscienza. Vediamo appunto, come la nostra
soggezione all’autorità:
1. È voluta da Dio,
2. fa chiudere la bocca ai nemici del
nome Cristiano,
3. deve procedere da semplicità di
cuore.
1.
Per amor di Dio siate,
dunque, soggetti a ogni autorità umana. S. Pietro chiama
autorità umana l’autorità civile, perché la designazione degli individui, che
rivestono questa autorità, generalmente, viene dagli uomini. Che un governo sia
repubblicano, monarchico, federalista; che la suprema autorità sia designata
per elezione o per successione, è cosa che dipende dalla volontà degli uomini.
Ma non dipende dalla volontà degli uomini l’istituzione della autorità. È tanto
naturale alla società il concetto di moltitudine e di autorità, di chi dirige e
di chi è diretto, che non è neppur possibile immaginabile una società, senza
chi la governi. Vuol dire dunque, che la natura stessa esige che nella società
ci sia chi comandi, chi presieda, chi diriga. Vuol dire, infine, che l’autorità
è voluta da Dio stesso, autore della natura. Perciò S. Paolo ci ammonisce:«
Ogni persona sia soggetta alle autorità costituite, perché non vi ha potestà se
non da Dio» (Rom. XIII, 1). Basterebbero considerazioni umane per indurci
all’obbedienza verso le autorità. Senza l’ubbidienza dei sudditi sarebbe
impossibile qualunque governo. Si avrebbe una piena anarchia con la conseguente
perdita di ogni diritto, di ogni libertà, di ogni idea di giustizia. Ma i
Cristiani devono ubbidire per un motivo più nobile. Devono ubbidire per piacere
a Dio. Se ogni potestà viene da Dio, non è cosa indifferente che ad essa si
ubbidisca o non si ubbidisca. Quando l’autorità costituita emana delle leggi e
impone degli obblighi che non sono contrari alla legge naturale e alla legge di
Dio e della Chiesa, rifiutando la nostra ubbidienza, offendiamo Dio, del quale
le legittime autorità sono rappresentanti. Gesù Cristo stesso ricorda i doveri
del cittadino quando dice : «Date a Cesare ciò che è di Cesare» (Matt. XXII,
21). La soggezione che dobbiamo all’autorità suprema dello Stato, la dobbiamo anche
a coloro che ne fanno le veci, la rappresentano o, in qualunque modo, sono
investiti di poteri in suo nome. Anche in questo, l’insegnamento è molto
chiaro. Siate dunque sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è
sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei
malfattori e a premiare i buoni. Ma se il principe, se i suoi
incaricati sono cattivi, siamo noi obbligati ugualmente a star loro soggetti?
Quando non esigono cose ingiuste e non escono dai limiti della propria autorità,
noi siamo obbligati a stare loro soggetti, anche se sono cattivi. Anche qui la
soggezione ci riuscirà facile, se opereremo per amor di Dio. I Cristiani ai
quali S. Pietro scriveva, si assoggettavano nientemeno che a Nerone.
2.
S. Pietro adduce un altro motivo che deve indurre i Cristiani a essere ossequenti alle autorità. Poiché questa è la volontà di Dio, che operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Col nome di stolti sono qui designati i pagani, i quali accusavano i Cristiani con la più grande leggerezza, e li condannavano con la più grande facilità. La dottrina dei seguaci di Gesù Cristo, tanto sublime e differente da quella dei gentili; la loro condotta, che doveva esser l’opposto da quella tenuta nel gentilesimo, attiravano su di loro lo sguardo diffidente e malevolo dei pagani. «Vi basti — dice San Pietro — di aver fatto la volontà dei gentili nel tempo passato, camminando nelle libidini, nelle concupiscenze, nelle vinolenze, nelle gozzoviglie nelle ubriachezze e nelle abbominevoli idolatrie» (1 Pietr. IV, 3). Questo mutamento di condotta doveva spingere i pagani a trovare a ogni costo un pretesto per accusare i Cristiani. Non senza motivo, dopo aver inculcato il buon esempio in generale, S. Pietro insiste in modo speciale sulla soggezione alle autorità. Una delle accuse che si facevano ai Cristiani, tanto per aver pretesto di perseguitarli, era appunto l’accusa di ribellione contro lo stato. L’accusa era gratuita, ma non era inutile insistere sulla necessità di non dar nessun pretesto ai pagani di mettere in discredito la Religione cristiana. – Il contegno dei Cristiani di fronte all’autorità fu sempre pretesto a biasimi e a persecuzioni da parte di persone di sentimenti opposti. Per coloro che all’autorità non vogliono assegnato alcun limite, i buoni Cristiani sono dei ribelli, dei nemici dello Stato, dei cospiratori, se hanno la fortezza di anteporre la legge di Dio alla legge degli uomini. Per i nemici dell’autorità essi sono degli schiavi dei fautori del dispotismo e della tirannia. Giudizi sbagliati gli uni e gli altri. I Cristiani nell’autorità vedono il rappresentante di Dio, e nella soggezione a essa il volere di Dio. Perciò, ubbidiscono ai suoi comandi, e vogliono essere esempio agli altri nell’adempimento di questo dovere. «I Cristiani ubbidiscono alle leggi stabilite e nella loro condotta avanzano le leggi » (Lett. a Diogneto 5, 10) leggiamo in uno dei primi apologisti. I Cristiani che seguono l’insegnamento di Gesù Cristo quando dice: «Date a Cesare ciò che è di Cesare», lo seguono anche quando dice: «E date a Dio ciò che è di Dio » (Matt. XXII, 21). E la cosa è tanto giusta che non dovrebbe far meraviglia a nessuno. S. Cipriano è processato davanti al proconsole Galerio Massimo. Questi dice al santo Vescovo: « I sacratissimi imperatori hanno ordinato di render culto agli dei ». Cipriano risponde: « Non lo faccio ». Invitato dal Proconsole a rifletter bene, dichiara: « In cosa tanto giusta non c’è di riflettere » (Acta proc. S. Cipriani. Ep. et Mart.). Quando si tratta di obbedire a Dio i buoni Cristiani non hanno un momento di titubanza. E nella soggezione a Lui, come nella soggezione alle autorità da Lui costituite, sono sempre i primi.
3.
L’ubbidienza poi all’autorità dev’essere
fatta non tanto per timore delle sanzioni quanto per obbligo di coscienza. Comportatevi—
dice S. Pietro — da vimini liberi che non fate della libertà un
manto per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio. Quindi,
non l’ubbidienza forzata dello schiavo, ma l’ubbidienza spontanea dell’uomo libero,
che è stato liberato bensì dalla schiavitù del peccato e dalla servitù della
legge mosaica; ma non dall’obbligo di ubbidire a Dio, e quindi anche ai suoi
rappresentanti. Nella soggezione all’autorità il Cristiano non deve essere
guidato dallo spirito di parte. Prestare ossequio all’autorità perché chi ne è
rivestito viene dal mio partito; rifiutarle il dovuto ossequio perché chi ne è
rivestito viene da un partito che non è il mio; ubbidire quando chi comanda ci
è persona simpatica, disubbidire quando chi comanda ci è persona antipatica,
non è un diportarsi secondo coscienza. Così, non è un diportarsi secondo
coscienza, quando ci si assoggetta in ciò che piace, e ci si ribella in ciò che
non piace. Il nostro ossequio non è sincero quando si hanno secondi fini.
Profondersi in inchini davanti all’autorità, proclamarne altamente i meriti,
innalzarle inni di lode, son cose che si fanno ben frequentemente anche da chi
nutre nel proprio interno una forte avversione. Non si sa mai: potrebbe venirne
qualche onorificenza, qualche aiuto, qualche protezione, qualche posto. Giù,
dunque, lodi smaccate e a buon mercato. Costoro si devono chiamare, non
ossequenti; ma striscianti e servili. Sono i seguaci di coloro, che un giorno
si presentarono a Gesù dichiarandogli:« Maestro, sappiamo che sei veritiero e
insegni la via di Dio secondo verità e non badi a nessuno, e che non guardi in
faccia agli uomini ». E Gesù che leggeva nell’interno diede loro una risposta,
che nessuno vorrebbe rivolta a sé: « Ipocriti, perché mi tentate? » (Matt.
XXII, 16 18). Infatti, noi dobbiamo essere soggetti ai nostri superiori «in
semplicità di cuore per timor di Dio» (Col. III, 22). « Ma il fare una cosa e
averne nell’animo un’altra, non è semplicità, sebbene ipocrisia e simulazione»
(S. Giov. Grisost. In Epist. ad Col. Hom. 10, 2). – L’autorità ha i propri pesi
da portare, e noi abbiamo da portare i nostri, e tutti concorriamo a far della
società una famiglia felice, quanto è possibile tra coloro che su questa terra
sono stranieri e pellegrini. Se da una parte non si deve fare abuso
dell’autorità propria, o farla sentire più del necessario; dall’altra non si
deve disconoscerla o contrariarla; si deve anzi renderle facile il proprio
compito con l’ubbidienza. L’ubbidienza dei sudditi rende felice il governare. I
Cristiani devono fare ancor di più, pregare Dio che assista l’autorità. Gli
Ebrei, schiavi in Babilonia, per mezzo del profeta Baruch, mandano a dire agli
Ebrei di Gerusalemme: « Pregate per la conservazione di Nabucodonosor, re di
Babilonia e per la conservazione di Baldassarre, suo figliuolo » (Baruch 1,
11). I Cristiani non devono essere da meno degli Ebrei, che pregano e fanno
pregare per un tiranno, al quale la Provvidenza li aveva assoggettati. Essi
devono accettare, ciascuno per sé, le parole di S. Paolo a Timoteo: «Raccomando
che si facciano preghiere, suppliche, domande, ringraziamenti, per tutti gli
uomini; per i re e per tutti quelli che stanno in dignità, affinché possiamo
condurre una vita tranquilla e quieta con tutta pietà e onestà» (1 Tim. II,
1-2).
Alleluja
Allelúja, allelúja. Ps CX: 9
Redemptiónem misit Dóminus pópulo suo:alleluja.
[Il Signore mandò la redenzione al suo
pòpolo. Allelúia.]
Luc XXIV: 46 Oportebat pati
Christum, et resúrgere a mórtuis: et ita intráre in glóriam suam. Allelúja.
[Bisognava che Cristo soffrisse e
risorgesse dalla morte, ed entrasse così nella sua gloria. Allelúia.]
Evangelium
Joannes XVI: 16; 22
“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Módicum, et jam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis ejus ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me, et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo: Quid est hoc, quod dicit: Modicum? nescímus, quid lóquitur. Cognóvit autem Jesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quaeritis inter vos, quia dixi: Modicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabíminbi, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora ejus: cum autem pepérerit púerum, jam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos igitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.”
[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre. Dissero perciò tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che significa ciò che dice: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre? Cos’è questo lopoco di cui parla? Non comprendiamo quel che dice. E conobbe Gesù che volevano interrogarlo, e disse loro: Vi chiedete tra voi perché abbia detto: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete. In verità, in verità vi dico che voi piangerete e gemerete, laddove il mondo godrà, sarete oppressi dalla tristezza, ma questa si muterà in gioia. La donna, allorché partorisce, è triste perché è giunto il suo tempo: quando poi ha dato alla luce il bambino non si ricorda più dell’affanno, a motivo della gioia perché è nato al mondo un uomo. Anche voi siete adesso nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà, e nessuno vi toglierà il vostro gàudio.]
Omelia II
“In
quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Un pochettino, e non mi vedrete; e di
nuovo un pochettino, e mi vedrete: perché io vo al Padre. Dissero però tra loro
alcuni dei suoi discepoli: Che è quello che egli ci disse: Non andrà molto, e
non mi vedrete; e di poi, non andrà molto e mi vedrete, e me ne vo al Padre?
Dicevano adunque che è questo che egli dice: Un pochetto? non intendiamo quel
che egli dica. Conobbe pertanto Gesù che bramavano d’interrogarlo, e disse
loro: Voi andate investigando tra di voi il perché io abbia detto: Non andrà
molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto, e mi vedrete. In verità, in
verità, vi dico, che piangerete e gemerete voi, il mondo poi godrà: voi sarete
in tristezza, ma la vostra tristezza si cangerà in gaudio. La donna, allorché
partorisce, è in tristezza, perché è giunto il suo tempo, quando poi ha dato
alla luce il bambino, non si ricorda più dell’affanno a motivo dell’allegrezza,
perché è nato al mondo un uomo. E voi dunque siete pur adesso in tristezza; ma vi
vedrò di bel nuovo, e gioirà il vostro cuore, e nessuno vi torrà il vostro
gaudio”. (Jo. XVI, 16-22).
[M. Billot, Discorsi parrocchiali, II ediz. S. Cioffi ed. Napoli, 1840 – impr. ]
Sulle tribolazioni.
“Plorabitis et
flebitis vos, mundus autem gaudebit, vos autem contristabimini, sed tristitia vestra
vertetur in gaudium.” (Jo. XVI).
Chi avrebbe mai pensato, fratelli miei, che i pianti, le croci, le afflizioni esser dovessero la sorte degli eletti, mentre l’allegrezza, le prosperità, toccar dovrebbero ai seguaci del mondo? – Eppure è questa una verità da Gesù Cristo medesimo pronunziata, che gli Apostoli e i servi di Dio aspettare debbonsi di dover passare la lor vita nella tristezza e nelle tribolazioni: verità che, siccome agli Apostoli, a tutti i Cristiani ancora porge motivo grandissimo di consolazione, giacché i lor pianti e la lor tristezza debbono cangiarsi in allegrezza, che non avrà fine giammai: “tristitia vestra vertetur in gaudium”. – Consolatevi dunque, anzi rallegratevi, o voi che passate i vostri giorni nei pianti e nell’afflizione; lasciate pure l’allegrezze agli amatori del secolo, non invidiate punto la lor funesta prosperità, che cangerassi in eterna tristezza; lasciate che si lamenti e mormori chi non ha speranza: ma voi che non cercate la vostra felicità sulla terra, e che aspirate ad una beatitudine più verace, più perfetta che questa non è, stimatevi fortunati nelle afflizioni, tesoro molto più pregevole di tutte le ricchezze della terra; preferitele a tutti i piaceri che può presentarvi il mondo, in vista dei grandi vantaggi ch’esse vi apportano. – E di fatti, fratelli miei, o siete peccatori, o siete giusti: se peccatori, le tribolazioni vi ritrarranno dal peccato; se giusti, perfetta renderanno la vostra virtù. la due parole: vantaggi delle tribolazioni per li peccatori, primo punto. Vantaggi delle tribolazioni per il giusto … secondo punto.
I. Punto. Incominciare la vita nelle lagrime, passarla nelle afflizioni, terminarla nei dolori ecco, fratelli miei, la sorte dell’uomo sulla terra; per qualunque verso si miri, la vita, benché lievissima, è ripiena di molte miserie, dice il santo Giobbe, repletur multis miseriis. Alcuno non va esente dalle croci, neppure coloro che più beati ci sembrano; soffre sul trono il re, come il povero nella sua capanna; hanno le ricchezze le loro spine, come la povertà le sue amarezze; non consiste dunque la felicità dell’uomo sulla terra nell’essere esente dalle tribolazioni, ma bensì nel farne buon uso. Ora esse sono di grande vantaggio ai peccatori perché vivono meravigliosamente a ritirarli dal peccato e ad espiare la pena al peccato dovuta: due circostanze che muovere debbono i peccatori a profittarne. Voi vi credete, o peccatori, oggetto dell’odio e dell’ira di Dio, quando il braccio della sua giustizia vi fa sentire il peso delle tribolazioni; se si ha riguardo ai peccati da voi commessi, avete ragione, ma se noi miriamo il fine che Dio si prefigge, dovete riguardarle, non come effetti del suo sdegno, ma come segni del suo amore verso di voi. Egli vi tratta come un buon padre che castiga i suoi figliuoli, non per odio che lor porti, ma per desiderio ch’egli ha di correggerli: Quem Deus diligit, castigat (Hebr. XII). E veramente che cosa può trovarsi di più efficace delle afflizioni per far ravvedere il peccatore? Tanto che egli gusta la dolcezza delle prosperità e sta in mezzo alle delizie ed ai piaceri, dimentica il suo Dio, dimentica se stesso; il suo cuore ripieno dell’amore delle creature, è vuoto dell’amor di Dio; non pensa nemmeno al culto e all’omaggio ch’egli deve al suo Creatore: dimentica se stesso, incantato dalle lusinghe dei piaceri, ed è insensibile sul misero stato in cui è stata ridotta dal peccato l’anima sua. Gode egli di una sanità perfetta? Se ne serve per abbandonarsi ad ogni sorta di eccessi. È egli fornito di beni doviziosamente? Egli è prodigo o avaro. Prodigo, se ne serve per appagare le sue sregolate passioni, a cui per lo più serve di alimento la prosperità. Avaro, altra cura non ha che di accumular beni ed aumentarli. Si vede egli circondato di gloria e di onori o sopra degli altri in condizione elevata? Gonfio d’orgoglio, non ha che sentimenti di disprezzo per gl’inferiori. Tutto occupato da mire ambiziose che l’amor proprio gl’inspira, ad altro non pensa fuorché ai mezzi di trarle ad effetto: segue il torrente delle sue passioni, perde di vista l’eternità e vive, in una parola, come se morir non dovesse giammai, e corre in questa maniera al precipizio con la benda sugli occhi, senza sapere dove finalmente deve terminar il suo corso. – Che farà Iddio allora per arrestare il peccatore e trarlo da sì misero stato? Farà Egli splendere agli occhi di lui un raggio della sua grazia, per dargli a conoscere il nulla delle cose create? Ah! non ha egli già ricevute infinite grazie, alle quali fu sempre ritroso? Infinite ispirazioni alle quali fu sempre sordo e insensibile? Invierà forse Iddio a questo peccatore qualche zelante ministro della sua divina parola, per annunziargli le verità di salute? Ovvero gli susciterà qualche amico fedele, il quale si sforzi con salutevoli avvisi di farlo rientrare sulla buona strada? Ma e quante volte ha udite queste verità senza che l’abbian punto commosso? Quante volte ha avuti amorevoli avvertimenti senza che ne abbia fatta stima veruna? Se Dio gli facesse intendere ancor la voce d’un morto, se operasse miracoli per convertirlo, sordo si rimarrebbe a tal voce ed insensibile a qualunque prodigio. Che farà dunque per guarirlo il Signore? Egli farà, fratelli miei, ciò che già fece per render la vista a Tobia; si servì del fiele d’un pesce applicato sugli occhi. Il Signore si servirà dell’amarezza delle tribolazioni per aprire gli occhi a questo peccatore e trar la sua anima dal fatale attaccamento in cui si trova. Egli lo priverà di quella robustezza di cui s’abusava e lo ridurrà in un letto. Toglierà a quel ricco i beni di cui male si serviva e lo renderà bisognoso; getterà a terra quel superbo elevato qual cedro del Libano, e di confusione lo coprirà e d’obbrobrio. Farà perdere a quella donna la sua funesta bellezza, cagione fatale della sua rovina, e dell’altrui cuore peste e veleno. Toglierà a questo quel parente, quell’amico, quel grande del mondo in cui si affidava: a quell’altro torrà quella creatura che era l’oggetto della sua passione, a quel padre, a quella madre, il figliuolo, oggetto d’un disordinato ed eccessivo amore. – Che farà il peccatore in tal guisa umiliato ed oppresso sotto il peso della croce? Ricorrerà alle creature per trovar sollievo alle sue pene? Ma l’avversità gli ha fatto conoscere il nulla d’ogni cosa creata: come potrebbe ancora appoggiarsi su deboli canne che si sono spezzate tra le sue mani? Abbandonato dalle sue creature, sulle quali non può aver fidanza, sarà, per cosi dire, sforzato a ricorrere al Creatore. Allora questo peccatore, aprendo gli occhi sull’infelice suo stato rientrerà in se stesso. Questo figliuol prodigo a cui la prosperità aveva fatto abbandonare un ottimo padre tornerà a soggettarsi al gioco che aveva scosso. Quel peccatore privato della sanità, e ridotto in uno stato di languidezza, s’avvedrà d’essere mortale, e vedendosi al fine della sua vita, sul punto di dover presentarsi avanti a Dio, provvederà alla sua coscienza con una pronta conversione sincera: spogliato dei beni, oppresso dalla povertà, non avendo più onde appagar le sue passioni, nella virtù sola cercherà la sua felicità. Quella donna, quella giovine, perdute le grazie di cui la natura l’aveva fornita, prenderà il partito del ritiro, non oserà più comparire nelle adunanze di cui era il più bell’ornamento, ed eviterà così tanti peccati che commetteva e faceva commettere altrui. Quell’uomo a cui la morte ha tolto l’idolo della sua passione, rivolgerà il suo cuore ad oggetto più degno del suo affetto. Questi, abbandonato dal parente, dall’amico, rigettato da quel grande del mondo a cui s’appoggiava, riconoscerà che in Dio solo, e non già in un braccio di carne, ripor deve la sua speranza. In una parola, istruito dall’avversità, il peccatore benedirà il Signore mille volte di averlo messo nella felice necessità di dover ritornare a Lui e fedelmente servirlo. Dirà col profeta reale: Oh quanto mi giova, o Signore, l’avermi umiliato, perché ho quindi imparato ad osservare la vostra santa legge: Bonum mihi quia humiliasti me, ut discam iustificationes tuas (Ps. CXVIII). – Mi allontanai da voi con le mie dissolutezze, e voi col flagello in mano per castigarmi mi avete fatto ravvedere. Castigasti me et eruditus sum (Jerem. XXXII). Mi avete indotto a ritornare a voi con una penitenza sincera. Postquam convertisti me, egi pœnitentiam (Ibid.). O preziose afflizioni, quanto vantaggio apportate a chi vi riceve dalle mani di Dio con rassegnazione! Potrei addurvi, fratelli miei, molti esempi per provarvi quel che asserisco: ma non voglio altri testimoni che voi medesimi. – Quando fu che voi vi disgustaste del mondo e delle creature? Quando siete stati da questi abbandonati, o dal mondo traditi. Quando fu che pensaste seriamente all’affare di vostra salute? Quando l’avversità vi distaccò dai beni terreni. Nell’abbondanza ad altro non pensavate fuorché a tesoreggiar sulla terra: ma ridotti a povertà pensaste soltanto ad arricchirvi pel cielo. Finalmente quando fu che risolveste efficacemente di convertirvi? Quando privi della sanità e inchiodati su d’un letto di dolore sentiste avvicinarsi la morte. Allora, colti del timore dei severi giudizi di Dio, prendeste le vostre misure per riacquistar la sua grazia; e i sacramenti ricercaste, cui se foste stati sani, non avreste ricevuto giammai. E infatti, quante volte il Signore con l’affliggervi vi sforzò a pensare a Lui, per trovare nel paterno suo cuore un alleggerimento ai vostri mali? Allorché la siccità rendé sterili le vostre campagne o le tempeste le desolarono, o tanti altri sinistri accidenti vi colpirono, la divina provvidenza, che regolava questi vari avvenimenti, vi ha messi nella felice necessità di ricorrere al Signore, il che non avreste fatto, se ogni cosa vi fosse andata a seconda. Quanti peccati avreste commessi se Dio non vi toglieva, per così dire le armi di mano, privandovi di quelle ricchezze, che a giudizio del mondo rendono felici chi le possiede, ma sono avanti a Dio di mille peccati cagione? Ah! fratelli miei, noi vediamo che, non ostante le calamità dei tempi, non ostante i castighi con cui Dio affligge i popoli, regna tuttora tra di loro il vizio: che ne sarebbe se Iddio, propizio ai loro desideri, li colmasse di prosperità? Sarebbero per la maggior parte altrettanti orgogliosi, come addivenire vediamo bene spesso che assai diversi sono gli uomini tra le prosperità da quel che nella miseria sarebbero. Non vogliate dunque attribuire le vostre disgrazie, fratelli miei, né ai capricci della fortuna né alla malignità dei vostri nemici, ma adorate la mano di Dio che vi sforza, e che si serve delle afflizioni per farvi ritornare a Lui. Egli fa, dice s. Gregorio, come un medico, che non perdona a ferro né a fuoco per una piaga che vuol guarire; che recide un membro corrotto e cancrenato, per timore che il male non prenda tutta la vita. Così Dio con l’amarezza delle tribolazioni vi preserva dal veleno della prosperità, capace a darvi facilmente la morte, essendo accompagnato da un’apparente dolcezza che ne copre la malignità. Egli fa con voi eziandio, dice s. Giovanni Crisostomo, come l’artefice, che mette l’oro nel crogiuolo per farne vasi preziosi: o come colui che taglia con lo scalpello le pietre per collocarle al luogo destinato: nella stessa maniera il Signore vi mette nel crogiuolo dell’afflizione, perché di vasi d’ignominia che eravate vuol farne vasi d’onore e di gloria, come dice l’Apostolo; vi percuote col martello delle tribolazioni per darvi la figura di pietre preziose per alzar l’edificio della celeste Gerusalemme, cioè riempire le sedie che lor sono destinate nel cielo: Scalpri salubris ictibus et tunsione plurima fabri polita malleo hanc saxa molem construunt etc. (Santa Chiesa nell’inno della Ded.). – Felici voi, fratelli miei, se riceverete le tribolazioni secondo le mire della provvidenza: se, invece d’indurirvi sotto il martello, riceverete le impressioni che Dio vuol darvi per operare in voi un sincero cambiamento di costumi e di condotta, che è il frutto che dovete cavarne, e voi troverete ancora nelle afflizioni onde soddisfar possiate a Dio per le pene ai vostri peccati dovuta. – E di fatti non v’è alcuno tra di voi che, per peccati da sé commessi, non sia debitore alla divina giustizia. Non v’ha alcuno cui non possa dirsi come a quei debitori del Vangelo: Quantum debes? Quanto dovete? Di quanta soddisfazione siete debitore, per tante empietà, per tanta irreligione, per tante profanazioni, vendette, mormorazioni, disonestà, intemperanze, per tanto sdegno e odio che nutriste? Quantum debes? Ah! che sarebbe di voi, se Dio vi avesse castigato come avete meritato? Voglio accordarvi che abbiate già fatti gli sforzi necessari per rientrare nella sua grazia, e ottenere alle vostre colpe il perdono: ma, oltre che voi non sapete se questo tal perdono vi è stato veramente dato, non vi resta egli ancora dopo il peccato perdonato una pena che in questo mondo oppure nell’altro dovete espiare; in questa coi patimenti, nell’altra con le fiamme del purgatorio? Iddio vi dà la scelta di queste due pene, o per meglio dire, queste pene del purgatorio rigorosissime e spesso di lunga durata e che sorpassano di gran lunga qualunque più atroce pena che possa in questa vita soffrirsi, vi sono da lui cangiate in patimenti leggieri e che durano sol pochi momenti; non si potrebbe egli dire con ragione che voi siete nemici di voi medesimi, se non profittaste di così facile mezzo per soddisfare alla divina giustizia? Chi è tra di voi che, carico di grossi debiti, ricusasse di liberarsene con qualche piccola somma che gli fosse domandata? Qual reo dannato a morte non si stimerebbe fortunato di poter riscattare la vita con alcune ore di prigionia? Ora Iddio vuol rimettervi debiti molto maggiori per pochi momenti di pene: come potreste voi dubitare di secondare le sue mire? Alcune gocciole di questo fiele possono estinguere tutta la forza delle fiamme divoratrici che avete meritato: ah! Potrete voi ricusare di bere nel calice della misericordia per non dover poi bere tutto il calice amaro che la sua giustizia vi prepara a luogo dei tormenti? Voi ci chiedete talvolta qual soddisfazione possiate offrir a Dio per i peccati da voi commessi. I ministri del Signore sono talora in dubbio su di quella che sia d’uopo d’imporvi; voi non potete far limosine, poiché la povertà ve lo vieta; non potete digiunare, mortificarvi, a cagione, come ci dite, delle vostre infermità, dei vostri lavori: la bontà del Signore con le tribolazioni vi provvede di un mezzo facile per soddisfare alla sua giustizia purché le riceviate con rassegnazione: è questa una penitenza sommamente salutevole, appunto perché viene da Dio prescelta: Egli vi conosce troppo delicati nel punirvi da voi medesimi, e perciò non lascia a voi la cura di soddisfare alla sua giustizia; prende Egli medesimo il flagello in mano per fare a se stesso riparazione delle ingiurie che gli avete fatto. Ma, come la sua mano che vi percuote è guidata dall’amore, nel punirvi ha riguardo alla vostra debolezza e non vi manda se non quelle croci che potete portare, egli è dunque necessario accettarle, se volete pagare i vostri debiti, e tanto più perché vi convien fare della necessità virtù, imperciocché voi avete bel fare, per amore o per forza convien soffrire; le croci sono inevitabili; quantunque facciate tutto il possibile per fuggirle, vi seguiranno dappertutto; il miglior partito egli è di pazientemente portarle; e non solamente non diverranno più gravi, ma la pazienza per lo contrario ne alleggerirà il peso e ne raddolcirà l’amarezza. Ma la maggior parte degli uomini profittano forse in questa guisa delle afflizioni? Ah! Essi le hanno in orrore: e mentre gli Apostoli erano ripieni d’allegrezza in mezzo ai patimenti, si sforzano i cattivi Cristiani, per quanto possono, di scuoterne il giogo: benché sappiano che per essere discepoli di Gesù Cristo fa d’uopo di portare la croce, si danno all’impazienza, e van mormorando contro la provvidenza qualora alcuna cosa sono astretti a soffrire. Quindi che ne avviene? la loro croce diventa più grave, si affannano inutilmente per sgravarsene: e se per avventura da qualcheduna riescono di liberarsi, un’altra maggiore ne trovavano che non vogliono in alcun conto portare. E invece di sgravarsi dei lor debiti, altri maggiori ne fanno, cangiano il rimedio in veleno: irritano vieppiù la giustizia di Dio invece di placarla; e a guisa del malvagio ladrone, piombano dalla croce all’inferno mentre per lo contrario al buon ladrone servì la croce di scala per salire al cielo. – Sta nelle vostre mani, fratelli miei, il servirvi della croce santamente, come il buon ladrone: Iddio vi dà questo tesoro per pagare i debiti vostri e comperarvi il suo regno: non è necessario che voi abbandoniate il vostro stato e la casa per trovare questo tesoro: ad ogni passo che facciate potete rinvenirlo. Nascono le croci in ogni luogo, in ogni stagione le incontrate in quella povertà a cui vi siete ridotti; nelle malattie, nelle disgrazie che vi accadono, nel rovesciamento di fortuna, che vi affligge, nella persecuzione di quei nemici; nell’abbandono di quell’amico; nel rifiuto di quel grande del secolo, nel disprezzo, che si ha di voi; in quella umiliazione, in quei colpi che macchiano la riputazione; nella perdita di un figliuolo, d’un parente, a voi così caro; nel cattivo umore di quel marito, di quella moglie, di quelle persone, con cui siete costretto a convivere; nel carattere malvagio di quei figli; nella rusticità di quei servi; nella severità di quei padroni; in una parola, voi troverete croci in tutte le afflizioni annesse al vostro stato; altro non si ricerca di accettarle con rassegnazione, e offrirle a Dio in soddisfazione delle colpe vostre. Se la vostra sommissione in queste occasioni è sincera, i vostri debiti sono pagati, il cielo è vostro. Tutto deve cedere a queste riflessione: se per altro aveste ancora qualche ripugnanza a portare la croce, ah! Fratelli miei, per , scendete in spirito nell’inferno, e mirate ciò che vi soffrireste, se Iddio vi avesse trattati come meritavate; allora, lungi dal lamentarvi, benedirete mille volte il Signore, lo ringrazierete della sua benignità nell’avere cangiati in leggiere tribolazioni brevissime gli eterni supplizi che vi erano destinati. Questo sol pensiero, io ho meritato l’inferno. è capace di far cessare i lamenti di natura troppo sensibile, e avversa ai patimenti, anzi è bastante a farceli amare. Ora, giacché conoscete, o peccatori, quanto vantaggioso vi sia il soffrire per Gesù Cristo, sopportate pazientemente le pene di questa vita servitevene per convertirvi a Dio e per soddisfare alla sua giustizia per i vostri peccati, e siate certi che dopo essere stati purificati col fuoco della tribolazione, meriterete di entrare nel regno delle eterne delizie dove più non avrete cosa alcuna a soffrire. Vediamo ora il vantaggio delle tribolazioni per li giusti. Secondo punto.
SECONDO PUNTO
Expedit vobis, ut ego vadam. Joan. XVI.
Egli
era espediente per gli Apostoli che il Salvator del mondo da loro si separasse,
perché il loro attaccamento alla sua presenza era un ostacolo alle grazie che
loro doveva con la sua veduta infondere lo Spirito Santo: nella stessa guisa
Egli è espediente per i giusti che Dio li privi delle sue consolazioni, e li
provi con l’afflizione.
II. Punto. I beni, i mali di questa vita, e tutte le cose contribuiscono al vantaggio di coloro che amano Dio, dice l’Apostolo. I beni per il buon uso ch’essi ne fanno, e i mali, per la pazienza con cui li sopportano: ma nelle afflizioni principalmente trovano i giusti sicuri mezzi e insieme contrassegni certissimi della loro predestinazione. Le afflizioni nutriscono la fede dei giusti, fortificano la speranza, e la loro carità rendono perfetta. Ecco i vaneggi che apportano all’uomo giusto. La fede c’insegna che noi dobbiamo mirare il cielo come nostra patria e riguardarci in questo mondo, dice s. Pietro, come in una terra straniera. Ora nulla può trovarsi, che sia più valevole a conservarci in questi buoni sentimenti che le tribolazioni. Infatti, fratelli miei, per poco che si rifletta a ciòche accade in questo mondo, noi vediamo che i giusti non sempre dei beni di fortuna si trovano forniti mentre all’empio circondato di gloria e di onore va tutto a seconda, il giusto nell’oscurità geme nell’umiliazione: Dum superbit impius, incenditur pauper (Ps. IX). Spesso ancora è la sua probità disprezzata dai peccatori, e schernita. Ora egli è afflitto da perdite, ora da malattie, oggi perseguitato dai nemici; domani dagli amici tradito, e pochi son quei giorni che da qualche tribolazione non siano segnati, e si può accertare che nelle vicende di beni e di mali che riempiono la vita degli uomini, i mali che si soffrono, sorpassano di gran lunga per la loro gravezza e durata i beni e i piaceri che si posson godere. Or ecco ciò che insegna al giusto a riguardarsi sulla terra come in un luogo d’esilio, impercioché in questa maniera deve portarlo a ragionare la fede. Io sono certo che v’ha un Dio rimuneratore delle opere buone, che non le ricompensa su questa terra tutta ripiena di triboli e di spine; non è dunque in questo mondo il mio regno; un’altra più verace felicità mi è riserbata nel cielo, dove Iddio dà il premio dovuto alla virtù. – Quindi ne proviene quel distacco dal mondo che sente nascersi nel cuore il giusto tra le afflizioni: quindi quegli ardenti suoi desideri e sospiri verso il cielo, sua patria diletta. E invero come potrebbe egli porre affetto ad un mondo, il quale altro che miseria non germoglia ed afflizione di spirito: ad un mondo., in cui un bene verace, un puro piacere, un durevole riposo non si può rinvenire? Come non sospirerà verso un soggiorno in cui nulla di più dovrà soffrire, in cui senza male di sorta alcuna, la pienezza godrà d’ogni bene? Questo deve , fratelli miei, farci conoscere la sapienza e la bontà di Dio nelle tribolazioni ch’Egli ci invia. Egli conosce l’inclinazione nostra per gli oggetti creati e sensibili; vede che il grande attacco che abbiamo ad essi allorché li possediamo, ci fa perdere di mira i beni eterni; e ci espone eziandio a perdere la fede che dobbiamo avere, imperciocché colui che gode di una prosperità non interrotta, ebbro ed incantato dai piaceri dei sensi, più non trova alcun gusto nelle cose di Dio. Animalis homo non percepii ea quæ sunt Spiritus Dei (1 Cor.2). E perciò Egli allontana da noi quegli incantevoli oggetti, ci priva dei beni; permette quella disgrazia d’un grande del secolo, quell’abbandono d’un amico, la persecuzione d’un malevole; amareggia i nostri piaceri con salutevoli afflizioni, onde siamo astretti a rivolgerci verso i veri beni. E non avete voi fatto di ciò l’esperienza più volte? Quando ogni cosa andò a seconda dei vostri desideri, voi perdeste di vista le verità della fede: ma quando il Signore fece sentirvi il peso del suo braccio, allora comprendeste che fuori dei piaceri che in cielo si godono, niun altro è degno del nostro affetto: si ravvivò allora la vostra fede, talché maggiore non era stata giammai. E non vediamo noi di questo giorno l’esperienza ancora in tutti gli stati? Non troviamo noi maggior fede, maggior divozione in coloro che sono nell’avversità, che in coloro i quali gustano della prosperità le dolcezze? Vedete voi forse i ricchi del secolo segnalarsi colla pratica delle virtù, con l’assiduità negli esercizi della religione? Non li udite voi per lo contrario combatterla spesso con frivoli discorsi, con empi ragionamenti? Siccome questa religione li incomoda e li molesta nei loro piaceri, vorrebbero che non ve ne fosse alcuna: e perciò si sforzano di estinguere la luce, per camminare nelle tenebre dell’iniquità: ma facciano quanto potranno, questa fede non può nella loro mente in tale maniera oscurarsi, che non faccia splendervi qualche luminosa verità che li conturbi in mezzo ancora ai loro piaceri. Per lo contrario il giusto nelle afflizioni, libero dalla caligine che le mal frenate passioni producono, seguita la luce della fede, osserva le sue massime, ed altra felicità non cerca fuorché quella che dalla fede gli vien proposta. Cosi le afflizioni nutriscono la fede del giusto, e fortificano inoltre la sua speranza. E infatti, fratelli miei, ella è indubitata verità nelle sante Scritture in più luoghi manifestata, che solo per la strada delle tribolazioni giunger possiamo al regno di Dio: Per multas tribulationes oportet nos intrare in regnum Dei (Act. XIV). Altri predestinati non saranno, dice l’apostolo, fuorché loro che dal Padre celeste saran trovati conformi all’immagine del suo Figliuolo. Alcuno non salirà con Gesù Cristo nella gloria, se non sarà prima con Lui salito al Calvario: Egli stesso ci assicura che chi non porta la sua croce non può essere suo discepolo: felice dunque colui che è partecipe dei patimenti dell’Uomo-Dio, imperciocché deve quindi sperare di regnare nel Cielo con Lui: Si sustinebimus, et conregnabimus (2Tim. 2). Questa è la strada che tennero i santi tutti per arrivare al regno di Dio: e testimoni ne siano quei martiri illustri, che la innaffiarono col sangue loro, dando per Gesù Cristo la vita: e quei santi Anacoreti, che dandosi ai rigori della penitenza, con le lagrime la bagnarono; essi erano tutti persuasi di ciò che dice il grande Apostolo, che le tribolazioni di questa vita produr dovevano in essi un peso immenso di gloria: Momentaneum tribulationis nostræ æternum gloriæ pondus operatur in nobis (2 Cor. IV). Ecco dunque ciò che sostiene, ciò che fortifica la speranza del giusto nelle afflizioni: egli sa che il suo Dio è fedele nelle promesse, magnifico nelle ricompense, che gli promette in premio dei suoi patimenti un regno eterno: egli sa che le croci lo rendono somigliante a un Dio paziente, che è il modello dei predestinati, sa che gli eletti, gli amici di Dio sono stati provati col fuoco della tribolazione e che solo dopo queste prove sono stati trovati da Dio degni di Lui: egli può dunque essere sicuro di aver con i santi una medesima sorte: s’egli soffre come essi, le sofferenze gli danno un incontrastabile dritto a quella corona che Dio promette a coloro che li amano. Ah! Fratelli miei, quanto sono consolanti pel giusto che è nelle afflizioni, questi pensieri: quanto mai ne raddolciscono l’amarezza! Ecco ciò che riempiva già d’allegrezza il grande Apostolo in tutte le sue tribolazioni: Superabundo gaudio in omni tribulatione nostra (2 Cor. VII). – Il giusto afflitto vede in mezzo a suoi dolori il cielo aperto per lui, vede la stanza a lui preparata: poco tempo ancora, dice allora seco stesso, e presto vedrò finire i miei mali, la mia afflizione si cangerà in eterna allegrezza. Ecco, o giusti che siete tribolati, il degno oggetto a cui dovete rivolgervi nelle vostre pene. Mirate, vi dirò come la madre dei Maccabei ad uno dei suoi figliuoli per incoraggiarlo nei tormenti, mirate quel bel cielo, per cui siete stati creati, gettate lo sguardo al trono di gloria che vi è preparato. Peto, nate, aspicias ad cœlum (2 Mach. VII). Ecco il termine dei vostri affanni, il fine delle vostre pene. Alla vista di questa immensità di gloria confesserete, che, come dice l’Apostolo, tutte le tribolazioni di questa vita non meritano di di essere messe in confronto della ricompensa che vi è promessa. Non sunt condignæ passiones huius temporis ad futuram gloriam quæ revelabitur in nobis (Rom.VIII). Confesserete che beati sono gli afflitti, perchè sono sulla via che al cielo conduce, e infelici al contrario stimerete coloro che nulla patiscono, e d’ogni piacer godono in questo mondo, perché sono nella strada di perdizione. Lungi dunque dal lamentarvi nelle vostre afflizioni, le stimerete come una caparra che Dio vi dà dell’eterna felicità; e tanto più perché le afflizioni, rendendo perfetta la vostra carità, sono eziandio per voi feconda sorgente di meriti e di virtù. – E invero, fratelli miei, egli è nelle tribolazioni, che la virtù si fa conoscere, si fortifica, e si perfeziona, come dice l’Apostolo. Virtus in infirmitate perficitur (2 Cor. II).Nelle tribolazioni l’amore di Dio, la pazienza, l’umiltà, tutte le virtù cristiane si fanno vedere in tutto il loro splendore. Si trovano per verità alcuni, che nella prosperità non lasciano di servir Dio, e che gli protestano, come il reale profeta, di voler essergli nell’abbondanza dei beni inviolabilmente fedeli: Ego autem dixi in abundantia mea non movebor in æternum (Ps. XXIX). Ma quanto poco si puòfar conto sopra quella virtù, che dall’avversità non è stata provata. Imperciocché se si ama Dio soltanto quando non è favorevole ai nostri desideri, ciò non sarebbe più amarlo per Lui medesimo, ma per lo contrario essere fedeli a Dio quando ancora ci affligge, perseverare costanti nel suo servizio quando parche ci abbandoni, questo sì, che può chiamarsi vero amore, amor puro e sincero: imperciocché tanto è più perfetto l’amore, quanto è più disinteressato. Ora un Cristiano che ama Dio nelle tribolazioni, dimentica i propri interessi; e si serba fedele a Dio, non per i beni che ne riceve, ma perché è infinitamente amabile; il che è effetto d’una carità perfetta. Il Cristiano tribolato può dire a Dio come il reale Profeta, Voi avete voluto, o Signore, provare il mio cuore, e conoscere il mio amore. Probasti cor meum (Ps. XVI). Voi mi faceste passare pel fuoco della tribolazione. Igne me examinasti. E non ostante ogni prova in cui mi avete posto, io non mi sono allontanato da Voi: le disgrazie, i sinistri accidenti non mi han fatto abbandonare la vostra santa legge: et non est intenta in me iniquitas. Le acque della tribolazione non han potuto estinguere il fuoco dell’amore divino di cui era infiammato il mio cuore: Aquæ multæ non potuerunt extinguere charitatem (Cant. VIII).Oh beato colui che può tenere a Dio siffatto discorso! Benché non possa alcuno in questa vita essere certo di avere per Dio un amore perfetto, si può dire nondimeno, che la pazienza nelle tribolazioni n’è una delle più sicure prove. Ed ecco, o giusti, la felice testimonianza per cui potete conoscere che amate il Signore. A questo contrassegno si sono sempre conosciuti i suoi veri amici. Testimonio ne sia il santo Giobbe, la cui virtù non comparì mai tanto bella come nella tribolazione. Non è meraviglia, diceva a Dio lo spirito tentatore, che Giobbe fedelmente vi serva, mentre il colmate di beni; ma aggravate su di lui la vostra mano, e vedrete se sarà saldo alla prova dei vostri flagelli. Iddio percosse di fatti il suo servo, ma questo santo uomo dimorando fedele a Dio nei dolori, confuse il demonio. Non vi rechi dunque meraviglia, o giusti che mi ascoltate, che di tanto in tanto Iddio vi affligga per rendere più perfetto il vostro amore: imperciocché Egli lo mette alla prova delle tribolazioni, come si mette l’oro nel crogiuolo per dargli tutta la sua bellezza. Nei vostri giorni felici, in sanità perfetta, nell’abbondanza di beni, vi pare che voi amavate di cuore il Signore, perché facevate delle buone opere: ma in una prosperità continua si sarebbe ella serbata incorrotta la vostra virtù? Una sanità sempre robusta, una fortuna sempre ridente non vi avrebbero esposti a qualche caduta in cui avreste perduti i meriti delle vostre buone opere? Inoltre non avevate nulla a temere degli inganni dell’amor proprio che le virtuose azioni suole spesso accompagnare? La vostra propria volontà non era ella la regola di vostra condotta? E per lo contrario ridotti ad uno stato di debolezza e di povertà, siete sicuri di ubbidire al voler di Dio, tanto più che essendo le afflizioni spiacevoli e contrarie alla natura, la propria volontà non v’ha parte. Allorché eravate onorati e applauditi dagli uomini, vi compiacevate delle lodi che vi eran date: ma non si doveva egli temere che ciò fosse l’unica ricompensa del vostro buon operare? Invece che ora essendo divenuti l’oggetto del loro disprezzo e dei loro scherni, avete imparato a far le vostre buone opere unicamente per piacere a Dio. Mentre gli amici andavano tutti a gara per prestarvi servigi, e dimostravansi grati ai vostri benefizi, voi forse vi contentavate, alla guisa dei farisei, di amare chi vi amava, e beneficare chi si dimostrava benefico verso di voi: ma allorché avete veduti gli uni indifferenti per voi, gli altri diventarvi nemici, e che siete stati da tutto il mondo abbandonati, voi avete innalzate le vostre virtù all’eroismo, se, come comanda il Vangelo, avete amato i nemici e renduto bene per male. Prima che l’ingiustizia vi spogliasse dei beni, che nere calunnie vi togliessero la riputazione, che foste con atroci ingiurie insultati, voi possedevate la vostr’anima in pace, attendevate alla vostra salute tranquillamente: ma che merito avevate? È forse difficile di praticar la pazienza quando non v’ è cosa alcuna a soffrire! Al contrario non è atto di perfetta ed eroica virtù esser padrone di sé stesso in mezzo agli affronti e alle ingiurie? Questo si è veramente camminar sugli esempi che Gesù-Cristo ci ha dati. Quando non provavate nel servizio di Dio che sensibili consolazioni, dicevate come s. Pietro sul Tabor: Signore, noi qui stiam pur bene. Bonum est nos hic esse. Ma quando Iddio ha ritirate le sue consolazioni, voi avete imparato a cercar piuttosto il Dio delle dolcezze che le dolcezze di Dio. Oh! quanto vantaggiose son dunque le afflizioni ai giusti per provare, purificare e perfezionare le loro virtù. Ecco, o giusti, ciò che vi deve efficacemente muovere non solo a riceverle, ma a ricercarle eziandio con ardore! Se avete ancora qualche ripugnanza, salite in spirito sul Calvario, e gettate lo sguardo sull’Autore e competitore della vostra salute, che ha portato con gaudio tutto il peso della croce, che è stato caricato d’obbrobri, che ha tutto bevuto il calice amaro della sua passione, che è stato coperto di piaghe. Ora sotto un capo coronato di spine, osereste voi portar membra delicate, e coronarvi di fiori? Paragonate i vostri con i suoi patimenti: avete voi al par di Lui resistito sino a spargere il vostro sangue? Nondum enim usque ad sanguinem restitistis (Hebr.XII). Ah! confessate piuttosto, che a paragone dei suoi sono un nulla i vostri patimenti.
Pratiche. Non abbiate dunque timore di patire, dice s. Agostino, temete piuttosto di non patire: temete di non patire abbastanza; giacché i patimenti sono vantaggiosi tanto ai peccatori che ai giusti. Se ogni cosa va a genio vostro, temete che Iddio non vi abbandoni, e che questo non sia un effetto della sua collera: temete che lasciandovi Egli tranquilli nella prosperità non vi dia la ricompensa in questa vita, e non ve ne riserbi alcuna nell’altra, in cui siccome al malvagio ricco, vi dirà voi avete ricevuto in vita i vostri beni: Recepisti bona in vita tua (Luc. XVI). – La vostra felicità è stata sulla terra, onde non potete goderla con i Santi in cielo. Questo timore vi faccia pregare instantemente il Signore, come faceva s. Agostino, che non vi risparmi, che vi flagelli in questo mondo, affinché vi perdoni nell’altro. Eie ure, hic seta, modo in æternum parcas. Se non avete coraggio bastante per andare incontro ai patimenti e ricercarli, abbiate almeno rassegnazione bastevole per ricevere quelli che Dio invia. Soffrite ciò che a Dio piacerà, e fintanto che a Lui piacerà. Le croci che il signore vi manda sono più salutevoli di quelle che sono di vostra elezione. Fa d’uopo ad imitazione di Gesù-Cristo, bere il calice che Dio vi porge, a preferenza di qualunque altro, il quale forse sarebbe ancora più amaro per voi. Calicem, quem dedit mihi pater, bibam (Jo. XVIII). Finalmente, se il Signore non ci affligge come meriteremmo, facciamo noi medesimi le parti della sua giustizia, e prendiamo le armi in mano per punirci con i rigori della penitenza. Sforziamoci, come dice l’Apostolo di compiere con la mortificazione del nostro corpo e delle nostre passioni ciò che manca ancora alla passione di Gesù-Cristo. Sopportiamo con uno spirito di penitenza tutte le pene annesse al nostro stato. Ella è un’ottima usanza di offrirle a Dio non solamente alla mattina, ma eziandio più volte al giorno. – Se ci accade qualche disgrazia, abbracciamo la croce in ispirito, e mettiamo ai piedi di questa croce i disprezzi, gli affronti, le pene che abbiamo a tollerare. Cerchiamo in Dio e non negli uomini la consolazione nelle nostre tribolazioni; e ripetiamo spesso quelle parole dell’orazione domenicale fiat voluntas tua, o quelle del santo Giobbe: Si faccia, o mio Dio, la vostra santa volontà, sia benedetto il vostro santo Nome. Rappresentiamoci Gesù-Cristo, che con la croce sulle spalle c’invita a seguirlo e a portarla con Lui; chi non si sarebbe stimato felice di poter alleggerirgli questo gravissimo peso? Noi possiamo farlo, fratelli miei, e lo facciamo ogni volta che noi accettiamo con perfetta rassegnazione le croci che la sua bontà c’invia per aprirci la strada all’eterna felicità, che vi desidero. Così sia.
Credo…
https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/
Offertorium
Orémus
Ps CXLV: 2 Lauda,
anima mea, Dóminum: laudábo Dóminum in vita mea: psallam Deo meo, quámdiu ero,
allelúja.
[Loda, ànima mia, il Signore: loderò il
Signore per tutta la vita, inneggerò al mio Dio finché vivrò, allelúia.]
Secreta
His nobis, Dómine, mystériis
conferátur, quo, terréna desidéria mitigántes, discámus amáre coeléstia.
[In virtú di questi misteri, concédici, o Signore, la grazia con la quale, mitigando i desiderii terreni, impariamo ad amare i beni celesti.]
https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/
Communio
Joannes XVI: 16 Módicum, et non vidébitis me, allelúja: íterum módicum,
et vidébitis me, quia vado ad Patrem, allelúja, allelúja.
[Ancora un poco e non mi vedrete più,
allelúia: ancora un poco e mi vedrete, perché vado al Padre, allelúia,
allelúia.]
Postcommunio
Orémus.
Sacramenta quæ súmpsimus,
quæsumus, Dómine: et spirituálibus nos instáurent aliméntis, et corporálibus
tueántur auxíliis.
[Fai, Te ne preghiamo, o Signore, che i sacramenti che abbiamo ricevuto ci ristòrino di spirituale alimento e ci siano di tutela per il corpo.]
https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/
https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/
https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/
https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/13/tutta-la-messa-cattolica-momento-per-momento-1/