SALMI BIBLICI: “BEATI OMNES QUI TIMENT DOMINUM” (CXXVII)

SALMO 127: “BEATI OMNES QUI TIMENT DOMINUM”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 127

Canticum graduum.

[1]  Beati omnes qui timent Dominum,

qui ambulant in viis ejus.

[2] Labores manuum tuarum quia manducabis, beatus es, et bene tibi erit.

[3] Uxor tua sicut vitis abundans, in lateribus domus tuae; filii tui sicut novellæ olivarum in circuitu mensæ tuæ.

[4] Ecce sic benedicetur homo qui timet Dominum.

[5] Benedicat tibi Dominus ex Sion, et videas bona Jerusalem omnibus diebus vitæ tuæ;

[6] et videas filios filiorum tuorum, pacem super Israel.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

 SALMO CXXVII.

Esortazione alla pietà, in vista del gran premio proposto alla virtù.

Cantico dei gradi.

Sommario analitico

1. Beati tutti coloro che temono il Signore, che camminano nelle sue vie.

2. Perché tu mangerai le fatiche delle tue mani, tu sei beato e sarai felice. (2)

3. La tua consorte come vite feconda, nell’interior di tua casa. I tuoi figliuoli come novelle piante di ulivi, intorno alla tua mensa. (3)

4. Ecco come sarà benedetto l’uomo che teme il Signore.

5. Ti benedica da Sionne il Signore, e vegga tu i beni di Gerusalemme per tutti i giorni della tua vita.

6. E vegga tu i figliuoli dei tuoi figliuoli, e la pace in Israele.

(1) Seminare il proprio campo e vedere il raccolto preso da un altro, era una punizione di cui Dio aveva minacciato il suo popolo in caso di infedeltà (Lev. XXVI, 16; Deut. XXVIII, 30-33; Giob. XXXI, 8). “In lateribus” si riferisce più naturalmente alla vigna che alla donna, ma “in circuitu mensa” riferendosi ai figli, il parallelismo richiede che “in lateribus” si riferisca alla donna, ciò che rende preferibile la traduzione “in penetralibus”.

 (2) In senso figurativo, il giusto dell’Antica Legge è figura del Messia, e questo salmo per intero è applicabile a Nostro Signore Gesù-Cristo; e, in effetti, la Chiesa li applica ai vespri della Festa di Dio. – Seduto alla tavola eucaristica, vi mangia il lavoro delle sue mani, il pane che fa venire nei campi e che Egli cambia nel suo Corpo. La Chiesa. Sua sposa, lo rallegra con la sua fecondità, i suoi figli, profumati di olio santo, circondano la tavola e prendono parte al suo festino.

Questo salmo, in cui il salmista vuole eccitare alla pratica del timore del Signore gli esiliati di ritorno alla loro patria, contiene l’elogio delle famiglie virtuose e la promessa che Dio riserva loro nella vita presente. Questa famiglia, di cui è descritta la felicità, è soprattutto la Chiesa, di cui Nostro Signore è lo sposo e che gli dà numerosi figli, che Egli è felice di vedere a tavola (2).

I. Promette la felicità in generale:

1° a coloro che temono Dio,

2° e questo timore fa camminare nelle sue vie (1).

II. Espone in cosa consista la beatitudine:

1° i beni della fortuna;

2° una sposa virtuosa e feconda;

3° dei figli che saranno l’ornamento della casa e la consolazione dei loro genitori (3);

4° la certezza di queste benedizioni per chi teme Dio (4);

5° la felicità di vedere tutti i loro concittadini condividere la loro felicità (5);

6° una lunga serie di figli;

7° la pace su tutto il popolo di Dio (6).

Spiegazioni e considerazioni

I. — 1

ff. 1. – Non è sufficiente avere il timor di Dio, occorre ancora camminare nelle sue vie; è per questo che il salmista riunisce due cose: il timore e le opere. Ce ne sono molti invero, nei quali la fede è perfetta, ma la vita è criminosa, e che sono i più infelici degli uomini (S. Chrys.). – Tre specie vi sono di timore: il primo tutto umano, si trova in coloro che temono di fare il male per paura che arrivino tribolazioni dal mondo; il secondo ha il suo principio nelle minacce dell’inferno e delle pene eterne; coloro che hanno questo timore si astengono dal peccare per evitare la dannazione; essi temono Dio, ma non amano ancora la giustizia; la terza specie di timore che è il timore casto, consiste nel fatto che si teme più di perdere il Signore che tutti gli altri beni, qualunque essi siano (S. Agost.). – Questo timore solo ispira di camminare nelle vie di Dio, nella sua legge e nei suoi precetti; perché essa procede dall’amore, ed il Signore ha detto: « Se voi mi amate, osservate i miei Comandamenti; » ed ancora: « colui che ama i miei Comandamenti e li osserva, egli è colui che mi ama; » ed infine: « colui che non mi ama non osserva la mie parole. » (Giov. XIV). –  Ora quali sono le vie di Dio, se non quelle conformi alle ispirazioni della virtù? … Il Salmista chiama queste vie, le vie di Dio, perché esse conducono sicuramente al cielo fino a Dio; e non è detta la via, bensì “le vie”, per insegnarci che esse sononumerose. Dio le ha moltiplicate: Egli ci ha aperto un gran numero di vie per renderci la scelta più facile (S. Chrys.). – Bisogna esaminare queste vie numerose, alfine di poter trovare quella che è buona ed arrivare, con gli insegnamenti di diversi dottori, ad entrare nella via unica della vita eterna. Queste vie sono nella Legge, sono nei Profeti, sono nei Vangeli, sono negli Apostoli, sono nel compimento di diversi precetti, e coloro che camminano in queste vie, temendo Dio,  sono beati. (S. Hilar.).

II. — 2-6

ff. 2. – Il Profeta si rivolge a tutti indistintamente; ma poiché tutti non sono che uno nel Cristo, continua al Singolare: « Tu mangerai il lavoro delle tue mani » … Ma come siamo numerosi, e siamo uno? Perché noi siamo legati a Colui del quale siamo membri e del Quale la testa è in cielo, perché vi giungano anche le membra. (S. Agost.). Dio fa la stessa promessa al giusto, per bocca di Isaia: « Dite al giusto che tutto va bene per lui, ditegli che egli gusterà il frutto delle sue virtù. » (Isai. III, 10). – Questo nutrimento non è un nutrimento corporale, è un alimento spirituale destinato a nutrire la nostra anima nel corso di questa vita; queste sono le buone opere della castità, della misericordia, della penitenza, della pace, in mezzo alle quali bisogna lavorare e lottare contro i vizi e le debolezze dei nostri corpi. Ora, è nell’eternità che noi dobbiamo raccogliere il frutto di questi lavori; ma bisognerà mangiare prima quaggiù il lavoro di questi frutti eterni, bisogna nutrire la nostra anima nel corso di questa vita mortale, ed ottenere con questo nutrimento il pane vivente, il pane celeste di Colui che ha detto: « Io sono il pane vivente disceso dal cielo. » (S. Hilar.). – Per coloro che comprendono male questo versetto, sembra che queste espressioni siano poste al rovescio, e che dovrebbe avere: Tu mangerai il frutto dei tuoi lavori. Molti in effetti mangiano il frutto dei loro lavori. Un uomo lavora alla sua vigna: egli non mangia il suo lavoro, ma egli mangia ciò che nasce da questo lavoro. Cosa dunque vogliono dire queste parole: « … tu mangerai i lavori delle tue mani »? Noi lavoriamo presentemente, il frutto del nostro lavoro verrà più tardi; ma, perché i nostri stessi lavori non siano senza piacere, in ragione della speranza di cui San Paolo ha detto: « Noi ci rallegriamo nella speranza, e siamo pazienti nella tribolazione, » (Rom. XII, 12), i nostri lavori medesimi ci causano al presente gioia, e noi ci rallegriamo per la speranza. se dunque il nostro lavoro ha potuto già costituire il nostro nutrimento  e rallegrarci, che sarà dunque il frutto di questo lavoro quando lo mangeremo? Che dice il Profeta nel salmo precedente? « Voi che mangiate il pane di dolore. » Questo lavoro delle mani è il pane di dolore. » Se non lo si mangia, il Profeta non gli avrebbe dato il nome di pane; e se questo pane non avesse alcuna dolcezza, nessuno lo mangerebbe. Con quali dolcezza piange e geme colui che prega! Le lacrime della preghiera hanno più dolcezza di tutti i piaceri del mondo. (S. Agost.). – I lavori dei frutti sono le prove con le quali l’uomo è esercitato in questo mondo perché possa pervenire al frutto dell’eternità; perché la marcia nelle vie di Dio è laboriosa, il cammino che conduce alla vita è stretto. Ma questo lavoro è ricompensato dai frutti dell’immortalità, quando l’uomo è seduto a questa tavola magnifica ove si nutre del pane celeste. (S. Gerol.) – Quanti che mangiano i lavori delle proprie mani! Essi leggono la Sacra Scrittura e non si nutrono delle parole della fede; essi ascoltano la voce dei predicatori, ma dopo averla ascoltata, si ritirano più vuoti di prima; essi mangiano ma non sono sazi perché nello stesso tempo in cui ascoltano la parola del Signore, desiderano e ricercano i beni e la gloria del secolo (Dug.).

ff. 3, 4. – « La tua sposa sarà come una vigna fertile. » La fecondità di una sposa e la moltitudine dei figli sono sempre rappresentati, nei libri santi, come effetti della benedizione di Dio. Tuttavia Dio non accorda sempre ai suoi servitori fedeli una famiglia numerosa. – Così i giusti che furono privati delle gioie del matrimonio, o le cui spose restarono sterili, non furono per questo privati della felicità della fecondità; Dio ne accordò loro una di altro genere e ben più elevata. – Gesù-Cristo, per primo, il capo di tutti i giusti e di tutti i santi, non ha avuto né sposa né figli secondo la carne, ma ha avuto per sposa la Chiesa ed una moltitudine di figli spirituali … Ma chi sono coloro per cui la Chiesa è come una vigna fertile, dal momento che vediamo entrare nelle mura di questa Chiesa degli uomini sterili? Noi vediamo entrare in queste mura un gran numero di uomini che si danno al vino, degli usurai, dei venditori di cattiva fede. È questa la fertilità di questa vigna? È questa la fecondità di questa sposa? No di certo, ma sono al contrario essi le spine che invadono la vigna; ma essa non è coperta di spine dappertutto. Essa è fertile, ma in qual distretto? « Nei lati della sua casa » … Ora noi chiamiamo i lati della sua casa, coloro che sono attaccati al Cristo. In coloro che non si attaccano al Cristo, essa è sterile (S. Agost.). – I giusti, quantunque vergini, non sono privati, sull’esempio di Gesù Cristo, loro capo, dall’avere una posterità numerosa; essi sono non soltanto i padri di coloro che generano alla fede ed alla penitenza, ma ancora le loro madri, pregando e gemendo per essi. (Dug.). – Questa sposa, è la saggezza di cui Salomone diceva: « Io l’ho amata, l’ho cercata nella mia giovinezza, ho chiesto di averla in sposa. » – Questa sposa dell’uomo che teme Dio, che circonda i lati della sua casa come una vigna feconda, si slancia su tutti i lati delle nostre opere. Per questa casa, bisogna intendere il domicilio della nostra anima che ognuno di noi purifica con il timor di Dio camminando nelle sue vie per farne un’abitazione degna dello Spirito-Santo. I figli che nasceranno da questa unione dell’anima con la sapienza, saranno giovani virgulti di olivo, intorno alla nostra tavola. Il salmista non dice: intorno al banchetto, ma “intorno alla vostra tavola”, cioè della tavola del Signore, ove prendiamo il nostro nutrimento, cioè il pane vivente di cui la virtù è di comunicare a coloro che lo ricevono la vita che contiene. (S. Hilar.). – Sia la nostra anima ritirata in se stessa, fedele a Dio, attenta a piacergli: questa sarà la sposa che farà la felicità dei nostri giorni; essa sarà feconda in buone opere, riempirà tutto il nostro interno di pensieri santi, che saranno come i nostri figli … tale è la famiglia di coloro che cercano il Signore. (Berthier).

ff. 5, 6. – Il Profeta sembra voler prevenire i dubbi che si possono opporre sulla certezza delle benedizioni di Dio. Si – riprende in questo versetto – è così che sarà benedetto colui che teme il Signore. Se noi abbiamo della diffidenza, solo da noi essa può giungere. – « Che il Signore vi benedica da Sion. » Senza dubbio voi notate già queste parole: « Così sarà benedetto l’uomo che teme il Signore; » forse i vostri occhi si porteranno già su coloro che non temono il Signore, e voi apprezzerete nelle loro dimore delle spose feconde e numerosi figli intorno alla tavola paterna; io non so fin dove sarà deviato il vostro pensiero. « Vi benedica il Signore; » sì, ma « … da Sion ». non cercate le benedizioni che non vengano da Sion. Ma dunque, fratelli miei, il Signore non ha benedetto coloro che possiedono questi beni? Là certamente c’è una benedizione del Signore; perché se non è una benedizione del Signore, chi potrebbe prendere una sposa se Dio non voglia? Chi potrebbe essere in buona salute se Dio non volesse? Chi potrebbe essere ricco se Dio non lo volesse? Questa benedizione non viene da Sion. « Vi benedica il Signore da Sion e vi faccia vedere i beni di Gerusalemme che ivi sono realmente. » In effetti, questi beni non sono quelli di Gerusalemme. Volete essere certi che questi beni non siano quelli di Gerusalemme? Dio ha detto anche ai suoi uccelli: « … crescete e moltiplicatevi. » (Gen. I, 22). Volete considerare come un gran bene ciò che è stato dato anche agli uccelli? Senza dubbio, è la parola di Dio che vi ha dato questo bene della famiglia, chi lo ignora? Ma se voi lo ricevete, sappiate usarne, e pensate al modo in cui nutrirete i figli che vi sono nati, piuttosto che pensare a vederne nascere altri. La felicità non consiste nell’avere dei figli, ma nell’avere figli virtuosi; se ne avete, lavorate per allevarli; se non ne avete, rendete a Dio azioni di grazie, Forse sarà per voi una minore sollecitudine, e tuttavia non sarete causa di sterilità per la Chiesa nostra madre; forse per voi nasceranno spiritualmente da questa madre dei figli che saranno come una giovane pianta di ulivo intorno alla tavola del Signore. vi consoli dunque il Signore, « e vi faccia vedere i beni che sono realmente di Gerusalemme, » perché questi beni lo sono realmente. Perché lo sono? Perché essi sono eterni. Perché sono eterni?  Perché è là che il Re ha detto: « Io sono Colui che sono. » (Es. III, 14). Quanto ai beni temporali, essi sono e non sono, perché non hanno stabilità; essi vengono e vanno. I vostri figli sono ancora piccoli, voi carezzate questi bambini ed essi vi carezzano; ma essi restano così? Voi sognate che essi si facciano grandi, desiderate che raggiungano un’altra età; ma badate, quando giunge una stagione della loro vita, l’altra è già morta; quando giunge l’età della ragione, la prima infanzia è già morta; quando viene l’adolescenza, la seconda infanzia è morta; quando viene la giovinezza, è morta l’adolescenza; quando giunge la vecchiaia, è morta la giovinezza; quando viene la morte, ogni età è morta. Desiderate tante età diverse, desiderate di vedere tante età prima di morire. Tutte queste cose non sono dunque realmente. Ma allora i vostri figli nascono per vivere sulla terra, o piuttosto per cancellarvene e rimpiazzarvi? Perché i figli, quando nascono, sembrano dire ai loro genitori: andiamo, pensate ad andarvene; a noi dunque tocca giocare il nostro ruolo quaggiù; perché tutta questa vita di prova del genere umano non è che una successione di ruoli, secondo questa parola del Profeta: « Ogni uomo vivente non è che vanità. » (Ps. XXXVIII, 6). E tuttavia, se riceviamo con tanta gioia dei figli che devono succederci, quanto più noi dobbiamo gioire nell’aver dei figli con i quali vivremo eternamente. Tali sono i beni di Gerusalemme, perché essi lo sono realmente (S. Agost.) – Asteniamoci dal credere che la sola ricompensa di coloro che temono Dio sia la potenza dei beni della terra, una sposa, dei figli, la prosperità negli affari domestici: queste sono delle ricompense accessorie e sopraggiunte. I beni primari ed essenziali, sono innanzitutto il timore di Dio, virtù che porta con sé la sua ricompensa, ed in seguito questi beni ineffabili « … che l’occhio non ha visto, che orecchio non intese, che il cuore dell’uomo non ha compreso. » – « Tutti i giorni della vostra vita. » Il più gran sigillo che Dio sia l’Autore di questi doni, è che essi saranno al riparo da ogni avvenimento triste, da ogni disastro, da ogni vicissitudine (S. Crys.). – E fra quanto tempo vedrete i beni di Gerusalemme? « Tutti i giorni della vostra vita. » Se dunque la vostra vita è eterna, voi vedrete eternamente i beni di Gerusalemme. Al contrario, questi beni temporali, se li vogliamo chiamare beni, voi non li vedrete per tutti i giorni della vostra vita; perché voi vivrete ancora quando avete lasciato il vostro corpo. La nostra vita continua, il nostro corpo muore alla verità, ma la vita della nostra anima non muore mai. Gli occhi non vedono più, perché colui che vede per mezzo degli occhi è partito; ma in qualche luogo si trovi colui che vedeva con gli occhi del corpo, ora vede qualche cosa (S. Agost.). – « Pace su Israele. » A che potranno servire tutti gli altri beni senza la pace? Il Profeta promette dunque qui il primo di ogni bene, quello che ne garantisce il possesso, cioè la pace ed una pace perpetua.  (S. Chrys.). – Non si tratta di una pace come la stabiliscono gli uomini tra loro, pace infedele, instabile, mutevole, incerta; non è neanche la pace che un uomo può avere con se stesso, perché l’uomo lotta contro se stesso, e lotterà fino a che abbia domato tutte le cupidigie. Qual è dunque questa pace? Una pace che l’occhio non ha visto, che l’occhio non ha inteso. Qual è allora questa pace? Quella che viene da Gerusalemme, perché Gerusalemme significa “visione di pace”. (S. Agost.).

3 MAGGIO: S.S. GREGORIO XVIII, 29 ANNI CON LA CROCE DI CRISTO SULLE SPALLE!

Il 3 maggio del 1991, in un Conclave a porte chiuse, veniva eletto dai Cardinali nominati in segreto da Gregorio XVII, al Soglio pontificio, S.S. Gregorio XVIII, successore dello stesso S.S. Gregorio XVII, G. Siri. Il giorno non fu scelto a caso dallo Spirito Santo: è questo infatti il giorno in cui la Chiesa Cattolica festeggia l’Invenzione della Croce di Nostro Signore Gesù Cristo. Conosciamo la storia di S. Elena, recatasi a Gerusalemme con questa precisa intenzione, del Vescovo Macario che per distinguere tra le tre croci ritrovate in profondità nel terreno del luogo della crocefissione, escogitò un mirabile espediente, facendo avvicinare le croci, una per volta ad una donna mortalmente malata. La Croce sulla quale era morta l’umanità di Cristo, risanò all’istante la donna. Ma cosa vuole indicare lo Spirito con questo giorno scelto per l’elezione del Vicario di Cristo? La  Croce ritrovata, viene posta sulle spalle del nuovo Vicario di Cristo che dovrà così ripercorrere la salita sul Calvario fino alla crocifissione ed alla morte su quella stessa croce, per rinnovare la Passione di Cristo nella sua Chiesa nella persona proprio del suo Vicario. Come scriveva il Cardinal Manning nel secolo XIX, la Chiesa deve ripetere in tutto la vita terrena del suo Capo divino. Ecco che dopo il “tradimento di Giuda”, l’Apostasia dei più alti rappresentanti ecclesiastici, la passione nel Gestsemani di Gregorio XVII, costretto ad una cripto-prigionia sorvegliatissima per 31 anni, arrivava il momento della salita sul Golgota e dell’immolazione sulla Croce. Questo è stato il compito affidato al Pontificato di Gregorio XVIII, sottolineato ancora più dal ricordo che il Martirologio Romano fa in questo giorno di S. Alessandro I Pontefice e martire, ucciso dopo innumerevoli strazi. Alla morte in Croce, seguirà – come a Gerusalemme – la sepoltura nel sepolcro di Gesù, e la sua Chiesa sarà dichiarata morta e sepolta da tutti gli empi e dagli ipocriti marrani della terra. Ma … dopo tre giorni (di buio?), il Cristo Salvatore risorgerà vittorioso in maniera improvvisa ed inattesa dai suoi nemici, ancora una volta riprenderà la sua corona di gloria strappandola al “signore dell’universo-lucifero” – nel frattempo spacciatosi per Dio e postosi su tutti gli altari e sulla “usurpata” Cattedra di Pietro per essere adorato –; … e la Chiesa Cattolica, come Sposa immacolata di Cristo senza ruga né macchia di infamia o di errore, nuovamente risplenderà come Maestra dei popoli e Luce nelle tenebre per gli erranti accecati, ivi sarà ripristinato il culto divino apostolico autentico dei Padri e dei Pontefici di tutti i tempi con la restaurazione del Sacrificio perenne. Al Pusillus grex cattolico, mai come in questa giornata, si raccomanda preghiera e penitenza per il Santo Padre Gregorio XVIII, perché il Signore gli dia la forza e la grazia necessaria per affrontare la passione del Calvario, le sofferenze ad essa collegata, onde rinnovare, almeno in spirito, la morte sulla Croce di Gesù Cristo Nostro Signore. Che la Vergine Maria, assista ancora una volta ai piedi della Croce, come già fece con il Figlio suo e di Dio, questo figlio da Lei generato nello Spirito Santo, ed aiuti tutti noi in questa prova finale della nostra fede divina in Cristo l’uomo-Dio, nostro Salvatore.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. GREGORIO XVI – “QUAS VESTRO”

Anche in questo breve del 1841, S. S.  Gregorio XVI ribadisce la Dottrina Cattolica circa i matrimoni misti tra coniugi Cattolici ed acattolici – che venivano celebrati all’epoca nelle terre in cui convivevano l’eresia ed il Cattolicesimo – unioni nelle quali a ragione si ravvisano pericoli spiritualmente mortali per il coniuge cattolico e per la futura prole. Nel mondo scristianizzato odierno, il problema non si pone, visto che una falsa chiesa dell’uomo – che si spaccia come cattolica – permette tranquillamente matrimoni (o meglio delle unioni religiosamente illegittime) non solo tra Cattolici (i pochissimi rimasti almeno di desiderio) ed eretici acattolici (la maggioranza di novusordisti, protestanti o scismatici vari), ma pure tra cattolici ed aderenti alle religioni del demonio, maomettani, buddisti, scintoisti, induisti, perfino animisti. Queste ovviamente sono perversioni sataniche condannate infallibilmente in tutti tempi dalla Chiesa Cattolica, tranne casi in cui la Sede Apostolica ravvisava gli estremi per ottenere, sia pure a malincuore, la dispensa canonica. Nella assoluta confusione attuale, si parla anche di matrimoni tra “risposati” un neologismo blasfemo mai udito nella Chiesa e nella bimillenaria dottrina ecclesiastica, con una strizzatina d’occhio pure ad unioni omosessuali, in contraddizione palese con definizioni dottrinali e dogmatiche irreformabili e di eterna validità. Qui è chiaro che c’è il “dito di satana”, all’opposto del “dito di Dio” di cui ebbero sentore i maghi egiziani al cospetto delle piaghe mediate da Mosè. Ma oramai i tempi dell’Apocalisse sono maturi, tutto appare chiaro ed ineluttabile, per cui al pusillus grex cattolico, non resta che resistere impavido – senza nulla temere se non la morte dell’anima e le suggestioni infernali della “bestia” – nel conservare la fede fino all’ultimo respiro, o fino alla venuta del Cristo Giudice che con il soffio della sua bocca giungerà improvviso ed inatteso a bruciare l’anticristo con i suoi adepti oggi insediati abusivamente e sacrilegamente nel sacri palazzi da essi vergognosamente imbrattati con eresie, scismi, innominabili passioni, pratiche esoteriche. Che la Vergine Madre di Dio, schiacci quanto prima il capo del serpente infernale, e ci liberi dagli ipocriti apostati intenti a sprofondare anime nell’inferno.

S. S. Gregorio XVI

Quas vestro

30 aprile 1841

Le devotissime lettere che, a nome vostro e dei Vescovi di codesto Regno, Ci avete fatto pervenire tramite il Venerabile Fratello Vescovo canadese Giuseppe, pervase di sentimenti di sincera devozione, sono state per Noi motivo di gioia e di tristezza ad un tempo. A buon diritto perché, dovendo salvaguardare con ogni cura, in forza del Nostro dovere apostolico, l’integrità della sacra dottrina e del diritto, non possiamo tollerare il sopraggiungere di qualsiasi cosa che possa metterla in pericolo. È perfettamente noto il pensiero della Chiesa circa i matrimoni fra cattolici ed acattolici. Essa considerò sempre illecite e deleterie tali nozze, sia per la degradante comunione nelle cose divine, sia per l’incombente pericolo di perversione del coniuge cattolico e la scorretta educazione della prole. Trattano proprio di questo problema le più antiche disposizioni canoniche che le riprovano con tutta severità, nonché le più recenti norme adottate dai Sommi Pontefici, di cui non sembra necessaria una lunga e particolareggiata elencazione, essendo più che sufficiente ciò che precisò al riguardo il Nostro predecessore Benedetto XIV, di felice memoria, nella lettera enciclica indirizzata ai Vescovi di Polonia e ciò che si trova nel famosissimo scritto noto con il titolo De Synodo Dioecesana. – Se in qualche luogo, per le gravi difficoltà del momento e per la pesante situazione sociale, siffatti matrimoni vengono tollerati, ciò deve essere ricondotto ad una prassi di profonda ed accorta valutazione che non può in alcun modo essere presa come indizio di approvazione e di consenso, ma di semplice tolleranza, che scaturisce non da un atto di volontà ma dalla necessità di evitare mali maggiori, come sapientemente annotò Pio VII, di venerata memoria, nella lettera inviata il 9 ottobre 1803 all’Arcivescovo di Magonza, riproponendo le risposte del proprio predecessore indirizzate ai Vescovi di Bratislava, di Roznava e di Spisskà Belà. – Se, allentando in qualche modo la severità delle disposizioni canoniche, questa Sede Apostolica permise qualche volta siffatti matrimoni misti, lo fece assai a malincuore, in forza delle summenzionate considerazioni e per gravi e seri motivi, ma sempre con l’espressa ingiunzione di definire le debite precauzioni, non solo per evitare che il coniuge cattolico potesse essere fuorviato da quello acattolico, ma anche perché tenesse sempre presente l’obbligo, nei limiti del possibile, di far recedere la comparte dall’errore e si provvedesse inoltre ad educare nella santa Religione cattolica i figli di entrambi i sessi eventualmente procreati. – Si tratta di precauzioni che fondano la loro ragion d’essere nella stessa legge divina e naturale: certamente pecca contro di essa chiunque espone temerariamente se stesso e i futuri figli al pericolo della perversione. – Dalle vostre predette lettere abbiamo avuto la certezza di un abuso assai diffuso nelle diocesi di codesto Regno: matrimoni fra cattolici e acattolici senza la dovuta dispensa della Chiesa e senza le necessarie precauzioni vengono legittimati con la benedizione e con i riti sacri dai parroci cattolici. – Potete ben comprendere, Venerabili Fratelli, come non potessimo non essere gravemente colpiti da tutto questo, soprattutto perché ci siamo resi conto di quanto ampiamente abbia preso piede la pratica di tali matrimoni misti, e come si sia inoltre profondamente radicata l’indifferenza verso i contenuti della Religione in vastissime regioni di un Regno che era per l’addietro un vero vanto della Fede cattolica. – Non è Nostra intenzione sorvolare sul fatto che, in forza del Nostro santissimo compito, non avremmo tralasciato di prendere le opportune misure se fossimo stati da tempo a conoscenza della situazione. – Potete facilmente intuire il motivo del Nostro silenzio: negli ultimi tempi non è stata concessa alcuna dispensa apostolica per matrimoni misti da celebrare presso di voi se non con l’ingiunzione delle prescritte precauzioni e l’aggiunta delle norme che, per disposizione di questa Santa Sede, si debbono osservare. – Tuttavia, tra le notizie riportate, Ci è stato di non poca consolazione il fatto che, mentre venivamo edotti del male incombente, apprendevamo anche che da parte vostra e dei vostri colleghi venivano messe in atto le strategie per porvi rimedio. – Ancor più sovrabbondò di gioia il Nostro cuore constatando con quanto zelo operate in comune per salvaguardare l’integrità della fede, con quale unanime, deferente ossequio vi rivolgete a questa Sede Apostolica, maestra autorevole di verità, sempre attenti al suo cenno per orientare il vostro impegno pastorale. – Dopo aver conosciuto le Nostre disposizioni emanate in materia per altri paesi, non appena avete appurato che la prassi invalsa nei vostri territori era in aperto contrasto con i principi e le indicazioni della Chiesa, e pertanto non poteva più a lungo essere tollerata senza gravi conseguenze, non avete minimamente dubitato, in unità di intenti e di azione, che si dovesse eliminarla e, come era logico, a non demordere, pronti anche ad affrontare con fermezza eventuali gravi pericoli per garantire la salvezza eterna vostra e del gregge a voi affidato. – A rendere piena la Nostra gioia sopravvennero i copiosi frutti che scaturirono dalle vostre solerti iniziative. – Sappiamo bene infatti come i parroci, e l’altro clero, abbiano obbedito alle vostre ammonizioni e alle vostre istruzioni in proposito, tanto che – rimossa in lungo e in largo l’illegittima consuetudine – è stata ripristinata l’antica disciplina dei sacri canoni. – Esprimiamo dunque a voi, Venerabili Fratelli, la Nostra viva soddisfazione, e mentre ringraziamo Dio che vi ha rafforzato dall’alto per la tutela della fede e della dottrina, non smettiamo di esortarvi e di stimolarvi vigorosamente perché con pari decisione e costanza vi sforziate di difendere la causa della Chiesa cattolica affinché non abbia più a risorgere la malvagia consuetudine: se ancora ne persistesse qualche vestigia, ne possa essere totalmente sradicato il germe. – Nel frattempo non abbiamo potuto non soppesare con oculata attenzione tutte le cose che vi premuravate di riferirci nelle vostre lettere documentando le gravissime difficoltà contingenti che vi hanno indotti, e quasi costretti, a optare per la tolleranza qualora un cattolico o una cattolica, nonostante gli ammonimenti e le debite esortazioni dei sacri pastori, persistesse nel proposito di contrarre nozze miste in assenza delle necessarie precauzioni. – In questa situazione, non potendo altrimenti ovviare a un male maggiore per la Religione cattolica, avete deciso che i parroci potessero assistere alle nozze passivamente, senza intervenire in alcun modo nel rito religioso e senza assumere atteggiamenti che potessero essere intesi come approvazione. – Mentre rendevate operativi questi provvedimenti, con l’intento di far fronte con assennatezza al problema del momento, avevate già deciso di sottoporre al più presto a Noi un simile arduo dilemma, per ottenere in proposito il Nostro assenso, che presumevate di potere in qualche modo avere in presenza delle pressanti necessità. – Per la verità Noi, pur operando con estrema decisione al fine di mantenere integri i sacrosanti principii della Chiesa cattolica, non abbiamo mai smesso, in forza del potere a Noi conferito, di portare rimedio alle funeste situazioni di codeste regioni e alle angustie a voi sopravvenute. – Pertanto, non disapproviamo le ragioni della vostra decisione, e riteniamo che si debba accondiscendere alla vostra richiesta. – Decidiamo ciò in piena sintonia con quanto Noi stessi, sull’esempio dei Nostri predecessori, abbiamo per l’addietro permesso a fatica a favore di altre regioni. – Allo stesso modo si era espresso a più riprese Pio VI, di venerata memoria, nei confronti di qualche diocesi dello stesso Regno di Ungheria. – Infatti nella risposta che già nel 1782, mentre dimorava a Vienna, e poi nell’anno successivo, dopo il suo ritorno a Roma, inoltrò al vescovo di Spisskà Belà (e la stessa risposta ordinò fosse inviata al successore di questi nel 1795), così palesò il proprio pensiero a proposito dei matrimoni misti in quelle particolari circostanze: “Pur in presenza di precise disposizioni al riguardo, è necessario che il vescovo e i parroci si adoperino con prudente sollecitudine perché simili matrimoni non abbiano luogo e, nel caso vengano celebrati, pretendano che tutti i figli siano educati nella Religione cattolica. – Tuttavia ogni qualvolta si verifichi, contro la loro volontà, ciò che non può essere approvato, si astengano sempre dalla benedizione nuziale e la loro presenza, se lo richiedono le circostanze, sia puramente fisica e non si permettano atti o dichiarazioni che autorizzino o approvino che la prole possa essere educata in un’altra religione che non sia quella cattolica”. – Se dunque, Venerabili Fratelli, per particolari circostanze locali e situazioni personali si verifichi nelle diocesi di codesto Regno l’eventualità di un matrimonio fra un acattolico e una donna cattolica, o viceversa, anche in assenza delle prescritte precauzioni della Chiesa e non sia possibile in alcun modo evitare altrimenti il danno per la Religione senza il pericolo di un danno maggiore e di uno scandalo e nello stesso tempo ( per usare le parole del Nostro predecessore Pio VII di venerata memoria nella succitata lettera al vescovo di Magonza) si arguisca di poter contribuire al bene della Chiesa, simili nozze, pur vietate ed illecite, siano celebrate in presenza di un parroco cattolico piuttosto che di un ministro eretico a cui facilmente potrebbero rivolgersi. – In questo caso il parroco cattolico, o un altro sacerdote da lui delegato, potrà assistere al matrimonio con una presenza assolutamente passiva, con l’esclusione di qualsivoglia rito religioso, come se assolvesse al compito di semplice testimone, per così dire, qualificato o autorizzato che, dopo aver raccolto il consenso di ambedue i coniugi, avrà la possibilità, in forza del suo ufficio, di riportare nel libro dei matrimoni la validità dell’atto compiuto. – In queste circostanze, come specificamente raccomandava lo stesso Nostro predecessore, i vescovi e i parroci devono, con ancora maggiori cura e preoccupazione, provvedere che sia rimosso il pericolo di perversione per il coniuge cattolico; che si provveda nel migliore dei modi all’educazione dei figli di entrambi i sessi nella Religione cattolica e che il coniuge di fede cattolica, secondo l’obbligo che gli incombe, s’impegni con le proprie forze alla conversione del coniuge acattolico: ciò gli sarà assai utile per ottenere più facilmente da Dio il perdono dei peccati commessi. – Intimamente addolorati che si debbano introdurre simili criteri di tolleranza in un Regno che si segnalava per la professione della Religione cattolica, confessiamo con tutta sincerità di fronte a Dio di esservi stati indotti, o meglio trascinati, unicamente per evitare il sopraggiungere di più gravi danni per la Chiesa cattolica. – Con tutto il cuore esortiamo dunque voi, Venerabili Fratelli, e tutti i vostri colleghi, per l’immenso amore di Gesù Cristo che immeritatamente rappresentiamo sulla terra, a mettere in atto, dopo aver implorato la luce dello Spirito Santo, ciò che in un affare di così grande rilievo può validamente rispondere allo scopo. – Cercate anche di perseguire unanimemente l’obiettivo prefisso, perché a tale tolleranza nei confronti delle persone che si accingono a contrarre illecitamente matrimoni misti non tenga dietro, nel popolo cattolico, l’affievolimento del rispetto dei canoni che condannano tali nozze e della incessante cura con la quale la Santa Madre Chiesa si preoccupa di dissuadere i suoi figli dal contrarre tali matrimoni che recano danno alle loro anime. – Sarà dunque compito vostro, degli altri Vescovi solidali con voi e dei parroci, di ammaestrare i fedeli sia privatamente, sia in pubblico, e ricordare l’insegnamento e le disposizioni che riguardano questi matrimoni e pretenderne la scrupolosa osservanza. – Non mancherete certo di provvedere a tutto ciò in forza della vostra provata devozione, della fede e del rispettoso ossequio verso questa Cattedra del Beato Pietro, e Noi, con grande affetto impartiamo a voi e a tutti i vostri colleghi l’Apostolica Benedizione, propiziatrice dell’aiuto celeste e testimonianza del Nostro amore: Benedizione che ciascuno estenderà al proprio gregge.

Dato a Roma, presso San Pietro, sotto l’anello del Pescatore, il 30 aprile 1841, undicesimo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA III DOPO PASQUA (2020)

DOMENICA III DOPO PASQUA (2020)

Semidoppio. • Paramenti bianchi.

La Chiesa è nella gioia perché Gesù è risuscitato e ci ha fatti liberi (All.). Essa dà quindi gloria a Dio (Intr.) e ne canta le lodi (Off.). «Ancora un poco di tempo e non mi vedrete più, aveva detto Gesù nel Cenacolo, allora piangerete e vi lamenterete; ancora un poco di tempo e mi rivedrete e il vostro cuore si rallegrerà» (Vang.). Gli Apostoli, vedendo Gesù risuscitato, provarono quella gioia che risuona ancora nella liturgia pasquale; e come la Pasqua è un’immagine della Pasqua eterna, questa gioia è la stessa che avrà la Chiesa quando, dopo aver, nel dolore, generato anime a Dio, vedrà Gesù apparire trionfante nel cielo alla fine dei secoli, tempo assai breve, se paragonato all’eternità (Mattutino). « Egli allora cambierà la nostra afflizione in un gaudio che nessuno potrà più rapirci » (Vang.). Questo gaudio santo comincia già su questa terra, poiché Gesù non ci lascia orfani, ma viene a noi per mezzo dello Spirito Santo; e nella grazia sua siamo colmati di gioia nella speranza di una felicità avvenire. Non attacchiamoci ai vari piaceri del mondo, dice San Pietro, noi che siamo stranieri e viandanti avviati verso il cielo al seguito del divino Risuscitato, ma osserviamo i precetti tanto positivi, quanto negativi del Vangelo (Ep.), affinché, facendo professione di Cristianesimo, possiamo evitare quello che disonora questo nome e praticare quanto vi è conforme (Or.) e giungere cosi alla celeste Gerusalemme. « uno dei sette Angeli mi disse: Vieni e ti mostrerò la novella sposa, la sposa dell’Agnello. E vidi Gerusalemme che scendeva dal cielo, ornata dei suoi monili, alleluia. Come è bella la sposa che viene dal Libano, alleluia » (Respons.). L’eucaristico e divino alimento delle anime nostre protegga i nostri corpi (Postcomm.), affinché mitigando in noi l’ardore dei desideri terrestri, ci faccia amare i beni celesti (Secr.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXV: 1-2. Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.

[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Ps LXV: 3 Dícite Deo, quam terribília sunt ópera tua, Dómine! in multitúdine virtútis tuæ mentiéntur tibi inimíci tui.

[Dite a Dio: quanto sono terribili le tue òpere, o Signore. Con la tua immensa potenza rendi a Te ossequenti i tuoi stessi nemici.]

Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.

[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio 

Orémus. – Deus, qui errántibus, ut in viam possint redíre justítiæ, veritátis tuæ lumen osténdis: da cunctis, qui christiána professióne censéntur, et illa respúere, quæ huic inimíca sunt nómini; et ea, quæ sunt apta, sectári. [O Dio, che agli erranti mostri la luce della tua verità, affinché possano tornare sulla via della giustizia, concedi a quanti si professano cristiani, di ripudiare ciò che è contrario a questo nome, ed abbracciare quanto gli è conforme.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli: 1 Pet II: 11-19

“Caríssimi: Obsecro vos tamquam ádvenas et peregrínos abstinére vos a carnálibus desidériis, quæ mílitant advérsus ánimam, conversatiónem vestram inter gentes habéntes bonam: ut in eo, quod detréctant de vobis tamquam de malefactóribus, ex bonis opéribus vos considerántes, gloríficent Deum in die visitatiónis. Subjécti ígitur estóte omni humánæ creatúræ propter Deum: sive regi, quasi præcellénti: sive dúcibus, tamquam ab eo missis ad vindíctam malefactórum, laudem vero bonórum: quia sic est volúntas Dei, ut benefaciéntes obmutéscere faciátis imprudéntium hóminum ignorántiam: quasi líberi, et non quasi velámen habéntes malítiæ libertátem, sed sicut servi Dei. Omnes honoráte: fraternitátem dilígite: Deum timéte: regem honorificáte. Servi, súbditi estóte in omni timóre dóminis, non tantum bonis et modéstis, sed étiam dýscolis. Hæc est enim grátia: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

OMELIA I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929 – imprim.]

SOGGEZIONE ALLE AUTORITÀ

“Carissimi: Io vi scongiuro che da stranieri e pellegrini vi asteniate dai desideri sensuali, che fanno guerra all’anima. Tenete una buona condotta fra i gentili, affinché, mentre sparlano di voi quasi foste malfattori, considerando le vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno in cui li visiterà. Per amor di Dio siate, dunque, sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Poiché questa è la volontà di Dio, che, operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Diportatevi da uomini liberi, che non fate della libertà un mantello per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio. Onorate tutti, amate la fratellanza, temete Dio, rendete onore al re. Servi, siate con ogni rispetto sottomessi ai padroni, e non soltanto ai buoni e benevoli, ma anche agli indiscreti; poiché questa è cosa di merito; in Gesù Cristo Signor nostro” (1 Piet. II, 11-19).

La lezione è tolta dalla prima lettera di S. Pietro. Precede immediatamente quella che abbiamo considerato la domenica scorsa. Vi si parla dei doveri sociali e in modo particolare dei doveri verso l’autorità civile. Dobbiamo essere soggetti all’autorità e a quelli che dall’autorità suprema sono incaricati di amministrare la giustizia, punendo i cattivi e premiando i buoni. Così, piaceremo a Dio e faremo tacere l’ignoranza dei cattivi. La nostra ubbidienza, poi, all’autorità dev’essere fatta da veri servi di Dio; cioè, per dovere di coscienza. Vediamo appunto, come la nostra soggezione all’autorità:

1. È  voluta da Dio,

2. fa chiudere la bocca ai nemici del nome Cristiano,

3. deve procedere da semplicità di cuore.

1.

 Per amor di Dio siate, dunque, soggetti a ogni autorità umana. S. Pietro chiama autorità umana l’autorità civile, perché la designazione degli individui, che rivestono questa autorità, generalmente, viene dagli uomini. Che un governo sia repubblicano, monarchico, federalista; che la suprema autorità sia designata per elezione o per successione, è cosa che dipende dalla volontà degli uomini. Ma non dipende dalla volontà degli uomini l’istituzione della autorità. È tanto naturale alla società il concetto di moltitudine e di autorità, di chi dirige e di chi è diretto, che non è neppur possibile immaginabile una società, senza chi la governi. Vuol dire dunque, che la natura stessa esige che nella società ci sia chi comandi, chi presieda, chi diriga. Vuol dire, infine, che l’autorità è voluta da Dio stesso, autore della natura. Perciò S. Paolo ci ammonisce:« Ogni persona sia soggetta alle autorità costituite, perché non vi ha potestà se non da Dio» (Rom. XIII, 1). Basterebbero considerazioni umane per indurci all’obbedienza verso le autorità. Senza l’ubbidienza dei sudditi sarebbe impossibile qualunque governo. Si avrebbe una piena anarchia con la conseguente perdita di ogni diritto, di ogni libertà, di ogni idea di giustizia. Ma i Cristiani devono ubbidire per un motivo più nobile. Devono ubbidire per piacere a Dio. Se ogni potestà viene da Dio, non è cosa indifferente che ad essa si ubbidisca o non si ubbidisca. Quando l’autorità costituita emana delle leggi e impone degli obblighi che non sono contrari alla legge naturale e alla legge di Dio e della Chiesa, rifiutando la nostra ubbidienza, offendiamo Dio, del quale le legittime autorità sono rappresentanti. Gesù Cristo stesso ricorda i doveri del cittadino quando dice : «Date a Cesare ciò che è di Cesare» (Matt. XXII, 21). La soggezione che dobbiamo all’autorità suprema dello Stato, la dobbiamo anche a coloro che ne fanno le veci, la rappresentano o, in qualunque modo, sono investiti di poteri in suo nome. Anche in questo, l’insegnamento è molto chiaro. Siate dunque sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Ma se il principe, se i suoi incaricati sono cattivi, siamo noi obbligati ugualmente a star loro soggetti? Quando non esigono cose ingiuste e non escono dai limiti della propria autorità, noi siamo obbligati a stare loro soggetti, anche se sono cattivi. Anche qui la soggezione ci riuscirà facile, se opereremo per amor di Dio. I Cristiani ai quali S. Pietro scriveva, si assoggettavano nientemeno che a Nerone.

2.

S. Pietro adduce un altro motivo che deve indurre i Cristiani a essere ossequenti alle autorità. Poiché questa è la volontà di Dio, che operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Col nome di stolti sono qui designati i pagani, i quali accusavano i Cristiani con la più grande leggerezza, e li condannavano con la più grande facilità. La dottrina dei seguaci di Gesù Cristo, tanto sublime e differente da quella dei gentili; la loro condotta, che doveva esser l’opposto da quella tenuta nel gentilesimo, attiravano su di loro lo sguardo diffidente e malevolo dei pagani. «Vi basti — dice San Pietro — di aver fatto la volontà dei gentili nel tempo passato, camminando nelle libidini, nelle concupiscenze, nelle vinolenze, nelle gozzoviglie nelle ubriachezze e nelle abbominevoli idolatrie» (1 Pietr. IV, 3). Questo mutamento di condotta doveva spingere i pagani a trovare a ogni costo un pretesto per accusare i Cristiani. Non senza motivo, dopo aver inculcato il buon esempio in generale, S. Pietro insiste in modo speciale sulla soggezione alle autorità. Una delle accuse che si facevano ai Cristiani, tanto per aver pretesto di perseguitarli, era appunto l’accusa di ribellione contro lo stato. L’accusa era gratuita, ma non era inutile insistere sulla necessità di non dar nessun pretesto ai pagani di mettere in discredito la Religione cristiana. – Il contegno dei Cristiani di fronte all’autorità fu sempre pretesto a biasimi e a persecuzioni da parte di persone di sentimenti opposti. Per coloro che all’autorità non vogliono assegnato alcun limite, i buoni Cristiani sono dei ribelli, dei nemici dello Stato, dei cospiratori, se hanno la fortezza di anteporre la legge di Dio alla legge degli uomini. Per i nemici dell’autorità essi sono degli schiavi dei fautori del dispotismo e della tirannia. Giudizi sbagliati gli uni e gli altri. I Cristiani nell’autorità vedono il rappresentante di Dio, e nella soggezione a essa il volere di Dio. Perciò, ubbidiscono ai suoi comandi, e vogliono essere esempio agli altri nell’adempimento di questo dovere. «I Cristiani ubbidiscono alle leggi stabilite e nella loro condotta avanzano le leggi » (Lett. a Diogneto 5, 10) leggiamo in uno dei primi apologisti. I Cristiani che seguono l’insegnamento di Gesù Cristo quando dice: «Date a Cesare ciò che è di Cesare», lo seguono anche quando dice: «E date a Dio ciò che è di Dio » (Matt. XXII, 21). E la cosa è tanto giusta che non dovrebbe far meraviglia a nessuno. S. Cipriano è processato davanti al proconsole Galerio Massimo. Questi dice al santo Vescovo: « I sacratissimi imperatori hanno ordinato di render culto agli dei ». Cipriano risponde: « Non lo faccio ». Invitato dal Proconsole a rifletter bene, dichiara: « In cosa tanto giusta non c’è di riflettere » (Acta proc. S. Cipriani. Ep. et Mart.). Quando si tratta di obbedire a Dio i buoni Cristiani non hanno un momento di titubanza. E nella soggezione a Lui, come nella soggezione alle autorità da Lui costituite, sono sempre i primi.

3.

L’ubbidienza poi all’autorità dev’essere fatta non tanto per timore delle sanzioni quanto per obbligo di coscienza. Comportatevi— dice S. Pietro da vimini liberi che non fate della libertà un manto per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio. Quindi, non l’ubbidienza forzata dello schiavo, ma l’ubbidienza spontanea dell’uomo libero, che è stato liberato bensì dalla schiavitù del peccato e dalla servitù della legge mosaica; ma non dall’obbligo di ubbidire a Dio, e quindi anche ai suoi rappresentanti. Nella soggezione all’autorità il Cristiano non deve essere guidato dallo spirito di parte. Prestare ossequio all’autorità perché chi ne è rivestito viene dal mio partito; rifiutarle il dovuto ossequio perché chi ne è rivestito viene da un partito che non è il mio; ubbidire quando chi comanda ci è persona simpatica, disubbidire quando chi comanda ci è persona antipatica, non è un diportarsi secondo coscienza. Così, non è un diportarsi secondo coscienza, quando ci si assoggetta in ciò che piace, e ci si ribella in ciò che non piace. Il nostro ossequio non è sincero quando si hanno secondi fini. Profondersi in inchini davanti all’autorità, proclamarne altamente i meriti, innalzarle inni di lode, son cose che si fanno ben frequentemente anche da chi nutre nel proprio interno una forte avversione. Non si sa mai: potrebbe venirne qualche onorificenza, qualche aiuto, qualche protezione, qualche posto. Giù, dunque, lodi smaccate e a buon mercato. Costoro si devono chiamare, non ossequenti; ma striscianti e servili. Sono i seguaci di coloro, che un giorno si presentarono a Gesù dichiarandogli:« Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non badi a nessuno, e che non guardi in faccia agli uomini ». E Gesù che leggeva nell’interno diede loro una risposta, che nessuno vorrebbe rivolta a sé: « Ipocriti, perché mi tentate? » (Matt. XXII, 16 18). Infatti, noi dobbiamo essere soggetti ai nostri superiori «in semplicità di cuore per timor di Dio» (Col. III, 22). « Ma il fare una cosa e averne nell’animo un’altra, non è semplicità, sebbene ipocrisia e simulazione» (S. Giov. Grisost. In Epist. ad Col. Hom. 10, 2). – L’autorità ha i propri pesi da portare, e noi abbiamo da portare i nostri, e tutti concorriamo a far della società una famiglia felice, quanto è possibile tra coloro che su questa terra sono stranieri e pellegrini. Se da una parte non si deve fare abuso dell’autorità propria, o farla sentire più del necessario; dall’altra non si deve disconoscerla o contrariarla; si deve anzi renderle facile il proprio compito con l’ubbidienza. L’ubbidienza dei sudditi rende felice il governare. I Cristiani devono fare ancor di più, pregare Dio che assista l’autorità. Gli Ebrei, schiavi in Babilonia, per mezzo del profeta Baruch, mandano a dire agli Ebrei di Gerusalemme: « Pregate per la conservazione di Nabucodonosor, re di Babilonia e per la conservazione di Baldassarre, suo figliuolo » (Baruch 1, 11). I Cristiani non devono essere da meno degli Ebrei, che pregano e fanno pregare per un tiranno, al quale la Provvidenza li aveva assoggettati. Essi devono accettare, ciascuno per sé, le parole di S. Paolo a Timoteo: «Raccomando che si facciano preghiere, suppliche, domande, ringraziamenti, per tutti gli uomini; per i re e per tutti quelli che stanno in dignità, affinché possiamo condurre una vita tranquilla e quieta con tutta pietà e onestà» (1 Tim. II, 1-2).

Alleluja

Allelúja, allelúja. Ps CX: 9 Redemptiónem misit Dóminus pópulo suo:alleluja.

[Il Signore mandò la redenzione al suo pòpolo. Allelúia.]

Luc XXIV: 46 Oportebat pati Christum, et resúrgere a mórtuis: et ita intráre in glóriam suam. Allelúja.

[Bisognava che Cristo soffrisse e risorgesse dalla morte, ed entrasse così nella sua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Joannes XVI: 16; 22

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Módicum, et jam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis ejus ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me, et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo: Quid est hoc, quod dicit: Modicum? nescímus, quid lóquitur. Cognóvit autem Jesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quaeritis inter vos, quia dixi: Modicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabíminbi, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora ejus: cum autem pepérerit púerum, jam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos igitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.”

[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre. Dissero perciò tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che significa ciò che dice: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre? Cos’è questo lopoco di cui parla? Non comprendiamo quel che dice. E conobbe Gesù che volevano interrogarlo, e disse loro: Vi chiedete tra voi perché abbia detto: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete. In verità, in verità vi dico che voi piangerete e gemerete, laddove il mondo godrà, sarete oppressi dalla tristezza, ma questa si muterà in gioia. La donna, allorché partorisce, è triste perché è giunto il suo tempo: quando poi ha dato alla luce il bambino non si ricorda più dell’affanno, a motivo della gioia perché è nato al mondo un uomo. Anche voi siete adesso nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà, e nessuno vi toglierà il vostro gàudio.]

Omelia II

 “In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Un pochettino, e non mi vedrete; e di nuovo un pochettino, e mi vedrete: perché io vo al Padre. Dissero però tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che è quello che egli ci disse: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto e mi vedrete, e me ne vo al Padre? Dicevano adunque che è questo che egli dice: Un pochetto? non intendiamo quel che egli dica. Conobbe pertanto Gesù che bramavano d’interrogarlo, e disse loro: Voi andate investigando tra di voi il perché io abbia detto: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto, e mi vedrete. In verità, in verità, vi dico, che piangerete e gemerete voi, il mondo poi godrà: voi sarete in tristezza, ma la vostra tristezza si cangerà in gaudio. La donna, allorché partorisce, è in tristezza, perché è giunto il suo tempo, quando poi ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’affanno a motivo dell’allegrezza, perché è nato al mondo un uomo. E voi dunque siete pur adesso in tristezza; ma vi vedrò di bel nuovo, e gioirà il vostro cuore, e nessuno vi torrà il vostro gaudio”. (Jo. XVI, 16-22).

[M. Billot, Discorsi parrocchiali, II ediz. S. Cioffi ed. Napoli, 1840 – impr. ]

Sulle tribolazioni.

“Plorabitis et flebitis vos, mundus autem gaudebit, vos autem contristabimini, sed tristitia vestra vertetur in gaudium.” (Jo. XVI).

Chi avrebbe mai pensato, fratelli miei, che i pianti, le croci, le afflizioni esser dovessero la sorte degli eletti, mentre l’allegrezza, le prosperità, toccar dovrebbero ai seguaci del mondo? – Eppure è questa una verità da Gesù Cristo medesimo pronunziata, che gli Apostoli e i servi di Dio aspettare debbonsi di dover passare la lor vita nella tristezza e nelle tribolazioni: verità che, siccome agli Apostoli, a tutti i Cristiani ancora porge motivo grandissimo di consolazione, giacché i lor pianti e la lor tristezza debbono cangiarsi in allegrezza, che non avrà fine giammai: “tristitia vestra vertetur in gaudium”. – Consolatevi dunque, anzi rallegratevi, o voi che passate i vostri giorni nei pianti e nell’afflizione; lasciate pure l’allegrezze agli amatori del secolo, non invidiate punto la lor funesta prosperità, che cangerassi in eterna tristezza; lasciate che si lamenti e mormori chi non ha speranza: ma voi che non cercate la vostra felicità sulla terra, e che aspirate ad una beatitudine più verace, più perfetta che questa non è, stimatevi fortunati nelle afflizioni, tesoro molto più pregevole di tutte le ricchezze della terra; preferitele a tutti i piaceri che può presentarvi il mondo, in vista dei grandi vantaggi ch’esse vi apportano. – E di fatti, fratelli miei, o siete peccatori, o siete giusti: se peccatori, le tribolazioni vi ritrarranno dal peccato; se giusti, perfetta renderanno la vostra virtù. la due parole: vantaggi delle tribolazioni per li peccatori, primo punto. Vantaggi delle tribolazioni per il giusto … secondo punto.

I. Punto. Incominciare la vita nelle lagrime, passarla nelle afflizioni, terminarla nei dolori ecco, fratelli miei, la sorte dell’uomo sulla terra; per qualunque verso si miri, la vita, benché lievissima, è ripiena di molte miserie, dice il santo Giobbe, repletur multis miseriis. Alcuno non va esente dalle croci, neppure coloro che più beati ci sembrano; soffre sul trono il re, come il povero nella sua capanna; hanno le ricchezze le loro spine, come la povertà le sue amarezze; non consiste dunque la felicità dell’uomo sulla terra nell’essere esente dalle tribolazioni, ma bensì nel farne buon uso. Ora esse sono di grande vantaggio ai peccatori perché vivono meravigliosamente a ritirarli dal peccato e ad espiare la pena al peccato dovuta: due circostanze che muovere debbono i peccatori a profittarne. Voi vi credete, o peccatori, oggetto dell’odio e dell’ira di Dio, quando il braccio della sua giustizia vi fa sentire il peso delle tribolazioni; se si ha riguardo ai peccati da voi commessi, avete ragione, ma se noi miriamo il fine che Dio si prefigge, dovete riguardarle, non come effetti del suo sdegno, ma come segni del suo amore verso di voi. Egli vi tratta come un buon padre che castiga i suoi figliuoli, non per odio che lor porti, ma per desiderio ch’egli ha di correggerli: Quem Deus diligit, castigat (Hebr. XII). E veramente che cosa può trovarsi di più efficace delle afflizioni per far ravvedere il peccatore? Tanto che egli gusta la dolcezza delle prosperità e sta in mezzo alle delizie ed ai piaceri, dimentica il suo Dio, dimentica se stesso; il suo cuore ripieno dell’amore delle creature, è vuoto dell’amor di Dio; non pensa nemmeno al culto e all’omaggio ch’egli deve al suo Creatore: dimentica se stesso, incantato dalle lusinghe dei piaceri, ed è insensibile sul misero stato in cui è stata ridotta dal peccato l’anima sua. Gode egli di una sanità perfetta? Se ne serve per abbandonarsi ad ogni sorta di eccessi. È egli fornito di beni doviziosamente? Egli è prodigo o avaro. Prodigo,  se ne serve per appagare le sue sregolate passioni, a cui per lo più serve di alimento la prosperità. Avaro, altra cura non ha che di accumular beni ed aumentarli. Si vede egli circondato di gloria e di onori o sopra degli altri in condizione elevata? Gonfio d’orgoglio, non ha che sentimenti di disprezzo per gl’inferiori. Tutto occupato da mire ambiziose che l’amor proprio gl’inspira, ad altro non pensa fuorché ai mezzi di trarle ad effetto: segue il torrente delle sue passioni, perde di vista l’eternità e vive, in una parola, come se morir non dovesse giammai, e corre in questa maniera al precipizio con la benda sugli occhi, senza sapere dove finalmente deve terminar il suo corso. – Che farà Iddio allora per arrestare il peccatore e trarlo da sì misero stato? Farà Egli splendere agli occhi di lui un raggio della sua grazia, per dargli a conoscere il nulla delle cose create? Ah! non ha egli già ricevute infinite grazie, alle quali fu sempre ritroso? Infinite ispirazioni alle quali fu sempre sordo e insensibile? Invierà forse Iddio a questo peccatore qualche zelante ministro della sua divina parola, per annunziargli le verità di salute? Ovvero gli susciterà qualche amico fedele, il quale si sforzi con salutevoli avvisi di farlo rientrare sulla buona strada? Ma e quante volte ha udite queste verità senza che l’abbian punto commosso? Quante volte ha avuti amorevoli avvertimenti senza che ne abbia fatta stima veruna? Se Dio gli facesse intendere ancor la voce d’un morto, se operasse miracoli per convertirlo, sordo si rimarrebbe a tal voce ed insensibile a qualunque prodigio. Che farà dunque per guarirlo il Signore? Egli farà, fratelli miei, ciò che già fece per render la vista a Tobia; si servì del fiele d’un pesce applicato sugli occhi. Il Signore si servirà dell’amarezza delle tribolazioni per aprire gli occhi a questo peccatore e trar la sua anima dal fatale attaccamento in cui si trova. Egli lo priverà di quella robustezza di cui s’abusava e lo ridurrà in un letto. Toglierà a quel ricco i beni di cui male si serviva e lo renderà bisognoso; getterà a terra quel superbo elevato qual cedro del Libano, e di confusione lo coprirà e d’obbrobrio. Farà perdere a quella donna la sua funesta bellezza, cagione fatale della sua rovina, e dell’altrui cuore peste e veleno. Toglierà a questo quel parente, quell’amico, quel grande del mondo in cui si affidava: a quell’altro torrà quella creatura che era l’oggetto della sua passione, a quel padre, a quella madre, il figliuolo, oggetto d’un disordinato ed eccessivo amore. – Che farà il peccatore in tal guisa umiliato ed oppresso sotto il peso della croce? Ricorrerà alle creature per trovar sollievo alle sue pene? Ma l’avversità gli ha fatto conoscere il nulla d’ogni cosa creata: come potrebbe ancora appoggiarsi su deboli canne che si sono spezzate tra le sue mani? Abbandonato dalle sue creature, sulle quali non può aver fidanza, sarà, per cosi dire, sforzato a ricorrere al Creatore. Allora questo peccatore, aprendo gli occhi sull’infelice suo stato rientrerà in se stesso. Questo figliuol prodigo a cui la prosperità aveva fatto abbandonare un ottimo padre tornerà a soggettarsi al gioco che aveva scosso. Quel peccatore privato della sanità, e ridotto in uno stato di languidezza, s’avvedrà d’essere mortale, e vedendosi al fine della sua vita, sul punto di dover presentarsi avanti a Dio, provvederà alla sua coscienza con una pronta conversione sincera: spogliato dei beni, oppresso dalla povertà, non avendo più onde appagar le sue passioni, nella virtù sola cercherà la sua felicità. Quella donna, quella giovine, perdute le grazie di cui la natura l’aveva fornita, prenderà il partito del ritiro, non oserà più comparire nelle adunanze di cui era il più bell’ornamento, ed eviterà così tanti peccati che commetteva e faceva commettere altrui. Quell’uomo a cui la morte ha tolto l’idolo della sua passione, rivolgerà il suo cuore ad oggetto più degno del suo affetto. Questi, abbandonato dal parente, dall’amico, rigettato da quel grande del mondo a cui s’appoggiava, riconoscerà che in Dio solo, e non già in un braccio di carne, ripor deve la sua speranza. In una parola, istruito dall’avversità, il peccatore benedirà il Signore mille volte di averlo messo nella felice necessità di dover ritornare a Lui e fedelmente servirlo. Dirà col profeta reale: Oh quanto mi giova, o Signore, l’avermi umiliato, perché ho quindi imparato ad osservare la vostra santa legge: Bonum mihi quia humiliasti me, ut discam iustificationes tuas (Ps. CXVIII). – Mi allontanai da voi con le mie dissolutezze, e voi col flagello in mano per castigarmi mi avete fatto ravvedere. Castigasti me et eruditus sum (Jerem. XXXII). Mi avete indotto a ritornare a voi con una penitenza sincera. Postquam convertisti me, egi pœnitentiam (Ibid.). O preziose afflizioni, quanto vantaggio apportate a chi vi riceve dalle mani di Dio con rassegnazione! Potrei addurvi, fratelli miei, molti esempi per provarvi quel che asserisco: ma non voglio altri testimoni che voi medesimi. – Quando fu che voi vi disgustaste del mondo e delle creature? Quando siete stati da questi abbandonati, o dal mondo traditi. Quando fu che pensaste seriamente all’affare di vostra salute? Quando l’avversità vi distaccò dai beni terreni. Nell’abbondanza ad altro non pensavate fuorché a tesoreggiar sulla terra: ma ridotti a povertà pensaste soltanto ad arricchirvi pel cielo. Finalmente quando fu che risolveste efficacemente di convertirvi? Quando privi della sanità e inchiodati su d’un letto di dolore sentiste avvicinarsi la morte. Allora, colti del timore dei severi giudizi di Dio, prendeste le vostre misure per riacquistar la sua grazia; e i sacramenti ricercaste, cui se foste stati sani, non avreste ricevuto giammai. E infatti, quante volte il Signore con l’affliggervi vi sforzò a pensare a Lui, per trovare nel paterno suo cuore un alleggerimento ai vostri mali? Allorché la siccità rendé sterili le vostre campagne o le tempeste le desolarono, o tanti altri sinistri accidenti vi colpirono, la divina provvidenza, che regolava questi vari avvenimenti, vi ha messi nella felice necessità di ricorrere al Signore, il che non avreste fatto, se ogni cosa vi fosse andata a seconda. Quanti peccati avreste commessi se Dio non vi toglieva, per così dire le armi di mano, privandovi di quelle ricchezze, che a giudizio del mondo rendono felici chi le possiede, ma sono avanti a Dio di mille peccati cagione? Ah! fratelli miei, noi vediamo che, non ostante le calamità dei tempi, non ostante i castighi con cui Dio affligge i popoli, regna tuttora tra di loro il vizio: che ne sarebbe se Iddio, propizio ai loro desideri, li colmasse di prosperità? Sarebbero per la maggior parte altrettanti orgogliosi, come addivenire vediamo bene spesso che assai diversi sono gli uomini tra le prosperità da quel che nella miseria sarebbero. Non vogliate dunque attribuire le vostre disgrazie, fratelli miei, né ai capricci della fortuna né alla malignità dei vostri nemici, ma adorate la mano di Dio che vi sforza, e che si serve delle afflizioni per farvi ritornare a Lui. Egli fa, dice s. Gregorio, come un medico, che non perdona a ferro né a fuoco per una piaga che vuol guarire; che recide un membro corrotto e cancrenato, per timore che il male non prenda tutta la vita. Così Dio con l’amarezza delle tribolazioni vi preserva dal veleno della prosperità, capace a darvi facilmente la morte, essendo accompagnato da un’apparente dolcezza che ne copre la malignità. Egli fa con voi eziandio, dice s. Giovanni Crisostomo, come l’artefice, che mette l’oro nel crogiuolo per farne vasi preziosi: o come colui che taglia con lo scalpello le pietre per collocarle al luogo destinato: nella stessa maniera il Signore vi mette nel crogiuolo dell’afflizione, perché di vasi d’ignominia che eravate vuol farne vasi d’onore e di gloria, come dice l’Apostolo; vi percuote col martello delle tribolazioni per darvi la figura di pietre preziose per alzar l’edificio della celeste Gerusalemme, cioè riempire le sedie che lor sono destinate nel cielo: Scalpri salubris ictibus et tunsione plurima fabri polita malleo hanc saxa molem construunt etc. (Santa Chiesa nell’inno della Ded.). – Felici voi, fratelli miei, se riceverete le tribolazioni secondo le mire della provvidenza: se, invece d’indurirvi sotto il martello, riceverete le impressioni che Dio vuol darvi per operare in voi un sincero cambiamento di costumi e di condotta, che è il frutto che dovete cavarne, e voi troverete ancora nelle afflizioni onde soddisfar possiate a Dio per le pene ai vostri peccati dovuta. – E di fatti non v’è alcuno tra di voi che, per peccati da sé commessi, non sia debitore alla divina giustizia. Non v’ha alcuno cui non possa dirsi come a quei debitori del Vangelo: Quantum debes? Quanto dovete? Di quanta soddisfazione siete debitore, per tante empietà, per tanta irreligione, per tante profanazioni, vendette, mormorazioni, disonestà, intemperanze, per tanto sdegno e odio che nutriste? Quantum debes? Ah! che sarebbe di voi, se Dio vi avesse castigato come avete meritato? Voglio accordarvi che abbiate già fatti gli sforzi necessari per rientrare nella sua grazia, e ottenere alle vostre colpe il perdono: ma, oltre che voi non sapete se questo tal perdono vi è stato veramente dato, non vi resta egli ancora dopo il peccato perdonato una pena che in questo mondo oppure nell’altro dovete espiare; in questa coi patimenti, nell’altra con le fiamme del purgatorio? Iddio vi dà la scelta di queste due pene, o per meglio dire, queste pene del purgatorio rigorosissime e spesso di lunga durata e che sorpassano di gran lunga qualunque più atroce pena che possa in questa vita soffrirsi, vi sono da lui cangiate in patimenti leggieri e che durano sol pochi momenti; non si potrebbe egli dire con ragione che voi siete nemici di voi medesimi, se non profittaste di così facile mezzo per soddisfare alla divina giustizia? Chi è tra di voi che, carico di grossi debiti, ricusasse di liberarsene con qualche piccola somma che gli fosse domandata? Qual reo dannato a morte non si stimerebbe fortunato di poter riscattare la vita con alcune ore di prigionia? Ora Iddio vuol rimettervi debiti molto maggiori per pochi momenti di pene: come potreste voi dubitare di secondare le sue mire? Alcune gocciole di questo fiele possono estinguere tutta la forza delle fiamme divoratrici che avete meritato: ah! Potrete voi ricusare di bere nel calice della misericordia per non dover poi bere tutto il calice amaro che la sua giustizia vi prepara a luogo dei tormenti? Voi ci chiedete talvolta qual soddisfazione possiate offrir a Dio per i peccati da voi commessi. I ministri del Signore sono talora in dubbio su di quella che sia d’uopo d’imporvi; voi non potete far limosine, poiché la povertà ve lo vieta; non potete digiunare, mortificarvi, a cagione, come ci dite, delle vostre infermità, dei vostri lavori: la bontà del Signore con le tribolazioni vi provvede di un mezzo facile per soddisfare alla sua giustizia purché le riceviate con rassegnazione: è questa una penitenza sommamente salutevole, appunto perché viene da Dio prescelta: Egli vi conosce troppo delicati nel punirvi da voi medesimi, e perciò non lascia a voi la cura di soddisfare alla sua giustizia; prende Egli medesimo il flagello in mano per fare a se stesso riparazione delle ingiurie che gli avete fatto. Ma, come la sua mano che vi percuote è guidata dall’amore, nel punirvi ha riguardo alla vostra debolezza e non vi manda se non quelle croci che potete portare, egli è dunque necessario accettarle, se volete pagare i vostri debiti, e tanto più perché vi convien fare della necessità virtù, imperciocché voi avete bel fare, per amore o per forza convien soffrire; le croci sono inevitabili; quantunque facciate tutto il possibile per fuggirle, vi seguiranno dappertutto; il miglior partito egli è di pazientemente portarle; e non solamente non diverranno più gravi, ma la pazienza per lo contrario ne alleggerirà il peso e ne raddolcirà l’amarezza. Ma la maggior parte degli uomini profittano forse in questa guisa delle afflizioni? Ah! Essi le hanno in orrore: e mentre gli Apostoli erano ripieni d’allegrezza in mezzo ai patimenti, si sforzano i cattivi Cristiani, per quanto possono, di scuoterne il giogo: benché sappiano che per essere discepoli di Gesù Cristo fa d’uopo di portare la croce, si danno all’impazienza, e van mormorando contro la provvidenza qualora alcuna cosa sono astretti a soffrire. Quindi che ne avviene? la loro croce diventa più grave, si affannano inutilmente per sgravarsene: e se per avventura da qualcheduna riescono di liberarsi, un’altra maggiore ne trovavano che non vogliono in alcun conto portare. E invece di sgravarsi dei lor debiti, altri maggiori ne fanno, cangiano il rimedio in veleno: irritano vieppiù la giustizia di Dio invece di placarla; e a guisa del malvagio ladrone, piombano dalla croce all’inferno mentre per lo contrario al buon ladrone servì la croce di scala per salire al cielo. – Sta nelle vostre mani, fratelli miei, il servirvi della croce santamente, come il buon ladrone: Iddio vi dà questo tesoro per pagare i debiti vostri e comperarvi il suo regno: non è necessario che voi abbandoniate il vostro stato e la casa per trovare questo tesoro: ad ogni passo che facciate potete rinvenirlo. Nascono le croci in ogni luogo, in ogni stagione le incontrate in quella povertà a cui vi siete ridotti; nelle malattie, nelle disgrazie che vi accadono, nel rovesciamento di fortuna, che vi affligge, nella persecuzione di quei nemici; nell’abbandono di quell’amico; nel rifiuto di quel grande del secolo, nel disprezzo, che si ha di voi; in quella umiliazione, in quei colpi che macchiano la riputazione; nella perdita di un figliuolo, d’un parente, a voi così caro; nel cattivo umore di quel marito, di quella moglie, di quelle persone, con cui siete costretto a convivere; nel carattere malvagio di quei figli; nella rusticità di quei servi; nella severità di quei padroni; in una parola, voi troverete croci in tutte le afflizioni annesse al vostro stato; altro non si ricerca di accettarle con rassegnazione, e offrirle a Dio in soddisfazione delle colpe vostre. Se la vostra sommissione in queste occasioni è sincera, i vostri debiti sono pagati, il cielo è vostro. Tutto deve cedere a queste riflessione: se per altro aveste ancora qualche ripugnanza a portare la croce, ah! Fratelli miei, per , scendete in spirito nell’inferno, e mirate ciò che vi soffrireste, se Iddio vi avesse trattati come meritavate; allora, lungi dal lamentarvi, benedirete mille volte il Signore, lo ringrazierete della sua benignità nell’avere cangiati in leggiere tribolazioni brevissime gli eterni supplizi che vi erano destinati. Questo sol pensiero, io ho meritato l’inferno. è capace di far cessare i lamenti di natura troppo sensibile, e avversa ai patimenti, anzi è bastante a farceli amare. Ora, giacché conoscete, o peccatori, quanto vantaggioso vi sia il soffrire per Gesù Cristo, sopportate pazientemente le pene di questa vita servitevene per convertirvi a Dio e per soddisfare alla sua giustizia per i vostri peccati, e siate certi che dopo essere stati purificati col fuoco della tribolazione, meriterete di entrare nel regno delle eterne delizie dove più non avrete cosa alcuna a soffrire. Vediamo ora il vantaggio delle tribolazioni per li giusti. Secondo punto.

SECONDO PUNTO

Expedit vobis, ut ego vadam. Joan. XVI.

Egli era espediente per gli Apostoli che il Salvator del mondo da loro si separasse, perché il loro attaccamento alla sua presenza era un ostacolo alle grazie che loro doveva con la sua veduta infondere lo Spirito Santo: nella stessa guisa Egli è espediente per i giusti che Dio li privi delle sue consolazioni, e li provi con l’afflizione.

II. Punto. I beni, i mali di questa vita, e tutte le cose contribuiscono al vantaggio di coloro che amano Dio, dice l’Apostolo. I beni per il buon uso ch’essi ne fanno, e i mali, per la pazienza con cui li sopportano: ma nelle afflizioni principalmente trovano i giusti sicuri mezzi e insieme contrassegni certissimi della loro predestinazione. Le afflizioni nutriscono la fede dei giusti, fortificano la speranza, e la loro carità rendono perfetta. Ecco i vaneggi che apportano all’uomo giusto. La fede c’insegna che noi dobbiamo mirare il cielo come nostra patria e riguardarci in questo mondo, dice s. Pietro, come in una terra straniera. Ora nulla può trovarsi, che sia più valevole a conservarci in questi buoni sentimenti che le tribolazioni. Infatti, fratelli miei, per poco che si rifletta a ciòche accade in questo mondo, noi vediamo che i giusti non sempre dei beni di fortuna si trovano forniti mentre all’empio circondato di gloria e di onore va tutto a seconda, il giusto nell’oscurità geme nell’umiliazione: Dum superbit impius, incenditur pauper (Ps. IX). Spesso ancora è la sua probità disprezzata dai peccatori, e schernita. Ora egli è afflitto da perdite, ora da malattie, oggi perseguitato dai nemici; domani dagli amici tradito, e pochi son quei giorni che da qualche tribolazione non siano segnati, e si può accertare che nelle vicende di beni e di mali che riempiono la vita degli uomini, i mali che si soffrono, sorpassano di gran lunga per la loro gravezza e durata i beni e i piaceri che si posson godere. Or ecco ciò che insegna al giusto a riguardarsi sulla terra come in un luogo d’esilio, impercioché in questa maniera deve portarlo a ragionare la fede. Io sono certo che v’ha un Dio rimuneratore delle opere buone, che non le ricompensa su questa terra tutta ripiena di triboli e di spine; non è dunque in questo mondo il mio regno; un’altra più verace felicità mi è riserbata nel cielo, dove Iddio dà il premio dovuto alla virtù. – Quindi ne proviene quel distacco dal mondo che sente nascersi nel cuore il giusto tra le afflizioni: quindi quegli ardenti suoi desideri e sospiri verso il cielo, sua patria diletta. E invero come potrebbe egli porre affetto ad un mondo, il quale altro che miseria non germoglia ed afflizione di spirito: ad un mondo., in cui un bene verace, un puro piacere, un durevole riposo non si può rinvenire? Come non sospirerà verso un soggiorno in cui nulla di più dovrà soffrire, in cui senza male di sorta alcuna, la pienezza godrà d’ogni bene? Questo deve , fratelli miei, farci conoscere la sapienza e la bontà di Dio nelle tribolazioni ch’Egli ci invia. Egli conosce l’inclinazione nostra per gli oggetti creati e sensibili; vede che il grande attacco che abbiamo ad essi allorché li possediamo, ci fa perdere di mira i beni eterni; e ci espone eziandio a perdere la fede che dobbiamo avere, imperciocché colui che gode di una prosperità non interrotta, ebbro ed incantato dai piaceri dei sensi, più non trova alcun gusto nelle cose di Dio. Animalis homo non percepii ea quæ sunt Spiritus Dei (1 Cor.2). E perciò Egli allontana da noi quegli incantevoli oggetti, ci priva dei beni; permette quella disgrazia d’un grande del secolo, quell’abbandono d’un amico, la persecuzione d’un malevole; amareggia i nostri piaceri con salutevoli afflizioni, onde siamo astretti a rivolgerci verso i veri beni. E non avete voi fatto di ciò l’esperienza più volte? Quando ogni cosa andò a seconda dei vostri desideri, voi perdeste di vista le verità della fede: ma quando il Signore fece sentirvi il peso del suo braccio, allora comprendeste che fuori dei piaceri che in cielo si godono, niun altro è degno del nostro affetto: si ravvivò allora la vostra fede, talché maggiore non era stata giammai. E non vediamo noi di questo giorno l’esperienza ancora in tutti gli stati? Non troviamo noi maggior fede, maggior divozione in coloro che sono nell’avversità, che in coloro i quali gustano della prosperità le dolcezze? Vedete voi forse i ricchi del secolo segnalarsi colla pratica delle virtù, con l’assiduità negli esercizi della religione? Non li udite voi per lo contrario combatterla spesso con frivoli discorsi, con empi ragionamenti? Siccome questa religione li incomoda e li molesta nei loro piaceri, vorrebbero che non ve ne fosse alcuna: e perciò si sforzano di estinguere la luce, per camminare nelle tenebre dell’iniquità: ma facciano quanto potranno, questa fede non può nella loro mente in tale maniera oscurarsi, che non faccia splendervi qualche luminosa verità che li conturbi in mezzo ancora ai loro piaceri. Per lo contrario il giusto nelle afflizioni, libero dalla caligine che le mal frenate passioni producono, seguita la luce della fede, osserva le sue massime, ed altra felicità non cerca fuorché quella che dalla fede gli vien proposta. Cosi le afflizioni nutriscono la fede del giusto, e fortificano inoltre la sua speranza. E infatti, fratelli miei, ella è indubitata verità nelle sante Scritture in più luoghi manifestata, che solo per la strada delle tribolazioni giunger possiamo al regno di Dio: Per multas tribulationes oportet nos intrare in regnum Dei (Act. XIV). Altri predestinati non saranno, dice l’apostolo, fuorché loro che dal Padre celeste saran trovati conformi all’immagine del suo Figliuolo. Alcuno non salirà con Gesù Cristo nella gloria, se non sarà prima con Lui salito al Calvario: Egli stesso ci assicura che chi non porta la sua croce non può essere suo discepolo: felice dunque colui che è partecipe dei patimenti dell’Uomo-Dio, imperciocché deve quindi sperare di regnare nel Cielo con Lui: Si sustinebimus, et conregnabimus (2Tim. 2). Questa è la strada che tennero i santi tutti per arrivare al regno di Dio: e testimoni ne siano quei martiri illustri, che la innaffiarono col sangue loro, dando per Gesù Cristo la vita: e quei santi Anacoreti, che dandosi ai rigori della penitenza, con le lagrime la bagnarono; essi erano tutti persuasi di ciò che dice il grande Apostolo, che le tribolazioni di questa vita produr dovevano in essi un peso immenso di gloria: Momentaneum tribulationis nostræ æternum gloriæ pondus operatur in nobis (2 Cor. IV). Ecco dunque ciò che sostiene, ciò che fortifica la speranza del giusto nelle afflizioni: egli sa che il suo Dio è fedele nelle promesse, magnifico nelle ricompense, che gli promette in premio dei suoi patimenti un regno eterno: egli sa che le croci lo rendono somigliante a un Dio paziente, che è il modello dei predestinati, sa che gli eletti, gli amici di Dio sono stati provati col fuoco della tribolazione e che solo dopo queste prove sono stati trovati da Dio degni di Lui: egli può dunque essere sicuro di aver con i santi una medesima sorte: s’egli soffre come essi, le sofferenze gli danno un incontrastabile dritto a quella corona che Dio promette a coloro che li amano. Ah! Fratelli miei, quanto sono consolanti pel giusto che è nelle afflizioni, questi pensieri: quanto mai ne raddolciscono l’amarezza! Ecco ciò che riempiva già d’allegrezza il grande Apostolo in tutte le sue tribolazioni: Superabundo gaudio in omni tribulatione nostra (2 Cor. VII). – Il giusto afflitto vede in mezzo a suoi dolori il cielo aperto per lui, vede la stanza a lui preparata: poco tempo ancora, dice allora seco stesso, e presto vedrò finire i miei mali, la mia afflizione si cangerà in eterna allegrezza. Ecco, o giusti che siete tribolati, il degno oggetto a cui dovete rivolgervi nelle vostre pene. Mirate, vi dirò come la madre dei Maccabei ad uno dei suoi figliuoli per incoraggiarlo nei tormenti, mirate quel bel cielo, per cui siete stati creati, gettate lo sguardo al trono di gloria che vi è preparato. Peto, nate, aspicias ad cœlum (2 Mach. VII). Ecco il termine dei vostri affanni, il fine delle vostre pene. Alla vista di questa immensità di gloria confesserete, che, come dice l’Apostolo, tutte le tribolazioni di questa vita non meritano di di essere messe in confronto della ricompensa che vi è promessa. Non sunt condignæ passiones huius temporis ad futuram gloriam quæ revelabitur in nobis (Rom.VIII). Confesserete che beati sono gli afflitti, perchè sono sulla via che al cielo conduce, e infelici al contrario stimerete coloro che nulla patiscono, e d’ogni piacer godono in questo mondo, perché sono nella strada di perdizione. Lungi dunque dal lamentarvi nelle vostre afflizioni, le stimerete come una caparra che Dio vi dà dell’eterna felicità; e tanto più perché le afflizioni, rendendo perfetta la vostra carità, sono eziandio per voi feconda sorgente di meriti e di virtù. – E invero, fratelli miei, egli è nelle tribolazioni, che la virtù si fa conoscere, si fortifica, e si perfeziona, come dice l’Apostolo. Virtus in infirmitate perficitur (2 Cor. II).Nelle tribolazioni l’amore di Dio, la pazienza, l’umiltà, tutte le virtù cristiane si fanno vedere in tutto il loro splendore. Si trovano per verità alcuni, che nella prosperità non lasciano di servir Dio, e che gli protestano, come il reale profeta, di voler essergli nell’abbondanza dei beni inviolabilmente fedeli: Ego autem dixi in abundantia mea non movebor in æternum (Ps. XXIX). Ma quanto poco si puòfar conto sopra quella virtù, che dall’avversità non è stata provata. Imperciocché se si ama Dio soltanto quando non è favorevole ai nostri desideri, ciò non sarebbe più amarlo per Lui medesimo, ma per lo contrario essere fedeli a Dio quando ancora ci affligge, perseverare costanti nel suo servizio quando parche ci abbandoni, questo sì, che può chiamarsi vero amore, amor puro e sincero: imperciocché tanto è più perfetto l’amore, quanto è più disinteressato. Ora un Cristiano che ama Dio nelle tribolazioni, dimentica i propri interessi; e si serba fedele a Dio, non per i beni che ne riceve, ma perché è infinitamente amabile; il che è effetto d’una carità perfetta. Il Cristiano tribolato può dire a Dio come il reale Profeta, Voi avete voluto, o Signore, provare il mio cuore, e conoscere il mio amore. Probasti cor meum (Ps. XVI). Voi mi faceste passare pel fuoco della tribolazione. Igne me examinasti. E non ostante ogni prova in cui mi avete posto, io non mi sono allontanato da Voi: le disgrazie, i sinistri accidenti non mi han fatto abbandonare la vostra santa legge: et non est intenta in me iniquitas. Le acque della tribolazione non han potuto estinguere il fuoco dell’amore divino di cui era infiammato il mio cuore: Aquæ multæ non potuerunt extinguere charitatem (Cant. VIII).Oh beato colui che può tenere a Dio siffatto discorso! Benché non possa alcuno in questa vita essere certo di avere per Dio un amore perfetto, si può dire nondimeno, che la pazienza nelle tribolazioni n’è una delle più sicure prove. Ed ecco, o giusti, la felice testimonianza per cui potete conoscere che amate il Signore. A questo contrassegno si sono sempre conosciuti i suoi veri amici. Testimonio ne sia il santo Giobbe, la cui virtù non comparì mai tanto bella come nella tribolazione. Non è meraviglia, diceva a Dio lo spirito tentatore, che Giobbe fedelmente vi serva, mentre il colmate di beni; ma aggravate su di lui la vostra mano, e vedrete se sarà saldo alla prova dei vostri flagelli. Iddio percosse di fatti il suo servo, ma questo santo uomo dimorando fedele a Dio nei dolori, confuse il demonio. Non vi rechi dunque meraviglia, o giusti che mi ascoltate, che di tanto in tanto Iddio vi affligga per rendere più perfetto il vostro amore: imperciocché Egli lo mette alla prova delle tribolazioni, come si mette l’oro nel crogiuolo per dargli tutta la sua bellezza. Nei vostri giorni felici, in sanità perfetta, nell’abbondanza di beni, vi pare che voi amavate di cuore il Signore, perché facevate delle buone opere: ma in una prosperità continua si sarebbe ella serbata incorrotta la vostra virtù? Una sanità sempre robusta, una fortuna sempre ridente non vi avrebbero esposti a qualche caduta in cui avreste perduti i meriti delle vostre buone opere? Inoltre non avevate nulla a temere degli inganni dell’amor proprio che le virtuose azioni suole spesso accompagnare? La vostra propria volontà non era ella la regola di vostra condotta? E per lo contrario ridotti ad uno stato di debolezza e di povertà, siete sicuri di ubbidire al voler di Dio, tanto più che essendo le afflizioni spiacevoli e contrarie alla natura, la propria volontà non v’ha parte. Allorché eravate onorati e applauditi dagli uomini, vi compiacevate delle lodi che vi eran date: ma non si doveva egli temere che ciò fosse l’unica ricompensa del vostro buon operare? Invece che ora essendo divenuti l’oggetto del loro disprezzo e dei loro scherni, avete imparato a far le vostre buone opere unicamente per piacere a Dio. Mentre gli amici andavano tutti a gara per prestarvi servigi, e dimostravansi grati ai vostri benefizi, voi forse vi contentavate, alla guisa dei farisei, di amare chi vi amava, e beneficare chi si dimostrava benefico verso di voi: ma allorché avete veduti gli uni indifferenti per voi, gli altri diventarvi nemici, e che siete stati da tutto il mondo abbandonati, voi avete innalzate le vostre virtù all’eroismo, se, come comanda il Vangelo, avete amato i nemici e renduto bene per male. Prima che l’ingiustizia vi spogliasse dei beni, che nere calunnie vi togliessero la riputazione, che foste con atroci ingiurie insultati, voi possedevate la vostr’anima in pace, attendevate alla vostra salute tranquillamente: ma che merito avevate? È forse difficile di praticar la pazienza quando non v’ è cosa alcuna a soffrire! Al contrario non è atto di perfetta ed eroica virtù esser padrone di sé stesso in mezzo agli affronti e alle ingiurie? Questo si è veramente camminar sugli esempi che Gesù-Cristo ci ha dati. Quando non provavate nel servizio di Dio che sensibili consolazioni, dicevate come s. Pietro sul Tabor: Signore, noi qui stiam pur bene. Bonum est nos hic esse. Ma quando Iddio ha ritirate le sue consolazioni, voi avete imparato a cercar piuttosto il Dio delle dolcezze che le dolcezze di Dio. Oh! quanto vantaggiose son dunque le afflizioni ai giusti per provare, purificare e perfezionare le loro virtù. Ecco, o giusti, ciò che vi deve efficacemente muovere non solo a riceverle, ma a ricercarle eziandio con ardore! Se avete ancora qualche ripugnanza, salite in spirito sul Calvario, e gettate lo sguardo sull’Autore e competitore della vostra salute, che ha portato con gaudio tutto il peso della croce, che è stato caricato d’obbrobri, che ha tutto bevuto il calice amaro della sua passione, che è stato coperto di piaghe. Ora sotto un capo coronato di spine, osereste voi portar membra delicate, e coronarvi di fiori? Paragonate i vostri con i suoi patimenti: avete voi al par di Lui resistito sino a spargere il vostro sangue? Nondum enim usque ad sanguinem restitistis (Hebr.XII). Ah! confessate piuttosto, che a paragone dei suoi sono un nulla i vostri patimenti.

Pratiche. Non abbiate dunque timore di patire, dice s. Agostino, temete piuttosto di non patire: temete di non patire abbastanza; giacché i patimenti sono vantaggiosi tanto ai peccatori che ai giusti. Se ogni cosa va a genio vostro, temete che Iddio non vi abbandoni, e che questo non sia un effetto della sua collera: temete che lasciandovi Egli tranquilli nella prosperità non vi dia la ricompensa in questa vita, e non ve ne riserbi alcuna nell’altra, in cui siccome al malvagio ricco, vi dirà voi avete ricevuto in vita i vostri beni: Recepisti bona in vita tua (Luc. XVI). – La vostra felicità è stata sulla terra, onde non potete goderla con i Santi in cielo. Questo timore vi faccia pregare instantemente il Signore, come faceva s. Agostino, che non vi risparmi, che vi flagelli in questo mondo, affinché vi perdoni nell’altro. Eie ure, hic seta, modo in æternum parcas. Se non avete coraggio bastante per andare incontro ai patimenti e ricercarli, abbiate almeno rassegnazione bastevole per ricevere quelli che Dio invia. Soffrite ciò che a Dio piacerà, e fintanto che a Lui piacerà. Le croci che il signore vi manda sono più salutevoli di quelle che sono di vostra elezione. Fa d’uopo ad imitazione di Gesù-Cristo, bere il calice che Dio vi porge, a preferenza di qualunque altro, il quale forse sarebbe ancora più amaro per voi. Calicem, quem dedit mihi pater, bibam (Jo. XVIII). Finalmente, se il Signore non ci affligge come meriteremmo, facciamo noi medesimi le parti della sua giustizia, e prendiamo le armi in mano per punirci con i rigori della penitenza. Sforziamoci, come dice l’Apostolo di compiere con la mortificazione del nostro corpo e delle nostre passioni ciò che manca ancora alla passione di Gesù-Cristo. Sopportiamo con uno spirito di penitenza tutte le pene annesse al nostro stato. Ella è un’ottima usanza di offrirle a Dio non solamente alla mattina, ma eziandio più volte al giorno. – Se ci accade qualche disgrazia, abbracciamo la croce in ispirito, e mettiamo ai piedi di questa croce i disprezzi, gli affronti, le pene che abbiamo a tollerare. Cerchiamo in Dio e non negli uomini la consolazione nelle nostre tribolazioni; e ripetiamo spesso quelle parole dell’orazione domenicale fiat voluntas tua, o quelle del santo Giobbe: Si faccia, o mio Dio, la vostra santa volontà, sia benedetto il vostro santo Nome. Rappresentiamoci Gesù-Cristo, che con la croce sulle spalle c’invita a seguirlo e a portarla con Lui; chi non si sarebbe stimato felice di poter alleggerirgli questo gravissimo peso? Noi possiamo farlo, fratelli miei, e lo facciamo ogni volta che noi accettiamo con perfetta rassegnazione le croci che la sua bontà c’invia per aprirci la strada all’eterna felicità, che vi desidero. Così sia.

Credo…

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus

Ps CXLV: 2 Lauda, anima mea, Dóminum: laudábo Dóminum in vita mea: psallam Deo meo, quámdiu ero, allelúja.

[Loda, ànima mia, il Signore: loderò il Signore per tutta la vita, inneggerò al mio Dio finché vivrò, allelúia.]

Secreta

His nobis, Dómine, mystériis conferátur, quo, terréna desidéria mitigántes, discámus amáre coeléstia.

[In virtú di questi misteri, concédici, o Signore, la grazia con la quale, mitigando i desiderii terreni, impariamo ad amare i beni celesti.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Joannes XVI: 16 Módicum, et non vidébitis me, allelúja: íterum módicum, et vidébitis me, quia vado ad Patrem, allelúja, allelúja.

[Ancora un poco e non mi vedrete più, allelúia: ancora un poco e mi vedrete, perché vado al Padre, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Sacramenta quæ súmpsimus, quæsumus, Dómine: et spirituálibus nos instáurent aliméntis, et corporálibus tueántur auxíliis.

[Fai, Te ne preghiamo, o Signore, che i sacramenti che abbiamo ricevuto ci ristòrino di spirituale alimento e ci siano di tutela per il corpo.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/13/tutta-la-messa-cattolica-momento-per-momento-1/

LO SCUDO DELLA FEDE (110)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XX.

Si risponde a quegli argomenti, per cui gli ateisti s’inducono a negare la provvidenza.

I. Legger fatica è piantare un forte, in paragone di quello che si ricerca a difenderlo bravamente. Non è però malagevole stabilire la provvidenza, posto spezialmente quel solido fondamento che la natura con mano non errante vi apparecchiò nel petto di ognuno, quando vi gettò questa massima generale, che non solamente deve riconoscersi una divinità fabbricatrice dell’universo, ma che debbesi anche invocar con preghiere assidue, pacificare con sacrifizi, placare con sommissioni, guadagnare con voti di cuor sincero, come quella che è sola a tenere in suo dominio la ruota delle nostre vicende, ed è sola a volgerla. Ciò che richiede più di vigore, è difendere una tal verità dagli assalti degli avversari. E chi sono questi? Sono quegli empi, i quali come delinquenti, troppo amerebbero, che non vi fosse un invisibile giudice, condannatore ognora, e punitore a suo tempo delle loro ancor più segrete scelleratezze. Ma lasciateli pure venire, e venire guarniti delle armi loro più forti. Che potran fare?  Troppo è gagliarda la rocca da lor tentata. Gli argomenti al tutto puerili, di cui gli audaci si vagliono in assaltarla, si sono da noi già ribattuti abbastanza nel capitolo antecedente: onde il dimorare intorno ad essi più lungamente sarebbe non appagarsi di far cadere dalla mano di un indiano la canna, con cui combatte, se non si perde il tempo a fargliela ancora in pezzi su gli occhi suoi. Miglior consiglio sarà però lo spogliarli di armi più valide, almeno nell’apparenza, cioè di quelle che talora, se non hanno voltato in fuga, han fatto almeno vacillar qualche poco il cuore in petto anche ai saggi: e sono quelle due opposizioni che vengono tosto addotte nel sindacato di ogni governo, cioè la licenza data ai costumi, e la distribuzione non giusta, sì dei premi, sì delle pene, che quivi tennesi. – Facciamoci dalla prima, con trapassare dal governante da noi difeso, alla forma di governare.

II. Senonchè innanzi di venire all’inchiesta, mi si conceda sfogare un giusto dolore, che ho finora represso a forza nell’animo, contra questi censori alteri, i quali si arrogano dar giudizio, di chi? del Giudice universale. E da quando in qua hanno gli uomini senno da raggiustare fin le bilance pubbliche in mano a Dio; da misurare que’ pesi con cui ragguaglia i meriti ed i demeriti di ciascuno; e da far pruova se l’una e l’altra coppa stia bene in perno? uomini sì meschini, che non capiscono ancora come si faccia una zanzara minuta a trombar sì forte; e poi sentenziano sulla sapienza divina, nel ripartimento che fa della fortuna prospera e dell’avversa! Formicuzze volanti, ma a loro costo, mentre, benché provvedute di ali posticce, pur si argomentano di volar tanto in su che sputino in faccia al sole, per ismorzarlo. Capi sventati, che se dovessero (come si ha per favola di Aristotile) gettarsi in qualunque fondo, ove nulla han saputo pescar di vero, troverebbon l’Euripo in ogni pozzanghera; eppur presumono di scandagliare quell’oceano profondo di sapienza e di santità, che è chiamato l’investigabile, e trovar da correggere, da alterare, da aggiungere a quelle massime che la provvidenza ha fermate sino ab eterno nel governarci. – Su, andate prima a fabbricarvi un altro mondo anche voi: chiamatelo dal nulla con voce tale, che fin di là vi risponda: formatelo senza aiuti. fermatelo senza appoggi, movetelo sempre in giro senza fatica, e poi venite a disputare con quel Signore di cui vi tenete più dotti. Avendo con gran facondia Gorgia oratore proposti i modi da racquetare il popolo d’Atene tumultuante, fu deriso da tutti per questo solo, perché vi fu chi, dopo lui, sorto in piedi: Guardate, disse, se è buono a mettere pace in sì gran città chi non avendo in casa più che due donne, la massaia e la moglie non sa far sì, che non facciano sempre a’ capelli insieme. Ma forse che l’istesso non si può dir di questi arroganti? Non sanno in casa loro ciò che sia legge, e poi vogliono darla sull’universo, e darla ad un Dio che ha per diritto, esser tenuto giustissimo ancora quando viene a far ciò che agli uomini par più ingiusto. Non dubitandum est, esse iustum, etiam quando facit quod hominibus videtur iniustum (S. Aug. 1. sent. sent. 300). Non confondiamo però tanto lungamente questi frenetici, che ci dimentichiam di curarli: seppure il confonderli non è già buona parte della lor cura.

III. Adunque la prima cosa che si opponeva alla provvidenza divina, era la permissione di tanti eccessi, quanti sono quei che si veggono alla giornata, quasi che, inchinandosi il sommo Bene a regolare gli affari dell’universo, non debbavi lasciare alcun luogo al male: non altrimenti, che se il sole scendesse in terra, non verrebbe a lasciarvi alcun luogo al gelo. Ragione di qualche apparenza a chi, come con gli occhi, così colla mente, non vede nelle cose altro più che la superficie; né trapassa ad intendere, che se il sole disceso in terra non vi lasciasse alcun gelo, farebbele un tristo prò , mentre così la manderebbe di subito a fuoco e a fiamma.

IV. Dovete però avvertire, che diversamente ha da procedere il provveditore particolare in ogni ordine d’individui, diversamente l’universale. Il provveditore particolare ha da escludere più che può qualunque difetto da ciascun di quei che gli furono dati in cura. L’universale ha da permettere qualche difetto nelle parti, per non impedire la perfezione del tutto (S. T h . 1. p. q. 22. art. 2. ad 2 ) . Ond’è che i difetti che accadono nelle cose naturali, quali sono le sterilità, le storpiature , gli abortivi, i morbi, le morti, si dicono avvenire contra la intenzione della natura particolare di quelle cose ove accadono, non contra l’intenzion della universale. Anzi questa effettivamente li vuol possibili, in quanto il danno di uno è giovamento dell’altro, e la distruzione di uno è generazione dell’altro. La morte de’ cervi è refezion de’ leoni, e la magrezza de’ campi è ricchezza de’ lavoratori. Ditemi adunque, che pretendete da Dio? che impedisca tutte le colpe? Se così è, volete dunque che Egli operi solamente qual provveditore particolare degli uomini, ma non già quale universale. E non vi accorgete, che se Dio dalla sua bontà fosse astretto non solo a proibire le colpe tutte, com’Egli fa, non solo a punirle, ma ancora ad impedirle efficacemente, non sarebbe possibile colpa alcuna (E se non fosse possibile colpa alcuna , come a noi sarebbe possibile conseguire (Se non fosse possibile la colpa, io aggiungo, sarebbe impossibile la libertà morale dell’uomo, la quale pur mentre conformasi alla legge de1 giusto e dell’onesto, ha la coscienza che potrebbe fare il contrario. Chi adunque impugna per ragion della colpa la divina Provvidenza impugna per ciò stesso la libertà umana) la felicità, almeno qual merito, qual mercede, qual corona di generoso trionfo: che è ciò che la renderà quanto più gloriosa a ciascuno, tanto più accetta? Poteva Dio nel crearci donare a tutti di subito il paradiso, chi non lo sa? ma non ha voluto. Ha voluto, che noi ce lo guadagniamo colla vittoria degli appetiti scorretti: perché avendo la beatitudine eterna, rispetto a noi, ragion di ultimo fine, dovea convenientemente esser premio della virtù (S. Th. 1. p. q. 62. art. 2. in 2).

V. E vero che Dio ha sempre ad operare da quello che Egli è, cioè da ottimo agente. Ma l’ottimo agente ha da fare ottimo il tutto, non ha da fare ottima ciascuna parte del tutto almeno semplicemente, ma solo quanto porta la proporzione che ella ha da avere col rimanente dell’opera. Onde è, che quel dipintore, il quale, sdegnate l’ombre, volesse usar soli chiari, soli cinabri, non farebbe ottima la sua tela, ma pessima. Basta che egli dell’ombre valer si sappia in prò de’ colori, il cui lume da nulla divien più commendabile, che dal fosco. In pictura lumen, non alia res magis, quam umbra commendat(Plin. 1. 1. ep. 13).E così appunto si vale Dio delle colpe. Se, nevale con accorgimento d’infinita saviezza, alzando fabbriche più sicure sulle rovine più alte da lui permesse, e formando antidoti più salutevoli dal veleno più reo. E per discendere in ciò più al particolare: due ragioni di bene riporta sempre Dio da quel male di cui parliamo: l’una riguarda Lui, ed è la sua maggior gloria; l’altra riguarda noi, ed è il nostro maggior guadagno.

VI. Ed in prima, col permettere che fa Dio gli eccessi degli empi, ne cava questa gloria meravigliosa di sopportarli. Non fu lode a Filippo re delle Spagne quel sopportar ch’egli fece senza disturbo la trascuratezza di un paggio, che invece di spander il polverino, come era chiesto, sopra una lunga lettera, dal re scritta di proprio pugno al Sommo Pontefice, vi riversò il calamaio? Parve allora, che siccome la gloria più singolare di quelle acque che stanno sopra de’ cieli è il non inquietarsi a simiglianza di quelle acque che scorrono sulla terra: così non lieve gloria fosse anche per quel monarca lo stare tanto superiore agli avvenimenti sinistri, che non se ne Turbasse, come fan le menti volgari. Eppure un tale avvenimento sinistro fu casuale. Or quale sarà dunque l’onor dovuto a quella mente divina, che mentre sugli occhi suoi tanti perversi di qualunque ora trascorrono i suoi divieti, ella li soffrirà senza alterare un punto la sua profonda tranquillità, per l’audacia da lor mostrata; e sappia accoppiare un odio sommo in proibire le malvagità dei ribaldi, e una somma placidità in tollerarle? Che dissi in tollerarle? dovevo dire anzi in vincerle fino a forza di cortesie: mentre egli a guisa del sole, in luogo di rimandar sulla terra tutti i vapori cambiati in fulmini, li rimanda cambiati in piogge, quale di refrigerio qual di ristoro: Liberalitatem iucundiorem debitor gratus, clariorem ingratus fact (Plin. In paneg.). Così ottien egli, che gli empi non di rado confusi a sì gran bontà tanto più poi si commuovano a farne stima. Che se pure ostinati al fine il costringono a rattenere la pioggia mandata indarno, e a scagliare i fulmini, vi par poca gloria del nostro Dio, che rimangano dal suo braccio atterrati questi giganti, che follemente credettero di poter dalla terra far guerra al cielo? Questi e mille altri splendori delle divine perfezioni, spettanti quali alla misericordia, quali alla giustizia, fa campeggiare Iddio nel fondo oscurissimo delle colpe ch’Egli permette, come rassettatore di esse, non come autore: Vitiorum nostrorum non auctor, sed ordinator(S. Augus. serra. 100. de divers.). E proporzionati sono altresì quei vantaggi che dalle colpe medesime a noi ministra, quasi insegnandoci a saper suggere il miele fin dall’assenzio.

VII. Dalle cadute impara l’uomo a non si fidare di se medesimo, a ricorrere con suppliche più ferventi per aiuto al Signore, a deprimersi, a dispregiarsi, a non insultare chi si scorge compagno nelle rovine, a stimar di vaneggio la forza di quel Dio, che gli dà di poter risorgere: in una parola, a vivere si guardingo per l’avvenire, che come non vi ha cavallo più veloce al corso, di quel che una volta restò morsicato dal lupo; così non vi sia talora chiponisi più velocemente all’acquisto della virtù che chi una volta fu raggirato dal vizio, e pur gli sfuggì per gran ventura dai denti già mezzo lacero (S. Aug. de Civ. Dei 1. 14. c. 13).

VIII. Né vale opporre, che il governo tra gli uomini tanto più si stima laudabile, quanto il governatore permette meno di licenza ai soggetti, e più li raffrena. Conciossiachè due notabili differenza, intervengono tra il reggimento degli uomini e quel di Dio. La prima è quell’istessa fin or notata, cioè, che Dio sa far di qualunque male una tal distillazione, che spremene un maggior bene: là dove gli uomini, perché non hanno tanta attività, né tant’arte, conviene che per reggere saviamente impediscano ad ogni lor potere quei mali, da cui la loro alchimia non sa estrarre alcun sublimato inutile dell’umana felicità. Che per ciò la podestà umana differisce ancora ne’ mezzi i quali ella adopera ad impedire le colpe. Per impedire a cagion d’esempio una rissa, comanda il principe, che i due rivali rimangano sequestrati nelle lor case. Laddove Iddio, per togliere l’omicidio, non toglie sempre la comodità di commetterlo attualmente, e sempre lascia la libertà di volerlo. Ma che? con gli avvisi della coscienza che tiene frattanto pronti e con gli aiuti della grazia, Egli stimola la medesima libertà a camminare per la via retta (sì però che ella cammini di suo buon grado), e procura di allettare a se la volontà nostra più dolcemente di quello che sappia l’ambra allettar la paglia, cioè a dire, non con aperta  forza, ma con segrete attrattive, sollecitandola ad uscire dal fango dove ella giace, ma non violentandola affinché n’esca.

IX. L’altra disparità tra il governo divino della provvidenza, e l’umano della politica, è, che il fine principale della politica è la felicità temporale della repubblica; laddove il fine principale della provvidenza è l’eterna, cioè la felicità riserbataci in paradiso. Pertanto fa bene la politica a trattenere i malvagi dalle empietà con mezzi ancora violenti, mentre tali mezzi son di necessità al conseguimento della pace pretesa da chi governa su questa terra: dove del continuo si scorge, che, come alle campagne più nuoce un eccessivo sereno, di quel che nuoce ogni turbine e ogni tempesta; così più nuoce al pubblico la soverchia condiscendenza dei comandanti, di quel che nuocegli il soverchio rigore. Ma Dio, che ha un fine senza paragone più eccelso nel governo degli uomini, deve lasciar loro la piena facoltà dell’arbitrio: non solamente perché avendola concessa loro una volta non è dovere che di poi la ritolga; ma molto più perché possano appigliarsi alla virtù di proprio talento, e così meritare per mezzo di atti liberi e laudevoli quella felicità sempiterna, che, come io dissi, egli non voleva dare in dono, ma dare in premio.

X. Pertanto questa medesima permissione di sì numerosi disordini nel mondo nostro morale, non è un cieco abbandonamento degli affari umani alla sorte, ma è un’arte di saper sopraffino, simile a quello di un esperto nocchiero, che sa navigare al porto fra venti ancora contrari, secondandoli sì, ma di tal maniera, che tuttavia gli servano al suo viaggio, con gloria tanto maggiore, che non verrebbegli dall’averli conformi.

XI. Finalmente, se Dio, come da principio notammo, ha sopra di ogni cosa da riguardare con la sua provvidenza generalissima alla perfezione del tutto, tanto più degna che la perfezion delle parti, che cercar più? Conviene dunque ch’Egli ammetta egualmente e giusti e peccatori sopra la terra, come vi ammette ragionevoli e bruti, spirituali e materiali, semplici e misti, sensitivi e insensati. Questa è la somma perfezione dell’ordine: Ad prudentem gubernatorern pertinet negligere aliquem defedimi bonitatis in parte, ut faciat augmentum bonitatis in toto(S. Th. contra gentes 1. 5. c. 70). Se non vi fosse la crudeltà de’ persecutori, non vi sarebbe la fortezza de’ martiri. – Se non vi fossero colpe, non vi sarebbe penitenza che le piangesse. Se non vi fossero colpevoli, non vi sarebbe giustizia che li punisse: e così discorrete di altre virtù segnalate, le quali, a guisa delle api, hanno per loro origine la putredine, e pure sono le artefici di un lavoro sì nobile, qual è il miele.

XII. Chi però non vede altresì la stolidità di quell’improvvido zelo, il quale amerebbe, che la pena rispondesse subito al delitto, conforme l’eco risponde subito al suono? E qual fretta v’è? Non sappiam noi quante volte padri cattivi abbiano dato al mondo figliuoli buoni, né solo buoni, ma ottimi, che poi recarono un incredibil profitto al genere umano? Tal figliuolo fu un Abramo, tale un Giobbe, tale un Giosia, tale un Ezechia, e tali più senza numero, dentro e fuori delle scritture divine. Qual meraviglia è pertanto, se in grazia loro Dio tollerasse per alcun tempo i lor padri, quantunque pessimi. Ciascuno loda quel prudente ortolano, che non vuol troncare le spine innanzi che ìndi sia spuntato lo sparago. E poi chi di noi non si troverebbe fallito già da gran tempo, se egli avesse dovuto pagar senza dilazione ciascun suo debito alla divina giustizia montata in ira? Appena vi sarebbe uomo vivo sopra la terra. Che se per la tolleranza a noi dimostrata ci teniam di ragion obbligati a Dio; perché vorremo fino accusarlo di ciò di cui lo dobbiam ringraziare ? Porse vorremmo, che fosse pietoso a noi, rigoroso ad altri? Tale appunto è la perversità de’ superbi: amare che la giustizia ponga tutte in conquasso le case altrui, e che alle loro neppur si accosti alla soglia.

XIII. E lasciamo l’impiego sì malamente usurpato di censori della divinità, e di censori che vogliono infino far da legislatori: censores divinitatts, dicentes: sic non debuit Deus, et sic magis debuit (Tertull. c. Marc. 1. 3. c. 2); e rimessi in senno, concludiamo piuttosto, che Dio con arte di provvidenza infinita tollera pazientemente finché gli piace, i rei costumi degli empi, prima per dare più di gloria al suo nome (qual eminente giocatore di scacchi, che si lascia avvedutamente prendere i pezzi, per vincere tuttavia con maggior confusion dell’avversario, mal intendente dell’arte), e poi per bene degli empi stessi, che brama cangiare in giusti tanto più splendidi sicché divenga prezioso cristallo, quel che era già vile ghiaccio. Senonchè, se tollera i tristi, li tollera per bene altresì de’ buoni, la cui virtù viene lavorata dall’aspro di quelle lime che lascia al mondo e viene illustrata al paragon di quell’ombre.

XIV. Frattanto, se Dio non castiga la malvagità di presente, non fa però, ch’ella mai vada impunita al suo tempo debito. Anzi di presente ancor la castiga senza eccezione, mentre non v’è peccatore che Egli non privi subito de’ beni interni, della sua grazia santificante, delle virtù infuse, de’ doni, e di quegli aiuti maggiori che avrebb’Egli concessi, se noi vedesse convertito in ribelle. È vero, che queste perdite, perché sono insensibili, poco cagliono agl’infelici avvezzi a non deplorare quelle rovine, che cadendo non fanno strepito. Ma oh quanto i miseri le deploreranno a suo tempo, se, abusando la divina longanimità, continueranno fino all’ultimo spirito ad irritarla! Quella piena che più lungamente fu rattenuta dall’inondare sulle loro indocili teste, sopravverrà tutta insieme con più furore.

SACRO CUORE DI GESÙ (30): IL SACRO CUORE DI GESÙ E LA SUA PASSIONE

[A. Carmignola: Il sacro Cuore di Gesù; S. E. I. Torino, 1929]

DISCORSO XXX.

Il Sacro Cuore di Gesù e la sua Passione.

Christus factus est prò nobis obediens usque ad mortem, mortem autem crucis: Gesù Cristo si è fatto per noi obbediente sino alla sua morte e morte di croce. (Filipp. II, 8) Queste poche parole di S. Paolo, che tengono un posto tanto considerevole nella liturgia della settimana Santa, esprimono concisamente, ma a meraviglia, tutto il libero eccesso di amore, a cui Gesù Cristo si abbandonò sul termine della sua vita per operare la nostra redenzione. Io dico il libero eccesso; perciocché, sebbene non manchi tra i sacri dottori chi pensi, che Gesù Cristo non era libero di riscattare il mondo che morendo sulla croce, molto più deve arriderci la sentenza di coloro i quali insegnano che Dio mandando nostro Signore a redimere il mondo lo ebbe lasciato interamente ed assolutamente libero di scegliere le vie ed i mezzi da ciò. Lo stesso S. Paolo sembra insinuare questa bella dottrina, quando dice (Hebr. XII, 2) che Gesù Cristo, autore e consumatore della fede, proposito sibi gaudio sustinuit crucem, confusione contempta; invece della vita tranquilla e gloriosa, di cui poteva godere, ha voluto soffrire e morire sulla Croce senza far caso dell’ignominia. Epperò è con ragione che S. Giovanni Grisostomo, S. Ambrogio, Ruperto, ed una folla di altri sacri commentatori asseriscono che Gesù Cristo se lo avesse voluto, avrebbe potuto soffrir nulla, e che avendo sofferto tanto sino alla morte di croce, ciò non fece altrimenti che per sua assoluta volontà, anzi per sua libera scelta. Sul momento dell’Incarnazione Iddio proponendogli di salvare gli uomini o patendo per essi o non patendo, godendo anzi ogni sorta di beni, Gesù Cristo fra questi due differenti disegni abbracciò il più sublime. Per tal modo Egli volle adempire l’opera, di cui era incaricato, in tutta la grandezza possibile e segnatamente improntarla di quel carattere che più commuove gli uomini: il disinteresse, l’obblio di se stesso, il pieno ed assoluto sacrifizio.Ed avendo scelto liberamente il disegno più eccellente e più sublime, chi dirà come lo ridusse in atto? Parlando diciò i profeti Mosè ed Elia sopra il Tabor, dice il Vangelo che lo chiamarono un eccesso. Sì – dice S. Bonaventura – con ragione quanto patì Gesù Cristo per noi fu chiamato eccesso, perché fu veramente un eccesso di dolore e di amore, da non potersi mai credere, se non fosse già avvenuto. Egli rimosse tutte le consolazioni e fece intervenire tutte le desolazioni, tutti gli obbrobri, tutti i dolori, concentrandovi tutta la sua anima, tutta la sua mente, tutto il suo cuore, tutte le sue forze! E tutto ciò prò nobis! – O caro Gesù! Qui bisogna fermarsi e cader ginocchioni adorando. Perciocché chi scruterà a fondo la grandezza dell’amor vostro in tutto ciò che avete fatto patendo e morendo per noi sulla croce? La parola amore qui non sembra più sufficiente: ne occorre qualche altra più espressiva. E questa parola, mercé di Dio, esiste; questa parola conservata dalla Chiesa è passata in uso presso al popolo cristiano; è la parola: Passione. La Passione! È il cuore che si fa schiavo di colui che esso ama, che non cerca che questo oggetto, che non vede che lui, che a lui si sacrifica e che, se abbisogna, per lui muore. O Gesù! ecco ciò che voi siete stato per l’umanità! Voi l’avete amata con passione, con la vostra Passione. – Ed ecco, o miei cari, la gran prova di amor del Cuore di Gesù per noi, che piglieremo a ricordare oggi gettando lo sguardo sopra le spine, che lo circondano e sopra la croce, che lo sormonta, quali simboli appunto della sua Passione e Morte. Questa prova ci si manifesta immensa per ogni lato, perciocché avendo avuto il suo teatro in tre luoghi principali, nel Getsemani, innanzi ai tribunali di Gerusalemme, e sul Calvario, il Cuore di Gesù in ognuno di essi si assoggettò per noi ad, un sommo abbassamento e patire.

I. — Una delle pene maggiori, a cui possa andar soggetto il cuor umano su questa terra, è quella della desolazione. L’essere gravemente afflitti, il sentire perciò un sommo bisogno di venir consolati e il non trovare alcuno che appresti un sì pietoso ufficio è senza dubbio uno dei più inesprimibili tormenti. Epperò il santo Giobbe nell’estrema infelicità, in cui era caduto, non già di questa si lamentava, ma bensì della desolazione, in cui l’aveano lasciato i suoi amici: Ecce non est auxilium mihi in me, et necessarii quoque mei recesserunt a me: (IOB. VI, 13) Ecco, che io non posso prestarmi da me alcun conforto, e i miei più intimi amici ci sono allontanati da me. Or è questa più particolarmente la pena, a cui Gesù Cristo volle assogettarsi sul principio della sua Passione, nell’orto di Getsemani. La notte è calata. È il tempo che Dio preferisce per compiere le grandi opere della sua sapienza, della sua giustizia e del suo amore. Nel cuor della notte egli ha parlato ripetutamente ai patriarchi e ai profeti; nel cuor della notte ha sterminato i primogeniti d’Egitto ed ha preservato il suo popolo da sì gran flagello; nel cuor della notte ha distrutti interi eserciti e deciso della sorte di intere nazioni; nel cuore della notte è disceso dalle sue sedi regali, si è fatto carne ed ha preso ad abitare in mezzo a noi; nel cuor della notte ha vegliato e pregato per il genere umano; e nel cuore della notte dà principio alla sua dolorosa Passione. Compiuta cogli Apostoli l’ultima cena, e data ai medesimi una delle prove supreme dell’amor suo coll’averli per la prima volta e prima di tutti comunicati della sua Carne e del suo preziosissimo Sangue, uscì con essi dal Cenacolo, passò per le vie di Gerusalemme divenute già solitarie e silenziose; traversò il torrente Cedron e si diresse alla montagna degli ulivi, ad un luogo presso il villaggio chiamato Getsemani. Quivi giunto, congedatosi dai discepoli, prese solo con se Pietro, Giacomo e Giovanni, ed entrato con questi in un orto, prese ad assoggettarsi alle sue acerbissime pene. La passione dello spavento, dell’avversione, della tristezza come torrenti impetuosi, a cui si siano rotte le dighe, si rovesciarono sopra del suo spirito affogandolo, stringendolo e martoriandolo gagliardissimamente: Cœpit pavere et toedere; (MARC., XIV, 33) cœpit contristari et mœstus esse. (MATT. XXVI, 37) Ciò che con tanta precisione era stato predetto migliaia di anni innanzi, si andava avverando. Il suo Cuore veniva oppresso dal più affannoso conturbamento, e il timor della morte lo andava sopraffacendo: Cor meum conturbatum est in me, et formido mortis cecidit super me. (Ps. LIV). Ed in vero, la sua prossima morte, e non solo la morte, ma le ignominie incredibili e gli strazi atrocissimi, onde essa sarebbe stata preceduta ed accompagnata si presentavano distintamente al suo spirito. Vedeva il tradimento di Giuda, l’abbandono de’ suoi discepoli, l’umiliante cattura, la moltitudine degli oltraggi, gli schiaffi, gli sputi, la flagellazione a sangue, la coronazione di spine, la condanna di morte, il portar della croce, la crocifissione coi chiodi, gli estremi insulti dei carnefici, la loro barbarie in negargli un sorso di acqua, l’abbandono del suo divin Padre, i dolori ineffabili della sua Madre, i suoi ultimi tormenti; tatto vedeva e tutto ad un tempo lo contristava. Cœpit pavere et tædere; cœpit contristari et mæstus esseMa non era la vista della morte soltanto con tutti gli orrori che la circondavano, che si faceva a travagliare in quegli istanti il Cuore di Gesù Cristo. Ciò che anche più lo tormentava era il peso enorme ed orribile di tutte le iniquità degli uomini, che in quel punto il suo divin Padre faceva gravitare sopra di Lui, affinché si accingesse a compierne l’espiazione: Posuit in eo iniquitatem omnium nostrum. (Is. LIII, 6). Nell’antica legge, in certi tempi dell’anno, il popolo di Dio conduceva al gran sacerdote un timido animale, sopra di cui imponeva le mani e caricava tutti i peccati di Israele cacciandolo poscia nel deserto. Ora questa impotente figura del capro emissario, è divenuta nella persona del Salvatore un’attuale ed efficace realtà. Egli che è l’innocente, il senza macchia, il segregato dai peccatori, egli che non aveva maiconosciuto il peccato, né poteva conoscerlo, per volere di Dio in quel punto, secondo l’energica espressione di S. Paolo, diventaper noi il peccato vivente: Eum, qui non noverat peccatum, prò nobis peccatum fecit. (II Cor. V, 21) Tutte le colpe dell’umanità, commesse dalla prevaricazione di Adamo sino allafine del mondo, tutte ad un tempo si fanno a pesare sull’anima sua; tutte le idolatrie, tutte le superstizioni, tutti i culti a satana, tutte le empietà, tutte le eresie, tutte le incredulità, tutti i sacrilegi, tutte le bestemmie, tutti gli spergiuri, tutte le profanazioni dei giorni festivi, tutte le ribellioni, tutte le violenze, tutti gli omicidi, tutti i ferimenti, tutti gli odi, tutte le vendette, tutti gli scandali, tutte le disonestà, tutti i furti, tutte le rapine, tutte le calunnie, tutti i pensieri e tutti i desideri malvagi, tutti insomma, tutti i delitti del genere umano. E a questo peso ingente che gravita sopra l’anima sua, chi può immaginare il tedio, l’avversione, lo spavento, la tristezza che provava? Cœpit pavere et tendere: cœpit contristare et mœstus esse.Ma ciò non à ancor tutto. Perciocché se Egli è sotto all’orribile peso di tutti i nostri peccati, e se per farne l’espiazione Egli è destinato alla morte più tormentosa, ciò non è altrimenti perché Egli spontaneamente e liberamente lo ha voluto: Oblatus est, quia ipse voluit. (Is. LIII, 7) Ma, o terribile mistero! O spaventevole visione! Non ostante la sua carità infinita, la sua generosità suprema nel mettersi al luogo di tutti gli uomini peccatori e di morire fra i più atroci tormenti per tutti salvarli, molti vi saranno che nella loro malizia renderanno inutile, anzi funesta la sua passione e morte. Gettandolo sguardo nell’avvenire Egli vede chiaramente che la sua croce riuscirà di scandalo ai Giudei e di stoltezza ai gentili; che anche dopo la sua redenzione sarà continuato sulla terra il culto dell’idolatria e si consumeranno i più nefandi delitti; che nel seno stesso della Chiesa sorgeranno uomini perversi a combattere le verità più patenti, a disseminare gli errori, a sedurre interi popoli e a staccarli dal seno di essa; che infine tra gli stessi Cristiani già fatti partecipi delle sue divine grazie e delle sue misericordie, vi saranno non pochi che ingrati e malvagi conculcheranno il suo preziosissimo sangue e andranno ancor essi irreparabilmente perduti. E a questa sconfortevolissima previsione gli occorrono alla mente le espressioni dei profeti e le va ripetendo in fondo al Cuore: Quas utilitas in sanguine meo ? (Ps.XXIX ) A che gioverà il mio sangue? Ahimè, che senza prò mi sono travagliato: In vacuum laboravi, sine causa. (Is. XLIX, 4) Mi sono esinanito sino a prendere la forma di servo, sono nato nella oscurità e nella miseria, stetti nella povertà e nei travagli fin dalla mia giovinezza, ho passato trent’anni nell’umiliazione e nel lavoro; e tutto ciò a che vale? Quæ utilitas? Ho lavorato in vano,ho lavorato invano: in vacuum laboravi, sine causa. Per tre anni di seguito sono passato tra gli uomini facendo del bene e sanando tutti, predicando la mia celeste dottrina e tollerando le fatiche dell’apostolato, vivendo dell’altrui carità, restando senza tetto e senza una pietra dove posare il capo, e soffrendo ogni sorta di disagi; e tutto ciò a che vale? Quæ utilitas? Ho lavorato invano, ho lavorato invano: in vacuum laboravi, sine causa. Ora, eccomi qui preparato agli insulti, ai flagelli, alle spine, alla croce, alla morte, eccomi muovere volenteroso incontro a tutto ciò, eppure tutto ciò a che Vale? Quæ utilitas? Ho lavorato invano, ho lavorato invano: in vacuum laboravi, sine causa. A queste riflessioni, l’affanno, lo scoraggiamento, la tristezza si fa in lui sì grave da ridursi ad un’agonia di morte; ed Egli stesso lo dice ai tre discepoli: L’anima mia è afflitta sino alla morte: Tristis est anima mea usque ad mortem. (MATT. XXIV, 38) Ma come mai, o miei cari, Gesù Cristo soffre, e soffre nell’anima sua sino alla morte? In qual modo poteva soffrire se per la unione ipostatica la sua santissima anima aveva sempre la visione di Dio, che, di legge ordinaria, porta seco la esenzione di ogni pena e il godimento di ogni beatitudine?Ah! la ragione di ciò si è, che volendo per nostro amore sottostare alla più spaventosa desolazione, con un miracolo della sua onnipotenza, con un atto sovrano della sua volontà, in quella guisa che già aveva impedito che si diffondesse nel corpo la sua superna dilettazione, per poter patire e morire, la sospese altresì nella sua anima per potere anche in essa attristarsi e dolersi. È per questo che in lui si avvera la parola del profeta: Repleta est malis anima mea: (Ps. LXXXVII) l’anima mia è ripiena di mali; è per questo che le passioni dello spavento, del tedio, della tristezza irrompono sopra di essa; è per questo che Egli con ragione esclama: Tristis est anima mea usque ad mortem. Ma in questa si grave desolazione non sembrerebbe che avrebbe dovuto almeno farsi a consolarlo il suo Padre celeste? E si è mai inteso a dire che un padre abbandoni il suo figlio e potendolo consolare nelle sue afflizioni gli ricusi questa pietà? E per altra parte non è forse il Divin Padre il Dio di ogni consolazione, che si fa a consolare gli stessi uomini in ogni loro tribolazione? Deus totius consolationis, qui consolatur nos in omni tribulatione nostra? Gesù Cristo stesso, sembra ora desiderarla, giacché staccatosi alquanto dai discepoli e gettatosi a terra ginocchioni, per tre volte così lo va pregando: Pater, si possibile est, transeat a me calix iste: (MATT. XXVI, 44) Padre, se è possibile trapassi da me questo calice! Eppure no! nemmeno il suo Divin Padre si fa a consolarlo. È ben sì vero, che spedisce a Lui un Angelo dal cielo; ma questo Angelo non viene già a rimuovere il calice della passione od a scemarne l’amarezza, ma bensì a confortarlo perché lo beva sino all’ultima stilla, essendo stato così stabilito: che non altrimenti la terra sia riconciliata col cielo, non altrimenti si compia il gran mistero della Redenzione: Apparuit illi Angelus de cœlo confortans eum: (Luc. XXII 43) Così che questa apparizione celeste tutt’altro che sminuire il suo dolore ed il suo abbattimento, glielo accrebbe per tal guisa, che cominciò da tutto il corpo a sudar vivo sangue e in tale abbondanza che questo gocciolava e scorreva per terra: Factus est sudor eius sicut guttæ sanguinis decurrentis in terram. (Luc. XXII, 44) Povero Gesù! Ma almeno, almeno, si facessero a consolarlo i tre Apostoli,Pietro, Giacomo e Giovanni? Non li aveva Egli un giorno ripieni di consolazione, sopra la vetta del Tabor? Non erano dunque in dovere di dargli un qualche ricambio? No, neppur essi prestano a Gesù questo pietoso ufficio; che anzi, mentre Egli così soffre ed agonizza a sangue, essi tutt’altro che pensare a Lui, se ne stanno a dormire placidamente, tanto che l’amoroso Signore è costretto a lamentarsene dolcemente col dir loro: E così adunque non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me? Sic non potuistis una hora vigilare mecum? (MATT. XXVI, 40) Oh abbandono! Oh desolazione! Essa fa veramente totale. E ben con ragione ha potuto dire per essa: Sustinui qui consolaretur, et non inveni: (Ps. LXVIII, 11) No, non ho trovato neppur uno che mi consolasse. Ora qui, o miei cari, fermiamoci un istante e domandiamoci: Per quali ragioni massimamente Gesù Cristo nell’orto del Getsemani ha voluto soffrire questa totale desolazione. Per tre principali: Anzi tutto per espiare quelle desolazioni,in cui noi stessi l’abbiamo lasciato. Egli pieno per noi di amore infinito si è degnato di farsi il nostro amico, il nostro confidente, il nostro compagno, e per mezzo della grazia la nostra vita. Ma noi quante volte ci siamo violentemente staccati dal suo fianco! Ed era forse per andare in una compagnia migliore della sua? Ma quale compagnia vi può essere più bella, più dolce, più onorata e più vantaggiosa di quella di Gesù. Eppure noi abbiamo lasciato di vivere con Lui e abbiamo a Lui la solitudine per entrare nella compagnia de’ suoi nemici, degli empi bestemmiatori della sua grandezza ed ella sua dottrina, cogli oltraggiatori sacrileghi della sua Chiesa, del suo Vicario, de’ suoi ministri, coi derisori superbi della sua legge e della sua misericordia! Oh insensati e maligni che fummo! E potrà essere che a questa riflessione noi vogliamo continuare a vivere insieme cogli avversari di Gesù Cristo e lasciar Lui nell’abbandono e nella desolazione? La seconda ragione per cui nel Getsemani ha voluto sottoporsi a questa pena si fu per dare il grande ed importante ammaestramento del come dobbiamo diportarci allora che nelle nostre afflizioni non riceviamo alcuna consolazione dai parenti e dagli amici e ci sembra di non riceverne neppure dallo stesso Dio. Quanto facilmente in mezzo alle nostre pene leviamo tosto la voce verso il cielo per lamentarcene e per dire talora sconsigliatamente che Iddio medesimo più non si cura di noi e ci ha abbandonati! Ma Gesù Cristo col suo esempio ci apprese che se in tali affanni, anziché lamentarci, noi dobbiamo pregare e ripetutamente pregare, giacché egli ripeté per tre volte al suo divin Padre la stessa preghiera, non dobbiamo tuttavia pretendere che Iddio si acconci alla nostra volontà, ma che invece noi dobbiamo rimetterci interamente alla sua; perciocché lo stesso Gesù Cristo dopo d’aver chiesto ripetutamente, che si allontanasse da Lui l’amaro calice, soggiunse ripetutamente: Verumtamen non mea voluntas, sed tua fiat; (Luc. XXII, 42) per altro, o Divin Padre, non si facciala mia volontà, ma la tua.In terzo luogo Gesù Cristo ha voluto sottostare a questatotale desolazione per nostro infinito amore e vantaggio. Debutidice S. Paolo – debuti per omnia fratribus similari ut misericors fieret; (Hebr. II) Egli dovette essere totalmente simile ai fratelli per diventare con essi misericordioso. Quasi che lasua sapienza infinita non lo avesse ancora persuaso abbastanza delle nostre infermità e miserie, ha voluto aggiungervi la propria esperienza, e provando così Egli stesso quanto sia doloroso nelle afflizioni l’essere da tutti abbandonati, disporsi sempre più efficacemente a sempre farsi Egli il nostro immancabile e potente consolatore. E così è realmente. Il suo Cuore Santissimo ripieno per noi di amore e di compassione sempre si commuove ad ogni nostra lagrima; epperò se tanti e tantiche menano al mondo una vita misera e travagliosa, e come il ferito di Gerico si vedono passar vicino più d’uno che non li cura, venissero ai piedi di Gesù Cristo a raccontargli le loro pene, a mostrargli le loro piaghe, che si vergognano di far conoscere al mondo, oh quale consolazione sentirebbero spargersi sul cuore afflitto. Ma intanto perché non vengono a cercare la consolazione dove si trova di fatto, vivono i giorni più desolati e più tristi quando pure non si abbandonano alla più cupa disperazione e non pongono fine alla loro vita con un esecrabile delitto! Deh! o miei cari, nelle nostre tribolazioni gettiamoci prontamente nelle braccia di Gesù Cristo, affidiamoci interamente a Lui, ed Egli, come ce ne ha fatto fede cogli stessi suoi patimenti, non mancherà di astergere pietoso le nostre lagrime.

II. Il Divin Redentore rifatto appena della totale desolazione, che lo aveva condotto sino agli spasimi dell’agonia, esce dall’Orto, ed è già vicino a lasciarsi cadere nelle mani dei peccatori. Qui è dove comincia la loro ora ed è permesso al principe delle tenebre di esercitare il suo potere; lo stesso Gesù lo disse: Hæc est hora vestra et potestas tenebrarum. (Luc. XXII, 53) Qui è dove prende ad avverarsi la parola profetica di Geremia: che il Salvatore sarebbe stato satollato di umiliazioni, di infamie e di obbrobri: Saturabitur obbrobriis. (Ger. III, 30) Lo scellerato Giuda gli viene innanzi, ed appressando le sue immonde labbra al volto di Gesù lo bacia, e con quel bacio lo tradisce. La bordaglia, che stava lì presso gli si getta addosso furente, lo lega come un vil malfattore, e coi più orribili strapazzi lo conduce in città davanti agli iniqui tribunali. Strascinato da prima innanzi ad Anna già Pontefice, ed interrogato sopra la sua dottrina, Gesù gli risponde: « I miei insegnamenti furono pubblici, e tutti i Giudei li hanno uditi. Interroga dunque costoro e sapranno dirti quello che ho insegnato. » Un vilissimo servo credendo di scorgere in questa dignitosa risposta un disprezzo verso il pontefice, si avvicina al buon Gesù, e con mano sacrilega dà uno schiaffo violento su quella faccia divina, che innamora i Santi, ed abbellisce il Paradiso. Oh certamente che alla vista di tale insulto gli Angioli del Cielo inorridirono e frementi di santo sdegno domandarono a Dio licenza di farne una pronta vendetta; ma il pazientissimo Gesù tollera l’ingiuria atroce con una divina calma, e si limita a rispondere al vile percussore: Se ho parlato male, dimostralo; se bene, perché mi batti? Quale mansuetudine! L’ex-pontefice non avendo trovato alcuna ragione per condannare Gesù eppure volendolo condannato lo mandò a Caifa suo genero e pontefice di quell’anno. Questi con un’assemblea di maligni lo condanna alla morte, sotto il pretesto che ha bestemmiato per aver detto di esser Figlio di Dio. Pronunziata la iniqua sentenza intorno alle due ore dopo la mezzanotte, il buon Gesù rimane per circa quattro ore in mano di una ciurmaglia di soldati e di servi, che ne fanno uno strazio orrendo. Quegli uomini senza cuore, collocato Gesù in mezzo di loro, fanno a gara chi più possa e meglio sappia con stomachevoli e immondi sputi imbrattargli il divin volto. A questi insulti aggiungono le percosse, le derisioni, gli scherni. Gli velano la faccia, gli bendano gli occhi con un sordido panno, e facendone come un loro trastullo lo percuotono dicendo: Indovina chi ti ha percosso. E Gesù riceve quegli sputi, coglie quelle percosse e tace. In quel luogo medesimo a quegli oltraggiatori si aggiunge a disgustare Gesù il più fervido de’ suoi Apostoli. Pietro volutosi introdurre in mezzo a quella sbirraglia mal preparato, vistosi in pericolo nega di essere stato il discepolo di Gesù, anzi giura e spergiura di non averlo mai conosciuto. Povero Gesù! Degli stessi suoi amici chi lo abbandona, chi lo nega, chi lo tradisce! Caifa e i suoi satelliti, avendo pronunziata contro di Gesù la sentenza di morte, avrebbero potuto ottenere di farlo lapidare siccome bestemmiatore. Ma una morte siffatta parve loro troppo mite ed onorevole. Quindi per l’empia brama di vederlo agonizzare e morire sopra un tronco di croce, quale un pubblico malfattore, pensarono di accusarlo presso ai Romani, e farlo condannare da loro. Pertanto fatto giorno e intorno alle sei del mattino, eglino lo conducono al tribunale di Ponzio Pilato, il quale governava la Giudea a nome dell’Imperatore di Roma, e glielo presentano come un ribelle alla civile potestà, e quale un sovvertitore del popolo ebreo contro i Romani. Pilato lo interroga ben tosto, ma dalla calma di Lui, e dalle sue risposte subito si avvede che egli non ha da fare con un ribelle, ma col più pacifico degli uomini, e perciò dice agli accusatori: « Io non trovo in Lui materia di condanna. » Saputo poscia che Gesù è Galileo e per conseguenza soggetto alla giurisdizione di Erode Antipa, lo manda a costui, che già trovavasi in Gerusalemme per cagion della Pasqua. I Giudei ne hanno piacere, perché conoscendo le barbarie di Erode sperano che lo condannerà alla morte. Intanto sono altre ingiurie, altri oltraggi e villanie, che gli fanno per istrada. Chi lo spinge, chi lo tira, chi lo percuote come un vil giumento e peggio, perché è l’odio, è la rabbia dell’inferno che li agita contro di Lui. Erode aveva più volte udito a parlare di Gesù ed era assai curioso di vederlo, non già per udirne gl’insegnamenti e approfittarne, ma per la speranza che avrebbe operato qualche miracolo alla sua presenza. Ma il re impudico, l’empio uccisore di Giovanni Battista s’ingannò. Gesù non solamente non operò miracoli, ma alle molte interrogazioni che gli fece, non rispose parola. Erode e tutta la sua corte lo trattò da stolto, e fattolo coprire con una veste bianca il rimandò a Pilato. La sapienza eterna trattata da pazzo! Quale obbrobrio! Ma eccone altri assai maggiori. Pilato avendo saputo che l’unico delitto dell’innocente Gesù era l’invidia dei Giudei contro di Lui, voleva liberarlo dalle loro mani, o almeno dalla morte. Ma debole e senza carattere qual era, non osando fare ciò con un atto di coraggio e coll’uso di tutta la sua autorità, venne in pensiero di riuscire nel suo intento col saziare in parte la rabbia dei nemici di Gesù. Egli pertanto col suo transigere coll’ingiustizia comincia a far subire a Gesù il più ingiurioso confronto che sipossa immaginare, mettendo la sua vita a pari con quella di un facinoroso. Dovendo, secondo la consuetudine, concedere nell’occasione della Pasqua la libertà di un prigioniero, due egli ne propose alla scelta del popolo: Gesù e un certo Barabba. Sperava Pilato, che la plebe, chiamata a scegliere tra i due, non avrebbe esitato a chiedere la liberazione di Gesù, che sapeva innocente e suo benefattore. Ma intanto quale affronto per Gesù! Chi è Barabba? Un ladro, un assassino, la feccia delle prigioni. E chi è Gesù! Il Figlio di Dio, il Re della gloria, il Creatore del cielo e della terra, il Santo dei santi. Quale afflizione pel Cuore di Gesù nel vedersi posto a sì ignominioso confronto! Quale amarissima pena all’udire Pilato che dice al popolo: Quale di questi due volete voi? Chi più vi piace? Chi vi è più caro, Gesù o Barabba? – Ma non fu tutta qui l’ingiuria che gli si fece. Appena i principi dei sacerdoti e i seniori si avvidero che intenzione di Pilato era di liberare con quel mezzo Gesù, presero a subornare il popolo già raccolto sotto la loggia del pretorio, e ad eccitarlo a domandare la vita di Barabba e la morte di Gesù. Laonde quando il preside fece la proposta, la plebaglia gridò dalla piazza: Libertà a Barabba, morte a Gesù. Ohimè! che ingiustizia di un popolo inferocito! che ingratitudine di  tanti beneficati verso il loro benefattore! che insulto atroce! – Pilato ciò udito, e non sapendo a qual partito appigliarsi per mitigare quella gente furibonda, consegna ai soldati Romani Gesù, perché lo flagellino. Gli strumenti, che si usavano per questo tormento, erano flagelli armati di pungiglioni, di palline di piombo, e per lo più di ossicini di pecora, che ad ogni colpo facevano piaga. Lo strazio n’era orribile. Lo storico Eusebio, descrivendolo adoperato contro alcuni martiri, si esprime in questi termini: Tutti gli astanti inorridivano vedendoli scarnificati sino alle vene, la carne staccarsi dalle ossa, e apparire persino le interiora. A questo strazio fu dunque condannato il buon Gesù. Laonde spogliato delle sue vesti, viene legato ad una colonna, e battuto per un’ora da trenta coppie di manigoldi, che si sostituivano le une alle altre, e si animavano a vicenda alla barbara carneficina. Ohimè! già si aggiunge piaga a piaga, già i flagelli penetrando nel corpo, squarciano e strappano a pezzi la carne; già scorre il sangue da ogni parte; già di sangue sono intrisi i flagelli, di sangue è bagnata la colonna, di sangue irrigata la terra! Secondo le rivelazioni Gesù ricevette più di sei mila colpi. Chi non s’intenerisce a questa considerazione! Chi stenterà ancora a credere alla grande bontà del Cuor di Gesù? Ma dopo la orribile carneficina della flagellazione, i manigoldi istigati dal demonio e dai Giudei, che agognavano di vedere Gesù ucciso in quel tormento, osservando che aveva ancora pressoché sana una parte essenziale del corpo, cioè il capo, cercano un fascio di lunghe, acute e durissime spine, e fattone come una corona gliela pongono sopra la testa e poi con bastoni crudelmente la battono e gliela calcano dentro. Furono circa settanta spine, che si piantarono in quel capo divino; parecchie gli penetrarono fino al cervello, ed altre forato l’osso gli uscirono dalla fronte. Ohimè, quale crudele supplizio! – Ma quei barbari hanno caro di rappresentare Gesù quale re da burla, prendersi gioco di sue pene, schernirlo, insultarlo in ogni più indegna maniera. Laonde dopo avergli cinto la testa con quel doloroso diadema, gli strappano con violenza le vesti di dosso, gli pongono invece uno straccio di porpora a guisa di manto reale, e gli mettono in mano una canna in segno di scettro. Questa nuova ignominia torna dolorosissima, poiché nello spogliarsi gli si riaprono le piaghe, ricevute poc’anzi nella flagellazione, e nuovo sangue sgorga dalle sue sacrate membra. Quella ciurma indegna sfoga poscia tutta la sua crudeltà contro il divino paziente. Di Lui ride come di un folle, gli sputa in faccia, lo percuote con schiaffi, e togliendogli la canna di mano, con essa gli batte, gli calca la corona in capo. Oh! quanto è terribile l a crudeltà dei Giudei e dei pagani insieme congiurati! E quanto continua ad essere grande l’umiltà e la pazienza di Gesù! Ora Pilato, vedutolo in questo stato sì deplorabile, si argomentò di poter muovere a compassione i Giudei e liberarlo almeno dalla morte. Presolo pertanto lo conduce sopra la loggia del palazzo, e lo mostra al popolo dicendo: Ecce homo: Ecco l’uomo. Ei voleva dire: vedete come è ridotto quest’uomo, che voi accusate di aspirare alla sovranità: è finito; questo timore non vi è più. Ora che più poco gli resta di vita, lasciate che vada a morire a casa sua, e non mi obbligate a condannarlo. Ma quando Egli aspettava di strappare da quei forsennati una parola di pietà ode invece un grido di morte più violento: « Toglilo dinnanzi e mettilo in croce. Se tu non lo condanni, ti dichiari nemico di Cesare. » Pilato a queste grida del popolaccio si sente venir meno; e pel timore di essere accusato qual fautore dei ribelli presso l’imperatore Tiberio, per rispetto umano, per amore dell’impiego, tradisce la sua coscienza, e s’induce a condannare alla morte, e morte di croce il più innocente degli uomini, lo stesso Autore della vita. Non appena la sentenza della morte di Gesù fu pronunziata, i soldati si diedero tosto attorno per preparare la croce a Gesù. Verso le undici, essendo questa disposta, i carnefici strappano di dosso alla loro vittima quel lacero manto di porpora, che già si era attaccato alle ferite, e così rinnovano le piaghe, i dolori, gli spasimi con una crudeltà inaudita. Copertolo poscia delle sue vesti i manigoldi gli presentano la croce, sulla quale ha da morire, e che per maggior ignominia e strapazzo Egli deve portare sino al luogo del supplizio. Gesù mira quel legno, lo bacia, se lo stringe con compiacenza al seno; e poi sebbene già sfinito di forze, ormai esausto di sangue, e più morto che vivo, vi sottopone le spalle e in mezzo a due ladroni si avvia al Calvario. In questo stato lagrimevole Egli attraversa una parte di Gerusalemme al cospetto di quel popolo, che sei giorni prima lo aveva acclamato ed accolto come in trionfo. Quale confusione per Gesù l’essere da tutti veduto in quello stato di tanta ignominia! Quale pena al suo sensibilissimo Cuore! Ecco il grande scempio che si fece dell’onore di Gesù davanti ai tribunali di Gerusalemme! Ah che Egli fu ivi veramente il fiore del campo, flos campi, e il verme della terra, vermis et non homo, fiore e verme che da tutti sono senza alcun riguardo calpestati. Ma qui, o miei cari, sostiamo un altro istante, che è tempo, e torniamo a farci una domanda: Perché Gesù Cristo ha voluto essere cotanto vilipeso e schernito? Ah! che ciò fu massimamente per altro, che per confondere la nostra superbia e per apprenderci col più eroico esempio la santa umiltà. Quanti vi hanno, tra gli uomini, abbastanza Cristiani nel resto, che pur non sanno cedere ed umiliarsi in nulla! E credono di scusarsi col dire: Ma qui c’entra la mia stima, ci va il mio buon nome! Eh cari miei! la vera stima, il vero buon nome di un Cristiano non è altro che seguire l’umiltà di Gesù perché in tal guisa il nome esprime esattamente il fatto, e mentre sembrerà di perdere la stima presso gli uomini, si andrà acquistando sempre maggiore presso Iddio. Deh! adunque, o carissimi, risolviamoci di medicare la nostra eccessiva superbia coll’umiltà di Gesù Cristo; e se ora per essere veri Cristiani dobbiamo con lui sottostare a qualche obbrobrio, animiamoci col pensiero, che giorno verrà, in cui parteciperemo alla sua gloria.

III. – Ma se il divin Redentore nel Getsemani si sottomise massimamente ad una totale desolazione, e davanti ai tribunali di Gerusalemme ad un’infinità di obbrobri, sulla cima del Calvario volle provare gli estremi dolori. Perciocché erano bensì stati gravi tutti quelli, che già sino ad ora aveva sofferti, ma i maggiori di tutti furono i dolori della crocifissione e dell’ultima sua agonia. Era circa il mezzodì quando egli arrivava al luogo del supplizio. Ivi cadde un’ultima volta, come per prendere possesso della terra, che doveva bagnare del sangue della redenzione. Appena rialzato i Giudei gli apprestano la bevanda dei condannati. Ma, ahi ritrovato di odio infernale! Anziché dare a lui del vino forte mescolato con mirra, come solevasi cogli altri condannati, affine di farli cadere in una specie di ebbrezza e diminuire in essi il senso del dolore, gli propinano invece una bevanda composta di vino guasto e di fiele, cangiando così in una nuova pena anche questa specie di conforto. E Gesù quasi per soffrire con chi ha risentimenti tutte le pene dell’atroce martirio, gustato appena di quella bevanda, non ne volle più bere. Intanto con furiosa violenza e con immenso suo rossore viene spogliato delle proprie vesti; e qui nuovo tormento. Per la copia del sangue, per la moltitudine delle ferite le vesti si erano di nuovo attaccate al suo lacero corpo, e nello strappargliele si riaprirono un’altra volta le sue piaghe con inesprimibili dolori. – Ma è già disposta a terra la croce, e già è preparato l’altare, sopra cui ha da essere sacrificata la gran Vittima, che deve riconciliare la terra col Cielo. I carnefici comandano a Gesù di stendersi su quel legno, ed Egli ubbidiente piega le ginocchia a terra, china riverente il capo, si corica su quel duro letto di dolore e di infamia, e vi adatta il suo corpo insanguinato. Presenta poscia le mani e i piedi, e quattro manigoldi dato di piglio a grossi chiodi spuntati, con pesante martello, a furia di ripetuti colpi glieli conficcano in croce. Ed ahi! che i chiodi passano da parte a parte, facendo scorrere dalle mani a dai piedi rivi di sangue. Terminata la crocifissione si sente un grido: Leviamo in alto. Ed ecco che la croce si solleva lentamente sotto gli sforzi dei carnefici. Maria; e le pie donne stendono le braccia verso di essa come per rattenerla; ma la croce, già interamente innalzata, cade con tutto il suo peso sulla fossa scavata per riceverla. A quella scossa terribile le mani ed i piedi maggiormente si squarciano, e Gesù manda un lamentevole grido, al quale, di lontano, sul colle del tempio risponde la fanfara delle sacre trombe, che annunziano l’immolazione dell’agnello pasquale. Ma il vero Agnello, che toglie i peccati del mondo, cominciava in un mare di tormenti ad essere immolato sulla croce. Quali dolori abbia in essa sofferti, non vi ha mente umana che possa immaginarli, né lingua che valga a descriverli. Levato in alto, e sospeso a tre chiodi non ha dove poggiarsi, se non sulle squamature delle mani e dei piedi, che per il peso sempre più si dilatano. I suoi muscoli e le sue ossa si stancano ben presto di una posizione così contro natura. Il sangue continua a fluire; il cuore batte dolorosamente e la febbre, la sete, gli affanni si avvicendano per tre ore continue agli estremi insulti de’ suoi crocifissori, e colle sue parole di perdono, di pace, di conforto, di preghiera, di salute, fino a che, chinata dolcemente la testa, manda l’estremo respiro. Così adunque il divin Redentore, assoggettandosi per noi sulla croce agli estremi dolori, ci ha manifestato sino a qual punto il suo cuore Santissimo ci abbia amati. E un amore si grande, non sarà ricambiato da noi con amore? Il profeta Zaccaria parlando delle piaghe, da cui sarebbe coperto Gesù Cristo nella sua passione gli faceva dire : His plagatus sum in domo éórum, qui diligebant me: (ZAC. XIII, 6) queste piaghele ho ricevute nella casa e dalle mani di coloro, che mi dovevano amare. E noi a tutti i dolori, che Gesù ha già sofferto,vorremo aggiungere anche questo di non darci ad amarlo edi continuare a tenerlo confitto e ricoperto di piaghe sulla croce? Ah no, certamente! Gettando lo sguardo sul santoCrocifisso e leggendo ad ogni ferita, ad ogni piaga, ad ogni stilla di sangue la parola amore, risponderemo tutti e per sempre colla stessa parola.Sì, o Cuore Santissimo di Gesù, noi vi amiamo e vi vogliamo amare per tutta la vita. Noi vi amiamo e per vostro amore faremo volentieri il sacrifizio di tutti gli amori terreni.Noi vi amiamo, e per vostro amore perdoneremo volentieri a tutti i nostri nemici. Noi vi amiamo, e per vostro amore osserveremo fedelmente la vostra santa legge. Noi vi amiamo,e per vostro amore porteremo con rassegnazione la croce, che ci avete posto sulle spalle. Noi vi amiamo, e per vostro amore faremo santa la nostra anima e lavoreremo a santificare delle altre. Noi vi amiamo e per vostro amore compiremo d’ora innanzi ogni nostra opera, pronunceremo ogni nostra parola, trarremo ogni nostro respiro, daremo ogni nostro battito.Noi vi amiamo e per amor vostro vivremo e morremo,per potervi poi amare di un amore eterno. Ma voi, o Cuore Santissimo di Gesù, degnatevi di confermare quel che oggi  avete in noi operato mercé la vostra santa benedizione.

I MAGGIO: FESTA DI S. GIUSEPPE LAVORATORE

Dagli Atti del papa Pio XII

La Chiesa, madre provvidentissima di tutti, consacra massima cura nel difendere e promuovere la classe operaia, istituendo associazioni di lavoratori e sostenendole con il suo favore. Negli anni passati, inoltre, il sommo pontefice Pio XII volle che esse venissero poste sotto il validissimo patrocinio di san Giuseppe. San Giuseppe infatti, essendo padre putativo di Cristo – il quale fu pure lavoratore, anzi si tenne onorato di venir chiamato « figlio del falegname » – per i molteplici vincoli d’affetto mediante i quali era unito a Gesù, poté attingere abbondantemente quello spirito, in forza del quale il lavoro viene nobilitato ed elevato. Tutte le associazioni di lavoratori, ad imitazione di lui, devono sforzarsi perché Cristo sia sempre presente in esse, in ogni loro membro, in ogni loro famiglia, in ogni raggruppamento di operai. Precipuo fine, infatti, di queste associazioni è quello di conservare e alimentare la vita cristiana nei loro membri e di propagare più largamente il regno di Dio, soprattutto fra i componenti dello stesso ambiente di lavoro. – Lo stesso Pontefice ebbe una nuova occasione di mostrare la sollecitudine della Chiesa verso gli operai: gli fu offerta dal raduno degli operai il 1° maggio 1955, organizzato a Roma. Parlando alla folla radunata in piazza san Pietro, incoraggiò quell’associazione operaia che in questo tempo si assume il compito di difendere i lavoratori, attraverso un’adeguata formazione cristiana, dal contagio di alcune dottrine errate, che trattano argomenti sociali ed economici. Essa si impegna pure di far conoscere agli operai l’ordine prescritto da Dio, esposto ed interpretato dalla Chiesa, che riguarda i diritti e i doveri del lavoratore, affinché collaborino attivamente al bene dell’impresa, della quale devono avere la partecipazione. Prima Cristo e poi la Chiesa diffusero nel mondo quei principi operativi che servono per sempre a risolvere la questione operaia. – Pio XII, per rendere più incisivi la dignità del lavoro umano e i princìpi che la sostengono, istituì la festa di san Giuseppe artigiano, affinché fosse di esempio e di protezione a tutto il mondo del lavoro. Dal suo esempio i lavoratori devono apprendere in che modo e con quale spirito devono esercitare il loro mestiere. E così obbediranno al più antico comando di Dio, quello che ordina di sottomettere la terra, riuscendo così a ricavarne il benessere economico e i meriti per la vita eterna. Inoltre, l’oculato capofamiglia di Nazareth non mancherà nemmeno di proteggere i suoi compagni di lavoro e di rendere felici le loro famiglie. Il Papa volutamente istituì questa solennità il 1° maggio, perché questo è un giorno dedicato ai lavoratori. E si spera che un tale giorno, dedicato a san Giuseppe artigiano, da ora in poi non fomenti odio e lotte, ma, ripresentandosi ogni anno, sproni tutti ad attuare quei provvedimenti che ancora mancano alla prosperità dei cittadini; anzi, stimoli anche i governi ad amministrare ciò che è richiesto dalle giuste esigenze della vita civile. (Div. Off.)

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(A. Carmagnola: S. Giuseppe – Ragionamenti; tip. e libr. Sales. Torino, 1896)

RAGIONAMENTO XVI.

S. Giuseppe e la fiducia nella divina Provvidenza.

Se vi ha una verità che sia molto inculcata nelle sacre scritture è certamente quella che ci dice esistere la Divina Provvidenza. Nel libro dell’Ecclesiaste (V. 5) si legge: « Guardati bene dal dire dinnanzi al tuo Angelo: non vi è Provvidenza, affinché non accada che Iddio sdegnato del tuo parlare distrugga tutte le opere delle tue mani ». Nel libro della Sapienza (VI. 8) sta scritto: « Signore, tu hai fatto il piccolo ed il grande ed hai egual cura di tutti » . Salomone nel libro dei Proverbi (XVI. 23) asserisce che tutte le cose, anche quelle che si chiamano fortuite, dipendono da Dio e sono regolate dalla sua Provvidenza: « Si gettano le sorti nell’urna; ma il Signore è quegli che ne dispone » . E in cento altri passi è ripetuta questa grande verità, la quale d’altronde ci è predicata dalla stessa ragione: poiché se Iddio ha creato il mondo e gli uomini che in esso vi sono, è certo altresì che non ha abbandonato il mondo e gli uomini a sè, ma di tutto piglia amorevole cura. Eppure è questa una delle verità viemaggiormente contestata e questo grido blasfemo è quello che si va maggiormente ripetendo dagli uomini: Non vi è Provvidenza: Non est provvidentiaE qui lasciando da parte che molti mettono fuori questo grido considerando il disordine apparente che regna nel mondo per una apparente prosperità dei malvagi ed oppressione dei buoni; che molti altri lo metton fuori nell’apparente disordine che talora vi ha nelle stagioni, nei grandi avvenimenti e simili, io parlo solamente di coloro i quali sol perché non sono da Dio assecondati in tutti i loro desideri, sol perché son lasciati da Dio nello stato di infermità, sol perché Iddio non li toglie da quella condizione povera in cui si trovano e talvolta per i suoi giustissimi fini oltre al non prosperarli li lascia anche qualche poco soffrire, si levano su e più sdegnosamente di tutti gridano: No, la provvidenza non c’è: Non est provvidentia! Non c’è la provvidenza? Ebbene ci faccia vedere questa sera S. Giuseppe, quanto sia ingiusto questo grido: sì, ci faccia egli toccare conmano che la Provvidenza esiste e che la esperimentano tutti coloro che fiduciosamente, come ha fatto egli, si abbandonano in lei.

PRIMA PARTE.

La Divina Provvidenza nel grande avvenimento della fuga e della dimora in Egitto della Sacra Famiglia risplende anzitutto per la cura che si prese della medesima durante il suo viaggio. In quella medesima notte in cui S. Giuseppe ricevette dall’Angelo l’ordine di fuggire, egli colla sua Sposa e col Bambino uscì di Betlemme e die’ principio al lungo e gravosissimo viaggio. La stagione era fredda, e per maggior precauzione nel traversare la Palestina bisognava prendere le strade più abbandonate, epperò anche più incommode. Che affanno! Che pena per Maria! la quale ad ogni tronco che vede, ad ogni sterpo che tocca, ad ogni muoversi dei palmizi agitati dal vento si pensa d’essere sopraggiunta da qualche soldato di Erode. E che martirio al cuor di Giuseppe! Egli era il custode di Gesù e di Maria, il mallevadore della loro vita. Era proprio a lui, che l’Angelo aveva detto : Prendi il Bambino e la sua madre e fuggi nell’Egitto; epperò era proprio su di lui che pesava tutta la responsabilità di un tanto e sì difficile incarico. E questo  suo martirio era accresciuto ognor più dai disagi del cammino e delle sofferenze alle quali doveva andar soggetto colla sua sposa. Quanti giorni avran dovuto camminare tra vortici di sabbia, senza poter trovare una sorgente di acqua per bagnare le loro labbra! Quante volte avranno dovuto aprirsi il cammino in mezzo a cespugli intricati: quante volte trovarsi sull’orlo di scogli dirupati con grave pericolo della vita! Quante notti poi avranno dovuto posare le loro stanchissime membra sul nudo terreno! Con tutto ciò S. Giuseppe memore dell’avvertimento del reale salmìsta: Iacta super Dominum curam tuam: Getta nel seno del Signore la tua ansietà (Salm. LIV, 22), si abbandonava interamente alla Divina Provvidenza, in lei metteva ogni sua fiducia, persuaso e certo che la Divina Provvidenza durante tutto quel lungo e difficile cammino non avrebbe mai lasciato di proteggerli e specialmente Maria SS. e il Bambinello Gesù. E colui il quale riposa del tutto sulla divina Provvidenza, vive certamente all’ombra della sua protezione: Qui habitat in adiutorio Altissimi, in protectione Dei cœli commorabitur(Salm. XC. 1). Il Signore agli Ebrei che camminavano nel deserto alla conquista della terra promessa mandò una nube che di giorno li riparava dagli ardori del sole e di notte fattasi tutta luminosa li rischiarava nel viaggio; al santo Profeta Elia, che fuggiva l’ira di Gezabele, mandò un Angelo; a confortarlo nel deserto e a dargli pane ed acqua che lo resero atto a camminare per quaranta dì e quaranta notti fino al monte santo dì Dìo, Oreb; al giovane Tobia mandò un arcangelo per compagno nel viaggio di Eages, ed ai Santi Magi una stella miracolosa, perché li guidasse a Betlemme; infine il Signore medesimo promise di guidare ne’ suoi passi il giusto, che in Lui si affida, per mezzo degli Angeli e pigliarsi cura del suo viaggio, perché nulla gli accada di sinistro: Angelis suis mandavit de te, ut custodiant te in omnibus viis tuis; in manibus portabunt te, ne forte offendas ad lapidem pedem tuum(Salm. XC). Or è egli possibile che il Signore anche in questoviaggio della Sacra Famiglia non abbia fatto meravigliosamente risplendere la sua divina Provvidenza? Oh sì, senza alcun dubbio. Epperò possiamo ben ritenere quel che pensano molti Santi, che cioè durante quel viaggio gli Angeli si fecero guide visibili della Sacra Famiglia e loro difesa in mezzo ad ogni pericolo. E la vista degli Angeli doveva certamente per S. Giuseppe tornare di grandissimo conforto; benché alla fin fine il massimo conforto gli proveniva dall’avere insieme con sé quel Gesù, il quale sebben Bambino e sofferente nella sua umanità era tuttavia il Dio forte e potente. Molte sono le meraviglie che pii scrittori raccontano essere avvenute durante quel viaggio, ma lasciandole tutte da parte, perché non abbastanza provate, mi contento di accennarne una nella quale, oltre alla maggior certezza che di essa si ha per essere ammessa dagli scrittori più dotti, risplende altresì in modo particolare la divina Provvidenza. Entrando adunque la Sacra Famiglia in una folta selva, d’un tratto una frotta di uomini armati si presentò ad intercettare loro il cammino. Era una banda di ladroni, i quali solevano assalire i viandanti, e la cui fama spaventevole si estendeva molto lontano. Pensate, come a quell’incontro gelasse il sangue a Maria ed a Giuseppe. Ogni resistenza era inutile: non restava altro che sollevare gli occhi al cielo e confidare nella divina Provvidenza. Ma ecco che il capo di quei ladroni, fattosi innanzi per vedere con chi aveva a trattare, alla vista di Giuseppe sì semplice, senz’armi, dimessamente vestito in compagnia di una giovine sposa dalla quale traspariva una bellezza di paradiso, con un Bambinello che non gli pareva del mondo, si sentì commosso nel fondo del cuore; e preso di riverenza per quella famiglia che riconosceva al tutto sovrumana, ben lungi dal far loro alcun male, stese la mano a Giuseppe, ed a lui ed alla sua sposa offerse ospitalità e riposo nella sua medesima tenda. Quindi provvedutili di cibo e bevanda, nel rilasciarli volle egli stesso accompagnarli e guidarli per buon tratto di cammino. Or bene quel capo dei ladroni si chiamava Disma; e la tradizione ci dice, che trent’anni dopo fu preso dai soldati e condannato ad essere crocifisso. Fu messo in croce sul Calvario al fianco di Gesù; ed ivi veggendo le meraviglie che avvenivano durante l’agonia del Redentore, pentito sinceramente de’ suoi enormi peccati, confessò Gesù Cristo per vero Dio, lo pregò di volersi ricordare di lui, e Gesù perdonandolo gli disse: Oggi sarai meco in Paradiso. Oh quanto è ammirabile la divina Provvidenza! E quanto grande ricompensa diede il Signore ad un ladrone per un piccolo atto di carità usato verso di Gesù, di Maria e di Giuseppe. – Ma è tempo che ci rechiamo col pensiero in Egitto, dove dobbiamo immaginare essere arrivati al fine i nostri santi viaggiatori. Io non istò a questionare intorno al luogo dove si fermò ad abitare la Sacra Famiglia: dirò solo che la più probabile opinione si è che siasi fermata in un villaggio per nome Matarie presso di una città assai importante per nome Eliopoli: di fatti a Matarie si mostrano ancora presentemente ai pellegrini cristiani molte memorie della dimora che vi fecero Gesù, Maria e Giuseppe. Ma lasciando, dico, ogni cosa a tale riguardo, vengo senz’altro a parlare del modo cori cui anche qui risplendette la divina Provvidenza per la Sacra Famiglia. Certamente da principio per S. Giuseppe e per Maria la vita là dovette essere dura. Essi si trovavano là senza aver conoscenza alcuna, tra gente per nulla ospitale, che parlava una lingua diversa dalla loro, senza sapere a chi rivolgersi per aiuto. Inoltre il disagio della povertà doveva loro farsi sentire ogni giorno più, poiché se è vero che dai Santi Magi avevano ricevuto dell’oro, a quel tempo e nei bisogni della vita e nel fare altrui carità l’avevano già tutto impiegato. Ma che perciò? – Un giorno il Divin Redentore predicando alle turbe in quel celebre discorso, che fu detto della montagna, diceva loro: « Non prendetevi affanno su di quello onde alimentare la vostra vita, né di quello onde vestire il vostro corpo. Gettate lo sguardo sopra degli uccelli dell’aria, i quali non seminano e non mietono, né empiono granai; e il vostro Padre celeste li pasce. Non siete voi assai più di essi? E perché vi prendete pena pel vestito? Considerate come crescono i gigli nel campo: essi non lavorano e non filano. Eppure Io vi dico, che neppur Salomone con tutta la sua splendidezza fu mai vestito come uno di questi. Se adunque in tal modo Iddio riveste un’erba del campo, che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà molto più voi, o uomini di poca fede? Non vogliate adunque andarvi dicendo: Che cosa mangeremo e che cosa berremo? con che cosa ci vestiremo? Che tutte queste cose, di cui avete bisogno, sa benissimo il vostro Padre. Cercate adunque in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date per giunta ». (Matt. VI). Or bene, quantunque S. Giuseppe non avesse ancora intesi questi grandi insegnamenti dal labbro benedetto di Gesù, per la sua santità li aveva tuttavia già tutti scolpiti nel fondo del cuore e li metteva perfettamente in pratica. Epperò sebbene nei primi giorni della sua dimora in Egitto si trovasse in grandi angustie, non tanto per sé, quanto per la sua sposa e per Gesù, confidato in Dio che non l’avrebbe costretto a limosinare il pane, cominciò a recarsi di porta in porta a cercare lavoro, e sebbene gli toccassero molti rifiuti e fors’anche umilianti disprezzi, riuscito tuttavia a trovarne qualche poco, riprese i suoi fabbrili strumenti ed animosamente si diede alla fatica. E Maria a sua volta, valente siccome era nei lavori dell’ago e del ricamo, ancor ella ne fece ricerca ed avendone trovato, mentre non desisteva dalle cure necessarie al Bambinello Gesù, lavorava assiduamente ancor essa, occupando talvolta persino qualche parte della notte. E così con quei lavori, che certamente per la maestria singolare con cui erano fatti sia da Giuseppe, che da Maria, venivano ogni giorno più accrescendosi, ricavavano degli onesti guadagni, sufficienti a provvedersi quanto loro occorreva e pel vitto e pel vestito, e per tal modo toccavano con mano che la divina Provvidenza non lascia mai in abbandono chi in essa si confida. Che bell’esempio e che grande ammaestramento è questo per noi! Per noi, che tanto facilmente ci lamentiamo della divina Provvidenza da arrivare talvolta sino al punto di pensare che il Signore non si ricordi di noi! Ah miei cari, che insensatezza è mai la nostra in queste parole! Iddio è padre, amorosissimo padre. E come possiamo noi credere che Egli non pensi ad aiutarci nei nostri bisogni, a soccorrerci nelle nostre necessità? Un padre che ami davvero i suoi figli che cosa non è disposto a fare per non lasciar loro mancare il necessario? Si racconta che un padre, non avendo più nulla da dare ai suoi tigli, che pativano lafame, si aperse con una lama ilpetto e poi invitò i suoi figli a cibarsi del sangue che ne spicciava fuori. Ciò è per nulla incredibile quando si rifletta attentamente la forza che ha l’amore per i suoi figli nel cuore di un padre. Ora se un padre terreno farebbe tanto per i figli suoi, Iddio, Padre nostro celeste, il quale è onnipotente, tralascerà Egli di disporre le cose in modo che non abbiamo mai a mancare di ciò che strettamente ci abbisogna? Che se la sacra Scrittura attribuisce occhi a questo Dio di bontà egli è per significare che vigila del continuo sopra di noi; se gli attribuisce orecchi è per significare che ascolta sempre i nostri gemiti e le nostre preghiere, e se gli attribuisce mani è per significare che le distende misericordiosamente verso di noi per sollevarci dalle nostre miserie, dalle nostre infermità, dai bisogni nostri. No, no, Iddio non ci dimentica: « Vi porterò nelle mie braccia, dice Egli per mezzo di Isaia; vi stringerò al mio seno, vi accarezzerò sulle mie ginocchia, come una madre accarezza il suo figlio. può ella dimenticare il suo Bambino? No certamente. Ma pure se una madre arrivasse io non mi dimenticherò mai di voi ». – Oh, se fossimo ben convinti di queste verità, quanto saremmo più tranquilli e più felici. Persuasi che Dio ci ama, si ricorda di noi, pensaal nostro bene, noi riconosceremmo in ogni caso della nostra vita la sua mano benedetta; anche in mezzo alle tribolazioni crederemmo con viva fede che Iddio dispone tutto per il vero nostro bene, e che quando Egli lo creda perciò opportuno ha mille mezzi per trarcene fuori. Epperò che calma! che placidezza di spirito sarebbe mai sempre la nostra! L’anima che, ad esempio di S. Giuseppe si affida interamente nella divina Provvidenza, al pari di Lui riposa e s’addormenta soavemente tra le sue braccia, come un bambino nelle braccia di sua madre; ella prende per divisa le parole di Davide: In pace in idipsum dormiam et requiescam(Salm. IV, 9). Io riposo tranquillamente in pace, perché tutta la mia speranza è riposta nella divina provvidenza. Il Signore mi conduce e perciò niente mi mancherà (Sal. XXII); guidato dalla sua mano ed all’ombra della sua protezione io trionferò di tutti i miei nemici e non avrò timore di alcun male. La misericordia del Signore mi accompagnerà in tutti i giorni della mia vita, affinché io abiti nella casa di Lui per tutta l’eternità. Oh! facciamo di imitare San Giuseppe nella confidenza i n Dio e riconosceremo a tutta prova che anche per noi risplende la divina Provvidenza.

SECONDA PARTE

Sì, esiste la Divina Provvidenza, ma è certo che alle volte lascia di manifestarsi, massime con quelli che ne sono indegni e non si fanno ad implorarne l’aiuto. Se si vuole poter sentire la Divina Provvidenza, bisogna anzi tutto a somiglianza di S. Giuseppe rendersene degni colla santità della vita. – Vi sono taluni i quali vivono malamente, commettono sempre gravi peccati, non vanno quasi mai in chiesa, non aprono mai la bocca per dire un po’ di preghiera, se nominano il santo Nome di Dio e di Gesù Cristo non è che per bestemmiarlo, insomma non si danno mai pensiero di Dio e vivono come se Iddio non fosse, e poi quando Iddio fa loro sentire che c’è, mandando ai medesimi qualche privazione o disgrazia, allora vengono fuori a gridare: E come ci può essere la Provvidenza, se noi siamo così sventurati? Oh deliranti! E costoro che non pensano punto a Dio pretendono poi così superbamente che Iddio si prenda la più amorosa cura di loro e li preservi da ogni male? Ei conoscano anzi tutto la loro mala vita, se ne pentano sinceramente, ne chiamino a Dio perdono, si mettano con impegno a ripararla, ed allora potranno non dico pretendere, ma sperare che il Signore li tratti con maggior bontà. Ma fino a tanto che essi rimangono nella loro mala vita, lamentandosi della Divina Provvidenza, non fanno altro che aggiungere peccato a peccato e rendersi sempre più indegni degli aiuti del Signore. Ma oltreché allo studiare di rendersi degni della Divina Provvidenza, conviene altresì implorarla incessantemente da Dio, e specialmente in quelle circostanze della vita in cui se ne ha maggior bisogno. Egli è certo che S. Giuseppe in tutte le diverse necessità in cui venne a trovarsi non tralasciò mai di levare gli occhi al Cielo per pregarlo a mandargli il suo aiuto. E così dobbiamo far noi, pregare e pregare con fervore. Venire soprattutto come Giuseppe in compagnia di Gesù, di Maria, qui davanti ai loro altari e disfogar loro tutto il nostro cuore, manifestar loro tutti i nostri bisogni, fare lo stesso con San Giuseppe, ed allora quel Dio il quale ha detto: domandate e riceverete: cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto, potrà essere che non esaudisca le nostre preghiere e non ci tolga dall’infermità, dalla miseria, dalla privazione in cui ci troviamo? « Oh! chi chiede, riceve, chi cerca, trova, e a chi picchia, sarà aperto. Quando un figliuolo domanda al padre del pane, il padre gli darà forse un sasso? E se un pesce, gli darà forse invece del pesce una serpe? E se chiederà un uovo, gli darà uno scorpione? Se adunque voi, che siete cattivi, diceva Gesù Cristo stesso, sapete del bene dato a voi far parte ai vostri figliuoli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo spirito buono a coloro che glielo domandano (Luc. XI, 9 – 13) ». – Che se ad ogni modo, non ostante le nostre preghiere, il Signore sembrasse fare il sordo, e non farci sentire la sua Divina provvidenza in quel modo che piacerebbe a noi, ravviviamo la nostra fede e riconosciamo che in ciò appunto, nel lasciarci inesauditi, usa il Signore verso di noi la sua provvidenza, essendoché il non esaudirci nei nostri desideri sarà cosa sommamente utile alla salvezza dell’anima nostra. Ed allora più che mai richiamiamo alla mente la sentenza del Vangelo: Cercate innanzi tutto il regno di Dio e la sua giustizia, ed il resto vi sarà dato per giunta: quærite primum regnum Dei et iustitiam eius, et hæc omnia adiicientur vobis(Matt. IV, 33).

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