QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
[Beato de Liebana: In Apocalypsin B. Joannis Apostoli Commentaria;
Migne, P. L. n. 96, c. I, p. 28]
… E ho visto un’altra bestia sorgere dalla terra.
Ha detto “un’altra” per sua deduzione, ma essa è “una”, perché la seconda fa la volontà della prima bestia, e si riferisce al falso profeta e sacerdote.
E aveva due corna come un agnello,
cioè predicava la Legge e il Vangelo, come l’Agnello, e fingeva di avere un volto come di un uomo giusto: …
ma parlava come un serpente, e faceva scendere fuoco dal cielo davanti al popolo:
come i maghi oggi, usando gli angeli decaduti, fanno miracoli davanti agli occhi degli uomini, così gli empi [cioè “i falsi” ndr.] sacerdoti battezzano alla presenza del popolo, ordinano sacerdoti, e danno l’assoluzione. Sono queste cose che fanno scendere il fuoco dal cielo. Il “fuoco” è lo Spirito Santo; il “cielo”, la Chiesa. E seducono non coloro che abitano in cielo [i Santi – ndr.], ma coloro che abitano sulla terra, e si fanno essi stessi simulacro della prima bestia, e …
attraverso di loro l’Anticristo regna nella Chiesa.
(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P. e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Tip. Ferroni – Firenze, 1869).
In questa sera comincia l’uffizio delle tenebre. La Chiesa celebra, per così dire, in questi tre ultimi giorni, le esequie del Salvatore. L’uffizio delle tenebre si compone del mattutino e delle laudi di domani, che per anticipazione si cantano la vigilia. Si è dato a questa parte d’uffizio il nome di Tenebre, perché verso la fine di esso rimangono spenti tutti i lumi, così per esprimere il duolo profondo della Chiesa, come per rappresentare le tenebre, onde tutte la terra fu avvolta alla morte di Gesù Cristo. L’estinzione dei lumi richiama ancora alla memoria un fatto storico della nostra bella antichità cristiana. L’uffizio che facciamo la sera si faceva di notte, e durava fino alla mattina; via via che il giorno si avvicinava, si spengevano successivamente le faci che non erano più necessarie. Queste faci sono candele poste sopra un candelabro triangolare, a sinistra dell’altare; ordinariamente in numero di quindici, sette per parte e una in mezzo. Si spengono candele di ciascun lato, successivamente, alla fine d’ogni salmo, cominciando dalla più bassa, dalla parte del Vangelo, e quindi dall’altra, e cosi alternativamente, sinché resti sola quella di mezzo che si lascia accesa. Le dette candele sono di cera gialla, come prescrive un antico rituale romano, perché la Chiesa non ne impiega d’altra qualità nei funerali e nel gran lutto. Quella che è posta nel mezzo del candelabro triangolare, è ordinariamente di cera bianca, perché raffigura Gesù Cristo. All’ultimo versetto del Benedictus, si toglie e si nasconde dietro l’altare, per tutta la recita del salmo Miserere e le preci: quindi si riporta. Questa cerimonia ci raffigura la morte e la resurrezione del Salvatore. Le altre quattordici candele rappresentano gli undici Apostoli e le tre Marie: si spengono per rammentarci la fuga degli uni e il silenzio delle altre nel tempo della passione. Un tal numero di candele e il modo di disporle e di spengerle gradatamente, ha origine da oltre al VII secolo. Quale dev’essere la nostra venerazione per una cerimonia che è stata contemplata da tanti pii cristiani? Possa ella eccitare in noi i medesimi sentimenti di pietà che essa eccitò nei nostri padri! In generale i riti usati dalla Chiesa, specialmente per le principali feste, sono di una antichità molta lontana. Tutto l’uffizio delle Tenebre è impresso del più profondo dolore: l’invitatorio, gli inni, il Gloria Patri, la benedizione, tutto è soppresso. Non vi si odono che quattro voci: quella di David, che piange sulla lira gli oltraggi fatti a Gesù Cristo e la morte del suo Signore e Figlio di Dio: quella di Geremia, che agguagliando i lamenti ai dolori, canta le ruine di Gerusalemme e i tormenti dell’augusta vittima; quella della Chiesa, i cui teneri accenti chiamano i suoi figli alla penitenza: Gerusalemme,Gerusalemme, convertiti al Signore Dio tuo e finalmente quella delle sante donne, che avevano seguito Gesù dalla Galilea, e che piangevano dietro a lui mentre saliva il Calvario. Il loro viaggio, le loro lacrime, e le loro grida ci vengono rappresentate dai due chierici che cantano e in ginocchioni, e andando, quei kyrie, eleison. intramezzati dai responsi e da lamentevoli sospiri. Non vi è né capo, né pastore per presedere all’uffizio di questi tre giorni; poiché sta scritto: Percuoterò il pastoree le pecorelle della mandra saranno disperse. L’uffizio è seguito da un rumore confuso, che ci richiama alla mente la venuta e lo scompiglio tumultuoso della coorte, che armata di bastoni, e condotta da Giuda s’inoltra di nottetempo ad arrestare il divin Salvatore nell’Oliveto.
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉSET MÉDITÉS
A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES
SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi
tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e
delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli
oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]
Par M. l’Abbé
J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE TITULAIRE
DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence
sacrée.
[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di
Scrittura santa e sacra Eloquenza]
TOME TROISIÈME (III)
PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878
IMPRIM.
Soissons, le 18
août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
Salmo 118 (7)
SAMECH.
[113] Iniquos odio habui,
et legem tuam dilexi.
[114] Adjutor et susceptor meus es tu, et in verbum tuum supersperavi.
[115] Declinate a me, maligni, et scrutabor mandata Dei mei.
[116] Suscipe me secundum eloquium tuum, et vivam, et non confundas me ab exspectatione mea.
[117] Adjuva me, et salvus ero, et meditabor in justificationibus tuis semper.
[118] Sprevisti omnes discedentes a judiciis tuis, quia injusta cogitatio eorum.
[119] Prævaricantes reputavi omnes peccatores terrae; ideo dilexi testimonia tua. [120] Confige timore tuo carnes meas; a judiciis enim tuis timui.
AIN.
[121] Feci judicium et justitiam, non tradas me calumniantibus me.
[122] Suscipe servum tuum in bonum: non calumnientur me superbi.
[123] Oculi mei defecerunt in salutare tuum, et in eloquium justitiæ tuæ.
[124] Fac cum servo tuo secundum misericordiam tuam, et justificationes tuas doce me.
[125] Servus tuus sum ego, da mihi intellectum, ut sciam testimonia tua.
[126] Tempus faciendi, Domine; dissipaverunt legem tuam.
[127] Ideo dilexi mandata tua super aurum et topazion.
[128] Propterea ad omnia mandata tua dirigebar; omnem viam iniquam odio habui.
[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol.
Tasso ed. MDCCCXXXI]
SALMO CXVIII (7).
SAMECH.
113.
Ho odiato gl’iniqui, ed ho amato la tua legge.
114.
Tu se’ mio aiuto e mia difesa, e nella tua parola ho grandemente sperato.
115.
Ritiratevi da me, voi maligni; e io dierò attentamente i comandamenti del mio
Dio.
116. Sostentami secondo la tua parola, e fa ch’io viva; e non permettere che nella mia aspettazione
io resti deluso.
117.
Aiutami, e sarò salvo; e mediterò sempre le tue giustificazioni.
118. Tu hai disprezzati tutti coloro che declinano da’ tuoi giudizi, perché ingiusto è il loro
pensiero.
119.
Prevaricatori riputai tutti i peccatori della terra, perché amai i tuoi
giudizi.
120.
Inchioda col tuo timore le carni mie; perocché ho temuti i tuoi giudizi.
AIN.
121.
Ho esercitata la rettitudine e la giustizia: non darmi in potere de’ miei calunniatori.
122.
Aiuta al bene il tuo servo; non mi opprimano colle calunnie i superbi.
123.
Gli occhi miei si sono stancati nella espettazione della tua salute, e nelle
parole di tua giustizia.
124.
Tratta il tuo servo secondo la tua misericordia; e insegnami le tue
giustificazioni.
125.
Tuo servo son io; dammi intelletto affinché intenda i tuoi precetti.
126.
Egli è tempo di operare, o Signore; eglino han rovinata la tua legge.
127.
Per questo io ho. amati i tuoi comandamenti più che l’oro e i topazi.
128.
Per questo io m’incamminai all’osservanza di tutti i tuoi comandamenti, ed ebbi
in odio tutto le vie d’iniquità.
Sommario analitico
VII SEZIONE
113-128.
Alla vista dei numerosi nemici che
minacciano di attaccarlo in campo aperto, il Re- Profeta grida verso Dio perché
venga in suo soccorso, e si dichiari suo alleato nel combattimento, e perciò gli
espone due ragioni per le quali merita di essere esaudito e soccorso:
I Motivo. – L’odio e la profonda lontananza che ha
dai suoi nemici, che sono pure i nemici di Dio:
I°
Egli dichiara apertamente il suo odio contro i malvagi, odio che ha a causa del
suo amore per la legge di Dio (113); e questo odio, così come il suo amore, non
lo attribuisce a se stesso, ma al soccorso della grazia divina (114);
2°
allontana da sé i malvagi e fugge la loro associazione:
a)
per penetrare più facilmente con la purezza del cuore nell’intelligenza dei
comandamenti di Dio (115);
b)
per vivere della vita soprannaturale, non per se stesso, ma per la grazia di
Dio;
c)
per non essere frustrato nella sua aspettativa (116);
d)
per meditare, con l’aiuto della grazia, le giustificazioni divine (117);
e)
per associarsi a Dio nel disprezzo e nella giusta avversione che ha per i
malvagi (118).
3°
Egli professa adunque un profondo disprezzo per i malvagi, disprezzo fondato:
a)
sul suo amore per la legge di Dio (119);
b)
sul timore dei suoi giudizi, timore necessario ai giusti come ai peccatori.
(120).
II motivo. – La sua fedeltà nel praticare le virtù
morali e teologali:
I°
Egli ha praticato la giustizia, e chiede come ricompensa di non essere esposto
alle calunnie dei superbi (121, 122);
2°
ha praticato le virtù teologali:
a)
della speranza, aspettando da Dio solo la sua salvezza, in parte dalla
giustizia di Dio a causa delle sue promesse, in parte dalla sua misericordia
(123, 124);
b)
della fede, professando apertamente di essere il servitore di Dio, chiedendogli
a questo titolo l’intelligenza della sua legge, e pressandolo ad accordargli al
più presto questa grazia, visto che i suoi nemici hanno dissipato la sua legge
(125, 126);
c)
della carità, amando la legge di Dio ai di sopra di ogni cosa (127); non
contentandosi di amarla, ma come conseguenza necessaria, odiando tutto ciò che
gli è opposto, seguendo il cammino della virtù e rifuggendo tutte le vie
ingiuste (128).
Spiegazioni
e Considerazioni
VII SEZIONE — 113-128.
I. – 113-120.
ff. 113, 114. – « Io ho odiato
gli uomini di iniquità, ed ho amato la vostra legge. » Il Profeta non dice: io
ho odiato gli uomini di iniquità ed ho amato i giusti; né io odio l’iniquità ed
ho amato la vostra legge, ma dopo aver detto: « io ho odiato gli uomini di iniquità,
» spiega i motivi del suo odio, aggiungendo: Ed
ho amato la vostra legge, » per dimostrare che, negli uomini di iniquità, egli
non odiava la natura che li ha fatto uomini, ma l’iniquità che li ha fatti
nemici della Legge che egli ama (S. Agost.). – Il Profeta non si
mette affatto in contraddizione con il precetto del Vangelo che ci comanda di
amare i nostri nemici, perché egli non dice: io ho odiati i miei nemici, ma: io
ho odiato gli uomini di iniquità, cioè i trasgressori della Legge (S.
Hil.), « ed io ho amato la vostra Legge. » In effetti se noi amiamo la
legge di Dio, noi dobbiamo odiare i nemici della Legge che attaccano con le
opere le prescrizioni della Legge (S. Ambr.). – « Voi siete il mio
aiuto ed il mio protettore » Mio aiuto, perché io faccio il bene; mio
protettore perché evito il male (S. Agost.). – Voi siete il mio aiuto
con la Legge, il mio protettore con il Vangelo. Coloro che Dio ha aiutato con
la Legge, li ha presi in protezione prendendo la loro carne … la parola latina “supersperavi”
che non può tradursi alla lettera se non con “supersperato”, si dice di colui
la cui speranza non cessa di accrescersi, e si eleva ad una perfezione sempre
più grande. – « Io ho riposto tutta la mia speranza nelle vostre parole, » cioè
io non ho sperato né nei Profeti, né nella Legge, ma « io ho sperato nella
vostra parola, » cioè nella vostra venuta; io ho sperato che voi veniste a
soccorrere i peccatori, rimettere i loro peccati, e prendere sulle vostre
spalle, come il buon pastore, la pecora errante e stanza (S. Ambr.).
ff. 115 – 118. – Allontanatevi da
me, malvagi, ed io scruterò i comandamenti del mio Dio. » Così dunque, per studiare con cura e conoscere
perfettamente i comandamenti del mio Dio, occorre che i malvagi si allontanino
da lui, ed egli li allontana violentemente; in effetti sono i malvagi che ci
esercitano a praticare i comandamenti e, al contrario, ci impediscono di
approfondirli, non solo quando ci perseguitano e cercano di sollevare qualche
dibattito contro di noi, ma anche quando ci trattano con onore ed ossequio, e
ci inducono tuttavia ad aiutarli nei loro affari e nei loro cattivi desideri
consacrare loro il nostro tempo … Quando ci rifiutiamo di assecondare i loro
desideri, essi non si ritirano, né si allontanano da noi, al contrario
persistono, pressano, pregano, si agitano con rumore, e ci costringono a
occuparci di essi per le cose che amano, piuttosto che occuparci dello studio
dei comandamenti di Dio che noi amiamo. Ora, quale disgusto per le folle tumultuose, quale
desiderio della parola divina in questo grido del Profeta: … ritiratevi da me,
malvagi, ed i scruterò i comandamenti del mio Dio. » (S. Agost.). – «
Guardatevi dai cani, dice S. Paolo, guardatevi dai cattivi operai. » (Fil.,
III, 2). Chi sono costoro? Gli uomini di questo secolo che non seguono
le trace di Gesù-Cristo! Ditemi, vi prego, cosa possono essi insegnare? La
castità che non hanno mai praticato? La dottrina che non seguono? Perché la
sola cosa alla quale sono fedeli, è la saggezza diabolica di questo mondo (S.
Ambr., Tract. de Virg.). – Dopo aver scacciato come dagli occhi del suo
cuore, queste mosche che lo assediavano, il Profeta ritorna a Colui al quale
diceva. « Voi siete mio aiuto e mio protettore, » e proseguendo la sua
preghiera aggiunge: « Prendetemi sotto la vostra protezione, secondo la vostra
parola, ed io vivrò, non resto confuso nella mia attesa. » Colui che ha già
detto: « Voi siete il mio protettore, » chiede sempre più di prenderlo sotto la
sua protezione e di condurlo al fine per il quale sopporta delle cose penose;
perché ha la fiducia di trovare là una vera vita, tutt’altro che i vani sogni
delle cose umane: « … ed io vivrò, » come se non vivesse in questo corpo di
morte, « perché il corpo è morto a causa del peccato. » (Rom. VIII, 10). E
nell’attesa della redenzione del nostro corpo noi siamo stati salvati nella
speranza, e se speriamo ciò che non vediamo ancora, noi l’attendiamo con
pazienza (Ibid. 23-25). Ma la speranza non delude, se la carità di Dio è
diffusa nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato (Rom.
V, 5). Ed è per ricevere più abbondantemente lo Spirito Santo che egli
grida al Padre: « Non confondetemi nella mia attesa. » (S. Agost.). – Se il
povero Lazzaro gode di una vita eterna nel seno di Abramo, quanto più colui che
il Cristo riceve sotto la sua protezione! E come la vita eterna non sarebbe la
porzione della ricompensa di colui che riceve ed accoglie la vita eterna, che
il Cristo ha preso e si è unito interamente, che appartiene interamente al
Verbo, e la cui vita è nascosta in Gesù-Cristo? Ma questo sarebbe un atto di
presunzione colpevole il dire a Dio: prendetemi sotto la vostra protezione, se
non aggiungesse: « secondo la vostra parola. » Siete voi che ci date questa
assicurazione; noi ci presentiamo con il vostro impegno nella mano. Noi abbiamo
sottoscritto una obbligazione di morte, voi l’avete sostituita con
un’obbligazione di vita (S. Ambr.). – Il Profeta spera ed
attende, ma a Dio non piace che queste siano le cose passeggere del tempo. Vi
sono molti che combattono questa speranza della nostra fede e se ne ridono
dicendo: a che servono i vostri digiuni, la vostra continenza, la vostra
castità, la perdita del vostro patrimonio?
Dov’è la vostra speranza, o Cristiani? La morte domina ugualmente su
tutti gli uomini; il suo impero si estende su tutti i corpi. Cosa dico? Noi
gioiamo di tutti i beni di questo mondo, ed in cosa ci siete superiori per
l’attesa della vostra speranza? È dunque di questa attesa che il Profeta chiede
a Dio di non arrossire. Benché abbia la vita in Lui, egli sa che non la
possiede ancora nella pienezza, perché: « La nostra vita quaggiù è nascosta in
Gesù-Cristo. » (Colos. III. 3). È per questo che egli dice: « Prendetemi sotto
la vostra protezione ed io vivrò » di questa vita vera ed immortale; perché ciò
che egli spera, è l’eternità, è il regno dei cieli, è il regno di Dio, sono le
benedizioni spirituali che ci sono state promesse in cielo in Gesù-Cristo. (S.
Hil.).- Come se fosse stato risposto al Profeta nel silenzio del cuore:
volete non essere confuso nella vostra attesa? Non cessate mai di meditare le
mie giuste prescrizioni. Ma sicome egli sente che molto spesso i languori
dell’anima fanno ostacolo a questa meditazione, egli esclama: « Aiutatemi ed io
sarò salvo, e mediterò senza lena le vostre giuste prescrizioni. » (S. Agost.). – Colui che spera
confida di essere soccorso, ed il soccorso di Dio è un pegno certo di salvezza.
Il Profeta ha detto a Dio precedentemente: « Voi siete il mio aiuto ed il mio
protettore. » Egli domanda qui di nuovo il soccorso: « Non cessate di venire in
mio aiuto. » Non è molto la preghiera che ho fatto, io vi supplico di nuovo di
salvarmi. Quaggiù non c’è salvezza completa, vera; io non sarò veramente salvo
se non quando sarò in Paradiso, quando comincerò a vivere in mezzo ai vostri
santi Angeli, e sarò sfuggito a tutte le insidie, a tutti i pericoli di questa
terra. – « Voi avete disprezzato tutti coloro che si separano dalle vostre giuste
prescrizioni. » (S. Ambrog.). Perché se ne allontanano? « perché il loro
pensiero è ingiusto » Con il pensiero ci si avvicina, con il pensiero ci si
allontana. Tutte le azioni buone o cattive procedono dal pensiero. Nel pensiero
si trova l’innocenza, nel pensiero si trova il crimine. Ecco perché è scritto:
« La santità del pensiero vi custodirà » (Prov. II. 11); ed allora: « L’empio
sarà interrogato sui suoi pensieri. » (Sap. I, 9). L’Apostolo dice
ugualmente: « I pensieri accusano o difendono. » (Rom. II, 15). Allora come
potrà essere felice colui che è infelice nel pensiero, colui che Dio ricopre
con il suo disprezzo? (S. Agost.). – Il Profeta non ha
detto: « Voi avete disprezzato tutti i peccatori, » perché allora
disprezzerebbe tutti gli uomini, perché nessuno è senza peccato; ma Egli
disprezza coloro che si allontanano da Lui, coloro che noi chiamiamo apostati.
L’allontanamento e la separazione da Dio, differiscono dal peccato, per il
fatto che al peccato è riservato il perdono, se il peccatore fa penitenza,
mentre l’allontanamento volontario da Dio danna, perché porta con sé
l’allontanamento dalla penitenza, allontanamento che viene da una evidente
ingiustizia di pensiero e di volontà. (S. Hilar.).
ff. 119, 120. – « Io ho
considerate come prevaricatori tutti i peccatori della terra. » Noi chiamiamo
prevaricatori coloro che abbandonano la fede e la conoscenza di Dio che essi
hanno recepito, e che agiscono contrariamente agli impegni che hanno assunto. Ma qui il Profeta estende quella
denominazione a tutti i peccatori della terra, e non ne eccettua nessuno. (S. Hilar.).
– Tutti i peccatori della terra, senza eccezione, sono dunque dei
prevaricatori, perché violano tutti la legge di Dio o la legge naturale incisa
nella nostra anima e della quale l’Apostolo ha detto: « i Gentili che non hanno
la fede, fanno naturalmente ciò che è prescritto dalla Legge; non avendo la Legge,
son legge a se stessi. » (Rom. II, 14): o la Legge scritta e
data ai Giudei da Mosè … tutti i peccatori della terra, senza eccezione alcuna,
sono dunque a buon diritto, considerati prevaricatori; « perché tutti gli
uomini hanno peccato, ed hanno tutti bisogno della gloria di Dio. » (Rom.
III, 13). La grazia del Salvatore trova dunque tutti gli uomini nello
stato di prevaricazione; tuttavia chi più e chi meno. Resta dunque da
attendere, per tutti gli uomini, non il soccorso della propria giustizia, ma il
soccorso della giustizia di Dio … ed in questo senso il Profeta aggiunge: « Ecco
perché io ho amato le vostre testimonianze; » come se dicesse: « La legge data
nel paradiso, o naturalmente incisa nel nostro cuore, o promulgata nei libri
santi, ha reso prevaricatori tutti i peccatori della terra; « Ecco perché io ho
amato le vostre testimonianze » inserite nella vostra Legge, al soggetto della
vostra grazia, affinché la vostra giustizia, e non la mia, sia in me. In
effetti, l’utilità della legge è di condurre alla grazia (S. Agost.). – Colui che
ama le testimonianze del Signore trafigge con chiodi la sua carne, perché sa
che il vecchio uomo che è in lui è stato attaccato alla croce per distruggere le
passioni della carne e frenare gli ardori indomiti … Trapassate allora la
vostra carne con i chiodi, distruggete i focolai del peccato; fate morire nella
vostra carne, tutto ciò che attrae, ogni fascino del peccato; negate al piacere
delle voluttà ogni libertà di agire, inchiodandolo sulla croce. Prendete il
chiodo spirituale per attaccare la vostra carne al patibolo della croce del
Signore. L’anima spirituale ha pur essa le sue carni, così come il corpo; le
carni dell’anima sono i pensieri carnali. È al timore del Signore e dei suoi
giudizi che si inchiodano le carni e si riducono alla servitù (S.
Ambr.). – Che significano queste parole: « Crocifiggete con il vostro
timore, perché io temo? » Se già aveva temuto, e se temeva, perché ancora prega
Dio di trafiggere le proprie carni con il suo timore? Voleva che questo timore
aumentasse in lui, al punto che la violenza di questo timore fosse sufficiente
a crocifiggere le sue carni, cioè le sue passioni e le sue delizie carnali? …
In queste parole c’è un senso più elevato che bisogna trarre con la grazia di
Dio, con l’aiuto di un esame serio dei più profondi contenuti delle pieghe del
testo. « Trapassate di chiodi le mie carni con il vostro timore, perché io ho
temuto, », vale a dire: che i miei desideri carnali siano compressi dal vostro
casto timore, che vive nei secoli dei secoli. (Ps. XVIII, 10); perché io ho
temuto i vostri giudizi, quando la legge, che non poteva darmi la giustizia, e mi
minacciava di castigo. Ma questo timore mi terrorizza con il castigo, che la
perfetta carità mette fuori (I Giov., IV, 18), perché esso ci
libera, non dal timore del castigo, ma per la felicità della giustizia; perché
questo timore non produce l’amore della giustizia, ma lo spavento del castigo è
quello dello schiavo, perché esso è carnale; ecco perché non crocifigge la
carne … Datemi dunque il timore casto, che io sono stato costretto a chiedervi,
condotto come da un maestro, cioè dal timore della Legge che non mi ha fatto
temere i vostri giudizi (S. Agost.).
II. — 121-128.
ff. 121, 122. – « Io ho praticato
la rettitudine e la giustizia. » Davide non parla quasi mai di rettitudine, sia
di Dio nei riguardi dell’uomo, sia degli uomini nei riguardi di loro stessi,
senza aggiungervi la giustizia come condizione essenziale ed inseparabile. Del
resto, se volete sapere qual differenza dobbiamo porre tra la giustizia e il
giudizio, eccola, risponde Sant’Ambrogio: il giudizio, secondo il linguaggio
comune, è propriamente l’atto di giudicare, mentre la giustizia è l’abitudine
stessa, o infusa o acquisita, che ci porta a ben giudicare; cioè è questa santa
disposizione del cuore che ci fa rendere a ciascuno ciò che gli appartiene, e
ci libera nei nostri giudizi da ogni affezione e da ogni passione. Davide
voleva che mai queste due cose fossero separate; ed ecco la regola di condotta
che proponeva: Signore – egli diceva – io ho pronunziato dei giudizi, ma questi
giudizi sono stati accompagnati da una giustizia esatta; non mi abbandonate
dunque, o mio Dio alla malignità dei miei calunniatori (Bourd. Jug. témér.). – E
da parte del Re-Profeta, non è un atto di vanagloria o di presunzione
temeraria; egli era troppo versato nella legge per non ricordarsi che è dalla
bocca degli altri e non dalla nostra che debba uscire la nostra lode. Egli non
vanta dunque affatto le sue virtù, ma afferma, restando nei limiti del diritto,
l’innocenza della sua vita, nel timore di non essere abbandonato da Dio per i
suoi crimini e consegnato al potere dei suoi nemici … Davanti ad un tribunale,
se un accusato si limita, per difendere la sua innocenza, a dichiarare ciò che
ha fatto, nessuno di sogna di considerarlo come un atto di arroganza che non
oltrepassi i limiti della giusta difesa. Non bisogna confondere colui che si
proclami degno di ricompensa con colui che dichiari semplicemente che non
merita di essere punito (S. Ambr.). – « Non mi esponete a coloro che mi calunniano;
» cioè non mi consegnate a coloro che mi perseguitano, perché io ho praticato
il giudizio e la giustizia … Chiedendo al Signore di non essere consegnato ai
suoi nemici, qual preghiera fa il Profeta se non quella che noi stessi facciamo
quando diciamo: « Non ci indurre in tentazione? » (Matth. VI, 13). In
effetti, il nemico, è colui del quale l’Apostolo ha detto: « Per paura che
colui che tenta non venga a tentarvi » (1° Thes, III, 5). Dio gli consegna
chi lo abbandona. In effetti, il tentatore non saprebbe sedurre l’uomo che non
abbandona Colui che per sua volontà, dà gloria alla virtù dell’uomo … Di
conseguenza, chiunque ha la carne crocifissa dal casto timore di Dio, e
pratica, senza lasciarsi corrompere da alcuna seduzione carnale, il giudizio e
le opere di giustizia, deve domandare di non essere consegnato ai suoi nemici,
cioè di non cedere, per timore delle sofferenze, a coloro che lo perseguitano
per fargli del male. (S. Agost.). – « Stabilite il vostro
servitore nel bene. » Nello stato di coscienza in cui si trova, di aver
praticato il giudizio e la giustizia, il Profeta va più lontano e non teme di
proclamarsi il servo del Signore: perché un servo del Signore non deve niente
agli estranei. Preziosa servitù questa, che consiste interamente nel praticare
delle virtù. Ora, perché teme di essere esposto ai suoi nemici? Egli lo dice
apertamente: perché questi sono dei calunniatori che odiano la verità ed
attaccano l’innocenza, perché sono pieni di orgoglio; perché qual orgoglio non
affettano nei riguardi degli umili servitori di Dio coloro che osano elevarsi
contro Dio stesso? (S. Ambr.).
ff 123-128. – « I miei occhi sono fiaccati nell’attesa della vostra salvezza. » Quali sono questi occhi che si indeboliscono, che si stancano nell’attesa della venuta del Cristo? Sono gli occhi dell’anima, che è fissata interamente su questo divino oggetto con gli sguardi della fede; perché i nostri occhi si fissano interamente su ciò che amiamo, senza che nessun’altra cosa ci sia più gradevole. Ma per tenere questo linguaggio con il Profeta, bisogna avere staccata l’anima da tutte le sollecitudini del secolo e da tutti i piaceri della terra, e avere detto a Dio, come lui: « distogliete il mio sguardo perché non veda la vanità. » Quali sono questi occhi che si consumano nell’attesa della parola di Dio? Sono gli occhi dell’uomo interiore, questi sguardi spirituali dell’anima che si applicano a vedere il Verbo di Dio (S. Ambr.). Davide, nei versetti che precedono, ha come aperto la strada alle nuove domande che ha fatto a Dio. Egli prega di non consegnarlo nelle mani dei nemici, poi di confermarlo nel bene, poi di non essere esposto alle calunnie degli orgogliosi, come se dicesse a Dio: io non declino il giudizio, ma le calunnie dei malvagi; perché essi non sanno giudicare, e non sanno che calunniare. Io mi rifugio dunque presso di Voi che sapete giudicare con giustizia … In questo versetto, egli chiede a Dio di usare misericordia verso di lui, e di insegnargli le sue giustizie. In un altro salmo egli prega Dio di non entrare in giudizio con il suo servo (Ps. CXLII, 2). E in effetti noi, che la testimonianza della nostra coscienza accusa di tante colpe, noi dobbiamo piuttosto implorare la misericordia di Dio più che rivolgerci alla sua giustizia: la misericordia ci dà il perdono, la giustizia esamina e discute i nostri crimini. Quale speranza di poter trionfare presso Colui al quale nulla è nascosto, e al Quale non possono sfuggire i nostri peccati … Trattate dunque il vostro servo secondo la vostra misericordia, perché anche quando avrò potuto fare qualche cosa di buono, io vi debbo molto di più come vostro servo … Un servo è degno di ricompensa per aver fatto solo ciò che gli viene comandato? Dunque, quando noi abbiamo fatto ciò che ci viene comandato, noi non dobbiamo subito levarci, ma piuttosto umiliarci, perché siamo lontani dall’aver compiuto tutti i doveri della nostra condizione. (S. Ambr.). – « Io sono vostro servitore, datemi l’intelligenza. » L’intelligenza è un dono spirituale; bisogna dunque chiedere a Dio ciò che viene direttamente da Dio. Colui che si riconosce servo non chiede come un estraneo: « Io sono vostro servitore. » Il servitore fa la volontà del suo padrone: il servo cerca di guadagnare il salario col suo impiego e ne spera la ricompensa (S. Ambr.). – Cosa fa dunque di così grande il Profeta, dichiarandosi il servo di Dio, ciò che nessuno uomo oserebbe negare? Egli si dichiara il servitore di Dio, ma in modo tutto differente dagli altri: gli altri si riconoscono servi solo a parole: lui lo è in realtà, e lo prova con le sue opere. (S. Hilar.). – « Io sono il vostro servo. » Male me ne è venuto quando ho voluto appartenermi ed essere libero, invece di essere con Voi e servirvi. « Datemi intelligenza, ed io conoscerò le vostre testimonianze. » Non bisogna mai cessare di far questa domanda; perché non è sufficiente aver ricevuto l’intelligenza ed aver appreso a conoscere le testimonianze di Dio, se non la si riceve costantemente, e se in qualche modo non si beve costantemente alla sorgente della eterna luce. Quanto alle testimonianze di Dio, nella misura che si acquista l’intelligenza, la si conosce di meglio in meglio. (S. Agost.). – « È tempo di agire, Signore, essi hanno rivoltato la vostra legge. » Ah! ha ragione il Re-Profeta nel dire a Dio che è tempo di agire. « In effetti c’è un tempo per fare ed un tempo di parlare. » (Eccles. III, 7). Ora, il tempo di parlare è venuto, e queste parole sono l’annuncio dell’avvento del Signore; perché essendo la legge universalmente trasgredita, bisogna che venga Colui che è il fine, la consumazione e la pienezza della Legge, Nostro Signore Gesù-Cristo, che perdonerà agli uomini tutti i crimini, e che, distruggendo l’obbligazione scritta dai debitori, verrà a liberare tutti i peccatori. « È tempo d agire. » Così quando una malattia si aggrava, voi correte a cercare il medico perché venga al più presto, per paura che tardando le sue cure diventino inutili. Il Profeta dunque vede in spirito le prevaricazioni del suo popolo, la dissolutezza, le brutali voluttà, la vita sensuale, i furti, le frodi, l’avarizia, l’intemperanza, e rendendosi nostro intercessore, ricorre a Gesù-Cristo, il solo che egli sapeva potesse portare rimedio a sì grandi crimini; egli lo spinge a venire, senza soffre il minimo ritardo. « È tempo di agire, Signore; » cioè, è tempo di salire per noi sulla croce e soffrire la morte. Il mondo si precipita con impetuosità verso la sua ultima rovina; venite per cancellare il peccato dal mondo. La vita venga in soccorso dei morenti, la resurrezione venga in aiuto di coloro che sono seppelliti. Soccorreteci con i vostri atti, poiché i vostri precetti sono impotenti … non è più il tempo di comandare, è il tempo di agire (S. Ambr.). Non è l’ora di parlare, è l’ora di fare, perché tutto è stato distrutto nell’ordine materiale e morale. La prevaricazione è più universale che mai. Non tutti ci siamo rivoltati, dissipando la Legge di Dio in tutte le sue parti: la legge dell’umiltà con il nostro orgoglio, la legge della carità con il nostri odi ed animosità verso i fratelli, la legge della vita con tanti peccati che ogni giorno danno la morte, la legge della fede con le nostre empietà, o con una vita tutta sensuale e con grossolani errori ed imperdonabili ignoranze. « È tempo d agire, Signore, venite e non tardate ancora! » – « Per questo io ho amato i vostri comandamenti più che l’oro ed il topazio. » La Legge predice ed annunzia il Cristo; i precetti della Legge contengono dunque e ci apportano la speranza di beni futuri, gli indici della redenzione, i germi della resurrezione; ecco perché il Profeta dichiara che egli li ama più che l’oro ed il topazio; perché sono più dolci della salvezza, più preziosi della resurrezione! … Ma non tutti possono fare questa professione: non è certo l’avaro disteso sul suo oro, che desidera incessantemente nuove ricchezze, ma colui che può dire: « Io non ho né oro né argento; » (Act. III, 6); io non ricerco l’oro, perché non mi è utile, dal momento che i comandamenti di Dio mi hanno riscattato. (S. Ambr.). Coloro che si sforzano, come i Giudei, di praticare i comandamenti di Dio in vista di una ricompensa terrena e carnale, non ne vengono a capo, perché essi amano altra cosa e non amano affatto questi comandamenti; non è l’opera dell’uomo di buona volontà, ma il fardello di uomini di cattiva volontà. Al contrario, quando si amano i comandamenti più dell’oro e le pietre preziose, ogni ricompensa terrestre è vuota in confronto a questi comandamenti (S. Agost.). – Amiamo la Legge, perché è una legge di amore; amiamo la Legge, perché tanti Santi l’hanno amata; amiamo la Legge, poiché tanti empi e peccatori non l’amano affatto; amiamola per imitare coloro che l’amano, e compensare con un dolore di amore la follia di coloro che non l’amano, (S. Gerol.). – « È per questo che io camminavo dritto nella via di tutti i vostri comandamenti. » A giusto titolo il Profeta camminava dritto nella via dei comandamenti, perché egli li amava. Così egli non si attribuisce questa velocità con la quale corre in questa via, ma a Dio, che lo conduce. Io non camminavo da me stesso – egli dice – ché io ero portato … Io ho odiato ogni via ingiusta. Se colui che ama i precetti della giustizia fa ciò che ama, anche colui che odia l’iniquità si astiene da ciò che sia oggetto del suo odio. È con ragione che il Profeta marciava dritto nella via di tutti i comandamenti, poiché odiava ogni via ingiusta. Assolutamente è necessario che si odi ogni via di iniquità, se si vuol camminare dritto nella via dei comandamenti (S. Ambr.). – Non si tratta di odiare solo qualche via ingiusta, bisogna odiarle tutte. « Bisogna odiare non solo i grandi peccati, ma pure le minime colpe. » Ci sono taluni che si astengono da certi peccati che fanno loro orrore, ma che si concedono senza scrupoli ad altri per i quali il mondo ha più indulgenza. Il vero Cristiano detesta ogni via di iniquità, qualunque essa sia. – « Io ho preso in odio ogni via ingiusta. » È la conseguenza di ciò che ha detto precedentemente: perché se egli avesse amato l’oro e le pietre preziose, egli avrebbe certamente odiato tutto ciò che poteva farlo perdere. Allo stesso modo, poiché amava i comandamenti di Dio, odiava la via dell’iniquità come una spaventosa scogliera contro la quale non si può urtare, in un viaggio in mare, senza perdere queste cose preziose in un inevitabile naufragio. Per evitare questa disgrazia, fa vela lontano colui che naviga sul legno della croce, avendo come carico i comandamenti di Dio (S. Agost.).
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950).
Vang.
sec. S Matteo (Domenica delle Palme). — sec. S. Marco (Martedì Santo). —
sec. S. Luca (Mercoledì Santo). — sec. S. Giovanni (Venerdì Santo).
Avvenimenti
precedenti la Passione.
Il martedì, dopo aver lasciato il Tempio, Gesù salì verso sera il monte degli Olivi: « Fra due giorni, egli dice, avrà luogo la Pasqua e il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocefisso ». Presso i Giudei, di fatti, i giorni cominciano la vigilia a sera, si era dunque al principio del mercoledì, e il venerdì seguente Gesù fu messo a morte. La festa di Pasqua coincideva col plenilunio dell’equinozio di primavera, perché proprio in questo momento gli Ebrei erano usciti dall’Egitto (*). Nella loro fuga precipitosa, non avevano potuto far lievitare il pane, ed in ricordo di questo fatto i Giudei si astenevano, durante questa festa, dal pane fermentato – festa degli azzini.(*) Questa luna segnava per gli Ebrei il primo mese dell’anno che essi chiamavano Nisan. « Al 14° giorno del 1° mese (che è il giorno del plenilunio) sarà la Pasqua del Signore e al 15° la festa solenne » (Numeri, XXVIII, 16). Il giorno che, alla maniera dei Giudei, va dal giovedì sera al venerdì sera, e durante il quale ebbero luogo, la Cena e la Crocifissione, era dunque il 14 Nisan o « Vigilia di Pasqua » (S . Giovanni, XIII, 1). Dio, infatti, per mostrare che G. Cristo è il vero agnello della vera Pasqua, volle che fosse mangiato dagli Apostoli e immolato dai Giudei lo stesso giorno nel quale Israele mangiava gli agnelli immolati che ne erano la figura. Di modo che la Pasqua o il passaggio di G. Cristo da questo mondo al Padre e la nostra liberazione dal peccato si compirono al momento nel quale si celebrava l’anniversario del passaggio dell’Angelo e della liberazione d’Israele di cui erano figure. Cosi la Chiesa per affermare che « la nuova Pasqua della nuova legge pone fine all’antica Pasqua, come il giorno pone fine alla notte» (Lauda Sion), decretò che la festa di Pasqua avrebbe luogo sempre, come per la Pasqua giudea, nell’epoca della luna pasquale. Ma volendo celebrare la festa della Risurrezione in Domenica, perché avvenne in questo giorno, essa decise nel Concilio di Nicea, che questa sarebbe ogni anno la domenica seguente al plenilunio dell’equinozio di primavera, che si suppone cadere sempre al 21 di marzo, come s’era presentata nel 325, l’anno di questo Concilio. Se il plenilunio cade prima del 21, la data della Pasqua dipenderà dalla luna seguente, perciò varia fra il 22 Marzo e il 25 Aprile].A
Ultima Cena al
Cenacolo.
Quando
gli Evangelisti parlano del «1° giorno degli Azimi » intendono il giovedì sera,
cioè il principio del venerdì, secondo l’uso ebreo. Il giovedì Pietro e Giovanni
sono mandati dal Maestro a preparare la sala al Cenacolo, nel piano superiore
di una casa (Act. I, 13). Al calare della notte (Marc. XIV, 17), cioè durante la
prima vigilia della sera che dura fino alle 9, Gesù vi si porta con i suoi
discepoli, si distendono, secondo l’uso orientale, su letti un po’ elevati, col
braccio sinistro appoggiato su cuscini, intorno ad una tavola. Giovanni, che si
trovava a destra di Gesù, potè dunque facilmente riposare il capo sul petto del
Signore. Durante questo pasto, Gesù dopo aver preso uno dei grossi pani azimi,
largo circa 20 centimetri e assai sottile, lo cambiò nel suo Corpo, pronunziando
una preghiera eucaristica o di rendimento di grazie, come faceva il padre di
famiglia che, prima di mangiare l’agnello pasquale, ringraziava Dio di aver liberato
Israele dalla sua schiavitù. Poi, dopo aver cenato, allorché restava ancora,
secondo il rito mosaico, da bersi un calice, Gesù lo cambiò, allo stesso modo,
nel suo Sangue. Nel far ciò, Egli usò le parole con le quali Mosè suggellò
l’antica alleanza nel sangue delle creature: « Questo è il Sangue del
Testamento che Dio ha fatto per voi » (Es. XXIV, 8). Gesù vi aggiunse due parole:-
« Questo è il mio sangue… del Testamento nuovo ». Parlando della
Pasqua, centro di tutta la vita religiosa del popolo ebreo, il legislatore di
Israele aveva detto: « Voi serberete il ricordo di questo giorno e lo
celebrerete di generazione in generazione, con una istituzione perpetua » IIbid.
XII, 14), e il Salvatore ordinò allo stesso modo agli Apostoli, « e per loro a
tutti i loro successori nel sacerdozio », aggiunge il Concilio di Trento, di
consacrare allo stesso modo questo pane e questo calice di vino in memoria di
Lui » (S. Luc. XXII, 19) . L’agnello immolato dai figli d’Israele è, dopo circa
1500 anni, sostituito dall’Agnello di Dio che verrà immolato fino alla fine dei
secoli, e la Messa, che si identifica con la Cena e il Calvario, diviene il
centro religioso di tutto il popolo cristiano.
Ultimo discorso
di Gesù. — Getsemani.
Dopo
la Cena, Gesù pronunziò il sublime discorso che è il suo testamento di amore,
la seconda parte del quale (Giov. XV, 1) fu detta mentre dal Cenacolo si recava
fuori della città. Passò per la porta che si trova non lontano dalla piscina di
Siloe e risali la vallata del Cedron, lungo il sobborgo di Ofel, per andare nel
giardino di Getsemani, ai piedi del Monte degli Olivi. I tre Apostoli,
testimoni della sua Trasfigurazione, furono anche testimoni di una parte della
sua agonia avvenuta nel Getsemani. Giuda, che aveva venduto il suo Maestro per
la somma di trenta danari, venne con il capo di una coorte romana e i suoi
soldati, e con guardie incaricate della vigilanza del Tempio inviate dal
Sinedrio. Costoro entrarono nella notte con Gesù a Gerusalemme, e risalendo il
pendio nord-est della città, andarono nel palazzo del Gran Sacerdote.
Processo
religioso davanti ad Anna e Caifa
Si
stava preparando il processo religioso, perché spettava alla autorità religiosa
ebrea interrogare Gesù su ciò che essa chiamava la falsa qualità di Figlio di
Dio. Il Sinedrio si componeva di 70 membri, a capò dei quali erano i grandi
sacerdoti e il loro capo supremo, il Sommo Sacerdote, Anna era riuscito ad
ottenere successivamente questo incarico per i suoi cinque figli, e l’anno
della morte del Signore per il suo genero Caifa. Infedeli alla loro missione, i
rappresentanti officiali delia religione ebrea, non aspettavano altro per
Messia che un re guerriero, il quale li avesse liberati con la forza dal giogo
romano. Gesù fu condotto dinanzi ad Anna, suocero del Sommo Sacerdote. Non
essendo più pontefice, era incompetente a giudicare G. Cristo. Il divin
Redentore fu, perciò, condotto al tribunale dello stesso Sommo Sacerdote,
Caifa. Egli attendeva Gesù in un’altra ala del Palazzo. Intorno à lui, seduti
in semicerchio su cuscini, si trovavano gli altri sacerdoti. La procedura era
illegale, perché doveva farsi di giorno e occorrevano testimoni. Erano circa le
due del mattino e i testimoni furono presi in flagrante delitto di impostura. Caifa,
pieno di collera, lo scongiura solennemente (cosa del tutto contraria alla
legge mosaica che in questo caso annulla la confessione dell’accusato) di
dirgli se Egli fosse il Figlio di Dio. E Gesù, che attendeva questo momento per
parlare, afferma ufficialmente la sua divinità davanti all’autorità religiosa
ebrea riunita in gran consiglio. Lo si giudica allora degno di morte; Egli accetta
la sentenza perché è proprio la qualità di Figlio di Dio che dà un valore
infinito al sacrifizio che sta per offrire a Dio suo Padre per gli uomini suoi
fratelli.
Servi dei
Sacerdoti. —. S. Pietro. — Giuda,
Lo
si lascia allora per il resto della notte ai motteggi dei servi dei’ Sacerdoti
che lo bestemmiano e lo coprono di sputi. Durante questa notte, Pietro, che
aveva seguito da lontano Gesù, fu introdotto da Giovanni nella corte del Palazzo
del Gran Sacerdote e li, per tre volte rinnegò il suo Maestro. Dopo il secondo
canto del gallo, usci dal palazzo e « pianse a voce alta, con singhiozzi.»,
dice il testo greco. Verso il mattino il Sinedrio si riunì di nuovo per dare
alla sua sentenza, che doveva essere data di giorno, una apparenza di legalità.
Gesù comparve e, allorché si dichiarò Figlio di Dio, fu di nuovo condannato. Giuda
allora comprende tutta la grandezza del suo delitto. Tormentato dal rimorso, si
presenta al Consiglio dei Sacerdoti, ancora riuniti e confessa che « aveva
peccato consegnando il Sangue del Giusto». Preso dalla disperazione, il
traditore getta nel Tempio le monete d’argento che ha ricevute, discendendo
verso la piscina di Siloe, si caccia nella gola profonda ove scorre il torrente
Innom. E in questo luogo chiamato la Geenna (Ge-hinnom), si impicca » (XXVII,
5); essendosi rotta la corda, il suo corpo precipitò con la faccia verso terra,
e ne uscirono i visceri che si sparsero per terra » (Act. I, 18).
Processo civile
davanti a Pilato.
Ma
Roma sola, da cui dipendeva in questo momento la Palestina, aveva il diritto di
vita o di morte. Bisognava deferirlo al procuratore romano e Gesù fu condotto
al pretorio di Ponzio Pilato, nella cittadella Antonia, dove i Giudei non entreranno,
perché la casa di un pagano avrebbe fatto contrarre loro una macchia legale in
queste feste di Pasqua. Il processo civile di G. Cristo stava, a sua
volta, per essere iniziato. Ma davanti a questo nuovo tribunale, bisognava
essere accusati di un delitto politico. Il Messia, per i Giudei, doveva essere
un monarca terreno. Si accusò allora Gesù, che si diceva il Messia, di essere
un re competitore di Cesare (La Giudea conquistata da Pompeo, era diventata
tributaria dell’imperatore Augusto, al quale si associò più tardi
Tiberio-Cesare, Pilato era loro rappresentante nella Giudea ed Erode nella
Galilea). Su questo nuovo terreno si riprodusse punto per punto la stessa
procedura della notte precedente: il medesimo silenzio di G. Cristo davanti ai
falsi testimoni, la stessa affermazione ufficiale della sua regalità spirituale
davanti al mondo pagano, rappresentato questa volta da coloro che tenevano l’impero
del mondo, e i medesimi cattivi trattamenti da parte dei soldati romani. Ma
Gesù, che di fatto dirigeva l’andamento delle cose, non voleva esser condannato
che come Figlio di Dio e Re delle anime. Egli riportò la questione i sul
terreno religioso. « II mio regno, disse, non è di questo mondo ». Questo non
era più di competenza di Pilato, che fino alla fine lo dichiarò perfettamente
innocente. I Giudei allora tentano di intimidire Pilato il quale, troppo vile
per usare l’autorità davanti una folla che si sarebbe vendicata accusandolo in
alto, cerca a forza di espedienti di salvaguardare i suoi interessi, senza
disprezzare i morsi di un resto di coscienza pagana superstiziosa che teme
vagamente un castigo degli dèi.
Erode. — Pilato.
— Barabba. — La flagellazione.
Primo
espediente:
Pilato venuto a conoscere che Gesù era Galileo, lo mandò ad Erode. Questo tetrarca della Galilea era figlio di Erode il Grande, che ordinò il massacro degli Innocenti, quando i Magi gli annunziarono che «il Re dei Giudei» era nato da poco. Umiliato dal silenzio di Gesù, egli, a sua volta, umiliò i Giudei rivestendo G. Cristo della veste bianca propria dei candidati alla regalità e che essi gli negavano.
Secondo
espediente:
Barabba.
Il confronto fra un omicida e Gesù non riuscì meglio.
Terzo espediente: La Flagellazione.
Questo era un supplizio infame riservato agli schiavi. Il paziente, spogliato
delle sue vesti, aveva le mani legate ad un anello di una colonna bassa.
L’esecutore, armato di una frusta di corregge pieghevoli, terminanti con ossicini,
percoteva con una lentezza calcolata il dorso curvo e teso della vittima. Le
corregge flessibili flagellavano ora le spalle ora il petto e vi scavavano
solchi profondi, dai quali sprizzava il sangue e dai quali si staccavano brani
di carne. Gesù è presentato in questo stato alla folla, rivestito di un
mantello scarlatto, con la corona di spine e un bastone per scettro. I Giudei comprendono tutta l’ironia di questa
scena. Oseranno essi vedere ancora in questo re un competitore di Cesare?
Condanna di
Gesù.
Essi
allora sì riportano con dispetto al suo titolo di Figlio di Dio che deve essere
la sola causa della sua morte. Pilato, scosso dall’argomento decisivo: « Noi ti
denunzieremo a Cesare », cerca di trovare un ultimo espediente per sua
tranquillità. Con l’atto simbolico di lavarsi le mani, Pilato mostra ai Giudei
che davanti al suo tribunale, Gesù è innocente e che egli non lo consegna ad
essi se non Perché essi pretendono che la loro legge lo condanni. Questo egli affermerà
fino all’ultimo momento, facendo affiggere nella sua croce una iscrizione, in
tre lingue, indicanti, secondo l’uso, il motivo della sua condanna. L’iscrizione
portava queste parole: « Gesù Nazareno Re dei Giudei ». Pilato, nella sua
viltà, è colpevole di questo omicidio, ma i Giudei, nel loro odio insultano il
Figlio di Dio e commettono un deicidio.
La via Crucis. —
La crocifissione. — L’agonia.
Verso
le ore 11, Gesù lasciò il pretorio. La dolorosa via crucis cominciò con
la via che scende nella valle del Tiropeon, quindi risalecon un rapido
pendio fino alle porte della città. Lì, fuori delle mura,si trova il Golgota,
ove si facevano le esecuzioni. Nella tenebraprofonda che si fece fra
mezzogiorno e le tre, come fu constatato intutto l’impero romano, Gesù
subì il suo ultimo supplizio. La croceera il più crudele e il più
atroce dei tormenti perché la vittima,necessariamente immobilizzata,
doveva sopportare, durante varieore, tutto il peso del proprio corpo,
con le braccia tese. L’orribiletensione imposta, congestiona il sangue
alla faccia e al petto eprovoca un dolore insopportabile che viene
caratterizzato spesialmente da una sete bruciante. Morir crocifisso era morir
unicamente di dolore nella più crudele delle agonie. Verso sera, si
affrettaronoa spezzare le gambe del suppliziato, i cui piedi si
trovavano a circaun metro da terra.
Morte di Gesù. —
Sua Sepoltura.
Viene
ora il momento decisivo che segna per il genere umano l’ora della sua
redenzione. Gesù imprimerà col sigillo del suo sangue tutti gli atti della sua
vita affinché siano atti di redenzione. Per mostrare che non è per atto forzato,
ma per amore verso il Padre suo e verso gli uomini che Egli accetta che la
morte compia su di lui l’opera sua, emette un gran grido e spira. Il nostro
divin Salvatore è dunque morto. Con Maria sua Madre e con S. Giovanni, rimaniamo
ai piedi della sua Croce e come i pochi Giudei che si convertirono in questo
momento, battiamoci il petto, perché Gesù ha offerto la sua vita a Dio per
espiare i nostri peccati. Erano circa le tre dopo mezzogiorno. Verso le Cinque,
fu tolto dalla croce e sepolto in fretta, perché alle sei della sera cominciava
il solennissimo Sabato. Coincideva infatti con il 15 di Nisan, giorno più
importante delle feste pasquali. Giova ricordar che i Giudei non avevano
cimiteri. Essi si preparavano un monumento funerario nella loro proprietà,
spesso ai due lati delle grandi strade di comunicazione. Giuseppe, che era di
Arimatea, città della Giudea, pose Gesù nel sepolcro, che aveva fatto fare per
se stesso e che si trovava in un orto presso il luogo ove il Salvatore mori.
Nicodemo aveva portato per imbalsamarlo provvisoriamente una grande quantità di
profumi, circa 32 kilogrammi. Di poi chiusero il sepolcro con una grande
pietra, assai difficile a rimuoversi. Le sante donne se ne ritornarono in
città, vi acquistarono aromi, con l’intenzione di seppellire Gesù con più cura,
dopo il riposo del Sabato. Il giorno seguente, ossia il sabato i Giudei sigillarono
il sepolcro e vi posero delle guardie. — Amiamo ripetere in questo giorno
insieme a Gesù la preghiera del Communio: « Padre, se questo calice non può passare
senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà ».
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉSET MÉDITÉS
A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES
SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi
tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e
delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli
oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]
Par M. l’Abbé
J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE TITULAIRE
DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence
sacrée.
[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di
Scrittura santa e sacra Eloquenza]
TOME TROISIÈME (III)
PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE
DELAMMIE, 1878
IMPRIM.
Soissons, le 18
août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
Salmo 118 (6)
MEM.
[97] Quomodo dilexi legem tuam,
Domine! tota die meditatio mea est.
[98] Super inimicos meos prudentem me fecisti mandato tuo, quia in æternum mihi est.
[99] Super omnes docentes me intellexi, quia testimonia tua meditatio mea est.
[100] Super senes intellexi, quia mandata tua quæsivi.
[101] Ab omni via mala prohibui pedes meos, ut custodiam verba tua.
[102] A judiciis tuis non declinavi, quia tu legem posuisti mihi.
[103] Quam dulcia faucibus meis eloquia tua! super mel ori meo.
[104] A mandatis tuis intellexi; propterea odivi omnem viam iniquitatis.
NUN.
[105] Lucerna pedibus meis verbum tuum, et lumen semitis meis.
[106] Juravi et statui custodire judicia justitiae tuæ.
[107] Humiliatus sum usquequaque, Domine; vivifica me secundum verbum tuum.
[108] Voluntaria oris mei beneplacita fac, Domine, et judicia tua doce me.
[109]Anima mea in manibus meis
semper, et legem tuam non sum oblitus.
[110] Posuerunt peccatores laqueum mihi, et de mandatis tuis non erravi.
[111] Hæreditate acquisivi testimonia tua in æternum, quia exsultatio cordis mei sunt.
[112] Inclinavi cor meum ad faciendas justificationes tuas, in æternum, propter retributionem.
[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol.
Tasso ed. MDCCCXXXI]
SALMO CXVIII (6).
MEM
97. Quanto cara è a me la tua legge, o Signore! Ella è tutto quanto il giorno la mia meditazione.
98.
Col tuo comandamento mi facesti prudente più dei miei nemici, perché io lo ho
davanti in eterno.
99.
Ho capito più io, che tutti quelli che m’istruivano; perché i tuoi comandamenti
sono la mia meditazione.
100.
Ho capito più che gli anziani, perché sono andato investigando i tuoi
comandamenti.
101.
Da ogni cattiva strada tenni indietro i
miei passi per osservare i tuoi precetti.
102.
Non declinai da’ tuoi giudizi, perché tu
mi hai dato una legge.
103.
Quanto son dolci alle mie fauci le tue parole! più che non è il miele alla mia
bocca
104.
Da’ tuoi comandamenti feci acquisti di scienza; per questo ho in odio qualunque
via d’iniquità.
NUN.
105.
Lucerna a’ miei passi ell’è la tua parola, e luce a’ miei sentieri.
106.
Giurai, e determinai di osservare i giudizi di tua giustizia.
107.
Io sono umiliato per ogni parte, o Signore: dammi vita secondo la tua parola.
108.
Sien graditi a te, o Signore, i volontarii sacrifizi della mia bocca; e
insegnami i tuoi giudizi.
109.
Porto sempre l’anima mia nelle mie mani; e non mi sono scordato della tua
legge.
110.
I peccatori mi tesero il laccio; ma io non uscii della strada de’ tuoi
precetti.
111.
Per mia eterna eredità feci acquisto de’ tuoi insegnamenti, perché essi sono il
gaudio del cuor mio.
112.
Inchinai il mio cuore ad eseguire eternamente le tue giustificazioni per amore
della retribuzione.
Sommario analitico
VI SEZIONE
97-112.
Il Re-Profeta,
considerando i molteplici pericoli del viaggio, è ricorso alla meditazione,
alle ispirazioni interiori della legge di Dio come ad un fedele amico per
scoprire le insidie e gli inganni dei suoi nemici.
I. L’amore, e di seguito la meditazione continua della legge di Dio,
perfeziona l’intelligenza e la volontà (97).
– Quest’amore perfeziona
l’intelligenza:
1° scoprendo
tutte le trappole e le insidie del nemico (98);
2° dandoci una
saggezza, una prudenza superiore alla scienza, alla saggezza dei maestri più
abili ed alla prudenza degli anziani più sperimentati (99, 100).
II.- La pratica, l’osservanza fedele della legge:
1° Fa evitare
un gran numero di peccati, presentando la legge che li evita, così come imposto
da Dio stesso (101, 102);
2° è una causa
delle gioie più dolci (103), delle delizie spirituali, mille volte più dolci,
senza paragoni, di tutte le dolcezze sensibili; dolcezze non sempre sensibili,
ma sempre molto reali e veraci;
3° ispira un vero
orrore di ogni specie di male, e per tutte le vie che vi conducono (104);
4° ci dirige con
sicurezza nella via dei comandamenti (105);
5° afferma la
volontà nella risoluzione di esservi fedele (106);
6° Rende
gradevoli a Dio i sacrifici volontari che essa ispira (108).
III.
– I motivi che portano il Profeta a questa meditazione costante, a questa
osservanza fedele della legge di Dio sono:
1° I pericoli
estremi che gli fanno correre i suoi nemici (109, 110);
2° L’obbligo
che gli viene imposto come eredità, di essere fedele alla legge di Dio (111);
3° La speranza
della ricompensa (112)
Spiegazioni
e Considerazioni
VI SEZIONE — 97-112
I. – 97-100
ff. 97- 100. – Dopo aver
precedentemente detto: « Il vostro comandamento è di largo accesso, » il
Profeta ci mostra qui la larghezza di questo comandamento: « Signore, quanto ho
amato la vostra legge. » Questa larghezza della legge è dunque la carità. Come
si potrebbe, in effetti, amare ciò che Dio ci ordina di amare, se non si amasse
il comandamento che lo ordina? Ora, questo comandamento è la Legge stessa. «
Tutto il giorno, egli dice, è la mia meditazione. » Io l’ho amata a tal punto
che ogni giorno, essa è la mia meditazione. Tutto il giorno significa tutto il
tempo, e cioè che sempre questo santo amore trionfa della concupiscenza, che
spesso si oppone all’adempiere il compimento delle prescrizioni della legge. (S.
Agost.). – Man mano che si conosce la legge di Dio, la si ama, e quanto
più la si ama, più la si conosce, perché è l’amore che ce la fa conoscere e che
ci fa entrare – dice S. Agostino – nella verità dai canti. – Il Profeta avrebbe
potuto dire: Con quale alacrità ho compiuto la vostra legge! Ma poiché egli ha
molto più merito nel fare qualcosa per amore, piuttosto che per timore, egli
dice: « Quanto ho amato la vostra legge! » … Ci sono molti che danno ai poveri
per paura di essere rimproverati per la loro cupidigia ed empia avarizia; ci
sono molti che vengono in Chiesa, perché temono che si noti la loro assenza e
la loro negligenza; ma non tutti amano ciò che praticano. Obbedire per
necessità è dunque inconciliabile con l’amore, perché è impossibile non volere
ciò che si ama. L’amore, dal canto suo, può essere separato dall’opera, quando
si fa qualcosa per timore o per pudore. Ma il Profeta non è sottomesso ad
alcuna di queste imperfezioni. Ciò che ama, egli fa, e ciò che fa, lo ama e se
ne occupa continuamente, perché medita la legge di Dio tutti il giorno
ininterrottamente (S. Ilar.). – Meditate dunque tutto il giorno la Legge di Dio,
non contentatevi di una lettura superficiale. Se volete comprare un campo,
acquistare una casa, prendete consiglio da un uomo più prudente, ed esaminate
con cura il valore di ciò che comprate per non essere ingannato. Ma qui si
tratta di comprare voi stessi, è in questione il vostro prezzo; considerate ciò
che siete, quale nome portate e che voi acquistate, non un campo, non argento o
pietre preziose, ma Gesù-Cristo, al quale nulla può essere comparato. Prendete
dunque per consiglieri Mosè, Isaia, Geremia, Pietro, Paolo, Giovanni, ed il
gran Consigliere Gesù, Figlio di Dio, per acquisire il possesso del Padre. È
con essi che bisogna trattare questo affare, è con essi che bisogna conferire, che
bisogna meditare tutto il giorno come faceva Davide. (S. Ambr.). – Noi abbiamo
sotto gli occhi una folla di giovani chierici la cui saggezza sorpassa quella
dei vegliardi, la cui maturità previene l’andamento del tempo, e che
suppliscono all’età con la santità. Eccellenti giovani sembrano ancor fanciulli
per gli anni, ma sono sicuri per malizia. Io dico per malizia e non per
saggezza, perché essi non danno a nessuno, secondo l’avviso di S. Paolo, il
diritto di disprezzare la loro gioventù. Giovani virtuosi sono preferibili ad
uomini vecchi nel vizio (S. Bern.De mor. et off.
Episc. VII). –
« Voi mi avete reso più prudente dei miei nemici, etc. » La vera
prudenza dei Cristiani consiste nel saper trarre la loro salvezza dal male
anche quando lo fanno i loro nemici; invece tutta la prudenza di coloro che li
perseguitano, si reduce a perdere se stessi, e non pensano che a perdere gli
altri. Questa non è una lettura passeggera, ma uno studio, una meditazione
continua della Legge di Dio presa come regola costante ed inviolabile della
nostra condotta che non può ispirarci questa prudenza (S. Ambr. e Dug.). – « Io ho più intelligenza di coloro che mi
istruivano, etc. » Il linguaggio del Re-Profeta sembrerebbe qui presuntuoso e
temerario, se non avesse dichiarato precedentemente, in un altro Salmo, che Dio
stesso era stato suo Maestro. Egli vuole dunque farci intendere che gli uomini
non possono insegnare ciò che è divino, e che, di conseguenza, coloro che pretendono
di insegnare, ignorano ciò che essi insegnano, mentre il discepolo che è
istruito da Dio, ne ha la conoscenza. Oltre al dono di Scienza che si deve alle
comunicazioni intime dello Spirito-Santo, noi vediamo ancora qui che vi sono un
gran numero di maestri e di dottori che si vantano di insegnare ciò che essi
non comprendono, mentre vi sono tanti discepoli che, con la loro applicazione
personale, giungono a conoscere ciò in cui i loro maestri non sono stati capaci
di istruirli (S. Ambr.). – È così che noi vediamo un gran numero di anime
comuni, senza scienza alcuna, ma che si occupano continuamente della Legge di
Dio, spesso più illuminati di sapientissimi dottori, o di direttori rinomati
che li istruiscono (Dug.). – « Io sono stato più intelligente degli anziani, etc.
», bene stupendo che viene da Dio, egli ha più intelligenza degli anziani,
perché per grazia di Dio, si è elevato fino alla scienza ed alla maturità della
vecchiaia. Così come la vita senza macchia è una lunga vita, (Sap.
IV, 8), ugualmente la scienza perviene ad una vita pura e senza
macchia, considerata come una vera vecchiaia dell’uomo … indice di una
vecchiaia venerabile, ed è prudenza più grande, e che dà ad un consiglio la
maturità dell’età che non è la lunghezza della vita, ma la saggezza e la
maturità dell’intelligenza. (S. Ambr.). – Io ho – dice il
Re-Profeta – avuto grandi difficoltà durante i miei anni giovanili con nemici
potenti, con cortigiani anziani e corrotti; ma sono stato più accorto di loro,
mi sono burlato delle finezze di questi vecchi sperimentati, senza intendere
altra finezza se non ricercare semplicemente i comandamenti di Dio (Bossuet,Sur la loi de Dieu).
ff. 101, 102. – « Ho allontanato
i miei piedi da ogni via cattiva. » È veramente degno di essere più
intelligente degli anziani, colui che, onorato dall’ispirazione dello Spirito
Santo, insegna ai vegliardi non solo l’intelligenza della verità, ma ancora la
fuga dal peccato e la vigilanza per preservarsi da ogni colpa. La fragilità
umana è portata a scendere rapidamente la china del male ed a precipitarsi
verso ogni colpa. La fragilità umana è portata a scendere rapidamente la china
del male ed a precipitarsi nel vizio con le sue passioni; così il Re-Profeta
insegna a garantirsi da questo pendio scivoloso e dalla sinuosità pericolosa
della strada. « Io ho allontanato i miei piedi da ogni strada cattiva, cioè
dalle vanità di questo mondo che è interamente nel male. Tutto ciò che è
dubbioso, incerto nei suoi risultati, è cattivo. Una luce incerta è per noi una
luce cattiva, noi dobbiamo considerare come cattivo tutto ciò che mescola la
tenebre del male alla verità (S. Ambr.). – Le passioni sono i
piedi dell’anima che la portano al bene o al male, secondo che siano buone o
cattive. – Occorre dunque dapprima sforzarci di allontanarci da ogni via
cattiva, di ritirarcene se vi ci siamo lasciati condurre, e poi in seguito
applicarci ad osservare la Legge di Dio.
Voler osservare la legge di Dio prima di allontanare i propri passi
dalle vie d’iniquità, è un errore. (S. Hilar.). – « Io non mi sono
allontanato dai vostri giudizi. » Il Profeta ci indica come dobbiamo
allontanare i nostri piedi da ogni via cattiva, ed avere sempre davanti agli
occhi i giudizi di Dio e la lotta che Egli ci ha prescritto (S.
Hilar.). Il popolo cristiano scelto tra le nazioni, può dire a giusto
titolo: « Voi mi avete prescritto una legge. » Non è da Mosè, né dai Profeti,
ma da Voi stesso, Signore Gesù-Cristo. « Voi mi avete prescritto una legge, »,
cioè il Vangelo; ecco perché non mi sono mai allontanato dalla strada, perché ho
fissato i miei sguardi su di Voi, io vi ho conosciuto e, seguendo i vostri
sentieri, ho conosciuto la vera strada.
II. — 103-108.
ff. 103, 104. – Il Re-Profeta
intende in anticipo la predicazione del Vangelo, che lo spirito profetico gli
scopriva, ed esclama: « Le vostre parole sono dolci al mio palato; il miele più
squisito è meno gradito alla mia bocca. » – Il miele è dolce alla bocca e non
alla gola; al di là della bocca e del palato, il senso del gusto non ha azione.
Le parole divine, al contrario, sono dolci alla gola, perché scivolano e
penetrano nel più intimo dell’anima. Esse sono gradevoli, non alla bocca, come
gli alimenti, ma fanno sentire la loro dolcezza là ove risiede il senso della
conoscenza, della prudenza e dell’intelligenza (S. Ilar.). – Cosa c’è di
più dolce, in effetti, che intendere annunziare la remissione dei peccati, una
vita eternamente felice e la resurrezione dai morti, dolci e sante credenze che
vengono ad addolcire tutto ciò che sapeva di morte eternamente dolorosa. È
credendo a queste verità che noi abbiamo cominciato ad affrancarci dal timore e
a dire: « o morte, dov’è la tua vittoria? » Con ragione egli dice: le vostre
parole sono dolci al mio palate perché la grazia spirituale è stata diffusa nel
più intimo del nostro cuore (S. Ambr.). – È là questa soavità che
il Signore dà, affinché la nostra terra produca il suo frutto; (Ps.
LXXXIV, 13); vale a dire, affinché ci faccia veramente bene ciò che è
bene, non per il timore di un male carnale, ma per la dolcezza del bene
spirituale … alcuni manoscritti aggiungono: « E il raggio del miele. » La chiara
dottrina della saggezza è simile al miele; ma il raggio del miele designa la
saggezza che proviene dai misteri nascosti, come le cellule di cera che nascondono
il miele, dalla bocca di colui che li spiega e sembra schiacciarli con i suoi
denti. Ma questo miele è dolce alla bocca del cuore e non a quella della carne.
(S.
Agost.). – Cosa significano queste parole che vengono dopo: « Io ho
compreso per i vostri comandamenti, » parole tutte diverse da queste: « Io ho
compreso i vostri comandamenti. » Il Profeta dichiara dunque di aver compreso e,
con l’aiuto dei comandamenti di Dio, è giunto a comprendere le cose che
desiderava sapere. È in questo senso che è scritto: « Voi avete desiderato la
saggezza; osservate i comandamenti ed il Signore ve la darà! » (Eccli,
I, 33), per timore che uno di coloro che mettono il carro davanti ai
buoi non voglia, prima di avere acquisito l’umiltà e l’obbedienza, raggiungere
le altezze della saggezza, che non può comprendere se essa non viene a suo
tempo. Questi uomini ascoltino dunque queste parole: « Non cercate di
raggiungere ciò che è troppo elevato per voi, né di scrutare ciò che oltrepassa
le vostre forze; ma ciò che Dio vi ha comandato, abbiatelo sempre sotto gli
occhi. » (Ibid. III, 22). È così che l’uomo giunge alla saggezza dei
misteri con la sottomissione ai comandamenti. (S. Agost.).
ff. 105-108. – Questa parola di
cui il Profeta dice: « Essa è la lampada che illumina i suoi piedi e la luce
dei suoi passi, » è la parola che è stata messa nella bocca dei Profeti, e che
è stata predicata dagli Apostoli (S. Agost.). – Questa parola è per
gli uni una semplice fiamma, per gli altri una grande luce. Essa è una torcia
per me, una lampada viva per gli Angeli. Essa era una luce per Pietro quando
l’Angelo si pose presso di lui nella prigione e fu circondato da una luce
chiara. Essa era una luce per Paolo quando, in mezzo ad una accecante
chiarezza, intese una voce che gli diceva: « Saulo, Saulo, perché mi
perseguiti? » (Act. XII, 7). La debole luminosità della fiamma che illuminava
Paolo sparì davanti allo splendore della luce divina … La parola di Dio, deve
essere la fiamma che guida i nostri piedi e la luce che rischiara i nostri
sentieri. Una torcia è sufficiente ai nostri piedi perché possano camminare, ma
non è sufficiente per illuminare i nostri sentieri stretti ove è facile
smarrirsi. Ora, la stessa parola di Dio è nel contempo, la fiamma che guida i
nostri passi e la luce che rischiara i nostri sentieri (S. Ambr.). – Come altre
volte, Dio illuminava nell’oscurità della notte questa misteriosa colonna di
fiamme che conduceva il suo popolo in questa immensa distesa di terre incolte e
deserte; così ci ha proposto come una fiamma celeste, la sua Legge ed i suoi
ordini, per rassicurare il nostro spirito fluttuante e dirigere i nostri passi
incerti (BOSSUET,Sur la lot de Dieu.). – Colui che
cammina alla luce di questa fiamma, ed i cui passi seguono il diritto cammino
può dire con tutta fiducia: « Io ho giurato e son risoluto fortemente di
osservare i vostri comandamenti. » Colui che ha preso una forte risoluzione,
non è più abbattuto, non teme di cadere, perché è fortemente stabilito, come
radicato nella risoluzione che ha preso. Davide, dunque si tiene fortemente
stabilito in questa risoluzione che ha formulato, senza timore alcuno di
smarrirsi in mezzo alle tenebre di questo mondo, perché egli temeva, non
giurava; se egli tremava di non potere osservare i comandamenti di Dio, non
avrebbe aggiunto a questa ferma risoluzione la consacrazione del giuramento.
Nessuno giura legittimamente se non a condizione di sapere bene quale sia
l’oggetto del suo giuramento. Giurare, è dunque indice di scienza e la
testimonianza di una coscienza perfettamente illuminata dalla luce della parola
di Dio (S. Ambr.). – Ed è per la fede che si riguardano i giudizi
della giustizia di Dio, perché si crede che sotto questo giusto giudizio,
nessuna buona azione non abbia ricompensa e nessun peccato resti impunito. Ma come
il Corpo do Cristo si è formato alla fede per mezzo di numerose ed orribili
sofferenze, il Profeta aggiunge: « Io sono stato umiliato fino al punto
estremo; », cioè egli ha sofferto la più forte persecuzione, perché aveva
giurato e risolto di riguardare i giudizi della giustizia di Dio. E per timore
che la sua fede non si indebolisse in questa terribile umiliazione, egli
aggiunge: « Signore, datemi vita secondo la vostra parola, cioè secondo la
vostra promessa. » (S. Agost.). – Colui che è umiliato riceve la
vita secondo la promessa del Signore; colui che è vivificato dallo Spirito di
Dio è un servo volontario. Importa molto in effetti, sapere se si faccia
volontariamente o per necessità ciò che piace a Dio. Colui che serve Dio
volontariamente, merita una ricompensa; colui che lo serve forzatamente compie
un dovere, secondo la dottrina dell’Apostolo (I Cor. IX, 16, 17),
(S. Ambr.). – Con questi atti volontari della bocca, bisogna
intendere dei sacrifici di lode offerti da una confessione tutta d’amore e non
per il timore che impone la necessità. È in questo stesso senso che egli allora
dice: « Io vi offrirò dei sacrifici volontari. » (Ps. LII, 8), (s.
Agost.). – Egli aggiunge: « Ed insegnatemi i vostri giudizi, perché i
giudizi di Dio sono come un abisso profondo ed insondabile (Rom. IV, 33),
e non possiamo che conoscerli che alla scuola di Gesù-Cristo, che è il nostro
solo ed unico Maestro in tutto. Ora a questi giudizi che ci insegna, e cioè di
non rendere il male, ma di fare del bene a coloro che ci hanno offeso, è sul
suo esempio non maledire coloro che ci
maledicono, non colpire quelli che ci colpiscono, ma indirizzare a Dio la
preghiera che questo divino Salvatore indirizzava a suo Padre sulla croce per i
suo carnefici (Luc. XXIII, 34): « Padre, perdona loro, perché non
sanno qual che fanno. » (S. Ambr.).
III.— 109-113.
ff. 108, 110. – « La mia anima è sempre tra le mie mani;
» Vale a dire, io sono sempre in pericolo di perdere la vita. O meglio, in
senso più verosimile, io porto sempre la mia anima nelle mie mani, per
considerarla attentamente, per vedere ciò che le manca, per esaminare e
purificare tutti i suoi pensieri, tutte le sue affezioni. – « La mia anima è
sempre nelle mie mani. » Così come noi non possiamo obliare ciò che teniamo
nelle nostre mani, non dobbiamo dimenticare mai il grande affare della nostra
anima, e sia questa la principale sollecitudine dei nostri cuori. Occorre difenderla
e coprirla con le mani del cuore e del corpo, per paura che quest’anima,
illuminata dai lumi dell’alto, non venga a spegnersi, e non bisogna mollare un
solo pollice del terreno, ma, quando le tentazioni, le tribolazioni minacciano
di atterrarci, bisogna dire con il santo
Re Davide: « La mia anima è sempre tra le mie mani. » Proponiamoci di bruciare,
piuttosto che cedere! (S. Bern. Serm. III, in Vig, Nativ.). – Cosa c’è di
più terribile che essere tutti i giorni in pericolo di perdere la vita e non possedere
alcun bene, anche nell’ordine della grazia, perché noi non possiamo perdere un
istante secondo la mutevolezza naturale dei nostri desideri, per le insidie
molteplici che ci tendono i peccatori, i loro esempi, le loro massime
perniciose, le loro nefandezze e la corruzione quasi generale dei loro costumi?
– « I peccatori mi hanno teso un inganno, ed io non mi sono allontanato dai
vostri comandamenti. » Queste parole erano degne dei martiri che erano
minacciati dei più crudeli supplizi, ai quali si facevano le offerte più
seducenti, per spegnere in essi il desiderio del martirio con il terrore dei
tormenti o con l’attrattiva delle ricompense. È una trappola molto pericolosa
come la minaccia della proscrizione; sovente la prospettiva dell’indigenza che
ne è il seguito, trionfa su coloro che hanno resistito alla paura della morte;
è un inganno non meno pericoloso del fuoco, della prigionia e la paura di un
supplizio prolungato; è una trappola da temere ancor più che le promesse delle
ricchezze, degli onori e dell’amicizia dei principi della terra. Colui che
trionfa di tutti questi ostacoli può ripetere con Davide: « I peccatori mi
hanno teso un’insidia, ma io non mi sono allontanato dai vostri comandamenti; »
io ho disprezzato le cose presenti per cercare unicamente i beni futuri, ho
visto aprirsi davanti a me il regno dei cieli, che Dio stesso mi aveva promesso
(S. Ambr.).
ff. 111-112. – Il Profeta dice a Dio: « Io ho acquisito le vostre testimonianze per essere eternamente la mia eredità; » cioè io sono erede dei vostri comandamenti, io ho cercato la vostra successione in virtù del diritto che mi danno la fede e la pietà … (S. Ambr.). – Un erede, secondo il costume e le leggi umane, diventa possessore di tutti i beni di cui è erede; ma il Profeta disdegna le eredità della terra, lui che è erede delle testimonianze del Signore (S. Ilar.). – Nulla di più giusto in questa espressione: « Io ho acquisito un’eredità, » perché anche noi che siamo stati dapprima eredi del peccato, siamo ora eredi di Gesù-Cristo. La prima eredità fu un’eredità di crimini; il secondo, un’eredità di virtù; la prima ci ha reso schiavi, la secondo ha rotto le nostre catene; l’una ci ha esposti, carichi di debiti, ai più crudeli creditori, l’altra ci ha acquisiti a Gesù-Cristo con i meriti della sua passione. La funesta successione di Eva divorava l’uomo intero, la ricca eredità di Gesù-Cristo ha posto l’uomo in piena libertà. Non è per un solo uomo, né per un piccolo numero di uomini, che Gesù ha scritto il suo testamento, ma per tutti gli uomini. Tutti noi siamo inclusi tra i suoi eredi, non una porzione di eredità, ma per la totalità. Il testamento è comune, tutti ne abbiamo diritto senza eccezione, tutti lo possiedono egualmente, e la parte di ciascun erede non è sminuita da ciò che possiedono i coeredi. Al contrario degli eredi della terra, l’eredità di Cristo è indivisa ed il possesso del regno dei cieli non soffre né divisione, né spartizioni (S. Ambr.). – Esaminiamo ciò che gli uomini desiderano in questo mondo come eredità. Si può dire che pochi hanno preso Dio per essere sempre loro parte di gioia del loro cuore! – « Io ho inclinato il mio cuore per praticare eternamente i vostri ordini. » Il Re-Profeta aveva detto in precedenza: « Inclinate il mio cuore verso le vostre testimonianze (vv. 36), » per farci conoscere che questa inclinazione del cuore appartiene nel contempo alla grazia di Dio ed alla nostra volontà. Ma come praticheremo eternamente i giusti ordini di Dio? In verità, le buone opere che noi facciamo per venire in soccorso delle necessità del prossimo, non possono essere eterne, al pari di queste necessità; ma se non pratichiamo queste opere per amore, esse non ci rendono giusti; se al contrario le compiamo per amore, questo amore è eterno, e gli è preparata una ricompensa eterna. È in vista di questa ricompensa che egli chiede di avere inclinato il suo cuore verso la pratica delle giuste ordinanze di Dio, affinché amandole per l’eternità, meriti di possedere eternamente ciò che ama. (S. Agost.). – È così che si. trova condannata una certa spiritualità raffinata che, sotto il pretesto di un disinteresse immaginario, ritiene essere una imperfezione il desiderare il possesso di Dio; servire Dio come Davide, in vista di questa ricompensa, è al contrario, il vero fine dell’uomo, che altro non è se non Dio, per il Quale egli è stato creato.
“La Giustizia eleva la
gente, il peccato rende miseri i popoli“. Da questa sentenza biblica il Santo Padre Benedetto XIV, imperniava la
sua lettera enciclica sul vergognoso vizio dell’usura, la forma più esplicita
dell’avarizia. Già a quell’epoca l’usura procurava mali a uomini e popoli, perché
violava non solo le leggi canoniche, ma pure quelle del diritto naturale e
divino. Questo è il motivo perché oggi uomini, ma soprattutto popoli ed
organismi sopranazionali sono e stanno precipitando nell’abisso della miseria e
della rovina spirituale, oltre che materiale. Il sistema dell’usura oggi è
legge assoluta – nuovo tragico idolo demoniaco – imposto dalle banche nazionali
e da organismi più o meno occulti supranazionali, nelle quali operano soggetti
senza scrupoli, avidi non solo di guadagni, ma affascinati dal gusto del male
nel vedere anche popoli interi nella miseria e nella disperazione. Questa
infatti è una delle armi più potenti che satana ha inventato per assoggettare
sia avidi speculatori, sia popoli che gli si rivolgono voltando le spalle al
Cristo, perché attratti da facili guadagni e da un benessere fittizio, trappole
mortali per il vero onesto benessere materiale, e soprattutto per indurre al
peccato ed alla perdita dell’anima. Sciocchi sono così i popoli che hanno
affidato finanza e fortuna economico-monetaria a lupi rapaci e malefici che hanno inventato prima
il sistema della cambiali e poi quello della carta moneta, o meglio
carta-straccia, carta senza alcun corrispettivo ma che, prestata ai governi dei
Paesi, vuolsi che si renda con capitali di beni veri caricati da interessi
astronomici, fuori da possibilità concrete di solvibilità, e quindi mezzo di
schiavitù e ricatti sociali vergognosi. A tutto questo la Chiesa ha cercato di
porre limiti e regolamentazione, argini oggi totalmente infranti con la
conquista dei poteri finanziari-usurai della finta chiesa-sinagoga di satana
che si spaccia per Chiesa Cattolica e che anzi per prima, è titolare di banche
e di traffici sospetti (per usure un eufemismo). Leggiamo quindi quanto ci
suggerisce il Sommo Pontefice e che oggi rappresenterebbe un momento chiave
nella lotta alle combriccole luciferine che governano il mondo e la falsa
chiesa, imponendo quanto di più malefico possibile in tutti gli ambiti,
semplicemente sulla base dell’usura di cui alcuni popoli in particolare, sono
maestri e dominatori.
S. S. Benedetto XIV Vix pervenit
Non appena pervenne alle nostre orecchie
che a cagione di una nuova controversia (precisamente se un certo contratto si
debba giudicare valido) si venivano diffondendo per l’Italia alcune opinioni
che non sembravano conformi ad una saggia dottrina, ritenemmo immediatamente
che spettasse alla Nostra Apostolica carica apportare un rimedio efficace ad
impedire che questo guaio, con l’andar del tempo e in silenzio, acquistasse
forze maggiori; e bloccargli la strada perché non si estendesse serpeggiando a
corrompere le città d’Italia ancora immuni.
1. Perciò, prendemmo la decisione di
seguire la procedura della quale sempre fu solita servirsi la Sede Apostolica:
cioè, abbiamo spiegato tutta la materia ad alcuni Nostri Venerabili Fratelli
Cardinali della Santa Romana Chiesa, che sono molto lodati per la loro profonda
dottrina in fatto di Sacra Teologia e di Disciplina Canonica; abbiamo
interpellato anche parecchi Regolari coltissimi nell’una e nell’altra materia,
scegliendoli, alcuni fra i Monaci, altri nell’Ordine dei Mendicanti, altri
ancora fra i Chierici Regolari; abbiamo aggiunto anche un Prelato laureato in utroque
jure e dotato di lunga pratica del Foro. Stabilimmo che il giorno 4 del
luglio scorso si riunissero tutti alla Nostra presenza e chiarimmo loro i
termini della questione. Apprendemmo che già essi ne avevano notizia e la
conoscevano a fondo.
2. Successivamente abbiamo ordinato che,
liberi da qualsiasi parzialità e avidità, esaminassero accuratamente tutta la
materia ed esprimessero per iscritto le loro opinioni; tuttavia non abbiamo
chiesto che giudicassero il tipo di contratto che aveva motivato la
controversia, perché mancavano parecchi documenti indispensabili, ma che
fissassero, a proposito delle usure, un criterio definitivo, al quale sembrava
recassero un danno non indifferente quelle idee che da un po’ di tempo
cominciavano a diffondersi fra la gente. Tutti ubbidirono. Infatti,
comunicarono le loro opinioni in due Congregazioni, delle quali la prima fu
tenuta in Nostra presenza il 18 luglio, l’altra il primo agosto scorsi; alla
fine tutti consegnarono le proprie relazioni scritte al Segretario della
Congregazione.
3. All’unanimità hanno approvato quanto
segue:
I. Quel genere di peccato che si chiama
usura, e che nell’accordo di prestito ha una sua propria collocazione e un suo
proprio posto, consiste in questo: ognuno esige che del prestito (che per sua
propria natura chiede soltanto che sia restituito quanto fu prestato) gli sia
reso più di ciò che fu ricevuto; e quindi pretende che, oltre al capitale, gli
sia dovuto un certo guadagno, in ragione del prestito stesso. Perciò ogni siffatto guadagno
che superi il capitale è illecito ed ha carattere usuraio.
II. Per togliere tale macchia non si
potrà ricevere alcun aiuto dal fatto che tale guadagno non è eccessivo ma moderato, non grande ma
esiguo; o dal fatto che colui dal quale, solo a causa del prestito, si reclama
tale guadagno, non è povero, ma ricco; né ha intenzione di lasciare inoperosa
la somma che gli è stata data in prestito, ma di impiegarla molto
vantaggiosamente per aumentare le sue fortune, o acquistando nuove proprietà, o
trattando affari lucrosi. Infatti
agisce contro la legge del prestito (la quale necessariamente vuole che ci sia
eguaglianza fra il prestato e il restituito) colui che, in forza del mutuo, non
si vergogna di pretendere più di quanto è stato prestato, nonostante
fosse stato convenuta inizialmente la restituzione di una somma eguale a quella
prestata. Pertanto, colui che ha ricevuto, sarà obbligato, in forza della norma
di giustizia che chiamano commutativa (la quale prevede che nei contratti umani
si debba mantenere l’eguaglianza propria di ognuno) a rimediare e a riparare
quanto non ha esattamente mantenuto.
III. Detto questo, non si nega che
talvolta nel contratto di prestito possano intervenire alcuni altri cosiddetti
titoli, non del tutto connaturati ed intrinseci, in generale, alla stessa
natura del prestito; e che da questi derivi una ragione del tutto giusta e
legittima di esigere qualcosa in più del capitale dovuto per il prestito. E
neppure si nega che spesso qualcuno può collocare e impiegare accortamente il
suo danaro mediante altri contratti di natura totalmente diversa dal prestito,
sia per procacciarsi rendite annue, sia anche per esercitare un lecito commercio,
e proprio da questo trarre onesti proventi.
IV. Come in tanti diversi generi di
contratti, se non è rispettata la parità di ciascuno, è noto che quanto si
percepisce oltre il giusto ha a che vedere se non con l’usura (in quanto non vi
è prestito, né palese né mascherato), certamente con qualche altra iniquità,
che impone parimenti l’obbligo della restituzione. Se si conducono gli affari
con rettitudine, e li si giudica con la bilancia della Giustizia, non c’è da
dubitare che in quei medesimi contratti possano intervenire molti modi e leciti
criteri per conservare e rendere numerosi i traffici umani e persino lucroso il
commercio. Pertanto, sia lungi dall’animo dei Cristiani la convinzione che, con
l’usura, o con simili ingiustizie inflitte agli altri possano fiorire lucrosi
commerci; invece abbiamo appreso dallo stesso Divino Oracolo che “La Giustizia eleva la
gente, il peccato rende miseri i popoli“.
V. Ma occorre dedicare la massima
attenzione a quanto segue: ciascuno si convincerà a torto e in modo
sconsiderato che si trovino sempre e in ogni dove altri titoli legittimi
accanto al prestito, o, anche escludendo il prestito, altri giusti contratti,
col supporto dei quali sia lecito ricavare un modesto guadagno (oltre al
capitale integro e salvo) ogni volta che si consegna a chiunque del danaro o
frumento o altra merce di altro genere. Se alcuno sarà di questa opinione, avverserà non solo i
divini documenti e il giudizio della Chiesa Cattolica sull’usura, ma anche
l’umano senso comune e la ragione naturale. A nessuno infatti può
sfuggire che in molti casi l’uomo è tenuto a soccorrere il suo prossimo con un
prestito puro e semplice, come insegna soprattutto Cristo Signore: “Non
respingere colui che vuole un prestito da te“. Del pari, in molte
circostanze, non vi è posto per nessun altro giusto contratto, eccetto il solo
prestito. Bisogna dunque che chiunque voglia seguire la voce della propria
coscienza, si accerti prima attentamente se davvero insieme con il prestito non
si presenti un altro giusto titolo e se non si tratti invece di un altro
contratto diverso dal mutuo, in grazia del quale sia reso puro e immune da ogni
macchia il guadagno ottenuto.
4. In queste parole riassumono e
spiegano le loro opinioni i Cardinali, i Teologi e Uomini espertissimi di
Canoni, il parere dei quali abbiamo sollecitato su questa gravissima questione.
Anche Noi non abbiamo tralasciato di dedicare il nostro privato impegno alla
stessa questione, prima che si riunissero le Congregazioni, e durante i loro
lavori e quando già li avevano conclusi. Infatti con estrema attenzione abbiamo
seguito le opinioni (già da Noi ricordate) di quegli uomini prestigiosi. E a
questo punto confermiamo e approviamo tutto ciò che è contenuto nelle Sentenze
esposte più sopra, in quanto è chiaro che tutti gli scrittori, i professori di
Teologia e dei Canoni, numerose testimonianze delle Sacre Lettere, decreti dei
Pontefici Nostri Predecessori, l’autorità dei Concili e dei Sacerdoti sembrano
quasi cospirare per un’approvazione unanime delle medesime Sentenze. Inoltre
abbiamo conosciuto chiaramente gli autori ai quali devono essere attribuite
opinioni contrarie; e così pure coloro che le incoraggiano e le proteggono, o
che sembrano offrire ad essi un appiglio o un’occasione. E non ignoriamo con
quanta severa dottrina abbiano assunto la difesa della verità i Teologi vicini
a quei territori in cui hanno avuto origine tali controversie.
5. Perciò abbiamo inviato questa Lettera
Enciclica a tutti gli Arcivescovi, Vescovi e Ordinari d’Italia, in modo che
essa fosse nota a Te, Venerabile Fratello, e a tutti gli altri; e ogni qual
volta avverrà di celebrare Sinodi, di parlare al popolo, di istruirlo nelle
sacre dottrine, non si pronunci parola che sia contraria a quelle Sentenze che
più sopra abbiamo esaminato. Inoltre vi esortiamo vivamente a impedire con
tutto il vostro zelo che qualcuno osi con Lettere o Sermoni insegnare il
contrario nelle Vostre Diocesi; se poi qualcuno rifiutasse di obbedire, lo dichiariamo colpevole e
soggetto alle pene stabilite nei Sacri Canoni contro coloro che abbiano
disprezzato e violato i doveri apostolici.
6. Sul contratto che ha suscitato queste
nuove controversie, per ora non prendiamo decisioni; non stabiliamo nulla
neppure sugli altri contratti, circa i quali i Teologi e gli Interpreti dei
Canoni sono lontani tra loro in diverse sentenze. Tuttavia pensiamo di dover
infiammare il religioso zelo della vostra pietà perché mandiate ad effetto
tutto ciò che vi suggeriamo.
7. In primo luogo fate sapere con parole severissime che il
vizio vergognoso dell’usura è aspramente riprovato dalle Lettere Divine. Esso
veste varie forme e apparenze per far precipitare di nuovo nella estrema rovina
i Fedeli restituiti alla libertà e alla grazia dal sangue di Cristo; perciò, se
vorranno collocare il loro denaro, evitino attentamente di lasciarsi trascinare
dall’avarizia che è fonte di tutti i mali, ma piuttosto chiedano consiglio a
coloro che si elevano al di sopra dei più per eccellenza di dottrina e di virtù.
8. In secondo luogo, coloro che confidano
tanto nelle proprie forze e nella propria sapienza, da non aver dubbi nel
pronunciarsi su tali problemi (che pure esigono non poca conoscenza della Sacra
Teologia e dei Canoni) si guardino bene dalle posizioni estreme che sono sempre
erronee. Infatti alcuni giudicano queste questioni con tanta severità, da
accusare come illecito e collegato all’usura ogni profitto ricavato dal danaro;
altri invece sono talmente indulgenti e remissivi da ritenere esente da
infamante usura qualunque guadagno. Non siano troppo legati alle loro opinioni,
ma prima di dare un parere esaminino vari scrittori che più degli altri sono
apprezzati; poscia facciano proprie quelle parti che sanno essere sicuramente
attendibili sia per la dottrina, sia per l’autorità. E se nasce una disputa
mentre si esamina qualche contratto, non si scaglino contumelie contro coloro
che seguono una contraria Sentenza, né dichiarino che essa è da punire con
severe censure, soprattutto se manca dell’opinione e delle testimonianze di
uomini eminenti; poiché le ingiurie e le offese infrangono il vincolo della
carità cristiana e recano gravissimo danno e scandalo al popolo.
9. In terzo luogo, coloro che vogliono
restare immuni ed esenti da ogni sospetto di usura, e tuttavia vogliono dare il
loro denaro ad altri in modo da trarne solo un guadagno legittimo, devono
essere invitati a spiegare prima il contratto da stipulare, a chiarire le
condizioni che vi sono poste e l’interesse che si pretende da quel denaro. Tali
spiegazioni contribuiscono decisamente non solo a scongiurare ansie e scrupoli
di coscienza, ma anche a ratificare il contratto nel foro esterno; inoltre
chiudono l’adito alle dispute che spesso occorre affrontare perché si possa
capire se il danaro che sembra prestato ad altri in modo lecito, contenga in
realtà un’usura mascherata.
10. In quarto luogo vi esortiamo a non
lasciare adito agli stolti discorsi di coloro che vanno dicendo che l’odierna
questione sulle usure è tale solo di nome, perché il danaro, che per qualunque
ragione si presta ad altri, procura solitamente un profitto. Quanto ciò sia
falso e lontano dalla verità si comprende facilmente se ci rendiamo conto che
la natura di un contratto è totalmente diversa e separata dalla natura di un
altro, e che del pari molto fra di loro divergono le conseguenze di contratti
tra loro diversi. In realtà una differenza molto evidente intercorre tra
l’interesse che a buon diritto si trae dal danaro, e che perciò si può
trattenere in sede legale e in sede morale, e il guadagno che illegalmente si
ricava dal danaro e che quindi deve essere restituito, conformemente al dettato
della legge e della coscienza. Risulta dunque che non è vano proporre la
questione dell’usura in questi tempi e per la seguente ragione: dal denaro che
si presta ad altri si riceve molto spesso qualche interesse.
11. In modo particolare abbiamo ritenuto
opportuno esporvi queste cose, sperando che voi rendiate esecutivo ciò che da
Noi è prescritto con questa Lettera: che ricorriate anche a opportuni rimedi,
come confidiamo, se per caso e per causa di questa nuova questione delle usure
si agiti la gente nella vostra Diocesi o si introducano corruttori con
l’intento di alterare il candore e la purezza della sana dottrina.
Da ultimo impartiamo a Voi e al Gregge
affidato alle vostre cure l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso Santa Maria
Maggiore, il 1° novembre 1745, anno sesto del Nostro Pontificato.
Semidoppio Dom. privil. di I cl. –
Paramenti violacei.
La liturgia di oggi esprime con due
cerimonie, l’una tutta piena di gioia, l’altra di tristezza, i due aspetti
secondo i quali la Chiesa considera la Croce. Anzi tutto vengono la Benedizione
e la Processione delle Palme. Esse traboccano di una santa allegrezza che ci permette,
dopo venti secoli, di rivivere la scena grandiosa dell’entrata trionfale di
Gesù in Gerusalemme. Poi c’è la Messa di cui i canti e le letture si riferiscono
esclusivamente al doloroso ricordo della Passione del Salvatore.
I
. — Benedizione delle Palme e Processione.
A Gerusalemme, nel IV secolo, si leggeva in questa Domenica nel luogo medesimo dove i fatti s’erano svolti, il racconto evangelico che ci descrive Cristo, acclamato come Re d’Israele, che prende possesso della sua capitale. In realtà, Gerusalemme non è che l’immagine del regno della Gerusalemme celeste. Poi un Vescovo, montato su un asino, andava dal sommo del Monte Oliveto alla chiesa della Risurrezione, circondato dalla folla che portava delle palme, cantando inni ed antifone. Questa cerimonia era preceduta dalla lettura del passo dell’Esodo riguardante l’uscita dall’Egitto. Il popolo di Dio, accampato all’ombra dei palmizi, vicino alle dodici fonti dove Mosè gli promette la manna, è il popolo cristiano che servendosi di rami dei palmizi attesta che il suo Re, Gesù,viene a liberare le anime dal peccato, conducendole al fonte battesimale e nutrendole con la manna eucaristica.La Chiesa di Roma, adottando questo uso, pare verso il IX secolo, ha aggiunto i riti della Benedizione delle Palme, da cui deriva il nome di Pasqua fiorita dato a questa Domenica. Questa cerimonia è una specie di messa con Orazione propria, Epistola, Vangelo e Prefazio proprio. La consacrazione è sostituita dalla benedizione delle palme e la comunione dalla distribuzione di queste palme.Queste cerimonie hanno un significato simbolico. « Dio, — dice la Chiesa — per un ordine meraviglioso della sua Provvidenza, ha voluto servirsi anche di queste cose sensibili per esprimere l’ammirabile economia della nostra salvezza » poiché « questi rami di palme segnavano la vittoria che stava per esser riportata sul principe della morte e i rami d’ulivo annunciavano l’abbondante effusione della misericordia divina ». « Infatti la colomba annunciò la pace alla terra per mezzo d’un ramoscello d’ulivo », « e le grazie che Dio moltiplicò su Noè all’uscita dall’arca, e su Mosè che abbandonava l’Egitto con i figli d’Israele, sono una figura della Chiesa» «che muove incontro a Cristo con opere buone» «con le opere che germogliano dai rami di giustizia » (Orazioni della Benedizione delle Palme). Questo corteo di Cristiani che, con le palme in mano e con il canto dell’osanna sulle labbra, acclamano ogni anno, in tutto il mondo, attraverso tutte le generazioni, la regalità di Cristo, è composta di tutti i catecumeni, dei penitenti pubblici, e dei fedeli che i sacramenti del Battesimo, della Eucaristia e della Penitenza assoderanno, nelle feste di Pasqua, a questo trionfatore glorioso. « E noi, che con integra fede rammentiamo il fatto e il suo significato « …ti preghiamo, Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio,per lo stesso Signor Nostro Gesù Cristo affinché, ciò che il tuo popolo fa oggi esternamente, lo compia spiritualmente, riportando vittoria sul nemico ». Questo rappresenta la processione che si arresta alla porta della Chiesa. Alcuni coristi sono nell’interno, i loro canti s’alternano con quelli dei sacerdoti (Gloria, laus et honor)Processione delle Palme).: da una parte sono i « cori angelici », dall’altra i soldati di Cristo, ancora impegnati nel combattimento, che acclamano per turno il Re della gloria. Ben presto la porta si apre allorché il suddiacono vi avrà bussato per tre volte con l’asta della croce; così la croce di Gesù ci apre il cielo e la processione entra in Chiesa, come gli eletti entreranno un giorno con Cristo nella gloria eterna. — Conserviamo religiosamente nella nostra casa un ramoscello di olivo benedetto. Questo sacramentale, in virtù della preghiera della Chiesa, ci farà ottenere i favori del cielo e renderà più ferma la nostra fede in Gesù che, pieno di misericordia (simboleggiata dall’olivo, di cui l’olio mitiga le piaghe), ha vinto (vittoria simboleggiata dalle palme) il demonio, il peccato e la morte.
2.
— Messa della Domenica delle Palme.
La benedizione delle palme si faceva a
Santa Maria Maggiore, che a Roma rappresenta Betlemme, dove nacque Colui che i
Magi proclamarono « Re dei Giudei ». La processione andava da questa Basilica a
quella di S. Giovanni Laterano nella quale si teneva altre volte la Stazione,
poiché, essendo dedicata al Santo Salvatore, essa rievoca il ricordo della
Passione di cui tratta la Messa . — Il trionfo del Salvatore deve essere
preceduto dalla « sua umiliazione fino alla morte e fino alla morte di croce » (Ep.)
umiliazione che ci servirà di modello « affinché mettendo a profitto gli
insegnamenti della sua pazienza possiamo renderci partecipi anche della sua risurrezione
» (Or.).
Benedictio Palmorum
Ant. Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini. O Rex Israël: Hosánna in excélsis. [Osanna al Figlio di David, benedetto Colui che viene nel nome del Signore. O Re di Israele: Osanna nel più alto dei cieli!] Orémus. Bene ☩ dic, quǽsumus, Dómine, hos palmárum ramos: et præsta; ut, quod pópulus tuus in tui veneratiónem hodiérna die corporáliter agit, hoc spirituáliter summa devotióne perfíciat, de hoste victóriam reportándo et opus misericórdiæ summópere diligéndo. Per Christum Dominum nostrum. [Bene ☩ dici Signore, te ne preghiamo, questi rami di palma e concedi che quanto il tuo popolo ha celebrato materialmente in tuo onore, lo compia spiritualmente con somma devozione, vincendo il nemico e corrispondendo con profondo amore all’opera della tua misericordia. Per Cristo nostro Signore.]
De distributione
ramorum
Ant. Púeri Hebræórum, portántes
ramos olivárum, obviavérunt Dómino, clamántes et dicéntes: Hosánna in excélsisI [I fanciulli
ebrei, portando rami di olivo, andarono incontro al Signore, acclamando e
dicendo: Osanna nel più alto dei cieli.].
Dómini est terra et plenitúdo eius, orbis terrárum et univérsi
qui hábitant in eo. Quia ipse super mária fundávit eum et super flúmina
præparávit eum. Ant. Púeri Hebræórum, portántes …
Attóllite
portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex
glóriæ. Quis est iste rex glóriæ? Dóminus fortis et potens:
Dóminus potens in prǽlio. Ant. Púeri Hebræórum, portántes…
Attóllite
portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex
glóriæ. Quis est iste rex glóriæ? Dóminus virtútum ipse est rex glóriæ. Ant. Púeri Hebræórum, portántes …
Ant. Púeri Hebræórum,
portántes …
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini. . [I fanciulli Ebrei stendevano le loro vesti sulla via e acclamavano dicendo: Osanna al Figlio di David! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore!] Omnes gentes pláudite mánibus: iubiláte Deo in voce exultatiónis. Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis, rex magnus super omnem terram. Ant. Púeri Hebræórum … Subiécit pópulos nobis: et gentes sub pédibus nóstris. Elegit nobis hereditátem suam: spéciem Iacob quam diléxit. Ant. Púeri Hebræórum …
Ascéndit
Deus in iúbilo: et Dóminus in voce tubæ. Psállite Deo nostro, psállite: psállite regi nostro, psállite. Ant. Púeri Hebræórum …
Quóniam
rex omnis terræ Deus: psállite sapiénter. Regnávit Deus super gentes: Deus sedit super sedem
sanctam suam. Ant. Púeri Hebræórum vestiménta …
Príncipes
populórum congregáti sunt cum Deo Abraham: quóniam Dei fortes terræ veheménter
elevati sunt. Ant. Púeri Hebræórum vestiménta …
Ant. Púeri Hebræórum
vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David;
benedíctus qui venit in nómine Dómini.
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
“In illo témpore: Cum appropinquásset Jesus Jerosólymis, et venísset Béthphage ad montem Olivéti: tunc misit duos discípulos suos, dicens eis: Ite in castéllum, quod contra vos est, et statim inveniétis ásinam alligátam et pullum cum ea: sólvite et addúcite mihi: et si quis vobis áliquid dixerit, dícite, quia Dóminus his opus habet, et conféstim dimíttet eos. Hoc autem totum factum est, ut adimplerétur, quod dictum est per Prophétam, dicéntem: Dícite fíliae Sion: Ecce, Rex tuus venit tibi mansuétus, sedens super ásinam et pullum, fílium subjugális. Eúntes autem discípuli, fecérunt, sicut præcépit illis Jesus. Et adduxérunt ásinam et pullum: et imposuérunt super eos vestiménta sua, et eum désuper sedére tecérunt. Plúrima autem turba stravérunt vestiménta sua in via: álii autem cædébant ramos de arbóribus, et sternébant in via: turbæ autem, quæ præcedébant et quæ sequebántur, clamábant, dicéntes: Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini”.
[In quel tempo: Avvicinandosi a Gerusalemme, arrivato a Bètfage, vicino al monte degli ulivi, Gesù mandò due suoi discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio dirimpetto a voi, e subito vi troverete un’asina legata con il suo puledro: scioglietela e conducetemela. E, se qualcuno vi dirà qualche cosa, dite; – il Signore ne ha bisogno; e subito ve li rilascerà». Ora tutto questo avvenne perché si adempisse quanto detto dal Profeta: «Dite alla figlia di Sion : Ecco il tuo Re viene a Te, mansueto, seduto sopra di un’asina ed asinello puledro di una giumenta». I Discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro detto. Menarono l’asina ed il puledro, vi misero sopra i mantelli e Gesù sopra a sedere. E molta gente stese i mantelli lungo la strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li spargevano sulla via, mentre le turbe che precedevano e seguivano gridavano: «Osanna al Figlio di Davide; benedetto Colui che viene nel nome del Signore».
De
processione cum ramis benedictis
Procedámus
in pace.
Occúrrunt turbæ cum flóribus et palmis Redemptóri óbviam: et victóri
triumphánti digna dant obséquia: Fílium Dei ore gentes prædicant: et in laudem
Christi voces tonant per núbila: «Hosánna in excélsis». [Con
fiori e palme le folle vanno ad incontrare il Redentore e rendono degno
ossequio al Vincitore trionfante. Le nazioni lo proclamano Figlio di Dio e
nell’etere risuona a lode di Cristo un canto: Osanna nel più alto dei cieli!]
Cum Angelis et
púeris fidéles inveniántur, triumphatóri mortis damántes: «Hosánna in
excélsis». [Facciamo
di essere anche noi fedeli come gli Angeli ed i fanciulli, acclamando al
vincitore della morte: Osanna nel più alto dei cieli!] Turba multa, quæ convénerat ad diem festum, clamábat Dómino: Benedíctus,
qui venit in nómine Dómini: «Hosánna in excélsis». [Immensa
folla, convenuta per la Pasqua, acclamava ai Signore: Benedetto Colui che viene
nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!] Cœpérunt omnes turbæ descendéntium gaudéntes laudáre Deum voce magna,
super ómnibus quas víderant virtútibus, dicéntes: «Benedíctus qui venit Rex in
nómine Dómini; pax in terra, et glória in excélsis».[Tutta la
turba dei discepoli discendenti dal monte Oliveto cominciò con letizia a lodar
Dio ad alta voce per tutti i prodigi che aveva veduti dicendo: Benedetto il Re
che viene nel nome del Signore; pace in terra e gloria nell’alto dei cieli.]
Hymnus ad Christum Regem
Glória, laus et
honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna
pium.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus
prompsit Hosánna pium. Israël
es tu Rex, Davidis et ínclita proles: Nómine qui in Dómini, Rex benedícte,
venis. Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe,
Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Coetus in excélsis te laudat caelicus omnis, Et mortális homo, et cuncta creáta
simul.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus
prompsit Hosánna pium.
Plebs Hebraea tibi cum palmis óbvia venit: Cum prece, voto, hymnis, ádsumus
ecce tibi.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus
prompsit Hosánna pium.
Hi tibi passúro solvébant múnia laudis: Nos tibi regnánti pángimus ecce melos.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus
prompsit Hosánna pium. Hi
placuére tibi, pláceat devótio nostra: Rex bone, Rex clemens, cui bona cuncta
placent. Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe,
Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium
[Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna. Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna. Tu sei il Re di Israele, il nobile figlio di David, o Re benedetto che vieni nel nome del Signore. Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna. L’intera corte angelica nel più alto dei cieli, l’uomo mortale e tutte le creature celebrano insieme le tue lodi. Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna. Il popolo Ebreo ti veniva dinanzi con le palme, ed eccoci dinanzi a te, con preghiere, con voti e cantici. Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna. Essi ti offrivano il tributo del loro omaggio, quando tu andavi a soffrire; noi eleviamo questi canti a te che ora regni. Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna. Ti piacquero essi: ti piaccia anche la nostra devozione, o Re di bontà, Re clemente, a cui ogni cosa buona piace. Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.]
Ant. Omnes
colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini:
Hosánna in excélsis».
Psalmus CXLVII Lauda, Jerúsalem, Dóminum: * lauda Deum tuum, Sion.
Quóniam confortávit seras portárum tuárum: * benedíxit fíliis tuis in te.
Qui pósuit fines tuos pacem: * et ádipe fruménti sátiat te.
Qui emíttit elóquium suum terræ: * velóciter currit sermo ejus.
Qui dat nivem sicut lanam: * nébulam sicut cínerem spargit.
Mittit crystállum suam sicut buccéllas: * ante fáciem frígoris ejus quis
sustinébit?
Emíttet verbum suum, et liquefáciet ea: * flabit spíritus ejus, et fluent aquæ.
Qui annúntiat verbum suum Jacob: * justítias, et judícia sua Israël. Non
fecit táliter omni natióni: * et judícia sua non manifestávit eis. Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt:
«Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».
Fulgéntibus palmis prostérnimur adveniénti Dómino: huic omnes occurrámus cum hymnis et cánticis, glorificántes et dicéntes: «Benedíctus Dóminus». [Di festosi rami ornati, ci prostriamo al Signor che viene: a Lui incontro corriamo tra inni e canti, Lui glorifichiamo dicendo: Benedetto il Signore!] Ave, Rex noster, Fili David, Redémptor mundi, quem prophétæ praedixérunt Salvatórem dómui Israël esse ventúrum. Te enim ad salutárem víctimam Pater misit in mundum, quem exspectábant omnes sancti ab orígine mundi, et nunc: «Hosánna Fílio David. Benedíctus qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis».
[Ave, o nostro Re, Figlio di David, Redentore del mondo, preannunciato dai Profeti come Salvatore venuto per la casa d’Israele. Il Padre mandò Te come vittima di redenzione per il mondo; T’aspettavano tutti i santi sin dall’origine del mondo, ed ora: Osanna, Figlio di David. Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei Cieli!]
Oremus. Dómine
Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes,
solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti
fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte
vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et
regnas in sǽcula sæculórum.
Ingrediénte Dómino in sanctam civitátem, Hebræórum púeri resurrectiónem vitæ pronuntiántes, Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis». Cum audísset pópulus, quod Jesus veníret Jerosólymam, exiérunt óbviam ei. Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis». [Mentre il Signore entrava nella città santa, i fanciulli ebrei proclamavano la risurrezione alla vita, Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli! Avendo il popolo sentito che Gesù si avvicinava a Gerusalemme, gli mosse incontro Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!]
Oremus. Dómine
Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes,
solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti
fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte
vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et
regnas in sǽcula sæculórum. [Signor Gesù Cristo, Re e Redentore
nostro, in onore del quale abbiamo cantato lodi solenni, portando questi rami,
concedi propizio che la grazia della tua benedizione discenda dovunque questi
rami saranno portati e che la tua destra protegga i redenti togliendo di mezzo
a loro ogni iniquità ed illusione diabolica. Tu che vivi e regni nei secoli dei
secoli.]
Introitus
Ps XXI: 20 et 22.
Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice:
líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam. [Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo
soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva
la mia debolezza dalle corna dei bufali.]
Ps XXI: 2Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti? longe a salúte mea verba delictórum meórum. [Dio mio, Dio mio, guardami: perché mi hai abbandonato? La salvezza si allontana da me alla voce dei miei delitti].
Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice:
líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam. [Tu, o Signore, non allontanare da me
il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e
salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]
Oratio
Omnípotens sempitérne Deus, qui
humáno generi, ad imitandum humilitátis exémplum, Salvatórem nostrum carnem
súmere et crucem subíre fecísti: concéde propítius; ut et patiéntiæ ipsíus
habére documénta et resurrectiónis consórtia mereámur. [Onnipotente
eterno Dio, che per dare al genere umano un esempio d’umiltà da imitare,
volesti che il Salvatore nostro s’incarnasse e subisse la morte di Croce:
propizio concedi a noi il merito di accogliere gli insegnamenti della sua
pazienza, e di partecipare alla sua risurrezione.]
Epistola
Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad
Philippénses. Phil II: 5-11
“Fratres: Hoc enim sentíte in
vobis, quod et in Christo Jesu: qui, cum in forma Dei esset, non rapínam
arbitrátus est esse se æqualem Deo: sed semetípsum exinanívit, formam servi
accípiens, in similitúdinem hóminum factus, et hábitu invéntus ut homo. Humiliávit semetípsum, factus oboediens usque ad
mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltávit illum: ei donávit
illi nomen, quod est super omne nomen: hic genuflectitur ut in nómine Jesu omne
genu flectátur coeléstium, terréstrium et inférno rum: et omnis lingua
confiteátur, quia Dóminus Jesus Christus in glória est Dei Patris.”
OMELIA I
[A. Castellazzi:
Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]
L’UMILTÀ’
“Fratelli: Siano in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo, il quale, essendo della natura di Dio, non ritenne come una preda la sua parità con Dio, ma spogliò se stesso, prendendo la natura di servo, divenuto simile agli uomini, e all’aspetto riconosciuto quale uomo. Abbassò, se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sublimato, e gli ha dato un Nome superiore a ogni altro nome; perchè nel Nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, sulla terra e nell’inferno, e ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre”. (Fil. II, 5-11).
L’Epistola è tratta dalla lettera ai
Filippesi. Per togliere lo spirito di divisione e di rivalità che regnava tra
essi. S. Paolo propone l’esempio di Gesù Cristo. Egli, essendo Dio, non
considera la sua grandezza come un possesso da conservare a ogni costo, ma se
ne spoglia volontariamente, facendosi uomo e umiliandosi fino alla morte di
croce. Perciò Dio lo ha esaltato, dandogli un nome, dinanzi al quale tutti
devono piegarsi e confessare che Egli possiede la gloria del Padre.
Sull’esempio di Gesù Cristo ogni Cristiano deve praticare la virtù fondamentale
dell’umiltà. L’uomo umile, convinto dei propri demeriti,
1. Opera con semplicità,
2. È pronto all’ubbidienza,
3. Non si preoccupa della propria
gloria, della quale lascia la cura a Dio.
I.
Fratelli: Siano in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo, il quale, essendo della natura di Dio, non ritenne come una preda la sua parità con Dio, ma spogliò se stesso prendendo la natura di servo. Gesù era Dio: la sua grandezza non aveva limiti. « Se in Lui fossero stati i sentimenti di parecchi Filippesi, egli avrebbe reclamato, discusso, difeso con energia questo bene che gli apparteneva in forza di un titolo eterno. L’avrebbe custodito con l’aspra fierezza del guerriero armato che non si lascia strappare la sua conquista e la sua parte di bottino avuto ». Ben diversi, però, sono i sentimenti di Gesù. Invece di attaccarsi tenacemente alla sua parità divina e alla gloria che ne deriva, se ne spoglia volontariamente ai nostri occhi, prendendo la forma e la natura di servo. Lezione più sublime di umiltà pei Filippesi e per i Cristiani tutti non si potrebbe trovare. Dopo che Gesù Cristo, nel mistero dell’incarnazione, ha tanto sublimato l’umiltà, tutti ne parlano. Pochi, però,la praticano, e non tutti la praticano nel debito modo. La confessione dei nostri demeriti, delle nostre debolezze, del nostro nulla, se non partono da un cuor sincero non possono chiamarsi atti di umiltà. Ci sono coloro che per sfuggire alla possibilità di un castigo, perprocurarsi un atto di clemenza, per rendersi accetti, dichiarano di aver sbagliato, ritrattano il male fatto con le parole e con gli scritti, si dichiarano indegni di perdono ecc; ma il loro interno com’è? Il loro cuore è più che mai lontano, attaccato a ciò che la bocca detesta. Neppure è sempre umiltà l’atteggiamento esterno. Si può esser trascurati negli abiti, col capo basso per le vie, battersi il petto in chiesa: ma accompagnar questi atteggiamenti col desiderio di essere osservati, considerati. È umile l’atteggiamento di S. Pietro, che si getta ai piedi di Gesù, ed esclama: « Signore, allontanati da me che sono un uomo peccatore ». (Luc. V, 8). È umile l’atteggiamento della Maddalena che con le lagrime bagna i piedi di Gesù. Ma al loro atteggiamento esterno corrisponde l’interna disposizione dell’animo. Quando l’atteggiamento esterno non è vivificato dall’aurea massima:« Ama di non esser conosciuto e di esser riputato per niente », non c’è umiltà, ma ipocrisia. Non sono sempre guidati dai sentimenti che erano in Gesù Cristo, quelli che, invitati a far qualche cosa di bene, ad accettare qualche carica onorifica, se ne schermiscono, protestando che non sono capaci, che si mettano altri più adatti e più degni. Anche qui, non raramente, l’apparenza inganna. Son proteste ispirate dal dispetto, dalla gelosia, da un non lodevole puntiglio. Si aspettava di essere invitati prima degli altri, si aspettava una carica più importante. L’ambizione non appagata si veste d’umiltà. Ci sarà in queste proteste e in questi rifiuti molto veleno del serpente, ma manca la semplicità della colomba.
2.
Gesù Cristo abbassò se stesso
facendosi ubbidiente fino atta morte, e alla morte di croce. Chi non sa
ubbidire non può esser umile. Sarebbe una contraddizione bella e buona
dichiararsi un nulla davanti a Dio, riconoscered’aver tutto da Lui, di dover
dipendere in ogni cosada Lui, e poi negargli obbedienza. E quel che si dice
rispetto a Dio vale anche rispetto a coloro che ne rappresentano l’autorità,
come i genitori e i superiori. Vediamo che cosa ci insegna in proposito Gesù
Cristo, con gli esempi della sua vita. – Il Vangelo, parlandoci degli
anni passati nella casa di Nazaret con Maria e Giuseppe, dice: « e stava loro
sottomesso» (Luc.. X, 51). Il Creatore è sottomesso alla creatura. Ma in queste
creature Egli vede i rappresentanti dell’autorità di Dio, e tanto basta, perché
Egli ubbidisca. Un giorno comanderà ai venti, e questi gli ubbidiranno;
comanderà ai demoni, e questi si piegheranno alla sua volontà, comanderà alla
morte, e questa gli restituirà la sua preda; ma adesso Egli ubbidisce agli
altri. Nella vita pubblica la sua missione sarà quella di comandare, adesso è
quella di ubbidire. Devo far quello che mi vien comandato, se potrei insegnare
a chi mi comanda? Gesù poteva certamente dare dei punti a Giuseppe. Chi ha dato
all’universo un ordine così meraviglioso da strappare inni di lodi e di
ammirazione dai più eletti ingegni, poteva far senza le istruzioni di Giuseppe.
Invece fa l’opposto. Egli lavora nella bottega sotto la sua direzione, e si
attiene alle sue istruzioni e ai suoi suggerimenti. Chi gli comanda tiene le
veci del Padre: dunque gli si ubbidisca. Se avessimo in noi questi sentimenti
di Gesù Cristo, non staremmo a discutere sulla capacità di chi comanda. Ne ha
l’autorità! Ne ha abbastanza, perché io debba ubbidire. E s’intende che bisogna
ubbidire anche quando si tratta di cose contrarie ai nostri gusti e alle nostre
inclinazioni. Gesù Cristo ubbidisce al Padre in ciò che è più duro di tutto.
Egli ubbidisce nel sottoporsi ai tormenti, alla morte, e non a una morte comune,
ma a una morte ignominiosa, quale era la morte di croce. «Quella morte — dice
S. Bernardo — quella croce, quegli obbrobri, quegli sputi, quei flagelli, tutto
ciò che Cristo, il nostro capo, ha sofferto, non furono altro che splendidi
esempi di ubbidienza, lasciati a noi che siamo il suo corpo». (1 Tractatus De
Gradibus humilitatis, 7). E noi resteremo insensibili davanti agli esempi
datici dal nostro capo, e ci rifiuteremo ancora di ubbidire, quando
l’ubbidienza costa sacrifici? Non dimentichiamoci che il sacrificio
dell’ubbidienza è più accetto a Dio che gli altri sacrifici. Gesù Cristo poteva
dire di se stesso: «Io non cerco la mia gloria: c’è chi se ne prende cura,».
(Giov. VIII, 50). E di fatti Dio lo ha sublimato e gli ha dato un nome
superiorea ogni altro nome. Chi è umile, sull’esempio di
Gesù Cristo, non cerea la propria gloria nel suo operare. Questa gli verrà un
giorno dal Signore, se lo avrà servito fedelmente. Che importa della gloria del
mondo al fedele servo di Dio! Essa è come il fumo che in un momento s’innalza,
s’allarga, toglie la vista, e in un momento scompare. Come il fiore del prato,
ricrea per un giorno, e poi svanisce. E d’altronde qual motivo c’è per
gloriarsi? Poiché, chi differenzia te dagli altri? e che cosa hai tu che non
abbia ricevuto?» (1 Cor. IV). « Chi stima che tutto dipenda da sé, è ingrato
verso colui che ha creduto di onorarlo » (S. Giov. Crisost. In Epist. ad
Philipp. Hom. 5, 2). Compia pure tante belle opere, senza l’aiuto di Dio non le
potrebbe compiere; a lui dunque la gloria. – I superbi non lasciano sfuggire
occasione alcuna per magnificare le loro opere fatte, o non fatte. Gli umili
tacciono delle cose lodevoli da essi veramente compiute. Non sempre si riesce a
nascondere il bene che si fa. Il Cristiano non vive chiuso in una scatola: le
sue opere buone sono necessariamente viste da quelli che lo circondano. Delle
volte, è necessario che compia le sue opere buone in presenza degli altri, per
dare buon esempio; ma allora egli si fa guidare dalla norma: « L’azione sia pubblica,
in modo, però, che l’intenzione rimanga in segreto » (S. Gregorio M. Hom. 11,
1). I superbi hanno la pretesa di non sbagliare mai. Perciò non sopportano un
avviso, una correzione, un rimprovero. Il loro amor proprio ne resterebbe
profondamente ferito. Gli umili, che non si curano delle ferite che potrebbe
riceverne l’amor proprio, sono lieti di essere avvisati dei loro sbagli. Il
Cardinal Richelmy, arcivescovo di Torino, capitato un giorno in visita a una
parrocchia della sua archidiocesi, fece le più amorevoli accoglienze ad alcuni
chierici che vide in sacristia, trascurando un vecchio cappellano, che ne
rimase mortificato. Un sacerdote ebbe il coraggio di far rispettose rimostranze
al Cardinale il mattino seguente. « Ha fatto bene a dirmelo — rispose il
Cardinale — Non l’avevo visto ». E mandatolo a chiamare gli diede segni della
più grande stima e del più grande affetto. Poi, ringraziò l’ammonitore: «
Quando viene a Torino, passi in arcivescovado, all’ora degli amici s’intende ».
(A, Vuadagnotti. Il Cardinale Richelmy. Torino – Roma. 1926 p. 277). Ecco come
riceve le giuste osservazioni chi non si preoccupa della propria gloria.
Considera gli ammonitori veri amici, meritevoli di ringraziamento e di delicate
attenzioni. Se noi non ci preoccupiamo della nostra gloria, non vuol dire che
questa non verrà a suo tempo. Ogni atto virtuoso compiuto per amor di Dio,
riceverà da Lui un premio. Anche l’umiltà avrà il suo premio. «Premio
dell’umiltà è la gloria», dice S. Agostino (In Joan. Evang. Tract. 104,3). E
non può essere altrimenti, perché essa è la base della santità. Il fratello di
Santa Maddalena Sofia Barat, un sacerdote austero, che guidava alla virtù la
sorella, le disse un giorno ruvidamente: «Non sarai mai una gran Santa ». « Mi
rivendicherò con l’esser molto umile », rispose pronta la fanciulla (Santa
Maddalena Sofia Barat, fondatrice dell’Ist. Del Sacro Cuore. Firenze, 1925, p.
7). E la vendetta riuscì splendidamente. L’umiltà, che possedette in grado non
comune, la condusse alle altezze della santità e alla conseguente gloria.
Vogliamo arrivare alla gloria un giorno! Disprezziamola ora, umiliandoci per
amor di Dio.
Graduale
Ps LXXII:24 et 1-3 Tenuísti manum
déxteram meam: et in voluntáte tua deduxísti me: et cum glória assumpsísti me. [Tu mi hai preso
per la destra, mi hai guidato col tuo consiglio, e mi ‘hai accolto in trionfo.]
Quam bonus Israël Deus rectis
corde! mei autem pæne moti sunt pedes: pæne effúsi sunt gressus mei: quia
zelávi in peccatóribus, pacem peccatórum videns. [Com’è buono, o
Israele, Iddio con chi è retto di cuore. Per poco i miei piedi non vacillarono;
per poco i miei passi non sdrucciolarono; perché io ho invidiato i peccatori,
vedendo la prosperità degli empi.]
Tractus
Ps. XXI: 2-9, 18, 19, 22, 24, 32
Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti?
Longe a salúte mea verba
delictórum meórum.
Deus meus, clamábo per diem, nec exáudies: in nocte, et non ad
insipiéntiam mihi.
Tu autem in sancto hábitas, laus Israël.
In te speravérunt patres nostri: speravérunt, et liberásti eos.
Ad te clamavérunt, et salvi facti sunt: in te speravérunt, et non sunt
confusi.
Ego autem sum vermis, et non homo: oppróbrium hóminum et abjéctio
plebis.
Omnes, qui vidébant me, aspernabántur me: locúti sunt lábiis et movérunt
caput.
Ipsi vero consideravérunt et conspexérunt me: divisérunt sibi vestiménta
mea, et super vestem meam misérunt mortem.
Líbera me de ore leónis: et a córnibus unicórnium humilitátem meam.
Qui timétis Dóminum, laudáte eum: univérsum semen Jacob, magnificáte
eum.
Annuntiábitur Dómino generátio ventúra: et annuntiábunt coeli justítiam
ejus.
Pópulo, qui nascétur, quem fecit Dóminus.
[Dio, Dio mio, volgiti a me: perché mi hai abbandonato? V. La voce dei miei delitti allontana da me la mia salvezza. V. Dio mio, grido il giorno, e non rispondi: la notte, e non c’è requie per me. V. Eppure tu abiti nel santuario, o gloria d’Israele. V. In te confidavano i nostri padri: confidavano, e tu li liberavi. V. A te gridavano, ed erano salvati: in te confidavano, e non avevano da arrossire. V. Ma io sono un verme, e non un uomo: lo zimbello della gente, e il rifiuto della plebe. V. Tutti quelli che mi vedevano, si facevano beffe di me: storcevano la bocca e scrollavano il capo. V. Ha confidato nel Signore, lo salvi, giacché gli vuol bene. V. Essi mi osservarono e tennero gli occhi su di me: si spartirono le mie vesti, e tirarono a sorte la mia tunica. V. Salvami dalle zanne del leone: dalle corna degli unicorni salva la mia pochezza. V. Voi che temete il Signore, lodatelo: voi tutti, o prole di Giacobbe. glorificatelo. V. Sarà chiamata col nome del Signore la generazione che verrà; e i cieli annunzieranno la giustizia di lui. V. Al popolo che sorgerà, e che sarà opera del Signore. ]
Evangelium
Pássio Dómini nostri Jesu Christi
secúndum Matthǽum.
[Matt XXVI: 1-75; XXVII: 1-66].
“In illo témpore: Dixit Jesus
discípulis suis: J. Scitis, quid post bíduum Pascha fiet, et Fílius hóminis
tradétur, ut crucifigátur. C. Tunc congregáti sunt príncipes sacerdótum et
senióres pópuli in átrium príncipis sacerdótum, qui dicebátur Cáiphas: et
consílium fecérunt, ut Jesum dolo tenérent et occíderent. Dicébant autem: S.
Non in die festo, ne forte tumúltus fíeret in pópulo. C. Cum autem Jesus esset
in Bethánia in domo Simónis leprósi, accéssit ad eum múlier habens alabástrum
unguénti pretiósi, et effúdit super caput ipsíus recumbéntis. Vidéntes autem
discípuli, indignáti sunt, dicéntes: S. Ut quid perdítio hæc? pótuit enim istud
venúmdari multo, et dari paupéribus. C. Sciens autem Jesus, ait illis: J. Quid molésti estis huic mulíeri?
opus enim bonum operáta est in me. Nam semper páuperes habétis vobíscum: me
autem non semper habétis. Mittens enim hæc unguéntum hoc in corpus meum, ad
sepeliéndum me fecit. Amen, dico vobis, ubicúmque prædicátum fúerit hoc
Evangélium in toto mundo, dicétur et, quod hæc fecit, in memóriam ejus. C. Tunc
ábiit unus de duódecim, qui dicebátur Judas Iscariótes, ad príncipes
sacerdótum, et ait illis: S. Quid vultis mihi dare, et ego vobis eum tradam? C.
At illi constituérunt ei trigínta argénteos. Et exínde quærébat opportunitátem,
ut eum tráderet. Prima autem die azymórum accessérunt discípuli ad Jesum,
dicéntes: S. Ubi vis parémus tibi comédere pascha? C. At Jesus dixit: J. Ite in
civitátem ad quendam, et dícite ei: Magíster dicit: Tempus meum prope est, apud
te fácio pascha cum discípulis meis. C. Et fecérunt discípuli, sicut constítuit
illis Jesus, et paravérunt pascha. Véspere autem facto, discumbébat cum
duódecim discípulis suis. Et edéntibus illis, dixit: J. Amen, dico vobis, quia
unus vestrum me traditúrus est. C. Et contristáti valde, coepérunt sínguli
dícere: S. Numquid ego sum, Dómine? C. At ipse respóndens, ait: J. Qui intíngit
mecum manum in parópside, hic me tradet. Fílius quidem hóminis vadit, sicut
scriptum est de illo: væ autem hómini illi, per quem Fílius hóminis tradétur:
bonum erat ei, si natus non fuísset homo ille. C. Respóndens autem Judas, qui
trádidit eum, dixit: S. Numquid ego sum, Rabbi? C. Ait illi: J. Tu dixísti. C.
Cenántibus autem eis, accépit Jesus panem, et benedíxit, ac fregit, dedítque
discípulis suis, et ait: J. Accípite et comédite: hoc est corpus meum. C. Et
accípiens cálicem, grátias egit: et dedit illis, dicens: J. Bíbite ex hoc
omnes. Hic est enim sanguis meus novi Testaménti, qui pro multis effundétur in
remissiónem peccatórum. Dico autem vobis: non bibam ámodo de hoc genímine vitis
usque in diem illum, cum illud bibam vobíscum novum in regno Patris mei. C. Et
hymno dicto, exiérunt in montem Olivéti. Tunc dicit illis Jesus: J. Omnes vos
scándalum patiémini in me in ista nocte. Scriptum est enim: Percútiam pastórem,
et dispergéntur oves gregis. Postquam autem resurréxero, præcédam vos in
Galilaeam. C.
Respóndens autem Petrus, ait illi: S. Et si omnes scandalizáti fúerint in te,
ego numquam scandalizábor. C. Ait illi Jesus: J. Amen, dico tibi, quia in hac
nocte, antequam gallus cantet, ter me negábis. C. Ait illi Petrus: S. Etiam si
oportúerit me mori tecum, non te negábo. C. Simíliter et omnes discípuli
dixérunt. Tunc venit Jesus cum illis in villam, quæ dícitur Gethsémani, et
dixit discípulis suis: J. Sedéte hic, donec vadam illuc et orem. C. Et assúmpto
Petro et duóbus fíliis Zebedaei, coepit contristári et mæstus esse. Tunc ait
illis: J. Tristis est ánima mea usque ad mortem: sustinéte hic, et vigilate
mecum. C. Et progréssus pusíllum, prócidit in fáciem suam, orans et dicens: J.
Pater mi, si possíbile est, tránseat a me calix iste: Verúmtamen non sicut ego
volo, sed sicut tu. C. Et venit ad discípulos suos, et invénit eos dormiéntes:
et dicit Petro: J. Sic non potuístis una hora vigiláre mecum? Vigiláte et
oráte, ut non intrétis in tentatiónem. Spíritus quidem promptus est, caro autem
infírma. C. Iterum secúndo ábiit et orávit, dicens: J. Pater mi, si non potest
hic calix transíre, nisi bibam illum, fiat volúntas tua. C. Et venit íterum, et
invenit eos dormiéntes: erant enim óculi eórum graváti. Et relíctis illis,
íterum ábiit et orávit tértio, eúndem sermónem dicens. Tunc venit ad discípulos
suos, et dicit illis: J. Dormíte jam et requiéscite: ecce, appropinquávit hora,
et Fílius hóminis tradétur in manus peccatórum. Súrgite, eámus: ecce,
appropinquávit, qui me tradet. C. Adhuc eo loquénte, ecce, Judas, unus de
duódecim, venit, et cum eo turba multa cum gládiis et fústibus, missi a
princípibus sacerdótum et senióribus pópuli. Qui autem trádidit eum, dedit
illis signum, dicens: S. Quemcúmque osculátus fúero, ipse est, tenéte eum. C. Et conféstim accédens ad Jesum, dixit: S. Ave,
Rabbi. C. Et osculátus est eum. Dixítque illi Jesus: J. Amíce, ad quid venísti?
C. Tunc accessérunt, et manus injecérunt in Jesum et tenuérunt eum. Et ecce,
unus ex his, qui erant cum Jesu, exténdens manum, exémit gládium suum, et
percútiens servum príncipis sacerdótum, amputávit aurículam ejus. Tunc ait illi
Jesus: J. Convérte gládium tuum in locum suum. Omnes enim, qui accéperint
gládium, gládio períbunt. An putas, quia non possum rogáre Patrem meum, et
exhibébit mihi modo plus quam duódecim legiónes Angelórum? Quómodo ergo
implebúntur Scripturae, quia sic oportet fíeri? C. In illa hora dixit Jesus
turbis: J. Tamquam ad latrónem exístis cum gládiis et fústibus comprehéndere
me: cotídie apud vos sedébam docens in templo, et non me tenuístis. C. Hoc
autem totum factum est, ut adimpleréntur Scripturæ Prophetárum. Tunc discípuli
omnes, relícto eo, fugérunt. At illi tenéntes Jesum, duxérunt ad Cáipham,
príncipem sacerdótum, ubi scribæ et senióres convénerant. Petrus autem
sequebátur eum a longe, usque in átrium príncipis sacerdótum. Et ingréssus
intro, sedébat cum minístris, ut vidéret finem. Príncipes autem sacerdótum et
omne concílium quærébant falsum testimónium contra Jesum, ut eum morti
tráderent: et non invenérunt, cum multi falsi testes accessíssent. Novíssime
autem venérunt duo falsi testes et dixérunt: S. Hic dixit: Possum destrúere
templum Dei, et post tríduum reædificáre illud. C. Et surgens princeps
sacerdótum, ait illi: S. Nihil respóndes ad ea, quæ isti advérsum te
testificántur? C. Jesus autem tacébat. Et princeps sacerdótum ait illi: S.
Adjúro te per Deum vivum, ut dicas nobis, si tu es Christus, Fílius Dei. C.
Dicit illi Jesus: J. Tu dixísti. Verúmtamen dico vobis, ámodo vidébitis Fílium
hóminis sedéntem a dextris virtútis Dei, et veniéntem in núbibus coeli. C. Tunc
princeps sacerdótum scidit vestiménta sua, dicens: S. Blasphemávit: quid adhuc
egémus téstibus? Ecce, nunc audístis blasphémiam: quid vobis vidétur? C. At
illi respondéntes dixérunt: S. Reus est mortis. C. Tunc exspuérunt in fáciem
ejus, et cólaphis eum cecidérunt, álii autem palmas in fáciem ejus dedérunt,
dicéntes: S. Prophetíza nobis, Christe, quis est, qui te percússit? C. Petrus vero
sedébat foris in átrio: et accéssit ad eum una ancílla, dicens: S. Et tu cum
Jesu Galilaeo eras. C. At ille negávit coram ómnibus, dicens: S. Néscio, quid
dicis. C. Exeúnte autem illo jánuam, vidit eum ália ancílla, et ait his, qui
erant ibi: S. Et hic erat cum Jesu Nazaréno. C. Et íterum negávit cum
juraménto: Quia non novi hóminem. Et post pusíllum accessérunt, qui stabant, et
dixérunt Petro: S. Vere et tu ex illis es: nam et loquéla tua maniféstum te
facit. C. Tunc cœpit detestári et juráre, quia non novísset hóminem. Et contínuo gallus cantávit. Et recordátus est Petrus
verbi Jesu, quod díxerat: Priúsquam gallus cantet, ter me negábis. Et egréssus
foras, flevit amáre. Mane autem facto, consílium iniérunt omnes príncipes
sacerdótum et senióres pópuli advérsus Jesum, ut eum morti tráderent. Et
vinctum adduxérunt eum, et tradidérunt Póntio Piláto praesidi. Tunc videns
Judas, qui eum trádidit, quod damnátus esset, pæniténtia ductus, réttulit trigínta
argénteos princípibus sacerdótum et senióribus, dicens: S. Peccávi, tradens
sánguinem justum. C. At illi dixérunt: S. Quid ad nos? Tu vidéris. C. Et
projéctis argénteis in templo, recéssit: et ábiens, láqueo se suspéndit.
Príncipes autem sacerdótum, accéptis argénteis, dixérunt: S. Non licet eos
míttere in córbonam: quia prétium sánguinis est. C. Consílio
autem ínito, emérunt ex illis agrum fíguli, in sepultúram peregrinórum. Propter hoc vocátus est ager ille, Hacéldama, hoc est,
ager sánguinis, usque in hodiérnum diem. Tunc implétum est, quod dictum est per
Jeremíam Prophétam, dicéntem: Et accepérunt trigínta argénteos prétium
appretiáti, quem appretiavérunt a fíliis Israël: et dedérunt eos in agrum
fíguli, sicut constítuit mihi Dóminus. Jesus autem stetit ante praesidem, et
interrogávit eum præses, dicens: S. Tu es Rex Judæórum? C. Dicit illi Jesus: J.
Tu dicis. C. Et cum accusarétur a princípibus sacerdótum et senióribus, nihil
respóndit. Tunc dicit illi Pilátus: S. Non audis, quanta advérsum te dicunt
testimónia? C. Et non respóndit ei ad ullum verbum, ita ut
mirarétur præses veheménter. Per diem autem sollémnem consuéverat præses pópulo
dimíttere unum vinctum, quem voluíssent. Habébat autem tunc vinctum insígnem,
qui dicebátur Barábbas. Congregátis ergo illis, dixit Pilátus: S. Quem vultis
dimíttam vobis: Barábbam, an Jesum, qui dícitur Christus? C. Sciébat enim, quod
per invídiam tradidíssent eum. Sedénte autem illo pro tribunáli, misit ad eum
uxor ejus, dicens: S. Nihil tibi et justo illi: multa enim passa sum hódie per
visum propter eum. C. Príncipes autem sacerdótum et senióres persuasérunt
populis, ut péterent Barábbam, Jesum vero pérderent. Respóndens autem præses, ait illis: S. Quem vultis
vobis de duóbus dimítti? C. At illi dixérunt: S. Barábbam. C. Dicit illis
Pilátus: S. Quid ígitur fáciam de Jesu, qui dícitur Christus? C. Dicunt omnes:
S. Crucifigátur. C. Ait illis præses: S. Quid enim mali fecit? C. At illi magis
clamábant,dicéntes: S. Crucifigátur. C. Videns autem Pilátus, quia nihil profíceret,
sed magis tumúltus fíeret: accépta aqua, lavit manus coram pópulo, dicens: S.
Innocens ego sum a sánguine justi hujus: vos vidéritis. C. Et respóndens
univérsus pópulus, dixit: S. Sanguis ejus super nos et super fílios nostros. C.
Tunc dimísit illis Barábbam: Jesum autem flagellátum trádidit eis, ut
crucifigerétur. Tunc mílites praesidis suscipiéntes Jesum in prætórium,
congregavérunt ad eum univérsam cohórtem: et exuéntes eum, chlámydem coccíneam
circumdedérunt ei: et plecténtes corónam de spinis, posuérunt super caput ejus,
et arúndinem in déxtera ejus. Et genu flexo ante eum, illudébant ei, dicéntes:
S. Ave, Rex Judæórum. C. Et exspuéntes in eum, accepérunt arúndinem, et
percutiébant caput ejus. Et postquam illusérunt ei, exuérunt eum chlámyde et induérunt
eum vestiméntis ejus, et duxérunt eum, ut crucifígerent. Exeúntes autem,
invenérunt hóminem Cyrenaeum, nómine Simónem: hunc angariavérunt, ut tólleret
crucem ejus. Et venérunt in locum, qui dícitur Gólgotha, quod est Calváriæ
locus. Et dedérunt ei vinum bíbere cum felle mixtum. Et cum gustásset, nóluit
bibere. Postquam autem crucifixérunt eum, divisérunt vestiménta ejus, sortem
mitténtes: ut implerétur, quod dictum est per Prophétam dicentem: Divisérunt
sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt sortem. Et sedéntes,
servábant eum. Et imposuérunt super caput ejus causam ipsíus scriptam: Hic est
Jesus, Rex Judæórum. Tunc crucifíxi sunt cum eo duo latrónes: unus a dextris et
unus a sinístris. Prætereúntes autem blasphemábant eum, movéntes cápita sua et
dicéntes: S. Vah, qui déstruis templum Dei et in tríduo illud reædíficas: salva
temetípsum. Si Fílius Dei es, descénde de cruce. C. Simíliter et príncipes
sacerdótum illudéntes cum scribis et senióribus, dicébant: S. Alios salvos
fecit, seípsum non potest salvum fácere: si Rex Israël est, descéndat nunc de
cruce, et crédimus ei: confídit in Deo: líberet nunc, si vult eum: dixit enim:
Quia Fílius Dei sum. C. Idípsum autem et latrónes, qui crucifíxi erant cum eo,
improperábant ei. A sexta autem hora ténebræ factæ sunt super univérsam terram
usque ad horam nonam. Et circa horam nonam clamávit Jesus voce
magna, dicens: J. Eli, Eli, lamma sabactháni? C. Hoc est: J. Deus meus, Deus meus, ut quid
dereliquísti me? C. Quidam autem illic stantes et audiéntes dicébant: S. Elíam
vocat iste. C. Et contínuo currens unus ex eis, accéptam spóngiam implévit
acéto et impósuit arúndini, et dabat ei bíbere. Céteri vero dicébant:S. Sine, videámus, an véniat Elías líberans
eum. C. Jesus autem íterum clamans voce magna, emísit spíritum.
Hic genuflectitur, et pausatur aliquantulum. …
Et ecce, velum templi scissum est in duas partes a summo usque deórsum:
et terra mota est, et petræ scissæ sunt, et monuménta apérta sunt: et multa
córpora sanctórum, qui dormíerant, surrexérunt. Et exeúntes de monuméntis post
resurrectiónem ejus, venérunt in sanctam civitátem, et apparuérunt multis.
Centúrio autem et qui cum eo erant, custodiéntes Jesum, viso terræmótu et his,
quæ fiébant, timuérunt valde, dicéntes: S. Vere Fílius Dei erat iste. C. Erant
autem ibi mulíeres multæ a longe, quæ secútæ erant Jesum a Galilaea,
ministrántes ei: inter quas erat María Magdaléne, et María Jacóbi, et Joseph
mater, et mater filiórum Zebedaei. Cum autem sero factum esset, venit quidam
homo dives ab Arimathaea, nómine Joseph, qui et ipse discípulus erat Jesu. Hic
accéssit ad Pilátum, et pétiit corpus Jesu. Tunc Pilátus jussit reddi corpus.
Et accépto córpore, Joseph invólvit illud in síndone munda. Et pósuit illud in
monuménto suo novo, quod excíderat in petra. Et advólvit saxum magnum ad óstium
monuménti, et ábiit. Erat autem ibi María Magdaléne et áltera María, sedéntes
contra sepúlcrum.
[In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: J. Sapete bene che tra due giorni sarà Pasqua, e il Figlio dell’uomo verrà catturato per essere crocifisso. C. Si radunarono allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo nell’atrio del principe dei sacerdoti denominato Caifa, e tennero consiglio sul modo di catturar Gesù con inganno, e così poterlo uccidere. Ma dicevano: S. Non però nel giorno di festa perché non sorga un qualche tumulto nel popolo. C. Mentre Gesù si trovava in Betania nella casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che portava un vaso d’alabastro, pieno d’unguento prezioso, e lo versò sopra il capo di lui che era adagiato alla mensa. Ma nel veder ciò, i discepoli se ne indignarono e dissero: S. Perché tale sperpero? Poteva esser venduto quell’unguento a buon prezzo, e distribuito [il denaro] ai poveri. C. Ma, sentito questo, Gesù disse loro: J. Perché criticate voi questa donna? Ella invero ha fatto un’opera buona con me. I poveri infatti li avete sempre con voi, mentre non sempre potrete avere me. Spargendo poi questo unguento sopra il mio corpo, l’ha sparso come per alludere alla mia sepoltura. In verità io vi dico che in qualunque luogo sarà predicato questo vangelo, si narrerà altresì, in memoria di lei, quello che ha fatto. C. Allora uno dei dodici, detto Giuda Iscariote, se ne andò dai capi dei sacerdoti, e disse loro: S. Che mi volete dare, ed io ve lo darò nelle mani? C. Ed essi gli promisero trenta monete di argento. E da quel momento egli cercava l’occasione opportuna per darlo nelle loro mani. Or il primo giorno degli azzimi si accostarono a Gesù i discepoli e gli dissero: S. Dove vuoi tu che ti prepariamo per mangiare la Pasqua? C. E Gesù rispose loro: J. «Andate in città dal tale e ditegli: Il Maestro ti fa sapere: Il mio tempo oramai si è approssimato; io coi miei discepoli faccio la Pasqua da te». C. E i discepoli eseguirono quello che aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Venuta poi la sera [Gesù], si era messo a tavola coi suoi dodici discepoli; e mentre mangiavano, egli disse: J. In verità vi dico che uno di voi mi tradirà. C. Sommamente rattristati, essi cominciarono a uno a uno a dirgli: S. Forse sono io, o Signore? C. Ma egli in risposta disse: J. Chi con me stende [per intingere] la mano nel piatto, è proprio quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo, è vero, se ne andrà, come sta scritto di lui; ma guai a quell’individuo, per opera del quale il Figliuolo dell’uomo sarà tradito! Era bene per lui il non esser mai nato! C. Pigliando la parola, Giuda, che poi lo tradì, gli disse: S. Sono forse io, o Maestro? C. Gli rispose [Gesù]: J. Tu l’hai detto. C. Stando dunque essi a cena, Gesù prese un pane, lo benedisse, lo spezzò e lo porse ai suoi discepoli, dicendo: J. Prendete e mangiate; questo è il mio Corpo. C. E preso un calice, rese le grazie, e lo dette loro, dicendo: J. Bevetene tutti. Questo è il mio Sangue del nuovo testamento, che sarà sparso per molti in remissione dei peccati. E vi dico ancora, che non berrò più di questo frutto della vite fino a quel giorno, in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio. C. Recitato quindi l’inno, uscirono, diretti al Monte oliveto. Disse allora Gesù: J. Tutti voi in questa notte proverete scandalo per causa mia. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge. Ma dopo che sarò resuscitato, vi precederò in Galilea. C. In risposta, Pietro allora gli disse: S. Anche se tutti fossero scandalizzati per te, io non mi scandalizzerò mai. C. E Gesù a lui: J. In verità ti dico che in questa medesima notte, prima che il gallo canti, tu mi avrai già rinnegato tre volte. C. E Pietro gli replico: S. Ancorché fosse necessario morire con te, io non ti rinnegherò. C. E dissero lo stesso gli altri discepoli. Arrivò alfine ad un luogo, nominato Getsemani, e Gesù disse ai suoi discepoli: J. Fermatevi qui, mentre io vado più in là a fare orazione. C. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a farsi triste e ad essere mesto. E disse loro: J. È afflitta l’anima mia fino a morirne. Rimanete qui e vegliate con me. C. E fattosi un poco più in avanti, si prostrò a terra colla faccia e disse: J. Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. In ogni modo non come voglio io [si faccia], ma come vuoi tu. C. E tornò dai suoi discepoli e li trovò che dormivano. Disse quindi a Pietro: J. E cosi, non poteste vegliare un’ora con me? Vegliate e pregate, perché non siate sospinti in tentazione. Lo spirito, in realtà, è pronto, ma è fiacca la carne. C. Di nuovo se ne andò per la seconda volta, e pregò, dicendo: J. Padre mio, se non può passar questo calice senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà. C. E ritornò di nuovo a loro, e li ritrovò addormentati. I loro occhi erano proprio oppressi dal sonno. E, lasciatili stare, andò nuovamente a pregare per la terza volta, dicendo le stesse parole. Fu allora che si riavvicinò ai suoi discepoli e disse loro: J. Dormite pure e riposatevi. Oramai l’ora è vicina, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo; ecco che è vicino colui che mi tradirà. C. Diceva appunto così, quando arrivò Giuda, uno dei dodici e con lui una gran turba di gente con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore, aveva dato loro questo segnale, dicendo: S. Quello che io bacerò, è proprio lui; pigliatelo. C. E, senza indugiare, accostatosi a Gesù, disse: S. Salve, o Maestro! C. E gli dette un bacio. Gesù gli disse: J. Amico, a che fine sei tu venuto? C. E allora si fecero avanti gli misero le mani addosso e lo catturarono. Ma ecco che uno di quelli che erano con Gesù, stesa la mano, sfoderò una spada e, ferito un servo del principe dei sacerdoti, gli staccò un orecchio. Allora gli disse Gesù: J. Rimetti al suo posto la spada, perché chi darà di mano alla spada, di spada perirà. Credi tu forse che io non possa pregare il Padre mio, e che egli non possa fornirmi all’istante più di dodici legioni di Angeli? Come dunque potranno verificarsi le Scritture, dal momento che deve succedere così? C. In quel punto medesimo disse Gesù alle turbe: J. Come un assassino siete venuti a prendermi, con spade e bastoni. Ogni giorno io me ne stavo nel tempio a insegnare, e allora non mi prendeste mai. C. E tutto questo avvenne, perché si compissero le scritture dei Profeti. Dopo ciò, tutti i discepoli lo abbandonarono, dandosi alla fuga. Ma quelli, afferrato Gesù, lo condussero a Caifa; principe dei sacerdoti, presso il quale si erano radunati gli scribi e gli anziani. Pietro però lo aveva seguito alla lontana fino all’atrio del principe dei sacerdoti; ed, entrato là, si era messo a sedere coi servi allo scopo di vedere la fine. I capi dei sacerdoti intanto e tutto il consiglio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù per aver modo di metterlo a morte; ma non trovandola, si fecero avanti molti falsi testimoni. Per ultimo se ne presentarono altri due, e dissero: S. Costui disse: Io posso distruggere il tempio di Dio, e in tre giorni posso rifabbricarlo. C. Levatosi su allora il principe dei sacerdoti, disse [a Gesù]: S. Io ti scongiuro per il Dio vivo, che tu ci dica, se sei il Cristo, figlio di Dio. C. Gesù rispose: J. Tu l’hai detto. Anzi vi dico che vedrete altresì il Figlio dell’uomo, assiso alla destra della Potenza di Dio, venir giù sulle nubi del cielo. C. Il principe dei sacerdoti allora si strappò le vesti, dicendo: S. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. È reo di morte! C. Allora gli sputarono in faccia e lo ammaccarono coi pugni. Altri poi lo schiaffeggiarono e gli dicevano: S. Indovina, o Cristo, chi è che ti ha percosso. C. Pietro intanto se ne stava seduto fuori nell’atrio. Or gli si accostò una serva e gli disse: S. Anche tu eri con Gesù di Galilea. C. Ma egli, alla presenza di tutti, negò, dicendo: S. Non capisco quello che dici. C. Mentre poi stava per uscire dalla porta, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: S. Anche lui era con Gesù Nazareno! C. E di nuovo egli negò giurando: S. Io non conosco quest’uomo! C. Di lì a poco gli si avvicinarono coloro che si trovavano là, e dissero a Pietro: S. Tu sei davvero uno di quelli, perché anche il tuo accento ti da a conoscere per tale. C. Cominciò allora a imprecare e a scongiurare che non aveva mai conosciuto quell’uomo. E a un tratto il gallo cantò; allora Pietro si rammentò del discorso di Gesù: «Prima che il gallo canti, tu mi avrai rinnegato tre volte»; ed uscito di là, pianse amaramente. Fattosi poi giorno, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo congiurarono insieme contro Gesù per metterlo a morte; e, legatolo, lo portarono via e lo presentarono al governatore Ponzio Pilato. Il traditore Giuda, allora, visto che Gesù era stato condannato, sospinto dal rimorso, riportò ai capi dei sacerdoti e agli anziani i trenta denari, e disse: S. Ho fatto male, tradendo il sangue d’un innocente! C. Ma essi risposero: S. Che ci importa? Pensaci tu! C. Gettate perciò nel tempio le trenta monete d’argento, egli si ritirò di là, andando a impiccarsi con un laccio. I capi dei sacerdoti per altro, raccattate le monete, dissero: S. Non conviene metterle colle altre nel tesoro, essendo prezzo di sangue. C. Dopo essersi consultati tra di loro, acquistarono con esse un campo d’un vasaio per seppellirvi i forestieri. Per questo, quel campo fu chiamato Aceldama, vale a dire, campo del sangue; e ciò fino ad oggi. Così si verificò quello che era stato predetto per mezzo di Geremia profeta: «Ed hanno ricevuto i trenta denari d’argento, prezzo di colui che fu venduto dai figliuoli d’Israele, e li hanno impiegati nell’acquisto del campo d’un vasaio, come mi aveva imposto il Signore». Gesù pertanto si trovò davanti al governatore, che lo interrogò, dicendogli: S. Sei tu il re dei giudei? C. Gesù gli rispose: J. Tu lo dici. C. Ed essendo stato accusato dai capi dei sacerdoti e dagli anziani, non rispose nulla. Gli disse allora Pilato: S. Non senti di quanti capi d’accusa ti fanno carico? C. Ma egli non replicò parola, cosicché il governatore ne rimase fortemente meravigliato. Nella ricorrenza della festività [pasquale] il governatore era solito di rilasciare al popolo un detenuto a loro piacimento. Ne aveva allora in prigione uno famoso, chiamato Barabba. A tutti coloro perciò che si erano ivi radunati, Pilato disse: S. Chi volete che io vi lasci libero? Barabba, oppure Gesù, chiamato il Cristo? C. Sapeva bene che per invidia gliel’avevano condotto lì. Mentre intanto egli se ne stava seduto in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: S. Non aver nulla da fare con quel giusto, perché oggi in sogno ho dovuto soffrire tante ansie per via di lui! C. Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani sobillarono il popolo, perché fosse chiesto Barabba e fosse ucciso Gesù. In risposta allora il governatore disse loro: S. Chi volete che vi sia rilasciato? C. E quei risposero: S. Barabba. C. Replicò loro Pilato: S. Che ne farò dunque di Gesù, chiamato il Cristo? C. E ad una voce, tutti risposero: S. Crocifiggilo! C. Disse loro il governatore: S. Ma che male ha fatto? C. Ed essi gridarono più forte, dicendo: S. Sia crocifisso! C. Vedendo Pilato che non si concludeva nulla, ma anzi che si accresceva il tumulto, presa dell’acqua, si lavò le mani alla presenza del popolo, dicendo: S. Io sono innocente del sangue di questo giusto; è affar vostro! C. E per risposta tutto quel popolo disse: S. Il sangue di lui ricada sopra di noi e sopra i nostri figli! C. Allora rilasciò libero Barabba; e, dopo averlo fatto flagellare, consegnò loro Gesù, perché fosse crocifisso. I soldati del governatore poi trascinarono Gesù nel pretorio e gli schierarono attorno tutta la coorte; e lo spogliarono, rivestendolo d’una clamide di color rosso. Intrecciata poi una corona di spine, gliela posero in testa, e nella mano destra [gli misero] una canna. E piegando il ginocchio davanti a lui, lo deridevano col dire: S. Salve, o re dei Giudei. C. E dopo avergli sputato addosso, presagli la canna, con essa lo battevano nel capo. E dopo che l’ebbero schernito, gli levarono di dosso la clamide, gli rimisero le sue vesti, e lo condussero via per crocifiggerlo. Nell’uscire [di città], trovarono un tale di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a pigliare la croce. E arrivarono a un luogo, detto Golgota, cioè, del cranio. E dettero da bere [a Gesù] del vino mescolato con fiele; ma avendolo egli gustato, non lo volle bere. E dopo che l’ebbero crocifisso, se ne divisero le vesti, tirandole a sorte. E ciò perché si adempisse quello che era stato detto dal Profeta, quando disse: «Si sono divisi i miei abiti ed hanno messo a sorte la mia veste». E, postisi a sedere, gli facevano la guardia. E al di sopra del capo di lui, appesero, scritta, la causa della sua condanna: – Questi è Gesù, re dei Giudei -. Furono allora crocifissi insieme con lui due ladroni: uno a destra ed uno a sinistra. E quelli che passavano di li, lo schernivano, crollando il capo, e dicevano: S. Tu che distruggi il tempio di Dio e che lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso; se sei il Figlio di Dio, scendi giù dalla croce. C. Parimenti anche i capi dei sacerdoti lo deridevano, beffandosi di lui cogli scribi e cogli anziani del popolo, e dicendo: S. Salvò gli altri, e non può salvare se stesso. Se è il re d’Israele, discenda ora dalla croce, e noi gli crederemo. Confidò in Dio. Se vuole, Iddio lo liberi ora! O non disse che era Figliuolo di Dio? C. E questo pure gli rinfacciavano i ladroni che erano stati crocifissi con lui. Si fece poi un gran buio dall’ora sesta fino all’ora nona. E verso l’ora nona Gesù gridò con gran voce: J. Eli, Eli, lamma sabacthani; C. cioè: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed alcuni che erano li vicini, sentitolo, dissero: S. Costui chiama Elia! C. E subito uno di loro, correndo, presa una spugna, l’inzuppò nell’aceto, e fermatala in vetta a una canna, gli dette da bere. Gli altri invece dicevano: S. Lasciami vedere, se viene Elia a liberarlo. C. Ma Gesù, gridando di nuovo a gran voce, rese lo spirito. Si genuflette per un momento. Ed ecco che il velo del tempio si divise in due parti dall’alto in basso; e la terra tremò; e le pietre si spaccarono, le tombe si aprirono, e molti corpi di Santi che vi erano sepolti, resuscitarono. Usciti anzi dai monumenti dopo la resurrezione di Lui, entrarono nella città santa e comparvero a molti. Il centurione poi e gli altri che con lui facevano la guardia a Gesù, veduto il terremoto e le cose che succedevano, ne ebbero gran paura e dissero: S. Costui era davvero il Figliuolo di Dio. C. C’erano pure lì, in disparte, molte donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea per assisterlo, tra le quali era Maria Maddalena, e Maria di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo. Essendosi poi fatta sera, arrivò un uomo, ricco signore di Arimatea, chiamato Giuseppe, discepolo anche lui di Gesù. Egli si era presentato a Pilato per chiedergli il corpo di Gesù; e Pilato aveva dato ordine che ne fosse restituito il corpo. E, presolo, Giuseppe lo avvolse in un lenzuolo pulito, e lo pose in un sepolcro nuovo, che si era già fatto scavare in un masso; e, dopo aver ribaltata alla bocca della tomba una gran lapide, se ne andò. Erano ivi Maria Maddalena e l’altra Maria, sedute di davanti al sepolcro.]
OMELIA
II
[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]
– Sopra le disposizioni alla Comunione –
Dicite filiæ
Sion; ecce Rex tuus venit tibi. [Matth. XXI]
La Chiesa, quella tenera, madre, sempre attenta ai bisogni dei suoi figliuoli, ci rappresenta in quest’oggi nel Vangelo l’entrata trionfante del Salvatore, in Gerusalemme: ciò non è senza disegno, Fratelli miei, essa vuole, con questo metterci sotto gli occhi, il modello di quel che dobbiamo noi fare per prepararci alla Comunione Pasquale; perciocché se l’entrata di Gesù Cristo in quella città è una figura di quella che fa nelle nostre anime con la santa Comunione, si può dire che l’accoglienza che gli fecero, i popoli, è un’istruzione di quel che dobbiamo noi fare per riceverla. Or, il Vangelo, ci dice che una gran moltitudine di persone andò al di Lui, incontro; gli uni stendevano le loro vestimenta, gli altri travagliavano rami d’alberi che mettevano sulla strada per cui doveva passare; tutti, insieme gli davano mille benedizioni dicendo: Osanna, salute e gloria al figliuolo di Davide, benedetto sia chi viene nel nome del Signore. Tale fu, Fratelli miei, quella pomposa cerimonia, di cui la Chiesa ci richiama la rimembranza con la benedizione delle palme e con la, processione ch’ella fa in questo giorno; tale è altresì il modello delle disposizioni che dovete voi apportare ad una santa Comunione. Voi dovete, non già levarvi le vestimenta come quei popoli, ma spogliarvi dell’uomo vecchio, rinunciar al peccato, reprimere le vostre cupidigie, portar nelle vostre mani la palma delle vittorie, che avere ripor tate sulle vostre passioni, andar all’incontro di Gesù Cristo con una viva fede, con una ferma speranza, con un’ardente carità, una devozione fervente, un’umiltà profonda .. Ecco a che, Fratelli miei, v’invita la Chiesa per mezzo dei suoi ministri ch’essa incarica di annunciarvi il felice arrivo di un Re pieno di mansuetudine : “Ecce Rex tuus venit tihi mansuetus”. Ecco che viene questo Re per ricolmarvi delle sue grazie e dei suoi favori; già Egli è alla vostra porta, già siete vicini al momento in cui dovete riceverlo nel vostro cuore: Ecce Rex tuus venit! Andate dunque al di Lui incontro; preparatevi con attenzione a questo grande ed augusto Sacramento, lasciate per questo le vie dell’iniquità, ed accostatevi a Gesù Cristo con un cuor puro, ed un’anima ornata di tutte le virtù; questo solo può rendergli gradita la dimora, che vuol Egli eleggersi dentro di voi medesimi. Ecco, Fratelli miei, l’importante soggetto di cui sono per intrattenervi; egli mi somministra le due seguenti riflessioni: per ricevere degnamente Gesù Cristo nella santa Comunione, bisogna 1.° esser esente da ogni peccato; primo punto: bisogna 2.° esser occupato alla pratica delle virtù; secondo punto. In due parole, la purezza dell’anima è la disposizione remota; il fervore della virtù è la disposizione prossima, che da tutti noi richiede la santa Comunione.
I. Punto. Il Santo Re Davide volendo fabbricare un tempio al Signore, credette dover preparare per questa grand’opera tutto ciò ch’egli poté trovare di più prezioso e di più magnifico nelle ricchezze della natura; perché, diceva egli, non si tratta di preparare un’abitazione ad un uomo, ma bensì ad un Dio: Neque enim homini præparatur habitatio ( I. Par. XXIX). Il gran disegno che questo pio Re non poté compire, fu eseguito da Salomone suo figliuolo, il più saggio dei Re. Or se bisognò fare tanti apparecchi per collocare l’arca d’alleanza che conteneva le tavole della legge, ed un poco di manna data miracolosamente ai Giudei nel deserto; che non deve fare un Cristiano per preparare nel suo cuore un tempio a Gesù Cristo, Autore della legge, per mangiare quella manna deliziosa discesa dal Cielo, di cui l’antica non era che la figura? Se i Giudei dovevano osservare tante cerimonie per mangiare l’Agnello Pasquale, se erano puniti di morte allorché mancavano a qualcheduna di queste cerimonie; che non devono osservare i Cristiani per mangiare l’Agnello immacolato? Quali disposizioni non debbono apportare accostandosi al più grande, al più santo dei nostri Sacramenti, che è un memoriale dei misteri di nostra Santa Religione? Ah! Fratelli miei, quand’anche non dovessimo noi partecipare che una sol volta nel tempo di nostra vita a questi augusti misteri, questa vita, benché lunga, benché santa ella fosse, non sarebbe troppo per apparecchiarci ad una sola Comunione. Ma se noi non impieghiamo a quest’azione tanto tempo, quanto domanderebbe la grandezza e la santità di chi dobbiamo ricevere, noi dobbiamo supplir per lo meno col nostro fervore al tempo che ci manca: e con una santa premura supplire all’impossibilità in cui ci mette la nostra debolezza di farne di più. – Che non fareste voi, Fratelli miei, se doveste ricevere in casa vostra un Grande del mondo, un Principe, un Re della terra? Voi non aspettereste il giorno del suo arrivo per prepararvi; ma impieghereste molti giorni per adornar gli appartamenti in cui dovrebbe alloggiare, di ciò che ritrovar poteste di più prezioso; voi non avreste la temerità di riporvi il suo nemico, o qualche oggetto che gli dispiacesse. Quali precauzioni non dovete voi dunque prendere per ricever Gesù Cristo, il Re dei re, il quale vuol dimorare, non già nella vostra casa, ma nel vostro cuore? Voi sapete che il peccato è suo nemico; dunque dovete scacciarlo dalla vostr’anima, purificandola di tutto ciò che può dispiacere. agli occhi. di questo Re pieno di mansuetudine. Questa è, Fratelli miei, la disposizione principale, che convien apportare alla Comunione, una gran purità d’anima, senza di cui tutte le altre a nulla vi serviranno. Voi la dovete a Gesù Cristo vostro divino ospite, voi la dovete a voi medesimi, perché senza questa disposizione, ben lungi che questo cibo fosse per voi un principio di vita e di salute, egli sarebbe un principio di morte, e di dannazione. – Ed invero, se Gesù Cristo si unisce a noi nella Santa Comunione in una maniera sì intima, non dobbiamo noi forse unirci a lui con l’amore il più sincero? Se vuol Egli dimorare in noi, e onorarci di sua presenza, non dobbiamo noi forse dimorare in Lui con la sua grazia? Or, come unirvi a Gesù Cristo, Fratelli miei, mentre che il peccato metterà tra lui e voi un argine ed un ostacolo a questa unione? Come dimorare in Gesù Cristo, mentre il peccato ve ne separa, e vi ritirate dalla sua società per via di quella che voi volete avere con Belial suo nemico? Quæ conventio Christi ad Belial (2. Cor. VI)? Gesù Cristo verrà veramente ad abitare in voi, se vi comunicate, in qualunque stato di colpa, o di santità voi siate; mentre per un prodigio di amore, che noi non sapremmo abbastanza ammirare, Egli si dà egualmente ai buoni e ai malvagi; il peccato che regna nel cuore che lo riceve, non gli fa per questo perdere il suo essere sacramentale: Sumunt boni, sumunt mali. Egli entra e dimora in corpo ed in anima in questo cuor di peccato, come in un cuor puro; ma quanto diversi sono gli effetti che vi produce? Le maledizioni ch’Egli imprime in quest’anima temeraria e sfrontata, sono proporzionate agli oltraggi che vi riceve. Or come è Egli ricevuto in questo cuor di peccato, come vi è trattato, a quali disprezzi, a quali insulti, a quali indegnità non è Egli esposto? Vi si vede, per così dire, strascinato, come uno schiavo sotto i piedi del demonio, suo nemico , cui l’indegno comunicante dà la preferenza sopra il suo Dio. col suo attacco al peccato. Egli soffre in questo cuore oltraggi inuditi, che gli sono più insopportabili che non furono quelli che soffrì nella sua vita mortale; la sua passione vi è rinnovata, vi è tradito da Giuda, dispregiato da Erode, condannato da Pilato, messo a morte dai carnefici; mentre l’indegno comunicante rassomiglia a tutti quei mostri della natura, che han commesso i più orribili attentati sulla persona del Figliuol di Dio. Gesù Cristo ha più di orrore d’essere in questo cuore schiavo del peccato, che nel fango e nel sucidume. A che pensate voi dunque, e che pretendete voi fare, peccatori che vi accostate alla santa tavola con un cuore imbrattato di peccati, abbandonato ai desideri sensuali, schiavo di un abito che non avete corretto, adoratore di un oggetto cui non avete rinunciato? Pensate voi che il pane dei figliuoli sia per li cani? No, no, le cose sante non debbono essere che per i Santi; e non conviene gettare le perle preziose avanti agli animali immondi, né conviene partecipare alla tavola del Signore, e a quella dei demoni. La Scrittura vi condanna troppo apertamente, sì che troviate qualche scusa alla vostra temerità. Che pretendete voi, vendicativi, allorché venite a mangiare la carne dell’Agnello pieno di mansuetudine con un cuore ripieno di fiele, con una segreta animosità, con un risentimento ostinato che vi separa dal vostro fratello, o che vi rende così intrattabili su tutte le convenzioni che vi si propongono? Ah! voi venite come Giuda sotto il segno della pace, a dichiarare a Gesù Cristo la guerra più crudele, ad immergergli nel seno il pugnale che tenete nascosto sotto il mantello della pietà e della modestia. Voi siete colpevoli del medesimo attentato, voi che non avere rinunciato a quell’occasione che vi perde, che non avete rotta quella pratica peccaminosa, voi che non volete restituire quel bene mal acquistato, voi che non avete avuto alcun dolore dei vostri peccati, che non li avete tutti dichiarati nel tribunale; voi tutti finalmente, che conservate qualche affetto al peccato: mentre per esser degno di comunicarsi, non basta di aver interrotto il corso dei suoi peccati; avete voi passati molti mesi, molti anni senza fare al di fuori alcun’opera di peccato? Se il vostro cuore ama ancora il peccato, se ha qualche segreto affetto per lui, voi siete da quel tempo sotto la Schiavitù del demonio, e comunicandovi in questo stato, voi vi rendete colpevoli di una comunione sacrilega. Ah! sappiate che non si può bere nel calice del Signore ed in quello dei demoni, dice l’Apostolo S. Paolo; ma che bisogna provarvi, come dice lo stesso Apostolo, prima di mangiare questo pane celeste: Probet autem se ipsum homo, et sic de pane illo edat (2 Cor IX). Or, in che consiste questa prova che chiede il santo Appostolo, di chi vuol cibarsi del corpo e del Sangue di Gesù Cristo? Questa prova, dice il santo Concilio di Trento, consiste in investigare il fondo del suo cuore, riconoscere, se è egli imbrattato di qualche colpa; e se è tale, convien lavare, purificare questo cuore nelle acque di una salutevole penitenza; penitenza che non consiste solamente nel detestare il peccato, ma ancora nel dichiararlo nella confessione: senza questa dichiarazione, qualunque contrizione uno abbia altronde del suo peccato, lo stesso Concilio di Trento proibisce ad ogni peccatore di accostarsi alla santa tavola; la ragione, su cui appoggia questo divieto, è la santità di questo gran Sacramento, a cui non si può mai di troppo prepararsi per riceverlo. – Provatevi dunque, peccatori, chiunque voi siate, prima di accostarvi al Santo dei Santi: Probet autem se ipsum homo, Non vi contenta te di una rivista superficiale sopra lo stato della vostra anima, di una semplice dichiarazione delle vostre colpe, di alcune preghiere recitate: che sono meno l’opera del vostro cuore, che di una sorgente straniera; ma investigate il fondo del vostro cuore per vedere s’egli è lo schiavo di qualche passione, se v’è qualche veleno nascosto, che il vostro amor proprio vi ha mascherato, se è signoreggiato da un orgoglio segreto, roso dall’invidia, animato dalla vendetta, sottomesso dal piacere. Dall’esame del cuore venite a quello delle vostre parole, e delle vostre azioni; mirate con attenzione se quella lingua, che deve esser tinta del Sangue di Gesù Cristo, è sovente lo strumento fatale, di cui vi servite per oltraggiarlo con le vostre bestemmie, con le vostre imprecazioni, con le vostre maldicenze, con le vostre parole oscene: ed allora qual confusione non avreste di alloggiare il Dio d’ogni santità, d’ogni purità su di una lingua, ed in un cuore sì indegno di riceverlo, per aver servito di sedia e di trono al demonio, suo nemico? Ah! quanto questa riflessione dovrebbe in appresso ben ritenere la vostra lingua, e scacciar dal vostro cuore ogni amor profano. Probet autem se ipsum homo . Provatevi ancor una volta, peccatori, ed esaminate se tutte le vostre azioni sono quelle di un uomo che deve essere incorporato a Gesù Cristo. Se le vostre mani sono cariche d’ingiustizie, se sono bagnate del sangue della vedova, e del pupillo, se il vostro corpo, che nel vostro Battesimo è divenuto il tempio dello Spirito Santo , è profanato da qualche segreto piacere: esaminate quali sono le vostre occupazioni» quali i doveri del vostro stato, se voi li adempite; e se riconoscete in voi qualche cosa di difettoso, bisogna raddrizzarlo; se vi osservate qualche macchia, qualche lordura, convien purificarla; se nel vostro cuore regna qualche passione disordinata, bisogna scacciarla; se la vostra lingua è un fonte d’iniquità, convien condannarla al silenzio; se la vostra condotta non è regolata, convien riformarla: bisogna con una sincera penitenza riparar il passato, regolar l’avvenire; bisogna, in una parola, con una buona Confessione, accompagnata da un vivo dolore dei vostri peccati, mettervi in istato di partecipare della tavola de gli Angeli: Probet autem se ipsum homo. – Voi dovete a voi medesimi questa prova, Fratelli miei, questa purezza d’anima, che vi rende graditi agli occhi di chi volete ricevere. Imperciocché se voi avete la temerità di accostarvi alla santa tavola, di mangiare il frumento degli eletti, il cibo degli Angeli, e dei veri figliuoli di Dio con un cuore di demonio, con cuor reprobo, con un cuor di peccato; se come un altro Osea, voi portate una mano temeraria sull’arca della nuova alleanza; se voi incorporate la carne di Gesù Cristo in una carne di peccato, voi sarete nello stesso momento puniti della morte la più terribile; il pane che dà la vita ai buoni, si cangerà per voi in un veleno fatale che vi darà la morte: mors est malis, vita bonis. Il calice della salute sarà per voi un calice di condannazione. Si è lo stesso Appostolo, che ve ne assicura dopo le parole che vi ho spiegate: chi mangia indegnamente, dice egli, il corpo di Gesù Cristo, chi beve indegnamente il suo sangue, cioè, chi lo riceve’ senza disposizione, ed in istato di peccato, questi beve e mangia il suo giudizio: qui enim manducat et bibit indigne, judicium sibi manducat et bibit. ( 1. Cor. XI). Qual espressione, Fratelli mici! chi di voi peccatori temerari, non ne sarà spaventato? Se questo giudizio fosse scritto sulla carta, si potrebbe lacerare, se fosse inciso sul legno, si potrebbe bruciare; se fosse intagliato sui bronzo, si potrebbe cancellare; ma egli ha penetrato sino nelle vostre vene, e nella midolla delle vostre ossa; come rivocarlo dopo che l’avete mangiato, dopo che si è convertito, per così dire, in vostra sostanza? Qual disgrazia! come ripararla? Ah quanto è difficile! l’accecamento, la durezza di cuore, l’impenitenza finale, cui noi vediamo ridotti certi peccatori, sono i funesti effetti delle loro indegne Comunioni: da che hanno avanzato il passo per accostarsi alla santa tavola, come il perfido Giuda, il demonio s’impossessa della loro anima, come fece di quell’Apostolo, che non fu punto tocco dalle finezze che Gesù Cristo ebbe ancora per lui, malgrado il suo tradimento, e che andò ad impiccarsi di disperazione, e dal suo patibolo scese nell’inferno. Tale è la sorte di quelli che indegnamente si comunicano. Cosa alcuna non li commuove; né preghiere, né minacce, né grazie, né esortazioni non fanno su di essi impressione alcuna; si acciecano, si ostinano su tutto ciò che loro può dirsi di più penetrante; muoiono, e sono dopo la loro morte precipitati nel profondo degli abissi. Ah! Fratelli miei se v’è qualcheduno tra voi che sia in queste cattive disposizioni, se v’è qui qualche Giuda, cioè, qualcheduno in istato di peccato, tremi pure alla vista del suo stato, apprenda i castighi di cui è minacciato, e non si accosti alla santa tavola per fare la Pasqua coi discepoli, ma se ne allontani; perciocché se egli ha la temerità di commettere quel sacrilegio, sarebbe meglio per lui, come fu detto di Giuda, che non fosse mai nato: Melius erat iili, si natus non fuisset homo ille (Matth. XXVI). Non deve aspettarsi che una sentenza di morte la più terribile. Uscite dunque da qui, vendicativi, che non avete ancora fatta la pace col vostro nemico, ed andate a riconciliarvi con lui prima di offerire il vostro dono all’Altare: Foris canes. Uscite da qui, bestemmiatori, che avete ancora la lingua tutta annerita dalle imprecazioni che avete pronunciate, che non avete fatto alcuno sforzo per correggervi, perché in questo giorno medesimo, in cui la vostra lingua sarà bagnata del Sangue di Gesù Cristo, voi la farete forse ancora servire ad oltraggiarlo con le vostre bestemmie. Uscite da qui voi, il cui cuore è ancora fumante del fuoco, che una infame passione vi ha acceso; andare prima ad estinguere questo fuoco con le lagrime della Penitenza. Uscite da qui finalmente voi tutti che non avete ancora gettate lungi da voi le iniquità, di cui siete carichi: il pane degli Angeli non deve essere distribuito agli schiavi del demonio; purificatevi prima con la Penitenza. È molto meglio differire per qualche tempo la vostra Comunione, che di farla in cattivo stato. Foris canes. Il Dio delle misericordie vuole di buon grado darvi ancora il tempo che vi è necessario, e ricevervi quando vi sarete preparati. Quanto a voi, cui la coscienza non rimprovera alcuna colpa grave, purificatevi delle macchie anche le più leggiere che avete contratte, perché le colpe leggiere anche, quantunque non rendano la Comunione indegna, non lasciano di privarvi di molte grazie che ricevereste se le aveste interamente cancellate. Se Gesù Cristo lava i piedi ai suoi Apostoli prima di mangiar con essi questa divina Pasqua, era, Fratelli miei, per farvi conoscere la gran purezza che bisogna avere per parteciparvi; bisogna lavar la vostra anima, e renderla tanto bianca, come la neve, per ricevere quell’abbondanza di grazie che Gesù Cristo comunica alle anime sante e ferventi, che se gli accostano: a questa purezza d’anima unite ancora la pratica delle cristiane virtù. In poche parole il secondo punto.
II. Punto. Ci fa sapere
il sacro testo, che per mangiare l’Agnello Pasquale, bisognava osservar molte
cerimonie; mancare ad una sola era esporsi ai più rigorosi castighi. Si doveva
mangiar questo Agnello con lattughe selvagge, bisognava star in piedi, aver
cinte le reni, ed un bastone in mano. Tutto questo, Fratelli miei, ci notava le
disposizioni, in cui dobbiamo noi essere, le virtù che dobbiamo praticare per
metterci in istato di mangiare l’Agnello immacolato della nuova alleanza.
Quelle lattughe, che dovevano servire di condimento all’Agnello di Pasqua, ci
rappresentavano la mortificazione che ci è necessaria per profittare del cibo
celeste che ci è presentato in questo divin cibo. La postura, in cui esser
dovevano gli Israeliti facendo la loro Pasqua, era una figura dello staccamento
dalle cose di questo mondo, in cui dobbiamo noi essere in qualità di viatori, e
delle premure che dobbiamo avere per li beni del Cielo; chiunque non è in
queste disposizioni, è indegno di mangiare il pane degli Angeli, come canta la
Chiesa, il pane dei viatori: Panis Angelorum factus cibus viatorum.
Per partecipare a queste nozze affatto divine, per entrare in questo convito
dell’Agnello, bisogna essere rivestito delle virtù cristiane, essere animato da
una viva fede, penetrato da un salutevole timore, acceso da un amor tutto divino.
Queste sono le disposizioni prossime che il sacro ministro annunciava altre
fiate, a tutti coloro che volevano accostarsi alla santa Tavola: Accedite
cum fide, tremore, et dilectione. – È d’uopo, Fratelli miei, che voi
siate primieramente animati da una viva fede, che vi rappresenti da una parte
la grandezza, la maestà, la santità del Dio che andate a ricevere, e dall’altra
la vostra bassezza, la vostra miseria, il vostro niente: chi è dunque colui che
vado a ricevere nel mio cuore, dovete dire a voi medesimi? Chi è che è rinchiuso
in quell’ostia, che mi si presenta? È il Signore del cielo, e della terra, il
sovrano di tutti i Re, è il mio Dio, il mio Creatore, il mio Salvatore, lo
stesso Gesù Cristo che ha fatti tanti prodigi sulla terra, che ha risanato
gl’infermi, che ha risuscitato i morti, che è morto in croce per me, che è
risuscitato, salito al Cielo, che sta assiso alla destra di suo Padre, e che deve
un giorno venire con tutto lo splendore della sua maestà a giudicare i vivi ed
i morti; sì, lo credo, è lo stesso Gesù Cristo che vado a ricevere, che fa la felicità
dei Santi nella gloria. Ah! Qual buona. sorte per me! ma quanto sono io povero
e misero peccatore, verme di terra, cenere e polvere, per accostarmi così al Santo
dei Santi, al Dio d’ogni maestà, d’ogni grandezza? Ah! se avessi almeno
conservata la mia innocenza; se non avessi io giammai offeso un Dio sì buono a
mio riguardo! Ma dopo tanti peccati, come ho io l’ardire di presentarmi alla
santa tavola? Tali sono, Fratelli miei, i sentimenti, che la fede deve in voi
produrre: sentimenti di umiltà che vi facciano riconoscere con più di ragione
che l’umile Centurione del Vangelo, la vostra indegnità a ricevere un sì gran
benefizio. No, Signore, dovete! voi dire com’egli, io non merito, che voi entriate
nel mio cuore, io sono indegno di ricevervi; una sola delle vostre parole
sarebbe per me infinitamente superiore ai miei meriti; oppure dite con San
Pietro: ah! Signore, ben lungi di accostarmi a voi, dovrei piuttosto dirvi di
allontanarvene, perché io sono un peccatore. Sarebbe già molto per me, che mi
permetteste, come al Pubblicano, di starmene già vicino alla porta del vostro
santo Tempio, e dirvi com’egli: Signore, siatemi propizio: sarebbe molto per me
che mi perdonaste i miei peccati; ma che io m’accosti a voi dopo avervi sì
sovente offeso; che io vi alloggi in un cuore, che è stato sì sovente
imbrattato dalla colpa: ah, non devo io temere che un fuoco divorante non esca
dal sacro tabernacolo per consumarmi, e punire la mia temerità? Quand’anche io
avessi tutta la purità degli Angeli, e tutte le virtù dei Santi, dovrei io
tremare accostandomi a Voi; quanto più non devo io temere dopo tanti peccati
che ho commessi, non sapendo principalmente se mi sono perdonati? Non devo io
temere di bere e di mangiare il mio giudizio, di ricevere il decreto di mia
condannazione? Questo timore tuttavia, Fratelli miei, non deve disanimarvi né
allontanarvi da questa sorgente di grazie, se voi avete fatto quanto dipende da
voi per prepararvi. Egli deve al contrario esser accompagnato da una ferma
fiducia che Gesù Cristo medesimo ha voluto ispirarci, allorché c’invita di
andare a Lui: venite a me, voi tutti che siete carichi, ed io vi alleggerirò; Venite
ad me omnes (Marth. 11.). Venite, miei amici, a mangiar il pane, che Io
vi ho apparecchiato, inebriatevi di quel vino delizioso che fortifica le
vergini: Inebriamìni carissimi (Cant. V). Ma affinché questo pane
delizioso vi profitti, bisogna mangiarlo con fame, e bere questo vino con una
sete ardente; mentre siccome il cibo del corpo non profitta a coloro che ne
hanno nausea, così quello dell’anima non vi sarà salutevole se non bruciate di
un desiderio ardente di riceverlo. Or che cosa più propria ad eccitare in voi
questo desiderio, che 1’ardore che Gesù Cristo medesimo vi dimostra di unirsi a
voi? Qual premura dal suo canto per ricolmarvi dei suoi favori, e riempiervi
della sua grazia? Egli è il migliore di tutti i Padri, il più liberale di rutti
i Re, che si spoglia, per così dire, della sua maestà per rivestirne voi, e conferirvi
i suoi doni con magnificenza. Imperciocché notate, Fratelli miei, che Gesù
Cristo viene a voi nella santa Comunione per vostro bene: Venit tibi mansuetus; Egli
viene in qualità di conquistatore a fare la conquista del vostro cuore; a
regnare nella vostra anima, e a sottomettere le vostre passioni alla sua legge;
Egli viene in qualità di padrone ad istruirvi dei vostri doveri, a dissipare le
vostre tenebre, e ad insegnarvi tutte le verità: viene in qualità di medico a
guarire le vostre malattie spirituali; viene in qualità di pastore per
ricondurvi nell’ovile, o come un tenero sposo per fare una santa alleanza con
la vostra anima: tutto questo non sarà capace di eccitare in voi l’amore il più
ardente per Iddio, che vi ama con tanto eccesso? Si è per amore, che Egli si dà
a voi; potete voi ricusargli il vostro cuore? Alcuno dunque non si accosti con
nausea, con tiepidezza, dice il Crisostomo; ma tutti siano nel fervore, e nell’
amor il più ardente.
Pratiche. Per
apparecchiarvi ad una fervente Comunione, passate questa settimana santa in un
profondo raccoglimento, siate voi più pii nelle vostre orazioni, più fedeli ai
vostri doveri, più assidui alla Chiesa; andate con allegrezza a mettere il vostro
cuore ai piedi degli altari, e trasportatevi in ispirito sul Calvario per
contemplare l’amor eccessivo di un Dio
che si è reso per voi ubbidiente sino alla morte della croce: mortificate la
vostra carne, a fine di risentire in voi qualcheduno dei dolori che Gesù Cristo
ha sofferti per voi: Hoc sentite in vobis, quod et in Christo
Jesu (Philip. II). La mortificazione unita alla preghiera è una disposizion
eccellente alla Comunione. Producete sovente avanti di comunicarvi atti di
fede, di adorazione, di umiltà, di timor, di confidenza, e di amore … Se voi
non sapete abbastanza trattenervi lungo tempo, ripetete più volte i medesimi
atti, insistete particolarmente sull’atto di umiltà: questo si è quello, che
conviene di più al peccatore. Ricevendo Gesù Cristo, entrate nei sentimenti della
Santa Vergine al momento dell’Incarnazione; adoratelo, ringraziatelo, amatelo,
come essa lo amava, allorché lo portava nel suo seno; offrite a Gesù Cristo le
adorazioni e l’amore della sua divina Madre e di tutte le anime sante, per
supplire a ciò che vi manca; prostratevi ai suoi piedi, come la Maddalena, per
abbracciarli, irrigarli delle vostre lagrime; fermatevi qualche tempo alla
porta di questa fornace ardente per lasciar infiammare il vostro cuore del
fuoco del divino amore nell’uscir dalla Comunione, chiudete i vostri occhi e i
vostri sensi ad ogni altro oggetto, occupatevi unicamente di Gesù Cristo che
riempie il vostro cuore, esclamate, come Santa Elisabetta: donde mi viene
questo bene, che non già la Madre del mio Dio, ma il mio Dio medesimo sia venuto
a visitarmi? Benedetto sia chi è venuto nel nome del Signore. Ripetete sovente
gli arti di ringraziamento, di offerta, e di domanda. Dimorate qualche tempo,
per lo meno un buon quarto d’ora, nel vostro ringraziamento; non imitate, come
fanno molti, il perfido Giuda, che uscì subito dopo la cena. Se voi possedeste
in casa vostra un gran Re pronto ad accordarvi ciò che gli domandereste, vi
profittereste di quei momenti favorevoli; voi possedete il Re dei re, ed il
migliore di tutti, che non ne dovete voi sperare? Passate la giornata nel
raccoglimento e nella pratica delle buone opere. Visitate principalmente Gesù
Cristo per ringraziarlo della grazia che vi ha fatto. Ripetete gli atti dopo la
Comunione, pregatelo di dimorare con voi durante il tempo e l’eternità.
Così sia.
Impropérium exspectávit cor meum
et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur, et non fuit:
consolántem me quæsívi, et non invéni: et dedérunt in escam meam fel, et in
siti mea potavérunt me acéto. [Oltraggio e dolore mi spezzano il cuore;
attendevo compassione da qualcuno, e non ci fu; qualcuno che mi consolasse e
non lo trovai: per cibo mi diedero del fiele e assetato mi hanno dato da bere
dell’aceto.]
Secreta
Concéde, quæsumus, Dómine: ut oculis tuæ majestátis munus oblátum, et grátiam nobis devotionis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat. [Concedi, te ne preghiamo, o Signore, che quest’ostia offerta alla presenza della tua Maestà, ci ottenga la grazia della devozione e ci acquisti il possesso della Eternità beata.]
Pater, si non potest hic calix
transíre, nisi bibam illum: fiat volúntas tua. [Padre mio, se
non è possibile che questo calice passi senza chi lo beva, sia fatta la tua
volontà.]
Postcommunio.
Orémus.
Per hujus, Dómine, operatiónem mystérii: et vitia nostra purgéntur, et justa desidéria compleántur. [O Signore, per l’efficacia di questo sacramento, siano purgati i nostri vizi e appagati i nostri giusti desideri.].
I. Se nel regno della ragione, la mano, come abbiamo veduto, è il primo ministro dell’anima, converrà dire, che il volto sia quasi il trono, ove questa, assisa, renda visibile a tutti la sua maestà. Noi, a restringerci sempre più, non contempleremo del volto, se non che la sua semplice superficie, e per dir così, la facciata. E perché quelle cinque parti che da Vitruvio (L . 1. c. 2) vengono ricercate in ogni ben inteso edifizio si possono comodamente ridurre a due, all’utile e al vago, queste due sole contempleremo anche noi nella fabbrica augusta del volto umano.
I.
II. E per incominciare dal vago. Quella bellezza che, quantunque si glori di dominare i cuori, come padrona, pure più veramente li violenta, quasi tiranna, rendendosi talora schiavi gli stessi re, anzi obbligandoli ad amare insin le catene di cui gli stringe, quella bellezza, dico, dove ha mai la sua sede, fuorché nel volto? Il sommo che l’antichità potesse o stimare o scrivere della divina eloquenza del suo Platone, fu l’affermare, che non sarebbe riuscito levare dal suo dire una parolina, e sostituirne un’altra, senza guastarla. Ma chi è uso a contemplare le operazioni della natura, saprà ben tosto conoscere, quanto più si adatti un tal vanto al lavoro stupendo del corpo umano, e singolarissimamente della sua faccia, in cui qualunque variazione di sito, di materia, di mole, di atteggiamento, benché lievissimo, pervertirebbe ad un tratto la simmetria di quel tutto che vien composto per altro da poche parti, ma tanto ben congegnate insieme e commesse, che sol mirato nella sua superficie rapisce i cuori; e li rapisce a tal segno che non sia sola la Grecia a mettersi tutta in arme per un bel viso. In ogni banda v’ha pur troppo dell’Elene idolatrate, per cui se non si guerreggia e si sparge sangue da’ popoli di lei cupidi, si guerreggia e si sparge sangue da’ privati di lei rivali; e si riduce a gloria l’offrire per quelle in vittima le ricchezze, la riputazione, la vita. Che vale, che il volto donnesco sia fior del campo, oggi pomposo, domani squallido? Questa pompa medesima fuggitiva comparisce pur su quell’atto agli amatori di lei tanto riguardevole, che se ella fosse un amaranto immortale, non pare che potrebbe stimarsi più dalla fantasia de’ mortali, poco meno che estatici in contemplarla.
III. Tornando all’intendimento: chi non crederebbe, che per lavorare un bello di tanto pregio non convenisse
formare tutte le facce ad un’aria, e stamparle tutte con un’impronta medesima,
disegnata a tal fine? E pure considerate una moltitudine assisa in un
anfiteatro a qualche spettacolo: la scorgerete ad un’ora, in qualsisia di quei
volti, simile a sé, in qualsisia differente. Una varietà sì mirabile potrà però
essere un gruppo di tante larve schiccherate in sogno dal caso? Sappiamo, che
questa è l’eccellenza più rara di un dipintor valoroso: l’avere tal dovizia di
belle idee nella mente, che gli escano dal pennello delineate tutte in sembianze
diverse. E vorremo poi riconoscere per casuale abbattimento di sconsigliata fortuna
tutto quel bello insieme e quel vario di cui ammiriamo una sì piccola parte,
qual pregio spesso non conceduto ad artefici, ancora grandi, sicché quei
medesimi, i quali si stupiscano tanto di Michel Agnolo, quasi di un miracolo
d’arte, perché non trovano nelle sue fatture due volti di un’istessa invenzione,
possano poi persuadersi, che i lineamenti sì vari, con cui si forma
giornalmente l’innumerabile stuolo dei visi umani, sian opera di un mentecatto,
che ciecamente ne abbia divisato il conio, e più ciecamente lo vada mettendo in
opera?
IV. Aggiungasi a tutto ciò la necessità che v’era di sì fatta dissimiglianza,
e così ancora fluiscasi di capire, che ella non fu casuale, ma fu voluta studiosissimamente
dalla divina sapienza, amica in tutto di unire al vago anche l’utile, come si
fa nelle fabbriche ben condotte.
V. Per un verso parrebbe, che la natura avesse a volere, che tutti coloro
i quali sono interiormente uniformi nella sostanza, non fosser poi esteriormente
difformi negli accidenti: di maniera che, come poco sono diversi all’aspetto leone
da leone, lupo da lupo, e orso da orso (Vid. Less. de prov. n. 108), così poco
un uomo fosse diverso dall’altro, e massimamente da quei, di cui tanta parte
egli reca nelle sue vene, col sangue stesso, e con gli spiriti stessi, come fa
de’ progenitori. Ma fate pure ragione, che così accada: qual luogo avrebbe più
tra noi la giustizia, la pudicizia, la pace, la fedeltà, che è la base di tutto
il commercio umano? Il reo si spaccerebbe per innocente, l’assassino per
custode, l’adultero per consorte, il bugiardo per veritiere; e la vita umana,
priva di corrispondenza scambievole, e piena all’incontro di sospetti, di
ombre, di ostilità, si ridurrebbe per minor malo alle selve, e piangerebbe
tutto lo stato civile seppellito in un caos di confusione impossibile a ordinarsi.
VI. A tutti questi sconcerti si oppose la natura, con dare a ciascuno un
volto sì proprio che come nell’alfabeto ad una semplice vista si distinguon tutte
le lettere senza abbaglio, così ad una semplice occhiata si discernano ancora
tutte le facce, contrassegnate di modo con l’aria loro, che la propria dell’una
non sia dell’altra: onde il trovare due volti simili affatto, riesca quel
miracolo tanto rado nelle storie, e però finto sì spesso ancor su le scene, per
modo di più piacevole scioglimento.
VII. All’incontro, perché una tale diversità di sembianti poco montava al
vivere solitario che fanno i bruti, poco fu in loro parimente curata dalla
natura, sempre magnifica nel beneficare i suoi parti, ma non profusa; sì che il
distinguere in una greggia vestita di una medesima lana un agnelletto
dall’altro, è opera fra’ pastori di avvedimento più che volgare.
VIII. Una provvidenza pertanto sì proporzionata al bisogno, sì universale, e sì stabile, in tutte le
generazioni, in tutte le genti, come può riferirsi ad un fortuito accoppiamento
di particelle unite alla cieca; mentre un accoppiamento, qual saria questo, sì
vago, sì utile, e pur sì impremeditato, non potrebbe essere né si frequente ad
intervenire, né sì fedele a persistere? Nihil est ordine perfectum, quodpossit sine moderatore consistere, dice Lattanzio (L. 1. c.
10): e però, essendo quell’ordine, che veggiamo nella presente costituzione delle
facce, così aggiustato, non si può non rifondere in qualche sovrumano
regolatore, da cui provenga.
IX. Quindi noi possiamo discorrere in questa guisa. Se la semplice
superficie del volto umano è da se sola uno specchio bastevolissimo a
rappresentarci la divinità, così provvida in voler vario l’aspetto di qualunque
uomo e così vigoroso nell’ottenerlo, senza veruna alterazione però, né di sito,
né di simmetria, né di numero in quelle parti uniformi che lo compongono: chi
ci saprà dunque dire, quale specchio per una mente ben purgata saranno quel
mondo di meraviglie che si racchiude nell’interno edifizio del volto stesso,
dove son poste le officine de’ sensi, costituiti tutti dalla natura nel capo
quasi nella parte più nobile, e per dir così, nella reggia del corpo umano? Io
mi sono in vero proposto la brevità: con tutto ciò accade a me, come a coloro, che
passeggiando lungo le spiagge del mare, non san tenersi, in vederlo posato e placido,
di non salire anch’essi in qualche barchetta a costeggiarne lievemente le rive
che sì lo invitano. Troppo mi peserebbe non dare almen di passaggio uno sguardo
all’ orecchia ed all’occhio, due sensi per altro i più benemeriti delle
scienze.
II.
X. L’orecchia, altra è interiore, altra esteriore. L’esteriore non fu
fabbricata dalla natura né d’osso, né di pura carne, ma di una cartilagine
foderata, come tutte l’altre membra, di pelle. Non fu ella formata d’osso, perché
sì dura poteva infrangersi, massimamente nel posarvisi su quando l’uomo giace.
E poi qual incomodo non avrebbe ella arrecato al dormir di lui? Né fu parimente
formata di pura carne, perché non avrebbe potuto ritener sempre la sua giusta
figura, quale si ricercava, e per la bellezza del volto, e per la bontà dell’udito,
dove ogni alterazione è di grave sconcio (Honor. Fabr. de hom. 1. 2. prop. 57. Andr. Lauren.
hist. anatom. 1. 11).
XI. In mezzo ell’ha un piccolo foro, il cui uso men nobile è il ripurgare il
cerebro dalla bile. E pure questo medesimo fu grand’arte, perché quell’umore
amaro ed appiccaticcio che colà piove, vaglia a trattenere ogni piccolo animaletto,
che per quel foro s’insinui dentro l’orecchia, o vaglia a scacciarlo.
XII. Tortuosa, oltre a questo, è la via di entrarvi: e ciò perché l’aria,
commossa da qualche suono troppo impetuoso, non offenda l’orecchia interna,
percotendola tutta di primo colpo. E si termina detta via a quel che chiamano timpano
dell’udito, che è una membrana gentilissima ed asciuttissima, soda e tesa a un circolo
d’osso, come appunto la pelle sta sul tamburo. E gentilissima, affinché sia
sensibile ad ogni piccola vibrazione di aria che porti suono. E asciuttissima,
affinché sia sonora: altrimenti come sarebbe sonora, essendo umidiccia? Ed è
soda e tesa, affinché si risenta a qualunque tremore, ma non s’infranga.
XIII. Nella superficie esteriore di questo timpano v’è un nervettino tirato
come una corda e nell’interiore tre ossetti, chiamati stapede, incudine, e
maglio, dalla figura che hanno e insieme dall’uso: il quale è, che il timpano mosso
da quel tremore che in propagarsi nell’aria produce il suono, comunichi un tal
tremore a quegli ossicelli, e per essi lo renda sensibile ai nervi quivi
attaccati, e per i nervi al cerebro.
XIV. Quindi è, che di tali ossicelli fu con mistero il numero parimente e la qualità. La qualità, perché
se non fossero stati ossi, ma nervi; o lenti, non avrebbono riportato il suono
a ragione; o tesi, l’avrebbono con le loro ondazioni raddoppiato a un tratto e
confuso. Il numero, perché se non erano più ossi, ma uno, questo per la sua
lunghezza e sottilità si saria di leggieri potuto rompere. Che però fra mille
osservazioni stupende che di vantaggio potrebbero da noi farsi in si bella
fabbrica, basti questa, ed è, che essendo nei bambinelli di latte, poc’anzi
nati, tutte le ossa tenere e tutte le membrane tenere e molli; quella membrana,
e quegli ossetti che servono all’udito, son per contrario non meno duri ed asciutti
che negli adulti, altrimenti tutti nascerebbero sordi. E non basta quest’arte
sola a farvi conoscere il magistero divino della natura, che a tutto pensa con
tanta minutezza, e a tutto provvede? Saremmo bene insensati se fossimo ancora
noi di quei miserabili che studiando già tanto di opere naturali, sì poco ne
conobbero l’architetto: Operibus attendentes,non cognoverunt quis esset
artifex. (Sap. XIII).
III.
XV. Passiamo ora all’occhio, sole, per dir così, di quel cielo che spandesi
in su la fronte: ma sole doppio, perché quand’uno per disgrazia si ecclissi,
supplisca l’altro (Hon. Fabr. 1.2. de hom. prop. 39. Andr. Lauren. hist. anatom.
1. n. 11). Se il sole fu già chiamato visibile figliuolo del Dio invisibile, noi
più aggiustatamente chiamerem l’occhio visibile ritratto dell’animo non
visibile: dacché tra i sensi niun’altro più da vicino ci rappresenta la mente,
di quel che faccia la vista, per l’oggetto che ella ha, fra tutte le qualità
corporee nobilissimo, qual è la luce; per la moltitudine delle verità che ci scopre,
poco meno che innumerabili; e per la certezza con la quale ce ne assicura: onde
poté da Galeno chiamarsi l’occhio una particella divina, e credersi che in grazia
di lui fosse dalla natura formato il cerebro.
XVI. Ora, come ammirabile è l’occhio nella sua operazione, così non è meno
ancora nell’opificio. Sono due, come anzi accennai, ma sì che pendano da un
istesso principio: ond’è che gli oggetti, benché mirati a due occhi, non
appariscono due, ma appariscono unici, quali sono. La figura loro è rotonda,
figura che aggiunge sempre una maggiore capacità, maggiore agilità, maggior
robustezza. (Àristot. probìem. sect. 31. n. 11). Sono collocati in luogo
sublime e concavo, perché doveano rimaner muniti per ogni lato, con la durezza
degli ossi che li circondano, e con la propria lor guardia delle palpebre; ciò
che mirabile mente tornava ancora in acconcio a conservare e a corroborar
quegli spiriti con cui si forma la vista.
XVII. Che direm poi della simpatia stupendissima, per cui ambo si muovono
sempre insieme, ed or s’abbassano a terra, or s’alzano al cielo, ora si volgono
da qualunque banda lor piace, ma sempre uniformemente? Senza questa uniformità,
la qual proviene dall’esser ambo gli occhi ligati, come già si diceva, a un
principio stesso, il vedere sarebbe un perpetuo travedere; gli occhi sarebbero
testimoni sempre discordi; gli oggetti apparirebbero quando moltiplicati, e quando manchevoli; e
più beato sarebbe l’avere un occhio solo, quale i poeti lo finsero ne’ Ciclopi,
che averne due. La loro sostanza non ha in sé punto di carne (che è la ragione,
per cui, benché sempre esposti al rigor dell’aria, non sentano freddo alcuno),
ma è d’un’acqua pingue, qual conveniva che fosse affin di ricevere le immagini
tramandate in lei dagli oggetti. (Aristot. problém. sect. 31. n. 7 et n. 23).
XVIII. E, se vogliamo calar più al particolare, questa sostanza medesima è
composta di tre umori, dell’acqueo, del vitreo, e del cristallino, che è il
centro dell’occhio ed è più stimabile di qualunque diamante. A questo servono
gli altri due umori, o per difenderlo come fa l’acqueo, o per nutrirlo come fa
il vitreo, che di più gli forma l’incastro, come l’anello d’oro lo formerebbe
ad una splendida perla.
XIX. Ma perché un aggregato di particelle sì molli non poteva mantener
lungamente la sua figura senza contrarre qualche piccola ruga che impedirebbe
totalmente la vista; ecco la provvidenza della natura accorse a vestire ciascun
umore con le sue pellicelle delicatissime, divisate con sì bell’arte, che le
trasparenti, come la cornea, cingano l’occhio per ogni parte; e le opache, o
gli dipingano il fondo nero, come fa la retina; o si aprali dinanzi all’umor
cristallino in una piccola finestrella, come fa l’uvea; la quale, ora più di la
luce, ed ora minore, come richiedesi a veder bene ogni oggetto. Finalmente
queste sfere lavorate con un magistero sì fino, son date a volgere a sei coppie
di muscoli, dei quali quattro son retti, due sono obliqui, affine di muovere
gli occhi velocissimamente a qualunque lato, e far che si meritino di
agguagliar le sfere celesti nella celerità quegli orbicelli terreni, che, come
vivi, le avanzano senza pari nella bellezza. E quando mai, ad un improvviso rivolgersi,
quelle sfere ci fan vedere tanta varietà di accidenti nel mondo grande, quanta nel
piccolo ce ne fanno gli occhi vedere ad un sol variamento di guardatura, con
cui ci dimostrano l’uomo da allegro mesto, da adirato placato, da ardito
pavido, da superbo umiliato, da distratto attento, da dispettoso amorevole?
Sono tante quelle mutazioni di scena che un mero guardo sa fare nel volto umano
ad ogni momento, che niuno le può sapere, se non sa quanti sieno ancora gli
affetti che posson ivi comparire a tenervi contrarie parti, quando meno sono
aspettati.
XX. Questo è l’occhio, o per dir meglio, questo è un abbozzo di
quell’inarrivabile maestria, che dà tanto da studiare alla notomia per un verso,
ed alla prospettiva per l’altro, nel contemplare che fanno l’istituzione e
l’ingegno di sì grand’opera. Ma frattanto chi può rammemorarsi di questo poco,
senza esclamare ad un tempo: o Dio incomprensibile! Un velo certamente è la
natura, che vi ricuopre; ma un velo trasparentissimo, che lascia uscire da ogni
banda di voi mille e mille raggi a ferirci la mente indocile: che però siete
incomprensibile sì, ma non incognoscibile a noi mortali, qual vi può calunniare
chi a voi non pensi. Non meritano di avere in capo quegli occhi che da voi
riceverono gli ateisti, se in qualunque uomo non riconoscono ad un tratto la provvidenza,
solo che lo mirino in viso. Or che avverrebbe, se potessero i miseri penetrar
quell’abisso di meraviglie, che internamente compongono il nostro corpo, e lo
rendono albergo degno di un padrone sì eccelso, qual è l’anima ragionevole: e
molto più quell’abisso di meraviglie che contiene in se l’istessa anima ragionevole,
con le sue potenze, co’ suoi abiti, co’ suoi atti, con le sue specie, o
fantastiche, o intellettive, che sempre acquista? Converrebbe allora, che lo
stupore trapassasse in orrore giacche di manco non era pago Agostino, neppure
nella contemplazione di un piccol seme, quando considerandone l’ampiezza della
virtù, nella tenuità della mole, esclamò sbalordito, che inorridivasi: Horror
est consideranti (Tract. 8. in Io.).
XXI. Non accade più dunque che l’empietà si affatichi con forza grande a scancellare
dalla sua mente la cognizione di Dio. Fatica invano. L’artefice onnipotente ha
stampato sì profondamente il suo Nome, non come Fidia già nello scudo della sua
famosa Minerva, ma in qualsivoglia parte
di noi medesimi, che se l’uomo non
si distrugge di mano propria, non può arrivare
a radere da sé la memoria del suo Fattore.
Piuttosto dunque, abbandonata un’impresa
che è sì disutile e si dannosa, si rivolga egli con miglior consiglio verso chi gli die quanto gode, e per rendergli omaggio
si studi con più facilità e con
più frutto d’imprimere le divine
fattezze ne’ suoi costumi. Gli alberi anche
fitti in terra altamente, seguono con la
maggior parte de’ loro rami il sole da quella banda dove ne provano i raggi più vigorosi. E noi, insensati più d’una pianta,
priva, se non di vita, almeno di
senso, non verremo una volta a
riconoscer quell’Essere primitivo che
ci fu Padre, mentre frattanto anche a forza pendiamo verso di lui con quel peso di tutti noi, che per istinto innato ed
incontrastabile a lui ci spinge?
SALMO 118 (5): “DEFECIT IN SALUTARE TUO ANIMA MEA”
CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉSET MÉDITÉS
A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES
SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi
tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e
delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli
oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]
Par M. l’Abbé
J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE
TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et
d’Éloquence sacrée.
[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di
Scrittura santa e sacra Eloquenza]
TOME TROISIÈME (III)
PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878
IMPRIM.
Soissons, le 18
août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
Salmo 118 (5)
CAPH.
[81] Defecit in salutare tuum anima mea,
et in verbum tuum supersperavi.
[82] Defecerunt oculi mei in eloquium tuum, dicentes: Quando consolaberis me?
[83] Quia factus sum sicut uter in pruina; justificationes tuas non sum oblitus.
[84] Quot sunt dies servi tui? quando facies de persequentibus me judicium?
[85] Narraverunt mihi iniqui fabulationes, sed non ut lex tua.
[86] Omnia mandata tua veritas, inique persecuti sunt me, adjuva me.
[87] Paulo minus consummaverunt me in terra; ego autem non dereliqui mandata tua.
[88] Secundum misericordiam tuam vivifica me, et custodiam testimonia oris tui.
LAMED.
[89] In æternum,
Domine, verbum tuum permanet in caelo.
[90] In generationem et generationem veritas tua; fundasti terram, et permanet.
[91] Ordinatione tua perseverat dies, quoniam omnia serviunt tibi.
[92] Nisi quod lex tua meditatio mea est, tunc forte periissem in humilitate mea.
[93] In æternum non obliviscar justificationes tuas, quia in ipsis vivificasti me.
[94] Tuus sum ego; salvum me fac, quoniam justificationes tuas exquisivi.
[95] Me exspectaverunt peccatores ut perderent me; testimonia tua intellexi.
[96] Omnis consummationis vidi finem, latum mandatum tuum nimis.
[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol.
Tasso ed. MDCCCXXXI]
SALMO CXVIII (5).
CAPH.
81.
Languisce l’anima mia per la brama della salute che vien da te; ma nella tua
parola ho riposta la mia speranza.
82.
Si sono stancati gli occhi miei nell’aspettazione di tua promessa, dicendo:
Quando fia che tu mi consoli?
83.
Sebbene io sia divenuto qual oltre alla brinata, non mi son però scordalo delle
tue giustificazioni.
84.
Quanti sono i dì del tuo servo? Quando farai tu giudizio di quelli che mi perseguitano?
85.
Gl’iniqui mi raccontarono delle favole; ma non son elleno qual’è la tua legge.
86.
Tutti i tuoi precetti son verità; iniquamente mi hanno perseguitato: tu dammi
aiuto.
87.
Quasi quasi mi hanno consunto sopra la terra; ma io non ho abbandonati i tuoi
insegnamenti.
88.
Per la tua misericordia dammi vita, e osserverò i comandamenti della tua bocca.
LAMED.
89.
Stabile in eterno ella è, o Signore, la tua parola nel cielo.
90.
La tua verità per tutte le generazioni; tu fondasti la terra, ed ella sussiste.
91.
In virtù del tuo comando continua il giorno; perocché le cose tutte a te obbediscono.
92.
Se mia meditazione non fosse stata la tua legge, allora forse nella mia
afflizione sarei perito.
93.
Non mi scorderò in eterno delle tue giustificazioni, perché per esse mi desti
vita.
94
Tuo son io, salvami tu: perocché avidamente ho cercato le tue giustificazioni.
95.
Mi preser di mira i peccatori per rovinarmi; mi studiai d’intendere i tuoi insegnamenti.
96.
Vidi il termine di ogni cosa perfetta; oltre ogni termine si estende il tuo comandamento.
Sommario analitico
V SEZIONE
81-96.
Davide riconosce che, in questa via dei
Comandamenti di Dio in cui è entrato, ha bisogno di un sostegno, di una medico
saggio che ripari le sue forze e gli dia nuovo vigore.
I – Egli confessa la sua debolezza e la sua
insufficienza che vengono insieme:
1° Dall’interno:
a) la sua anima cade in un cedimento
perché desiderava entrare subito in possesso della felicità che gli era stata
promessa (81);
b) La sua intelligenza ed i suoi occhi
si affaticano nella considerazione dell’attesa prolungata delle consolazioni
divine. Due rimedi egli oppone a questa desolazione spirituale: speranza più
forte che mai e fervente preghiera (82, 83);
c) Il suo cuore, la sua volontà, si
disseccano in questa attesa (83);
d) Tutte le potenze della sua anima
spossate dalla moltitudine e la violenza dei suoi nemici e dalla lunghezza
delle prove, e chiede a Dio quando finiranno (84);
2° Dall’esterno:
a) Si dispiace dei discorsi frivoli e
menzogneri degli uomini estranei ad ogni sentimento religioso, e che sono lungi
dall’essere come la legge di Dio, ove tutto è verità (85, 86);
b) La persecuzione che essi hanno
diretto contro di lui è stata così violenta che ha finito per esserne vittima,
ma non ha cessato di essere attaccato alla legge di Dio, di implorare la sua
misericordia e perseverare nell’osservanza dei suoi comandamenti (87, 88).
II.- Egli domanda a Dio di dargli la sua
parola divina, come un medico che fortifichi il suo languore e guarisca le sue
ferite. Egli espone successivamente:
1° La sua eccellenza,
a) La sua eternità ed immutabilità. – il
Cieloe la terra passeranno, la parola di Dio non passerà mai (89).
b) la sua verità, che dura di
generazione in generazione (90);
c) la sua potenza, che non solo ha
fondato la terra, ma ha stabilito la successione dei giorni, ed alla quale
tutto obbedisce (91);
2° l’applicazione di questa divina
parola come un rimedio divino ed efficace:
a) sull’intelligenza, con una
meditazione continua della legge di Dio, rimedio sovrano per non perire, e
attingere nuove forze in mezzo alle afflizioni di questa vita (92);
b) Sulla memoria, con un ricordo vivo
dei suoi precetti, in cui l’anima giustificata ha ritrovato la vita (93);
c) Sulla volontà, che si applica
nell’offrirla interamente;
3° L’effetto di questa divina parola,
meditata e compresa:
a) I suoi nemici lo attendono per
perderlo; egli si è contentato, per burlarsi dei loro progetti, di fissare gli
occhi della sua anima sulla legge di Dio, che glieli ha fatti riscoprire e gli
ha dato la forza di disprezzarli (95);
b) egli dichiara che tutto nel mondo ha
i suoi limiti ed il suo fine, è ristretto e limitato, ma che i comandamenti di
Dio sono di una estensione infinita e di una ampiezza eccessiva.
Spiegazioni
e Considerazioni
V SEZIONE — .81-96.
I. – 81-88.
ff. 81-84. – Se l’anima desidera
vivamente una cosa senza poterla ottenere, cade in una debolezza e sembra quasi
perdere la vita. Ora, l’anima santa che teme Dio non sa desiderare altra cosa
che la salvezza da Dio, che è Nostro Signore Gesù-Cristo. Essa lo desidera
ardentemente, tende con tutte le sue forze verso il divino oggetto, trattiene
in sé questo desiderio bruciante, si apre e si spande interamente davanti al
suo Salvatore e non teme che una cosa: di perderlo. Più dunque quest’anima si
esercita in questi santi desideri, più cade in difficoltà, difficoltà che ha
per effetto la diminuzione della debolezza e l’accrescimento della virtù (S.
Ambr.). – Si tratta dunque di una buona caduta; essa mostra in effetti,
il desiderio di un bene che non si è ancora acquisito, ma che si persegue col
più grande ardore e con la più grande veemenza. Ma chi esprime questo ardente
desiderio, se non la razza scelta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il
popolo di acquisizione? (1 Piet. II, 9), chi vi aspira dopo
Cristo, ciascuno nella sua epoca, in tutti coloro che hanno vissuto, che vivono
e vivranno, dall’origine del genere umano fino alla fine dei secoli? … questo desiderio
non è mai cessato nei Santi, e non cessa ancora nel Corpo di Cristo, che è la
Chiesa, fino alla fine dei secoli, « finché non divenga il desiderio di tutte
le nazioni, » secondo la promessa del Profeta Aggeo (II, 8): « Ed io ho
sperato nella vostra salvezza, » speranza che ci fa attendere con pazienza ciò
che noi crediamo ora senza vederlo (Rom. VIII, 25 – S. Agost.). – « I
miei occhi languiscono nell’attesa della vostra parola e dicono: Quando mi
consolerete? » Ecco dunque che di nuovo
negli occhi per questa volta, ma negli occhi dell’anima, quella doppia e felice
debolezza non viene dalla debolezza dello spirito, ma dall’energia del
desiderio prodotto dalle promesse di Dio. È questo ciò che vuole dire: « Nella
vostra parola. » Ma come questi occhi interiori dicono: « Quando mi
consolerete? » se non perché la loro attitudine e la loro attenzione, sono una
preghiera ed un gemito? In effetti, è ordinariamente la bocca che parla e non
gli occhi, ma l’ardore della supplica è in qualche modo, la voce degli occhi. «
Quando mi consolerete? », egli sembra dire che soffra qualche ritardo, come in
questo altro Salmo: « E voi, Signore, fino a quando tarderete? » (Ps.
VI, 4). Ne è così o perché la gioia differita è più dolce al suo
arrivo, o perché, sotto l’impressione di un desiderio ardente, ogni spazio di
tempo, corto che sia per Dio che viene in aiuto, è lungo per colui che ama. Ma
il Signore, che dispone tutto con misura, con numero e peso, sa quando deve
fare ogni cosa. (Sap. XI, 21), (S. Agost.). – Quale è questa
debolezza degli occhi? Supponete una sposa che attende che suo marito torni da
un lungo viaggio, un padre che spera in ogni istante di vedere arrivare un
figlio assente da lunghi anni, forse i loro occhi non saranno fissati sulla
strada che deve ricondurre loro questi esseri sì cari? E nel guardare, i loro
occhi non si affaticheranno fino ad indebolirsi? Tali erano i desideri dei
Profeti di vedere il Salvatore, a testimonianza di Gesù-Cristo (Matth.
XIII, 17). Ma questi occhi di cui parla il Profeta non sono gli occhi
del corpo, bensì sono gli occhi dell’anima, come spiega aggiungendo: « Quando
mi consolerete? Io sono disseccato come l’otre esposto alla brina. » Il Profeta
dipinge, sotto un’immagine tratta dagli oggetti esposti al freddo ed al gelo,
lo stato di secchezza e di languore in cui cadono talvolta i più perfetti. Essi
trovano all’esterno un freddo insopportabile, perché la carità dei più si è
raffreddata, e gli scandali si moltiplicano, e sentono dentro di sé un freddo
ancora più dannoso che li prende interamente. Quali rimedi opporre a questa
secchezza spirituale? – 1° Il ricordo continuo dei Comandamenti di Dio: « Io
non ho dimenticato i vostri Comandamenti; » – 2° il ricordo della morte: «
Quanti giorni restano ancora al vostro servo? » – 3° il ricordo dei giudizi di
Dio: « Quando eserciterete il vostro giudizio, etc. ? » – « Quanti giorni restano ancora al vostro
servo? » vale a dire: Qual è il numero dei giorni della vita dell’uomo? Qual
tempo deve misurarne la durata? Quale spazio resta ancora da percorrere? Perché
una vita sì corta è oggetto di attacchi così accaniti? Perché in sì breve
spazio, coloro che ci perseguitano tendono tante insidie ai nostri passi? Ah,
che venga il giudizio, in cui i colpevoli riceveranno il loro castigo, in cui i
persecutori riceveranno il degno salario della loro empietà! (S.
Ambr.). – Questo linguaggio è quello dei martiri nell’Apocalisse, ed è
loro ordinato di attendere pazientemente che il numero dei loro fratelli sia
completo (Apoc. VI, 10). Il Corpo del Cristo domanda dunque quanti giorni
vivrà nel mondo; e perché nessuno creda che la Chiesa perirà prima della fine
del mondo, e che si troverà in questo secolo qualche spazio di tempo durante il
quale la Chiesa non esisterà più sulla terra, egli chiede quale sarà il numero
dei suoi giorni e parla subito di giudizio, facendo con ciò vedere che la
Chiesa sussisterà sulla terra fino al giorno del Giudizio, in cui sarà
vendicata dei suoi persecutori (S. Agost.).
ff. 85 – 88. – « Gli empi mi
hanno raccontato delle piacevoli menzogne, ma esse non somigliano alla vostra
legge. » È difficile che il Cristiano fedele non sia obbligato a conversare con
gli uomini del mondo, estranei talvolta ad ogni sentimento religioso, e non li
intenda, malgrado i loro discorsi, e non li ascolti parlare dei loro piaceri,
dei loro divertimenti, o anche dei loro progetti, dei loro disegni, delle loro
pretese. Ahimè! Quali frivolezze, quali leggerezze, quali menzogne, quali
piccolezze, quali favole! Niente di grave, niente di serio, nulla di costante!
Si, il fondo delle conversazioni del mondo, sono le favole; ecco tutto ciò che
sostiene il commercio del mondo. Là pure, tutto è vanità e afflizione dello
spirito: « essi sono del mondo, ecco perché parlano il linguaggio del mondo ed
il mondo li ascolta, » (I Giov. IV, 5) Ma noi che siamo di
Dio, ascoltando i discorsi del mondo, ripetiamo con il Profeta: « i malvagi mi
hanno raccontato delle favole, ma ciò che dicono non è come la vostra legge. »
– Dalle loro conversazioni, dai loro intrattenimenti, passate ai loro scritti:
là pure, quante favole, quante menzogne! Essi sono (è il giudizio che portavano
Socrate e Platone sugli scritti dei poeti), che non hanno alcuna attinenza con
la verità; purché dicano cose piacevoli, sono contenti, ecco perché nei loro
versi si troveranno il pro ed il contro, delle sentenze ammirevoli per la
virtù, e contrarie alla virtù; i vizi saranno disapprovati e lodati egualmente,
e purché si facciano dei bei versi, la loro opera è compiuta … Ecco perché (è
ancora il ragionamento di Platone sotto il nome di Socrate), quando nei poeti
si trovano grandi ed ammirevoli sentenze, non c’è che da ragionarci sopra e si
troverà che essi non le comprendono. Perché? Perché mirando solo a compiacere,
non hanno messo nessuna attenzione nel cercare la verità … essi hanno
accontentato l’orecchio, hanno fatto bella mostra del loro spirito, del bel
suono dei loro versi e della vivacità delle loro espressioni: questo è
sufficiente alla poesia; essi non credono che la verità sia loro necessaria (BOSSUET,
Traité de la
Concup., ch. XVIII). – « Ma questo non è come la vostra legge.
Tutti i vostri comandamenti, sono la verità stessa. » Gli empi mi hanno
raccontato delle piacevoli menzogne; ma, a queste menzogne, io ho preferito la
vostra legge, che mi ha incantato più della vanità che abbonda nei loro
discorsi. Essi mi hanno perseguitato ingiustamente con i loro discorsi, perché
non perseguivano in me che la verità. « Venite dunque in mio soccorso, »
affinché combatta per la verità fino alla morte; perché è in questo uno dei
vostri comandamenti, e di conseguenza è la verità (S. Agost.). – « Tutti i
comandamenti di Dio, sono verità, » perché troviamo nella legge di Dio una
condotta infallibile, una regola certa, ed una pace immutabile, « Io sono, dice
il Salvatore Gesù, la via, la verità e la vita. » (Joan. XIV, 6). Io sono la
voce sicura che vi conduce senza incertezza, Io sono la verità infallibile,
invariabile, senza alcun errore, che vi regola; Io sono la vera vita delle
vostre anime, e dono loro un riposo senza agitazione. – « Essi mi hanno
perseguitato ingiustamente, venite in mio soccorso. » Colui che perseguita il
giusto, lo perseguita necessariamente con ingiustizia, perché l’iniquità è
l’effetto di una operazione ingiusta. È a questa ingiustizia che l’Apostolo fa
allusione quando dice: « … Tutti quelli che vogliono vivere con pietà in
Gesù-Cristo, soffriranno persecuzioni (II Tim. III, 12). Ma il Profeta, che
sa che i comandamenti di Dio sono verità, sopporta con fermezza queste ingiuste
persecuzioni. (S. Hil.) – Sembrerà un soldato coraggioso, che non fugge il
combattimento. Non si rifiuta di affrontare gli incidenti spesso molto gravi
della guerra; ma pieno di fede e previdenza, egli chiede soccorso dal cielo e
prega Dio di venire in aiuto al suo generoso ardore. Egli non chiede la fine
delle persecuzioni, ma di essere soccorso in mezzo ai loro attacchi; perché
egli sapeva che … tutti coloro che vogliono vivere con pietà in Gesù-Cristo
soffriranno persecuzioni. Egli preferisce dunque essere perseguitato per essere
del numero di coloro che vivono con pietà in Gesù-Cristo. E, notate che egli
non parla di una sola persecuzione, ma di un gran numero di esse; che non
indica il nome dei suoi persecutori, perché coloro che ci perseguitano sono
troppo numerosi, non solamente coloro che vediamo, ma ancora quelli che non
vediamo. (S. Ambr.). « Per poco non mi hanno fatto perire sulla terra. »
Non è senza ragione che il Re-Profeta ha implorato il soccorso dal cielo, egli
sapeva che doveva lottare contro potenti nemici, e che avrebbe avuto diversi
tipi di combattimenti da sostenere, sia contro le potenze spirituali che sono
nell’aria, sia contro gli ardori del sangue e del temperamento, contro le
seduzioni innumerevoli della carne che, per una sequenza ininterrotta di attacchi,
lo avrebbero infallibilmente vinto ed abbattuto, se non si fosse tenuto stretto
alla radice della fede. Impariamo a metterci in guardia contro il nemico che ci
combatte; è un nemico domestico; questo nemico è l’uso stesso che dobbiamo fare
del nostro corpo … Davide aveva coscienza di questa debolezza della carne, ed è
per questo che dice: « poco è mancato che non mi abbiano fatto perire sulla
terra, » su questa terra ove Adamo ha ceduto per primo ad una vergognosa
caduta, e ha legato alla sua posterità la triste eredità di cadute senza numero
… Ora, cosa oppone contro questi nemici scatenati contro di lui? « Da parte
mia, io non ho dimenticato i vostri comandamenti. » (S. Ambr.). – Egli
riconosce che il suo soccorso è venuto da Dio solo; così si rivolge a Lui con
fiducia: « Secondo la tua misericordia, dammi la vita. » che cosa è questa vita
che egli chiede? Non è la vita presente di cui godeva, ma quella che
desiderava, cioè la vita eterna; perché comprendeva che gli era impossibile
trovare la felicità in questo corpo inconsistente e mobile, la cui debolezza
mette sempre in pericolo le migliori risoluzioni dell’anima. Occorre dunque che
la misericordia di Dio venga continuamente ad intrattenere in questo corpo la
vita dell’anima, affinché il giusto viva ogni giorno per Dio e sia morto al
peccato. Se il peccato muore in noi, la nostra anima vivrà veramente per Dio, e
noi osserveremo fedelmente i suoi comandamenti. In effetti, il Re-Profeta
comincia con il chiedere a Dio che gli renda la vita, e non è se non in seguito
che promette di osservare i suoi comandamenti; l’osservazione delle leggi
divine non è la parte di una vita comune e volgare, per questo c’è bisogno di
un soccorso soprannaturale che ci è dato dall’operazione della grazia dello
Spirito Santo (S. Ambr.).
II. — 89- 96.
ff. 89 – 91. – Questa parola
che dimora e persevera nel cielo, non deve, a maggior ragione, dimorare e
perseverare in voi. Conservate dunque la
parola di Dio, conservatela nel vostro cuore, di modo che non la dimentichiate
mai. Osservate la legge di Dio e meditatela, affinché le sue ordinanze piene di
giustizia non vengano a sfuggi re dal vostro cuore. È ciò che qui insegna il
Profeta, e ciò che continua ad insegnarvi nei versetti seguenti … Ma come la
parola del Signore dimora nel cielo, allorché Nostro Signore stesso dichiara
che il cielo e la terra passeranno? (Matth. XXIV, 35). Come può
sussistere il tetto dell’abitazione se le fondamenta spariscono? Come
l’abitante può continuare a restare nella casa, se la casa non esiste più? (S.
Ambr.). – Il Profeta dice: « La vostra parola abita nei cieli, » perché
essa non può restare sulla terra, a causa della falsità e delle menzogne degli
uomini. Egli dice che resta nel cielo, nel senso che nel cielo visibile non c’è
trasgressione, né cambiamento, né indebolimento, né inattività. Consideriamo il
corso annuale del sole, il ritorno mensile della luna e le rivoluzioni degli
astri: forse questi non si mantengono fedelmente nei limiti loro assegnati?
Alcuna mutazione, nessun ritardo, alcuna inattività, ma ognuno di essi
obbedisce con puntualità alle leggi che gli sono state date da quando sono
stati creati. (S. Hil.). – Forse il
Profeta vuol parlare di questo cielo nuovo che succederà al cielo attuale (Isai.
LXV, 4-6) … o intende i cieli che sono pure la terra, di cui in altro
Salmo dice: « I cieli raccontano la gloria di Dio, » e che benché abitante
ancora la terra, osano dire: « La nostra vita è nei cieli. » Questi sono i
cieli nei quali abitano la fede, la modestia, la continenza, la dottrina ed una
vita tutta celeste … o ancora questo cielo che abitano gli Angeli, gli
Arcangeli, i Cherubini ed i Serafini, perché gli uomini, malgrado la loro santità,
hanno un cuore mobile e soggetto al cambiamento. Noi siamo nella gioia, ed un
istante dopo piangiamo, gemiamo … Non è così per le potenze celesti, libere
dalla legge del cambiamento (S. Ambr.). – « La verità di Dio
sussiste nella sequenza di tutte le razze, senza che la malizia degli uomini o
dei demoni possa cambiarla. » –
Immutabilità di questa parola sulla quale il fondamento della terra
resta fermo dal momento della sua creazione. Che può temere colui che resta
legato a questa verità che rende la terra ed il cielo indistruttibile? – Ordine
mirabile di Dio, in virtù del quale il giorno succede invariabilmente alla
notte. Immagine di un altro sole e di un altro giorno: del sole di giustizia,
che si leva nella anime per formarvi un altro giorno, che è quello della grazia.
(Duguet).
– Nulla di più ammirevole della luce, ma essa non ha bisogno, per brillare ai
nostri occhi, che della volontà di Dio. Questa volontà non dovrebbe essere
sufficiente perché la luce brilli agli occhi del nostro cuore? Colui che fa
levare il sole della natura nella terra dei morenti, non è lo stesso che fa
levare il sole di giustizia nella terra dei viventi? Si, ma noi siamo
malauguratamente liberi di chiudere gli occhi a questa luce. – « Tutte le creature vi obbediscono, solo il
peccatore leva contro di voi lo stendardo della rivolta e dice: “io non
servirò”. » Tuttavia il Signore non vuole dividere con nessun altro l’impero ed
il dominio del mondo (S. Ambr.). – « Per ordine vostro, il
giorno sussiste così com’è, perché tutte le cose vi obbediscano. » Ciò che noi
chiamiamo il giorno non persevera, interrotto com’è dalla notte che lo divide
dal giorno seguente. E se il Profeta aveva voluto parlare del giorno che si
misura con il tempo, avrebbe dovuto pur far menzione della notte, che
ugualmente sussiste, come un seguito degli ordini di Dio. Ma siccome il giorno
porta con sé la luce ed i Santi sono essi stessi la luce, noi crediamo che
questo giorno di luce debba perseverare, perché tutto debba obbedire a Dio. Ed
i peccatori sono sottomessi ai suoi ordini? Deve essere servito con obbedienza
da coloro che Egli deve assoggettare come lo sgabello dei piedi? Dunque il
giorno, cioè la luce dei Santi, resterà, persevererà quando tutte le cose
saranno interamente sottomesse a Dio (S. Hil.).
ff. 92-94. – « Se non avessi
fatto della vostra legge il soggetto delle mie meditazioni, io sarei forse perito
nella mia umiliazione. » Sull’esempio di Davide, quando traversiamo dei giorni
di afflizione e siamo sottomessi alle dure lezioni delle avversità, meditiamo la
legge di Dio, per timore che la tempesta, abbattendosi su di noi all’improvviso,
non venga a sommergerci. L’atleta non osa presentarsi al combattimento prima di
essersi per lungo tempo esercitato nella lotta. Esercitiamoci dunque con una
pratica continua della meditazione, esercitiamoci prima della battaglia, per
essere pronti nell’ora in cui si ingaggia la lotta, perché noi possiamo dire,
quando saremo attaccati o dalla povertà, dalla perdita di coloro che ci sono
cari, sia dalle malattie, dalla paura della morte, dalle pene amare e crudeli:
« Se non avessi fatto una meditazione della vostra legge, io sarei forse perito
nella mia umiliazione. (S. Ambr.). – « Non dimenticherò mai
la giustizia dei vostri comandi. » La grande causa dell’oblio di Dio, è l’amore
delle creature di se stesso, che fa perdere il gusto di Dio e dimenticare la
sua legge. – La carità sola, che cancella dai nostri cuori, con un oblio più
santo e più religioso, tutto ciò che è del mondo, fa che noi non ci ricordiamo
più se non di Colui ci dà la vita e la salvezza. – « Io sono tuo. » Non bisogna
comprendere superficialmente queste parole. Cosa c’è in effetti che non sia di
Dio? … Perché dunque il Profeta ha pensato a raccomandarsi in qualche modo più
familiare a Dio dicendogli: « Io sono vostro, salvatemi », se non ci dà ad
intendere con ciò che, per sua disgrazia, egli ha voluto essere a se stesso ciò
che è il primo e sovrano male della disobbedienza? E come se avesse detto: io
ho voluto essere mio e mi sono perduto: « Io sono vostro, egli dice, salvatemi,
perché io cerco i vostri giusti precetti, affinché sia ormai tutto vostro. (S.
Agost.). – Sono pochi coloro che possono dire a Dio: « Io sono tutto
vostro. » Per parlare così a Dio in tutta verità, bisognerebbe essere attaccati
a Dio con tutta l’anima, e porre Lui come centro di tutti i nostri pensieri e
le nostre affezioni; bisognerebbe saper dire, come l’Apostolo Filippo: «
Mostrateci il Padre e ci basta, » (Giov. XIV, 8), (S. Ambr.); o con S.
Paolo: « Il Cristo è la mia vita » (Filip. I, 21), e: « Io vivo, ma non
sono più io che vivo, ma Gesù-Cristo che vive in me. » (Galat. II, 20). – È la
parola di un’anima costantemente applicata a Dio, di una misericordia
infaticabile, castità immutabile, con un digiuno continuo, una liberalità
inesauribile (S. Hil.). – « Io sono tutto a tutti » è quanto non può fare chi
sia avido di ricchezze, di onori e di dignità. Per un gran numero, non è molto
conoscere Dio. Quanti popoli, nazioni, trovano troppo piccolo e stretto Colui
che è al di sopra di tutto; il Figlio di Dio, in cui tutto si trova
concentrato, non è molto per essi! È così che questo ricco del Vangelo, a cui
Gesù diceva: « Se vuoi essere perfetto, vendi tutto ciò che hai e danne il
ricavato ai poveri, » (Matth. XIX, 21, 22), non giudicò che
Dio gli fosse sufficiente. Egli si rattristò come se gli si comandasse di
abbandonare molto più che ciò che doveva scegliere. Solo può dire: « Io sono
vostro » chi può dire pure: « Ecco che noi abbiamo lasciato tutto e vi abbiamo
seguito. » (Matth. XIX, 27). È la dichiarazione fatta dagli Apostoli, ma
non da tutti gli Apostoli; perché anche Giuda era un Apostolo, era seduto con
gli altri Apostoli a tavola con Gesù-Cristo; egli pure diceva: « io sono
vostro, » ma solo con la bocca e non con il cuore. Satana venne ed entrò nella
sua anima (Joan. XIII, 37) e poté dire: egli non è più vostro, Gesù, egli
è mio; egli mangia alla vostra tavola, ma è con me che si nutre; egli riceve da
voi il pane, da me ottiene la somma di denaro; egli beve alla vostra coppa, ma
mi vende il vostro sangue; egli è vostro Apostolo, egli è il mio mercenario …
il Re-Profeta aggiunge: « Perché ho cercato i vostri precetti pieni di
giustizia; » cioè io non ho chiesto nulla agli altri, ho desiderato solo di essere
vostro … è nei vostri comandamenti tutto il mio patrimonio. Io non voglio
possedere nulla che non vi appartenga, le vostre parole sono luminose ai miei
occhi come l’argento più puro; in una parola: Dio è la mia eredità: « Io sono
vostro, perché la parte della mia eredità non è né nell’oro, né nell’argento,
ma in Cristo-Gesù. » (S. Ambr.).
ff. 96. – « I peccatori mi hanno atteso per perdermi; » cioè sull’esempio dei primi persecutori, essi sono ricorsi ad ogni genere di supplizi, a tutti gli artifici della persuasione, ma non hanno potuto far deflettere la mia risoluzione. La fede ha trionfato di tutte le seduzioni del mondo, come pure di tutti i suoi tormenti, di tutte le sue minacce, … orbene ci sono stati molti che si sono sforzati di portarmi al peccato e comunicarmi questo contagio mortale di cui sono affetti … ma io sono rimasto insensibile a tutti gli attacchi, le seduzioni dei peccatori non hanno potuto stornare la mia anima, né la mia intenzione circa lo studio e la meditazione delle vostre leggi divine: « Io mi sono applicato a comprendere la vostra testimonianza; » perché se non l’avessi compresa, i peccatori mi avrebbero infallibilmente perduto. Ma ciò che la mia intelligenza ha compreso, io l’ho tradotta nelle mie opere, perché la vera intelligenza è quella che ha per essa la testimonianza ed il sostegno delle opere (S. Ambr.). – « Io ho visto la consumazione di tutte le cose. » Ci sono diversi generi di consumazione; si dice della malizia che è consumata quando ha riunito tutte le finezze, tutti gli inganni per nuocere e per perdere; si dice della virtù, della saggezza, della giustizia, che sono consumate quando hanno raggiunto il più alto grado a cui possono elevarsi. I peccati hanno pure la loro consumazione, quando sono coperti, espiati dalla misericordia di Dio e dal sangue dell’Agnello che è venuto a cancellare i peccati del mondo (S. Ambr.). – Tutto ciò che c’è di più perfetto in questo mondo ha i suoi limiti e la sua fine, ma i Comandamenti di Dio sono di una estensione infinita, la malizia più raffinata ha questi limiti prescritti dalla giustizia di Dio. Infine tutto sarà consumato un giorno dal Giudizio finale, che sarà la fine di tutte le cose; ma la verità di Dio sussisterà eternamente. – Il vostro comandamento è estremamente largo. » Noi leggiamo nel Vangelo che la via che porta in cielo è stretta (Matth. VII, 14). Come può dire il Profeta che il comandamento di Dio è estremamente largo? È giusto perché in una via sì stretta, è necessario che il comandamento sia molto largo; è ciò che dice diversamente lo stesso Profeta: « Nella tribolazione, mi avete messo al largo. » (Ps. IV, 2); ed ancora: « Io ho invocato il Signore nella tribolazione, Egli mi ha esaudito e messo al largo. » (S. Ambr.). – È un comandamento largo quello della carità, questo doppio comando che prescrive di amare Dio ed il prossimo; perché c’è nulla di più largo di un precetto dal quale dipende tutta la legge ed i Profeti? (S. Agost.). – Cosa c’è di più largo del precetto della carità, che si estende finanche ai nemici, che ci comanda di essere in pace con tutti gli uomini, di benedire coloro che ci maledicono, di pregare per coloro che ci perseguitano? (S. Ambr.).- Cosa è più largo di un comandamento che si estende come all’infinito ed abbraccia tutti i generi di virtù, tutte le differenti specie di grazia, di doveri, di uffici? Non si domanda a tutti di praticare le stesse virtù, ognuno ha ricevuto da Dio un dono particolare. Il Comandamento di Dio è dunque largo, nel senso che si estende a tutto ciò che fa l’oggetto della nostra speranza, e a cui non è difficile obbedire, purché ne abbiamo la volontà, poiché si adatta e si accomoda a tutte le condizioni, a tutte le circostanze della vita (S. Hil.). – La via stretta è una via larga, e benché sia vero che i santi debbano camminare in questo mondo per un sentiero stretto, essi non lasciano di camminare in un cammino spazioso … « Il vostro comandamento è estremamente largo. » Che vuol dire questo santo Profeta? Certo, il comandamento è la via per la quale dobbiamo avanzare; da dove viene che il Salvatore ha detto: « Se vuoi pervenire alla vita, osserva i comandamenti. » – Le vie di Dio e gli ordini del Signore, sono la stessa cosa nelle Scritture. E come è dunque che è detto che le vie di salvezza sono strette? Ah! Sentiamo in noi stessi ciò che il Signore ha sentito; Egli si è messo allo stretto, al fine di spandersi più abbondantemente; così noi dobbiamo essere in una salutare stretta per dare alla nostra anima la sua vera estensione. Contraiamoci, controllando i nostri desideri, mortificando la nostra carne; mettiamola allo stretto con l’esercizio della penitenza, e la nostra anima sarà dilatata dall’ispirazione della carità. « La carità allarga le vie, dice il mirabile S. Agostino; è essa che dilata l’anima e la rende capace di ricevere Dio. » (BOSSUET. I° Serm. Vêt. d’une nouv. cath.).
[A. Carmagnola: IL SACRO CUORE DI GESÙ. TORINO, S. E. I. – 1920]
DISCORSO XXIX
Il Sacro Cuore di Gesù e il Papa.
(1) Di questo discorso stampatosi a parte nel 1892, per mezzo dell’Eminentissimo Card. Rampolla Segretario di Stato, fu umiliata copia dall’autore a S. S. LeoneXIII; e n’ebbe in risposta
questa consolante lettera:
Bev. mo Signore,
Con molto piacere ho rassegnato al S. Padre uno dei recontissimi esemplari del discorso, al quale si riferisce la lettera da Lei indirizzatami il 2 del corrente mese. Sua Santità si è degnata accoglierlo con espressioni di particolare gradimento e nel commettermi di ringraziarla nell’Augusto Suo nome Le ha con affetto impartita l’Apostolica Benedizione. Mentre mi affretto ad eseguire il venerato incarico, L a ringrazio ben di cuore anche in mio nome dell’esemplare, che gentilmente mi ha Ella favorito, di esso discorso, e con sensi di distinta stima mi dichiaro
Aff.mo nel Signore M. Card. Rampolla
Di V. S.
Rev. D. ALBINO CARMAGNOLA, Sac. Salesiano
Roma, 7 Luglio 1892.
Nel corso di questo mese gettando lo
sguardo sopra le opere del Cuore Sacratissimo di Gesù, non ne trovammo
certamente alcuna, che non si mostrasse ammirabile, non ci parlasse della sua
bontà e della sua misericordia infinita per noi. Ammirabile Vedemmo la sua
Chiesa, ammirabili i suoi Sacramenti, ammirabile la sua dottrina, ammirabili i
suoi esempi, ammirabili le sue promesse e le sue grazie, e tutto, grazie, promesse,
esempi, dottrina, Sacramenti e Chiesa ci hanno fatto esclamare con gratitudine:
Oh quanto è buono il Cuore di Gesù con noi! quanto è grande il suo amore, la
sua misericordia! Eppure o miei cari, fra tante opere ammirabili del Cuore di
Gesù Cristo io ne scorgo ancor una non meno ammirabile delle altre, che anzi
più ancor dì ogni altra mi manifesta la sua bontà e la sua misericordia; e
voglio dire il Papa. Sì, il Papa! e per poco che consideriate anche voi
quest’opera, non penerete a convincervi della verità di questa mia asserzione.
Ed invero, donde mai la Chiesa ritrae la essenza di sua unità, la beneficenza dei
suoi Sacramenti, l’integrità di sua dottrina, la sicurezza della parola e degli
esempi di G. Cristo? … Dal Papa. È il Papa, che in un cuor solo ed in
un’anima sola unisce tutti i popoli a Cristo. È il Papa, che ci comunica la
grazia per mezzo dei Vescovi e dei Sacerdoti. È il Papa, che custodisce
inviolato il deposito del Santo Vangelo. È il Papa, che ci assicura degli
insegnamenti di Gesù Cristo. È il Papa insomma quella fonte prodigiosa, che lo
stesso Gesù Cristo ha stabilito nella Chiesa per farci gustare perpetuo il benefizio
della sua redenzione, per tramandare in eterno l’abbondanza della sua
misericordia. Ben ho ragione di asserire che il Papa è un’operadelle
più ammirabili uscite dal Cuore ferito di Gesù Cristo, eche con
quest’opera il Cuore di Gesù ha fatto alla sua Chiesa unodei più
segnalati benefizi. Ben ho ragione, additandovi il Papa, d’invitarvi
con tutte le forze dell’animo mio a benedire questo Cuore Santissimo ed a
confessare il suo amore e la sua bontà infinita per noi! Questo per l’appunto è
lo scopo del discorso di oggi, questo giorno in cui celebriamo la festa del
primo Papa, di S. Pietro, mettervi in qualche luce questo sì grande benefizio,
affinché da tale considerazione se ne tragga la natural conseguenza di
ricambiare il Cuore di Gesù della conveniente gratitudine.
I. — Ogni famiglia, ogni Stato, ogni società abbisognano di un capo. L’anarchia a cui tanti evviva s’innalzano ai giorni nostri non è che il più stupido degli assurdi: imperciocché anche gli anarchici costituiti in partito, come sono oggidì, obbediscono essi pure agli ordini di un capo o per lo meno si lasciano spingere da’ suoi iniqui incitamenti. Se pertanto a non sovvertire l’idea istessa di famiglia, di stato e di società assolutamente si appalesa la necessità di un rispettivo capo, ognuno vede a primo aspetto, che a porre ben salde le fondamenta di quell’ammirabile società, che il Cuore amoroso di Cristo venne a stabilire in sulla terra, era affatto necessario che le donasse un capo; un capo che con rettitudine la governasse, un capo che l’ammaestrasse con sapienza; un capo che per ogni verso la guidasse con sicurezza alla meta sublime, che Cristo le assegnava. Senza di un capo,
supremo nella sua autorità, infallibile nel suo magistero, la Chiesa,
quest’opera divina uscita dal Cuore squarciato di Cristo, sarebbe andata priva
del principio di sua unità e di sua perfezione ed in breve divisa e moltiplicata
nel governo, varia e confusa nella dottrina, sarebbe riuscita a quello
scompiglio, di cui in ogni tempo l’eresia ha dato al mondo sì triste
spettacolo. Ma grazie, infinite grazie sieno rese al Cuore Sacratissimo di Gesù
Cristo! Ripieno per la sua Chiesa di un amore infinito e divino, Egli allontana
da Lei un tale pericolo, e pur rimanendo Egli stesso a suo capo invisibile sino
alla consumazione dei secoli, le dona un capo visibile nel Romano Pontefice, il
cui supremo potere, corrisposto dall’universale sommessione, costituirà sino
alla fine del mondo il principio della vita, dello sviluppo e del perfezionamento
della Chiesa istessa. Ecco il Divin Redentore a Cesarea di Filippo. Circondato da’
suoi discepoli, a questo modo li interroga: « Chi dicono gli uomini che io sia?
» E i discepoli rispondono: « Gli uni dicono che voi siete Giovanni Battista,
altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti. » — « Ma voi, soggiunse il
Salvatore, voi chi dite ch’io sia? » A questa domanda Simon Pietro, pigliando
la parola a nome suo e degli altri Apostoli, esclama: « Tu sei il Cristo,
Figliuolo di Dio vivo. » Allora il Salvatore ripiglia: « Beato te, o Simone,
figliuolo di Giovanni, perché non è né la carne, né il sangue che ti ha rivelato
ciò che tu dici, ma il Padre mio, che è ne’ cieli. Ed io dico a te che tu sei
Pietro, e sopra di questa pietra fabbricherò la mia Chiesa e le potenze d’inferno
non prevarranno contro di essa giammai. A te io darò le chiavi dei regno de’
cieli e tutto ciò che avrai legato sopra la terra sarà legato anche ne’ cieli,
e tutto ciò che in sulla terra avrai sciolto, sarà sciolto anche nei cieli. » Udiste?
Con parole del tutto esplicite Gesù Cristo promette a Pietro di lasciare in lui
un capo alla sua Chiesa con autorità suprema di comando. Ed invero, dopo di
averlo detto beato per aver parlato conforme l’illustrazione avuta dal Padre
celeste, gli cambia il nome di Simone in quello di Pietro o Pietra e soggiunge:
« Sopra di questa pietra fonderò la mia Chiesa; » come dicesse: Tu, o Pietro,
sei destinato a far nella mia Chiesa quello, che fa il fondamento in una casa.
Il fondamento è la parte principale e indispensabile in un edilizio. E tu sarai
nella mia Chiesa l’autorità affatto necessaria. E come nella casa le parti che
non posano sul fondamento cadono e vanno in rovina, così nella mia Chiesa
chiunque si dividerà da te, non ubbidirà a te, non seguirà te, fondamento della
mia Chiesa, non apparterrà alla medesima e cadrà nell’eterna rovina. Inoltre
Gesù Cristo disse ancora a Pietro: « A te darò le chiavi del regno de’ cieli. »
Ma le chiavi non sono per eccellenza il simbolo della padronanza e del potere?
Quando il venditore di una casa porge le chiavi al compratore di essa, non
intende forse con questo atto mostrargli che gliene dà pieno ed assoluto
possesso? Parimenti quando ad un re sono presentate le chiavi di una città, non
si vuole forse con tal omaggio significare che quella città lo riconosce per
sovrano? Per simile guisa le chiavi spirituali del regno dei cieli, cioè della
Chiesa, che Gesù Cristo promette a Pietro, indicano chiaramente che Egli è
destinato ad essere signore, principe e reggitore della nuova Chiesa. Laonde
Gesù soggiunge allo stesso: « Tutto quello che legherai sulla terra, sarà
altresì legato in cielo e tutto quello che scioglierai in terra, sarà pure
sciolto in cielo; » vale a dire: Tu avrai l’autorità suprema di obbligare e
sciogliere la coscienza degli uomini con decreti e con leggi riguardanti il
loro bene spirituale ed eterno. — Né si dica che anche gli altri Apostoli sono
stati fatti capi della Chiesa, perché anche a loro Gesù Cristo diede la facoltà
di sciogliere e di legare, che tale facoltà Gesù Cristo la diede loro in comune
e dopoché già erano state rivolte a Pietro le parole soppradette, affinché
capissero che la loro autorità doveva essere sotto ordinata a quella di S.
Pietro, divenuto loro capo e principe, incaricato di conservare l’unità del
governo e della dottrina. Ma alla promessa tien dietro il fatto. Dopo la
risurrezione Gesù Cristo, avendo mangiato co’ suo discepoli per assicurarli vie
meglio della realtà del suo risorgimento, si rivolge a Simon Pietro e gli
domanda per tre volte: « Simone, mi ami tu più di questi? » Pietro che dopo il
fallo della negazione di Cristo è divenuto più modesto, si contenta di rispondere:
« Signore, voi sapete che io vi amo. » E due volte il Signore gli dice: « Pasci
i miei agnelli. » Ed una terza volta: « Pasci le mie pecorelle. » Per siffatta
guisa il Cuore amoroso di Cristo costituiva S. Pietro Principe degli Apostoli,
Pastore universale di tutta la Chiesa; conferendogli di fatto il primato di
onore e di giurisdizione, ossia quel potere supremo che dapprima avevagli
promesso, e non sola sopra i semplici fedeli raffigurati negli agnelli, ma eziandio
sopra i sacerdoti e sopra gli stessi vescovi raffigurati nelle pecorelle. Ma il
Divin Redentore promettendo e donando a Pietro il supremo potere su tutta la Chiesa,
cogli stessi termini gli prometteva egli donava l’infallibilità di magistero.
Difatti era possibile che egli dicesse a Pietro: « Tu sei Pietro e sopra di
questa Pietra innalzerò la mia Chiesa, e le potenze dell’inferno non prevarranno
giammai contro di Essa; — Io ti darò le chiavi del regno de’ cieli: tutto ciò
che avrai legato o sciolto su questa terra, sarà legato o sciolto in cielo; —
Pasci i miei agnelli; pasci le mie pecorelle; » — e poi permettesse che Pietro
avesse a sbagliare, e tutt’altro che essere agli altri fondamento della Fede,
crollasse egli stesso nella medesima; tutt’altro che aprire agli uomini le
porte del cielo colle chiavi di esso, li trascinasse alle porte dell’inferno;
tutt’altro che pascere della verità e i pastori e gli agnelli, li avesse talora
a pascere dell’errore? Ciò non era assolutamente possibile. D’altronde anche
per questo riguardo Gesù Cristo ha parlato nei termini più chiari e precisi.
Imperocché nell’ultima Cena, rivolto a Pietro, gli dice : « Simone, io ho
pregato per te, affinché la tua fede non venga meno; e tu, una volta ravveduto,
conferma i tuoi fratelli. » (Luc. XXII) Ora, o bisogna dire che la preghiera di
Gesù Cristo non fu esaudita, il che sarebbe una bestemmia, o fa d’uopo
ammettere che il suo Cuore amoroso, mediante la sua preghiera, assicurò a
Pietro una particolare assistenza, affinché come Maestro universale non avesse
mai a venir meno nella fede, epperò con labbro infallibile insegnasse mai
sempre la verità in tutto ciò riguarda la fede e la morale cristiana. – Ma qui,
o miei cari, procuriamo di farci una idea esatta di questa infallibilità che
Gesù Cristo prometteva e donava a Pietro. Perciocché vi hanno di coloro che non
possono credere che, per quanto si tratti di un uomo posto alla testa di tutta
la cristianità, non possa peccare come tutti gli altri uomini, non possono
credere che bisogna aggiustar fede ad ogni parola, ad ogni giudizio che egli
esprima, e su qualsiasi soggetto; non possono credere che Gesù Cristo abbia
posto nella Chiesa un privilegio tirannico che inceppa la libertà dello spirito
umano nelle sue ricerche scientifiche. Ma stolti ed ignoranti che sono! Se fosse
questo l’infallibilità! … Ma è così forse? No, assolutamente. L’infallibilità
non è affatto l’impeccabilità, perché Pietro in quanto è nomo potrà anch’egli peccare
e dovrà perciò anch’egli gettarsi ai piedi di un altro ministro del Signore per
implorare il perdono delle sue colpe. L’infallibilità non è legata ad ogni sua
parola e ad ogni suo giudizio, che anch’egli come persona privata esprimendo il
suo parere o sopra la storia, o sopra la scienza, o sopra la filosofia, o sopra
la teologia potrà fallire. L’infallibilità non è un potere tirannico che
inceppi la libertà della mente, è anzi un privilegio che l’affranca e la protegge
dall’errore. L’infallibilità è quella prerogativa per cui Pietro, come Capo
della Chiesa, in virtù della promessa di Gesù Cristo, giudicando e definendo
dall’alto della sua suprema cattedra cose riguardanti la fede ed i costumi, non
può cadere in errore, né quindi ingannare se stesso o gli altri. Ecco, o miei
cari, che cosa è l’infallibilità. Ed una tale infallibilità non era del tutto necessaria
alla Chiesa per raggiungere quaggiù il suo fine, la salvezza delle anime, mercé
l’insegnamento della dottrina e della pura dottrina insegnata da Gesù Cristo? –
Il divin Redentore adunque ha dato a S. Pietro quel potere supremo e quell’infallibile
magistero, che come a Principe degli Apostoli e capo di tutta la Chiesa gli
erano necessari. E S. Pietro riconobbe d’aver ricevuto tali prerogative, e
senz’altro in lui le ammisero e le riverirono gli altri Apostoli e i primitivi
fedeli. Difatti, appena salito al Cielo Gesù Cristo, Pietro nel cenacolo piglia
il primo posto, parla pel primo e propone egli l’elezione di un altro apostolo
in luogo di Giuda, il traditore. Nel dì della Pentecoste è egli che pel primo
predica la fede di Gesù Cristo e la conferma coi miracoli. In seguito è ancor
egli che pel primo avendo convertiti i Giudei, va pel primo a battezzare i
Gentili. Così è egli, Pietro, che stabilisce i primi punti di disciplina e
compone qualsiasi dissidio che insorga, tanto che tutta la Chiesa, pastori e
fedeli a lui si affidano, lui seguono, lui obbediscono; e lo stesso grande S.
Paolo, benché fatto apostolo direttamente da Gesù Cristo non è pago fino a che
non ha fatto confermare da Pietro il suo ministero. – Se non che, o miei cari,
quelle prerogative che Gesù Cristo donava a Pietro, erano a lui donate come a
privato individuo, sicché colla sua morte avessero a perire? No assolutamente. E
come poteva ancora sussistere la Chiesa, se per la morte di Pietro veniva a
mancarle il fondamento? Come poteva rimanere unito e ordinato il gregge di Gesù
Cristo, se per la morte di Pietro perdeva il pastore supremo? Come potevano i Vescovi
e i fedeli essere ancora confermati nella fede se per la morte di Pietro veniva
a mancare il Maestro infallibile di tutta la Chiesa? Il primato di Pietro
adunque non è un privilegio personale, che abbia a perire colla sua morte; è un
privilegio che raccoglierà ogni suo successore, un privilegio che rimarrà in
tutti quelli che continueranno il suo pontificato sino alla consumazione dei
secoli, ascendendo quella stessa cattedra romana, sulla quale per divina
ispirazione egli andò ad assidersi e ad esercitare il suo supremo potere ed
infallibile magistero; poiché Gesù Cristo colla durata perpetua della Chiesa
volendo sino alla consumazione dei secoli trasmettere agli uomini il beneficio
della sua redenzione, vuole altresì che sino alla consumazione dei secoli abbia
a durare il primato di Pietro. Oh! consumi pur dunque il principe degli Apostoli
in un sacrificio di amore il suo governo e magistero glorioso, cada pure ancor
esso sotto i colpi di quella morte, che tutti miete implacabile senza eccezioni
di sorta; non per questo andrà priva la Chiesa di un capo che la governi, di un
dottore che l’ammaestri; le chiavi di S. Pietro passeranno nelle mani di S.
Lino in quelle di San Cleto e per una trasmissione non. mai interrotta nel
corso di diciannove secoli arriveranno alle mani del glorioso Pontefice regnante,
dinnanzi al quale tutto il popolo cristiano prostrato, come dinnanzi a Pietro
primo capo visibile della Chiesa, col cuore riboccante di amore e di entusiasmo
ripeterà le parole di Cristo: Tu es Petrus, et super hanc petramædificabo
Ecclesiam meam, et portæ inferi non prævalebuntadversus eam.
– Così da diciannove secoli ha sempre creduto la Chiesa, e così ha sempre
riconosciuto col fatto. Tutti i Padri, tutti i Dottori, tutti i Santi, tutti i
Concili furono sempre di accordo nel credere e proclamare altamente che il
Papa, il pontefice romano è il vicario di Gesù Cristo, il successore di Pietro
e il reggitore della Chiesa universale e il suo infallibile Maestro. Ed ogni
qualvolta i reggitori e maestri delle Chiese particolari, i Vescovi, si
trovarono nel dubbio o nell’incertezza, o nel timore, o nella controversia per
riguardo a qualche pratica religiosa, o a qualche punto di dottrina, fu sempre
al Papa che si rivolsero siccome all’autorità suprema e al supremo maestro, per
essere da lui consigliati, illuminati, rassicurati, e fu sempre alla sua
decisione, al suo giudizio, alla sua sentenza, che si affidarono come
all’oracolo divino; tanto che quando S. Ambrogio asseriva che dove è Pietro,
ossia il Papa, ivi è la Chiesa con tutti i suoi poteri e tutte le sue
prerogative; quando S. Agostino tagliava netto sentenziando: Roma ha parlato, la
causa è finita; quando S. Girolamo volgendosi a S. Damaso Papa del suo tempo
dicevagli: Ohi non è con voi, è contro Gesù Cristo: chi con voi non raccoglie,
disperde; non erano altro che la voce di tutta la Chiesa, la quale in tutti i
secoli, e negli anteriori a loro e nei posteriori, ha sempre creduto che Pietro
rimane e vive in quelli che continuano nel suo pontificato: Perseverat
Petrus et vivit in sucessoribussuis. (S. LEO. Serm.
II). Sia adunque benedetto Gesù Cristo, che a mantenere incrollabile
l’edifizio della sua Chiesa ci ha dato il Papa; quel Papa, che nella persona di
Pietro fu stabilito della Chiesa medesima il saldo fondamento, che nella persona
di Pietro ricevette le chiavi del supremo potere, che nella persona di Pietro
ricevette l’incarico di addottrinare nella fede e pastori e fedeli, che nella
persona di Pietro fu dichiarato infallibile nel supremo esercizio del suo
ministero, quel Papa insomma che nella persona di Pietro fu costituito
Luogotenente di Dio nel governo spirituale del mondo.
II. — Ma
l’empietà, o miei cari, riconoscendo al par di noi che il Papa è veramente la
base della Chiesa Cattolica, il centro di sua unità e la sorgente della sua
vita e delle sue grandezze, contro il Papa mosse ognora i suoi più furiosi
assalti, follemente sperando di abbattere il suo trono, e col trono del Papa la
Chiesa istessa. Ma qui per l’appunto è dove che il Cuore amoroso di Gesù Cristo
ci dà un’altra prova luminosa del suo infinito amore per noi, nel conservare
cioè il Papa in tutto il corso dei secoli contro tutti gli assalti che gli
furon mossi. Gettate uno sguardo sulle pagine della storia. Nel corso di
diciannove secoli le più nobili e potenti dinastie dei regnanti si cangiarono e
morirono; ma la dinastia del Papa persistette e persiste tuttora invariabile ed
immortale. – La Chiesa, questa figlia di Dio, vagiva ancora in fasce, e i
tiranni di Roma si armarono per ispegnerla. La rabbia dei persecutori si
scatena più furente contro di coloro che i cristiani riconoscono e venerano per
loro augustissimi capi. S. Pietro da Nerone, ventinove altri Pontefici in
seguito da altri imperatori son fatti morire e della morte più spietata; gli uni
son crocifissi, gli altri sono lapidati, gli altri precipitati nei fiumi,
gettati altri in pasto alle fiere. « E si è mai veduto, domanda qui l’illustre
Bougaud, una dinastia che cominci con trenta condannati a morte? » E si è mai
veduta, soggiungo io, una dinastia che abbia resistito per lo spazio di tre
secoli ad un assalto così formidabile? Eppure vi ha resistito il Papato.
All’indomani di quel giorno, in cui credevasi di avere spenta colla vita del
Papa la cristiana religione, nell’oscurità delle catacombe sorgeva un Papa
novello, nelle cui braccia gettavasi fidente la Chiesa perseguitata a sangue. [Da
allora nulla è cambiato, come allora anche oggi gli empi usurpanti servi di
lucifero, hanno creduto di abbattere la Chiesa impedendone il Papato, ma
esattamente come allora, nella Chiesa – tra l’oscurità delle catacombe, dell’eclissi
prodotta dalla sinagoga di satana, e tra la persecuzione delle anime a forza di
malefiche eresie e culti diabolici – è sorto il Papa novello a guidare la
navicella di Pietro – n.d.r.]. Ed intanto, che più restava delle
famiglie di Nerone, di Massimiano, di Diocleziano, di Giuliano l’Apostata?
Colla ignominiosa lor morte avrebbesi voluto por fine, non che alla loro discendenza,
alla loro stessa memoria. Dopo i persecutori vennero gli Eretici. Il loro
assalto contro del Romano Pontefice fu tanto più accanito quanto più astuto e
fraudolento. Nel quinto secolo dapprima, e dopo più di mille anni nel secolo
decimo quinto e decimo sesto quegli uomini infernali suscitati dall’odio
diabolico contro di quella pietra che Gesù Cristo poneva a base della sua
Chiesa, lanciaronsi contro di lei con un furore frenetico. E tanto fu
l’apparato della forza, tanti gli artifici dell’inganno, tanto il fervore delle
passioni, che come dapprima il mondo cristiano pareva essersi staccato dal Romano
Pontefice per gettarsi nelle braccia di Ario, così dappoi parve staccarsi dal Romano
Pontefice per gettarsi nelle braccia di Lutero, di quel Lutero che
nell’ebbrezza del suo immaginario trionfo osava gridare: Pestis eramvivus, mortuus tua mors ero, Papa. Ma gli eretici non furono più
forti contro del Papa di quello che furono i tiranni, e mentre Ario e Lutero
con tutta la loro sequela finivano di orribile morte la loro vita, il Papato
vincitore dell’eresia restava fermo sul suo trono fatto rutilante di luce più
viva. Dopo l’eresia e di conserva alla stessa, a combattere il Romano Pontefice
sorgono i governanti della terra. Dapprima gli imperatori del basso impero di
Costantinopoli, dappoi quelli di Germania con una prepotenza incredibile
pretendere di adunare concilii, di dettar articoli di fede, di manipolar i preti
a lor capriccio, di conferire essi stessi ai vescovi l’autorità e nel dare loro
in mano il pastorale e l’anello, che giurino di dipendere da loro e di servire
ciecamente alle loro voglie, e soprattutto che il Papa, il Vicario di Cristo,
il successore di Pietro ceda a queste loro pretese, acconsenta alle lor matte proposte,
soscriva alle erronee lor formole e ai loro patti iniqui. Oh chi sa dire a che
dure prove, a che aspri cimenti, a che gravosi patimenti furono assoggettati i
Pontefici nell’una e nell’altra epoca ? Nella prima un Giovanni è gettato in
carcere dove soccombe per i cattivi trattamenti; un Agapito è mandato in
esilio; un Silverio, spogliato de’ suoi abiti pontificali e raso il capo, vien
deportato i n un’isola ov’è lasciato morir di fame; un Vigilio, preso pei
capelli e per la barba, è strappato dall’altare che aveva abbracciato ed è
fatto perire in esilio; un Martino è tolto da Roma e carico di catene è gettato
a languire nel Chersoneso. Nell’altra epoca, sotto gli imperatori di Germania,
altri fra i Pontefici sono assediati in Roma, altri rinchiusi in prigione e
fatti morir di fame e di miseria, altri avvelenati, altri cacciati in bando
dove muoiono esclamando: « Ho amato la giustizia, ho odiato l’iniquità, perciò
muoio in esilio. » E chi mai nell’imperversare di sì furiose tempeste non
avrebbe creduto che il Romano Pontificato avesse a perire? Eppure no! Perirono
l’un dopo l’altro tutti i suoi assalitori, trascinando nel sepolcro la lor
discendenza, ma i Papi restarono ed alla morte dell’uno un altro sempre ne
successe a governare, ad ammaestrare quella Chiesa, di cui Iddio lo eleggeva a
capo. E ai tempi dei nostri avi e dei nostri padri l’empietà lasciava forse alcun
che d’intentato contro dei Romani Pontefici? La rivoluzione, al cui apparecchio
avevano lavorato orgogliosi filosofi, dopo aver bandita la croce al
Cristianesimo, scannati a decine e a centinaia i Vescovi più venerandi e i sacerdoti
più eletti, abbattute nelle chiese le sacre immagini e surrogatavi in lor vece
la sozzura vivente della Dea Ragione, finì per gettare le mani sulla veneranda
canizie del sesto Pio, strapparlo violentemente dalla sede di Pietro e
trascinarlo nella terra d’esilio ed ivi con serie infinita di vessazioni e di
dolori procurargli la morte. Più tardi un soldato felice insuperbito dei suoi
trionfi, rinnovava le stesse sevizie su Pio settimo, gettandolo a gemere diviso
dai suoi più cari in penosissima cattività, dove oltre al privarlo del pane
necessario al sostentamento, negavagli persino il conforto della penna. Oh mio
Dio! Tutto è pianto per la Sposa di Cristo; più non regna che la ragion del più
forte, e quanti non hanno fede credono che a Savona debba alfin morire l’ultimo
dei Papi. Ma viva Dio! Un bel giorno, mentre il rombo delle empie e sconsigliate
guerre odesi ancora echeggiare per tutta Europa, gli eserciti dell’irrequieto
conquistatore sono rotti e dispersi, lo snaturato tiranno vinto e soggiogato è
mandato a languire sopra un arido scoglio dell’oceano, mentre il mite e
travagliato Pontefice liberato dalla sua prigione e come portato sugli omeri di
tutto il popolo cristiano ritorna trionfante nella santa città. Ma l’empietà, o
miei cari, si ostina a non profittare delle toccate sconfitte ed anche ai dì
nostri ritenta la prova e si getta rabbiosa a cozzare col Papato. Né si è
ristretta a dimostrazioni di lingua e di penna. Armi si sono impugnate, atroci
violenze si sono commesse, e il Capo Venerabile della Chiesa. Io qui mi
arresto…. I fatti ai quali accenno sono accaduti ed accadono tuttora davanti ai
vostri occhi, né avete bisogno che io ve li esponga. Vi chiederò piuttosto: Vi
ha da temerne? …. Potrà temere colui che non crede o non conosce l’amore di
Gesù Cristo per la sua Chiesa. Ma chi getta lo sguardo su quel Cuore tutto i n
fiamme, chi porge ascolto ai suoi rinfrancanti detti: Ecce vobiscum sum
usque ad consummationemsæculi; allo sforzo degli empi
sorride, perché si assicura che, come il Cuore amoroso di Cristo non abbandonò
mai il Papa, nel corso dei passati secoli, così non l’abbandonerà neppure nei secoli
venturi e conservandolo in mezzo ad ogni sorta di assalti, lo circonderà di
universale amore e gli preparerà uno splendido trionfo. Viva, viva adunque il
Cuore Santissimo di Gesù che ci ha dato il Papa e lo conserva con tanta cura, ed
affetto!
III. — Ma altra prova di amore, non meno splendida delle antecedenti, ci ha dato il Cuore Sacratissimo di Gesù nel glorificare il Papa. Conoscendo Egli a perfezione il cuore umano, che tanto facilmente sì lascia attrarre dalle cose sensibili, volle eziandio per la via delle cose sensibili trarre gli uomini all’amore ed alla venerazione del Papa; epperò non pago di conferirgli un’autorità spirituale, in tutto il corso dei secoli, lo circonda ognora di fulgidissima gloria ispirandogli ed aiutandolo a compiere opere, che niun’altra dinastia del mondo potrà mai vantare sì numerose e sì perfette. Ed in vero, o miei cari, a chi la gloria di atterrare i delubri del paganesimo, di raddolcire i costumi, di spezzare le catene della schiavitù, di far risplendere il sole della cristiana civiltà? Al papa! O santi pontefici de’ tre primi secoli, io mi prostro riverente dinanzi alla vostra veneranda persona. La vostra vita non passò che nell’oscurità delle catacombe, ma dal fondo di quei sotterranei il suono della vostra voce uscì per tutta la terra a portare dovunque la serenità e la pace! — A chi la gloria di evangelizzare il inondo, di spargere dappertutto il regno di Cristo, di inalberare per ogni dove lo stendardo della croce, di radunare i popoli in un sol cuore, in un’anima sola? Al Papa! Io vi saluto, o Gregorio Magno, o Nicolò I, o Zaccaria, o Gregorio II e III, o Giovanni XIII, o Gregorio IV; è per opera vostra, pel vostro soffio che sono successivamente evangelizzate l’Italia non solo, ma le Gallie, la Spagna, la gran Bretagna, la Svezia, l’Olanda, la Germania, la Polonia, la Russia, le immense contrade del nord. È per opera vostra, pel vostro soffio, o Sommi Pontefici, che a tutti i popoli del settentrione e del mezzodì, dell’oriente e dell’occidente, dell’antico e del nuovo mondo la fede rifulge, il vero Dio si adora, Cristo è amato. — A chi la gloria di liberarci dalla dominazione dei barbari e dei mussulmani, d’impedire che ricadessimo nella primiera barbarie? Al Papa! O magno Leone! io vi veggo, rivestito del vostro papale ammanto, in trepido, farvi innanzi a chi si noma flagello di Dio, ammansar quella belva e allontanarla d’Italia. Io vi veggo, o S. Leone IV, respingere ad Ostia colle vostre milizie i Saraceni, che vi sbarcarono già sicuri della vittoria. Io vi veggo, o S. Leone IX, combattere, a Civitella per l’indipendenza delle terre italiane e cadendo prigioniero restar tuttavia vincitore. Io veggo voi, o grande Ildebrando, farvi l’energico difensore dell’Italia contro l’influenza straniera ed umiliare a Canossa la prepotenza di un imperatore Germanico. Io veggo voi, o Alessandro III, farvi capo di una lega per allontanare dalle nostre terre il Barbarossa e felicemente riuscirvi, e voi, o Gregorio IX, tentare risolutamente la stessa cosa contro Federico II. Io vi veggo o grande Pio V, destare l’Europa col suono della vostra voce, radunarne i principi, benedire i loro eserciti, spedirli contro le falangi musulmane, e colle vostre preghiere ottener loro la più splendida vittoria. — Ancora. A chi la gloria di vedere suoi figliuoli gli stessi re ed imperatori del mondo, di essere il consigliere nelle loro imprese, l’arbitro nelle loro questioni, il pacificatore nelle loro contese? A chi la gloria di intimare ai prepotenti il dovere e la giustizia, di resistere ai loro capricci, di difendere l’innocenza ed il diritto contro il loro despotismo? Al Papa. Siete voi, o Innocenzo III, che obbligate Filippo Augusto di Francia a ripigliare la sua legittima sposa; voi, o Pio VI, e Pio VII, che forti per coscienza resistete alla volontà degli iniqui; voi, o Gregorio XVI, e Pio IX, che agli imperatori delle Russie ordinate di trattar meglio i Cattolici, — E finalmente, a chi la gloria d’aver protetto le lettere, le scienze, le arti? A chi?. Al Papa, sempre al Papa. È il Papa che nel buio del medio evo, apre scuole a spargervi la luce delle lettere e delle scienze: il Papa, che favorisce e promuove le università, il Papa che raccoglie biblioteche, il Papa che si circonda di dotti, il Papa che chiama ed accoglie onorevolmente nella sua Roma i più celebri artisti. È Giulio II, è Paolo III, èSisto V, è Leone X, èPio VI, èPio VII, è Pio IX, è il glorioso Leone XIII, la cui splendida munificenza verso le scienze, le lettere e le arti va del pari colla sua altissima sapienza. E dinanzi a tanto splendore, dovrebbesi ancora far conto di quel po’ di nebbia che parvero gettare sul Papato alcuni pochi Pontefici? Io non nego che vi sia stato fra di loro qualcuno di ua vita non dicevole alla sublime dignità. Ma che per questo? Se come persone private fallirono, come Pontefici vennero forse meno al loro gravissimo ufficio? Lo stesso Alessandro VI, di cui tanti scrittori farisaici inorridiscono, dato pure che l a sua vita privata non sia stata sempre buona, non compié in qualità di Pontefice delle grandi cose? Non fu egli, come scrive lo stesso Boterò, che allo scoprimento di tante terre fatte dagli Spagnuoli e dai Portoghesi si adoperò presso i loro re, perché in quelle terre si attendesse anzitutto alla conversione dei popoli? Non fu egli che chiamato arbitro da questi due sovrani nella questione dei confini dell’America pose fine ai loro litigi, con la famosa linea di partizione da lui tracciata sulla carta geografica e che accolta di buon animo prova manifestamente che come Papa era avuto in altissima stima dai principi e dai popoli? E per non dire più di altro, non attese forse come Papa col massimo zelo al bene della Chiesa? Chi vuole adunque giudicare dirittamente dei Papi, distingua bene ciò che in essi vi è di umano e di persona privata, ed allora vedrà, se non vuole esser cieco, che come non vi ha dinastia di una potenza intima più grande, così non vi ha dinastia alcuna di una gloria più splendida e più pura. D’altronde, pur riconoscendo che sulla cattedra di Pietro insieme col supremo potere e col magistero infallibile si è assiso qualche Papa malvagio, il vero Cristiano non rinnoverà mai il delitto di Cham, ma chiudendo gli occhi come Sem e Jafet, si farà invece a coprire le colpe di questi padri col manto della pietà filiale. Benedizione adunque, benedizione eterna al Cuore di Gesù, che non solo ci ha dato il Papa e lo conserva con tanta cura ed affetto, ma lo circonda ancora di tanta gloria a radicare ognor più nei cuori nostri la venerazione e l’amore per lui, a costringere alla sua ammirazione tutti gli uomini del mondo. Ma se il Cuore Sacratissimo di Gesù nel darci il Papa, nel conservarlo e glorificarlo ci ha fatto il più segnalato benefizio e ci ha data una gran prova di amore, nostro dovere per conseguenza è quello di corrispondere a tanto benefizio colla più sincera gratitudine. E il modo migliore di manifestare al Cuore di Gesù la nostra gratitudine in questo caso è quello per l’appunto di obbedire, rispettare ed amare il Papa. Allor quando nel battesimo di Cristo lo Spirito Santo erasi posato sopra il suo capo nella sembianza di colomba, dalle altezze dei cieli era pur scesa la voce dell’Eterno Padre dicendo: « Questo è il mio Figliuolo prediletto, nel quale ho riposto le mie compiacenze; lui ascoltate.» Ebbene, o miei cari, qui avviene un fatto somigliante. Il Cuore Santissimo di Gesù posandosi sulla persona del Papa rivolge a tutti i suoi figli la sua voce e grida: Questi è il mio Vicario: ascoltatelo, rispettatelo, amatelo. Chi ascolta lui, ascolta me: chi disprezza lui, disprezza ine; chi non ama il Papa, non ama neppure me stesso. E vi sarà tra di noi chi si rifiuti a questo comando di Gesù ? Ahimè! se io getto lo sguardo nel mondo, vedo pur troppo di coloro che non ascoltano il Papa, che non lo rispettano, che l’odiano anzi e sino al furore; che vorrebbero, se loro fosse possibile, schiantarne l’ultimo vestigio dalla faccia della terra, e in fondo in fondo non per altra ragione, se non perché il Papa a nome di Dio impone loro una legge, ch’essi non vogliono praticare; perché il Papa svela le loro nequizie e le loro ipocrisie, condanna la loro superbia e la loro corruzione; perché il Papa mette in guardia il mondo dalle loro diaboliche arti; perché infine il Papa pel libero esercizio di quella autorità che ha ricevuto da Dio reclama quel temporale dominio, che la Divina Provvidenza gli ha a tal fine accordato. Sì, per questo, per questo solo tante bocche impure si aprono a bestemmiarlo, tante penne sataniche schizzano veleno a maledirlo, tante sozze caricature s’inventano a coprirlo di fango. Oh infelice Pontefice! Curvo sotto il peso di una responsabilità così grande, qual è quella che emana dalla sua autorità, egli deve per soprappiù gemere sotto il peso della moderna empietà e corruzione, che gli muove una guerra cotanto aspra. Ah deh! per quella gratitudine che ci lega al Cuore Sacratissimo di Gesù, che i suoi gemiti trovino un’eco pietosa nel cuore de’ suoi veri figli. Che noi almeno col rispetto e coll’obbedienza alla sua autorità, in tutto quello che egli ci prescrive per il vero nostro bene ci studiamo di porgere un po’ di conforto alle sue afflizioni. Che da noi almeno non mai si sparli del Papa, non mai si censurino i suoi pensamenti e le sue operazioni, non mai anche solo per rispetto umano si sorrida a chi lo deride: che da noi, da noi almeno si porti sempre alta la bandiera su cui sta scritto: Cattolici e Cattolici col Papa. E quando il Papa nella piena del suo dolore a noi si volge additandoci il cuore che gli sanguina, sempre abbia da noi tale una risposta… Miei cari amici! Allorché nel secolo passato, una grande imperatrice d’Austria, Maria Teresa, viste invase dalle potenze straniere le sue terre, confidata nell’amore dei suoi popoli, ancor sofferente di fresca malattia, presentossi alla dieta e svelate le sue pene chiese protezione per se e pel suo bambino, udì tosto con entusiasmo ripetere: Moriamur prò rege nostro Maria Theresia! Ealle parole s’aggiunsero i fatti: gli abili alle armi si fecero soldati e formossene un numeroso esercito: non mai dalla fertile Ungheria uscirono tante provvigioni: non mai con la violenza si riscossero tanti tributi, quanti allora spontanei, e l’ardore non fe’ mai sì belle prove. Ecco la risposta che dobbiamo dar noi all’appello del Papa: balzare risoluti al cospetto delle sue sofferenze, gettarci ginocchioni a’ suoi piedi, protestando di amarlo e di difenderlo; brandire coraggiosi le armi dell’azione e della preghiera, cooperare per quanto sta in noi e colle parole, e cogli scritti e colla stampa e coll’obolo della nostra carità, a mantenergli la gloria e lo splendore che gli si addice; con gemiti incessanti supplicare il Cuore di Gesù che lo renda libero, che lo conservi, lo vivifichi; lo faccia beato in terra e non lo lasci cadere nelle mani de’ suoi nemici; e piuttosto che vili cedere quest’armi in faccia ai nemici del Papa: Moriamurprò Papa nostro Leone! siamo pronti a soffrir qualsiasi iattura, anche la morte istessa se .le circostante lo richiedessero. Morir per il Papa saria lo stesso che morir per Cristo: perché il Papa è il Vicario di Cristo: e di miglior gratitudine non potremmo ripagare il Cuore di Cristo, né miglior testimonianza potremmo rendere alla sua bontà e misericordia nell’averci dato il Papa. E voi, o Cuore Sacratissimo di Gesù, che con l’istituzione del Papa avete dato alla vostra Chiesa il più saldo fondamento, fate che adesso noi siamo mai sempre uniti di mente e di cuore, sicché coll’amore, col rispetto, coll’obbedienza al Papa, Capo visibile della vostra Chiesa, noi siamo pur sempre muti a Voi, che ne siete il Capo invisibile, adesso e nell’eternità. [Oggi più che mai rinnoviamo questo grido di gioia e di fedeltà: