1Paolo SEGNERI S. J.:
L’INCREDULO SENZA SCUSA
Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884
CAPO XVIII.
S’inferisce, da quanto si è dimostrato l’unità di Dio, semplicissima in tanti suoi diversi attributi.
I . Due specie di cecità può temer l’occhio: l’una, per cui egli non vegga ciò che è delle cose: l’altra, per cui egli vegga ciò che non è. Ed eccovi ambedue questi morbi offuscar la mente dell’uomo. V’ha chi non vede il sole della divinità, e v’ha chi ne vede più d’uno, adorando quali sorgenti di luce quei che neppure sono pareli, ma nuvole affatto oscure. Pertanto noi, che finora abbiamo rimproverata agli ateisti la prima cecità, di non conoscere la divinità regnatrice, conviene che agli idolatri rimproveriamo ora l’altra, che è di riconoscerne molte: massimamente giudicandosi reo di fellonia non dissimile chi ardisce scacciare il suo monarca dal soglio, e chi ardisce nel soglio dargli collega. Né molto avremo a stancarci in dilucidare sì nobile verità: mentre quanto siamo certi di avere padrone in cielo, tanto siamo certi di non avervene parimente più d’uno. Deus, si non est unus, non est (Tert. in Marc. 1. 2. c. 13). Veggiamolo con provar tre proposizioni: che la grandezza di Dio richiede per se stessa tale unità; che questa in lui vogliono tutte le creature; e che questa tutte similmente ci predicano ad una voce.
I.
II. Saggiamente Tertulliano ci fè avvisati, che chiunque brami d’intendere se si truovi più di un Dio solo, chiegga innanzi, che cosa è Dio: Deum ut scias unum esse debere, quære quid sit Deus(Tert. ib.). Già di sopra vedemmo, come per Dio vien significato quel sommo bene, sufficiente a se stesso, che accoglie in sé qualunque bene possibile, con pienezza di perfezione: e posto ciò, non si può dubitare che non sia solo.
III. Conciossiachè rappresentatevi al pensiero questo impossibile, che si trovasser più Dei: per qual via dovrebbon distinguersi l’un dall’altro? Per via di qualche perfezione diversa che in loro fosse, o d’imperfezione. Per via d’imperfezione non è possibile, perché il bene sommo debbe essere bene esente d’ogni difetto. Dunque converrebbe che si distinguessero a forza di perfezioni. Ma come ciò, se il bene sommo non può non accorle tutte? Niun di loro in tal caso sarebbe Dio, mentre a ciascuno mancherebbe quel pregio che fosse il proprio e il preciso del suo consorte (Il ragionamento potrebbe assumere quest’altra forma. Gli Dei non possono essere molti, se non a condizione che si distinguano l’uno dall’altro, né possono distinguersi se non a patto che ciascuno possegga in proprio doti e prerogative, che mancano ad ogni altro. Adunque tutti e singoli sono limitati e finiti, perché manchevoli di qualche dote e nessuno perciò merita nome di Dio, il qual è di sua natura infinito). Dunque Iddio non può essere mai più d’ uno: Porro nihil summum bonum, nisi plenis viribus unum (Prudent.).
IV. Di poi chi non vede, che l’essere il supremo di tutti gli enti possibili, senza eguale, senza equivalente, è di sicuro un vanto il più riguardevole che si trovi? Adunque non si può contrastare a Dio, cui conviene ogni preminenza. Una gioia unica al mondo, quanto ha di stima! un fiore unico! un frutto unico! un libro unico! Anche i figliuoli restano commendati da una tal dote, più forse che da alcun’altra, perché li fa in loro genere senza pari.
V. Oltre a che: o questa pluralità sarebbe dispiacevole a ciascun Dio, e ne seguirebbe che ciascuno di loro fosse infelice mentre dovrebbe fra’ suoi contenti divorare questa amarezza di aver collega, senza poterla mai digerire: o non sarebbe dispiacevole punto, e ne seguirebbe, che ciascuno fosse insensato, mentre non sentirebbe un diletto, inevitabile al pari ed interminabile, che non potrebbe dargli altro che confusione: tanto più, che da quelle ingiurie che Dio riporta ogni giorno dai peccatori può cavar qualche gloria che le compensi. Ma quale gloria potrebbe un Dio ricavare da quei discapiti che riportasse dall’altro, di monarchia? Sarebbero di lor genere incompensabili. Adunque tanto è volere moltiplicar la divinità, quanto è volere annullarla.
II.
VI. Questa unità poi del loro fattore desiderano di accordo tutte le cose. Che sarebbe mai del genere umano, se egli avesse per disgrazia più d’un padrone? Avremmo più di un principio da riconoscere, e più di un fine. E però ditemi: ove allor prima ci volgeremmo, ove poi? Quale ci eleggeremmo noi di servire? qual di disprezzare? qual di sopportare? Quale di scuotere? Come una nave, combattuta da più venti al pari gagliardi, non sa qual di loro assecondare, a quale si rompere; così il nostro cuore, combattuto da forze al pari possenti, non saprebbe a quale inchinarsi: ma incerto, fievole, fluttuante, agitato, riputerebbe migliore la condizione di chi non si dilungò mai dal lido, venendo a vivere. Ne ci varrebbe in un tal caso tenersela ben con tutti: conciossiachè lo volontà di quegli Dei, come libere, o sarebbero discordanti fra loro o potrebbero essere. E in tal discordia, quale sarebbe la confusione di noi, poveri di partito pari al bisogno? Senzachè, quando ancora fosse possibile tenersela ben con tutti, secondando i loro voleri; ad ogni modo il nostro cuore qual fiume diviso in vari ruscelli, correrebbe sempre più languido: né potrebbe con tutto l’impeto dello spirito portarsi, come pure è di necessità, ad amare l’ultimo fino sopra ogni cosa.
VII. I medesimi disordini succederebbero poi nel resto di tutto l’ordine naturale. Primieramente l’universo sarebbe in sé mostruoso, come mostruoso sarebbe ogni animale, il quale avesse più capi. Né potrebbero tali capi ordinarsi in una stabilita repubblica di ottimati, a governare di accordo, attesoché possono bene in una somigliante repubblica unirsi gli uomini, convenendo in un fin comune; ma più Dei non possono unirsi, avendo ciascun di loro per fine sé. Onde l’amministrazione della natura non si distinguerebbe da un caos di confusione, odioso in sommo alle cose da lei prodotte. Entia nolunt male gubernari, dice il filosofo (Arist. metaph. 12). Non est bona multitudo principium. Unus ergo princeps.
VIII. Dipoi chi non sa, che qualsisia moltitudine, quanto più va riducendosi all’unità, tanto più nel suo genere ha di perfetto? Un esercito, quanto sta più serrato, tanto è più forte. Un concerto, quanto è più consonante, tanto è più armonico. Una conversazione, quanto è più concorde, tanto è più allegra. Un remigamento, quanto è più di tutti i galeotti ad un’ora, tanto è più celere. Ma il ridurre la moltitudine all’unità, molto più è connaturale di uno che non di molti (S. Th. 1. p. q. 12. art. 3. in c.). Quale dubbio dunque, che il governo del mondo stia meglio in uno?
III.
IX. Per ultimi, non solo l’essere di Dio richiede questa unità di principio, non solo la desiderano tutte le creature, ma tutte le creature ancor ce la scoprono ad una voce: tanto quelle che muovonsi per arbitrio, quanto quelle che sono mosse. E a voler dire in prima delle seconde.
X. Quella bellezza ammirabile che fu da noi lungamente considerata nelle parti dell’universo, quella proporzione, quell’orditura, quell’ordine, quella costanza perpetua nell’operare, troppo altamente ci dichiarano al cuore, che non può si grande opera provenire da altri, che da una cagione infinitamente perfetta. Altrimenti, se storpiata in sé fosse la genitrice, come potrebbe dare ella sempre alla luce partì sì belli? Ora qual maggiore storpio potrebbesi figurare in questa prima cagione, che l’essere costituita in un modo stolto? E pure di siffatto modo sarebbe costituita, se ella consistesse in più Dei. Volete che io vel dimostri? Certo è, che ciascuno di tali Dei come sufficientissimo ad ogni bene, e per sé e per altri, renderebbe tutti i suoi colleghi affatto superflui. Onde l’unione di più divinità che sarebbe? Non sarebbe un collegamento di perfezioni, ma un mucchio casuale di parti non importanti, di cui è proprio l’essere disadatto, disordinato, e senza disegno (Anton. Perez, de Deo disp. 1. c. 4). Pertanto chi potrà giammai darsi a credere, che se il mondo (il quale finalmente ha un esser creato) sussiste nondimeno in una ragion perfettissima, l’Essere increato, che ha per ragion;, anzi per necessità, solamente se stesso, sussista sì pazzamente in ciò che è contra d’ogni regola di ragione, cioè nel superfluo, tanto abborrito dalla natura medesima, che dappertutto altro non fa, che respingerlo, e ributtarlo? Guardate pertanto ciò che succederebbe tra quei più Dei, se diffatto si ritrovassero. Ciascun sarebbe più contentibile all’altro di una formica, perché una formica è bensì inutile a Dio, ma non è superflua, mentre Dio può essere utile alla formica; ed infatti l’è, amandola però anche, come capace di riportare da Lui e vita e vitto e piaceri a lei convenevoli. Ma tra quegli Dei non così: né l’uno potrebbe recare all’altro alcun prò (mentre sarebbero tutti sufficienti a se stessi), né l’un dall’altro lo potrebbe ricevere: onde, se tra loro fosse possibile alcun commercio, altro non farebbero insieme, che vilipendersi come numi da soprappiù. E potete voi divisarvi maggior disordine? Sufficiens est et unum, dice Aristotile (8. phys.tex. 48). Girate per tutto l’ordine naturale, voi non vedrete, che ciò che nel suo genere è sufficiente, sia mai più di uno: che però all’uomo fu determinato un sol cuore, un sol cerebro, un sol collo, perché uno basta al suo fine. E poi volete che più di uno sia Dio, che è il sufficientissimo?
XI. Né state a oppormi, che all’inconveniente ora detto dobbiamo dunque rispondere ancora noi, i quali ammettiamo tre Persone divine, tutte sufficienti a se stesse (mentre nessuna è tra esse che non sia Dio), e pure non ammettiamo veruna superfluità che loro passi, né veruna indigenza. La disparità è manifesta. Le tre persone sono tre Persone si bene, ma un solo Dio: che però in esse la sufficienza è una sola, non essendo la sufficienza di beni ch’esse posseggono fondata nelle personalità, ma fondata nella natura, la quale è unica in tutte. Non così avverrebbe in più Dei. Questi sarebbero ciascun da sé Dio diverso, Dio differente (altrimenti è certo che non sarebbero più): onde, siccome ciascun da sé sarebbe sufficiente a formare un Dio, quando ancora mancassero tutti gli altri; così ciascuno di verità sarebbe agli altri superfluo, e superflui li renderebbe.
XII. E pure notate di peggio. Ciascuno con tutto ciò avrebbe a un’ora degli altri, benché cogli altri un bisogno estremo, mentre nessun potrebbe essere senza gli altri, benché cogli altri non fosse una essenza sola. Ed eccovi però fra più Dii questa più mostruosa contraddizione, che vicendevolmente fossero beni, insieme necessari, insieme superflui. Superflui, perché ciascuno basterebbe a sé da se solo; necessari, perché nessuno potrebbe discacciare via l’altro, qual Dio d’avanzo; onde avrebbesi questo eminente sproposito, che la somma superfluità possibile a figurarsi fosse insieme la somma necessità. Lungi da noi tali insanie. Noi Cristiani intendiamo ciò che sia Dio, e per questo siam paghi di uno. Gli idolatri non lo intendevano, e però ne ammettevano innumerabili: Deus, si non est unus, non est.
XIII. Senonchè gl’idolatri stessi ne’ casi subiti davano a divedere ciò che notò Tertulliano con acutezza, cioè che l’uomo di sua natura è Cristiano, non è idolatra. Quindi è, che non solo colti da un improvviso pericolo, invece di rivoltare i lor occhi in atto di supplichevoli al campidoglio, chiedendo scampo, li sollevavano al cielo, come fu da noi già notato: ma di più nell’istesso Panteon, domicilio di tutti gli Dei bugiardi, se avevano ad asseverare una cosa, a protestare, a promettere, a minacciare, dicevano: Dio sa, Dio vede, Dio vuole, Dio mi castighi, chiamando per loro giudice un solo Dio, nell’atto stesso che d’ogni intorno sacrificavasi a tanti: 0 testimonium animæ naturaliter Christiana, gridò però Tertulliano con gran ragione (In apol. c. 11):mercecchè tutte le creature anche libere, non che le regolate dal puro istinto, hanno in sé viva questa gran verità, notatavi altresì da Lattanzio, da Atanasio, da Arnobio, da Cipriano, che la cagione prima è una sola (Lattan. 1. 1. c. 2. Athan. c. idolol. Arnob. 1.2.Cypr. de idol. vanit.). Né è meraviglia. Come ella è perfettissima nell’operare, così conviene,che perfettissima sia parimente nell’essere,che è la norma dell’operare: e se ella è perfettissima,dunque è una, perché è quale torna a lei meglio dì essere (Come in aritmetica l’unità precede i numeri, così nell’universo l’uno precede il molteplice, epperò l’unità è la grande, la suprema legge dell’umana ragione. Il pensiero non può dare un passo senza trovarsi di fronte ad un molteplice nell’uno; e come nel mondo ideale tutti i concetti si radicano in un concetto supremo ed in esso hanno la loro ragione ed unità, così nel mondo reale tutti gli esseri sussistenti puntano in un Essere unico dominatore).
XIV. Vero è, che quando di Dio si dice esser uno, non dovete mai divisare che Egli uno sia di quel modo che uno è il sole per verità, e che una stimasi la fenice per favola. Imperocché unico è il sole di fatto, ma pure potrebbe moltiplicarsi dal Creatore al par delle stelle, divenendo il cuore di altrettanti universi che gli fossero dati a vivificare. E così parimente, quando fosse anch’ella unica la fenice, si potrebbe tosto vedere moltiplicata al par di tutti i volatili, perché né il sole, né la fenice hanno l’unità per essenza, come l’ha Dio, il quale non può essere se non quell’uno che Egli è (S. Th. 1. 2. q. 11. art. 4): tanto che il volerlo moltiplicare è l’istesso, che volerlo distruggere, multitudo numinum, nullitas numinum (Athan. c. idolol.). Riman dunque fermo, che Dio non solamente è unico, ma è lo stesso uno, come fu pure conosciuto dal Trismegisto, ipsum unum: ed in questa sua propria, pura, ed unissima unicità, quasi in un abisso senza fondo, contiene in atto tutte le perfezioni possibili. Ma perché noi, a guisa di struzzoli, tanto battiamo l’ale per aria, quanto posiamo ad un’ora i pie sulla terra, cioè tanto conosciamo delle cose divine, quanto ce ne rappresentano le immagini tolte dagli oggetti corporei; però ci figuriamo l’infinito alla foggia delle cose finite, e senza avvedercene veniamo a ritrarre il sole con un tizzone. Quinci è il distinguere che facciamo in questa semplicissima essenza, un numero grande di attributi, di proprietà, e di prerogative che l’accompagnino, benché tutti gli attributi, tutte le proprietà, e tutte le prerogative non sian altro che un solo bene, contenitore di tutti per eminenza. Chiamiamo il mare ora oceano, ora maggiore, ora mediterraneo, ora adriatico, ora icario, ora ionio, ora caspio, ora boreale, ora baltico, ora britannico, ora pacifico, ora getico, ora gelato, ora rosso: eppure ell’è tutta un’acqua. Così, con qualche proporzione, noi possiam dire che nominiamo Dio, ora giusto, ora misericordioso, ora adirato, ora placato, ora avverso, ora propizio, ora operante, ora quieto: benché l’idea che ne dobbiamo formare, sia di un sommo Essere indivisibile, in cui per verità non si distingue una perfezione dall’altra; ma quella essenza medesima che è giustizia, quella è misericordia; quella che è potenza, quella è sapienza; quella che è provvidenza, quella è santità; quella, che è immensità per occupare tutti gli spazi possibili, quella è eternità per accogliere tutte le durazioni. E la ragione di tanta semplicità si è parimente, perché qualunque composto ha la sua cagione (S. Th. contra gentes l. 1 c. 48.n. 4): non potendo parti diverse adunarsi in un tutto, massimamente non casuale, ma saggio, senza cagione adunante, la quale intenda la convenienza che han quelle parti tra loro, a far lega insieme. Ma a Dio non può assegnarsi cagione di alcuna guisa, mentre Egli è la cagion prima. Dunque nemmeno in Dio può trovarsi composizione. Egli è da sé. Dunque Egli possiede anche un essere semplicissimo, che contiene ogni grado di perfezione, ma di perfezione non mista d’imperfezione: come la luce, la quale ha in sé qualunque grado possibile di, colore senza l’opaco (Sotto questo riguardo Iddio potrebbe venir definito l’Essere dotato di infiniti attributi infinitamente perfetti e ridotti a semplicissima unità).
XV. Che se è così, non dobbiam neanche meravigliarci, se sulla terra mai non possiamo conoscer Dio degnamente o almeno adeguatamente. A conoscer Dio di tal modo converrebbe conoscere il bene in sé. Ma ciò non fu mai possibile, dove ogni bene che mirisi, è limitato dentro qualche spezie di bene, non è il ben tutto: Bona domus, bona animalia, bonus aér, etc. (dicea il grande Agostino (De Trin. 8. c. 3) bonum hoc, et bonum illud. Tolle hoc et lolle illud, et vide ipsum bonum si potes: ita Deum videbis; non alio bono bonum, sed bonum omnis boni.