SABATO SANTO E LE 12 PROFEZIE

IL SABATO SANTO

L’uffizio del Sabato santo si compone di sei parti o cerimonie principali:

1.° La benedizione del nuovo fuoco;

2.° La benedizione del cero pasquale;

3.° Le lezioni;

4 °La benedizione del fonte;

5.° La Messa;

6.° Il Vespro.

La più venerabile antichità spira da queste belle cerimonie; le più commoventi ricordanze delle catacombe di Costantinopoli, di Nicea, di Gerusalemme, di tutte quelle grandi Chiese vengono l’una dopo l’altra sotto i nostri occhi. Possano le impressioni salutari che sono capaci di produrre, scolpirsi profondamente nelle anime nostre!

1.° La benedizione del fuoco sacro. Era un antico costume, stabilito fino dal IV secolo, di benedire ogni giorno, verso la sera, il fuoco col quale si doveano accendere le lampade per L’uFfizio dei vespri. Si cavava il fuoco dalla pietra invece di prenderlo dal focolare delle case. Un tal uso si riferisce a questo gran pensiero della Chiesa, che poiché tutte le creature sono state corrotte, non conviene servirsene senza benedizione nelle cerimonie del culto divino. Così fino dai primi secoli essa non si serviva del fuoco profano o comune nei sacrifizi e nelle pubbliche preghiere ove eran necessari i lumi. Dalla benedizione del fuoco, cerimonia ristretta ora al sabato santo, incomincia l’uffizio d’oggi. Si fa con molta solennità e con preci, poiché questo nuovo fuoco è per il Cristiano l’immagine della nuova legge, legge di grazia e di amore, che è per nascere dalla tomba del Cristo, come il fuoco antico è l’immagino dell’antica legge, spenta nel sangue del Salvatore. Quando adunque il clero è arrivato al coro, comincia le litanie de’ Santi; la Chiesa vuole che i suoi figli di già coronati nel cielo prendano parte alla gioia, onde all’apparizione della nuova legge si riempie il mondo, e che pregando per i fratelli in terra, ottengano loro la grazia di seguire siccome essi i comandamenti di questa santa legge, e di pervenire alla medesima felicità. Mentre si cantano le litanie, il Sacerdote benedice il novello fuoco. Questa è la prima parte dell’uffizio del sabato santo.

2.° La benedizione del cero pasquale. Il cero pasquale che non era in antico che una colonna, sulla quale il patriarca d’Alessandria scriveva l’epoca della pasqua e delle feste mobili che si ordinano secondo questa grande solennità. Essendo Alessandria la città ov’erano i migliori astronomi, il Vescovo doveva consultarli ogni anno, e dopo la loro conclusione determinare al Papa, e per lui a tutta la Chiesa, la prima domenica dopo il quattordicesimo giorno della luna di marzo. Allora si scriveva sulla cera, e sopra una specie di colonna formata di questa materia il Patriarca d’Alessandria distendeva il catalogo delle principali feste dell’anno. Il Papa riceveva questo canone [Si sa che la parola canone vuol dire regola. Quella colonna era il canone o la regola, secondo la quale si celebrava la pasqua e le feste mobili che ne dipendono.]  con rispetto, lo benediceva e ne inviava altri simili alle altre Chiese, che gli ricevevano con la medesima onoranza. Presto di questo bastone di cera si fece una candela che serviva a far lume nella notte di pasqua, e si riguardava nello stesso tempo come l’emblema di Gesù resuscitato. Il Papa Zosimo approvò quest’uso, e lo stabilì generalmente, ordinando a tutte le chiese parrocchiali di benedire il sabato santo un cero pasquale. [Zosimus papa decrevit oereum sabbato sancto Paschœ per ecclesias benedici (Sigebertus) M. Thirat, Spir. delle Cerem.]. Col fuoco sacro si accende il cero pasquale. Non è permesso di accenderlo diversamente, come gli altri ceri destinati per gli uffizi e la Messa della vigilia di Pasqua, Ogn’altro fuoco è dichiarato estraneo e profano, simile a quello che irritò il Signore contro Nadab e Abiu, e fu la causa della loro morte. La benedizione del cero pasquale risale alla più remota antichità: si trova di già nelle belle operedi sant’Ennodio, vescovo di Pavia, che viveva al principio del VI secolo. Questo cero molto alto è posto sopra un candelabro nel mezzo del santuario, in faccia all’altare: sta acceso all’uffizio del, sabato santo, alla Messa e al vespro per tutta la settimana di pasqua; e quindi alla Messa ed ai vespri delle domeniche e feste fino all’Ascensione. In tal giorno dopo il Vangelo della Messa solenne il cero immediatamente si toglie: in questo momento il Salvatore, tolto alla terra, ascende al cielo. – Tutte queste particolarità indicano abbastanza i l misterioso significato del cero pasquale. È il primo simbolo della Resurrezione di Gesù Cristo, che la Chiesa propone ai Fedeli il sabato santo: rammenta al tempo istesso che il loro divino Redentore è la luce del mondo. Così non vi è nulla di più magnifico nella liturgia, nulla di più celebre della formola usata per benedirlo; che comincia con queste parole: Exultet jam angelica turba cœlorum etc.

Gli Angeli del cielo, la milizia dell’alto, si rallegrino e tripudino di giubbilo, e lo squillo delle trombe annunzi i nostri sacrifizi di gioia. La terra gioisca della sua felicità, e si rallegri nel glorioso lume che a lei è venuto. E tu, santa Chiesa, nostra madre, tu ancor ti rallegra: eccoti raggiante nel lume della face divina, della face che illumina l’universo.

Echeggi il luogo santo alla viva gioia dei popoli: salgano al cielo gli applausi della terra.

In tutto il resto domina lo stesso entusiasmo. Degno del genio di s. Agostino è questa benedizione, che si crede composta da lui.

Il diacono canta questo bell’annunzio della festa di Pasqua; poiché la benedizione del cero pasquale è sempre stata del ministero del diacono, in presenza dello stesso Vescovo o del Sacerdote uffiziante. Il diacono allora è come un araldo del cielo che annunzia alla Chiesa la gloriosa resurrezione di Gesù Cristo, il suo trionfo in questo mistero, le splendide testimonianze della misericordia di Lui, e la felicità dell’uomo riconciliato col suo Dio per il compimento della grand’opera della redenzione. – I cinque grani d’incenso che egli inserisce nel corpo del cero, in forma di croce, sono un emblema delle cinque piaghe del nostro Signore, e degli aromi che servirono ad imbalsamarlo. La preghiera che la Chiesa adopera per benedirli, non lascia su ciò verun dubbio. Questa preghiera ci dimostra ancora l’efficacia del cero benedetto, come di tutte le altre cose santificate per allontanare il demonio, i flagelli e le malattie. D’ora innanzi, quando vedremo accendere il cero pasquale, pensiamo seriamente a resuscitare con Gesù Cristo, e quando da Pasqua all’Ascensione ce lo vedremo brillare davanti agli occhi, come la colonna luminosa che conduceva Israele verso la terra promessa, chiediamo a noi stessi se camminiamo fedelmente dietro il Salvatore resuscitato, se ci avanziamo verso il cielo, vera terra premessa del Cristiano.

Exsúltet jam Angélica turba cœlórum:

exsúltent divína mystéria: et pro tanti Regis victória tuba ínsonet salutáris. Gáudeat et tellus tantis irradiáta fulgóribus: et ætérni Regis splendóre illustráta, totíus orbis se séntiat amisísse calíginem. Lætétur et mater Ecclésia, tanti lúminis adornáta fulgóribus: et magnis populórum vócibus hæc aula resúltet. Quaprópter astántes vos, fratres caríssimi, ad tam miram hujus sancti lúminis claritátem, una mecum, quæso, Dei omnipoténtis misericórdiam invocáte. Ut, qui me non meis méritis intra Levitárum númerum dignatus est aggregáre: lúminis sui claritátem infúndens, Cérei huius laudem implére perfíciat. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Fílium suum: qui cum eo vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus: Per omnia sǽcula sæculórum.

[Esulti ormai l’angelico coro degli Angeli: vibrino di gioia i divini misteri; risuoni la tromba sacra per la vittoria del Gran Re. S’allieti la terra irradiata dagli splendori di sì grande trionfo e, illustrata dai fulgori dell’Eterno Re, si senta libera dalla caligine del mondo intero. Si rallegri la Chiesa, nostra Madre, adornata dei raggi di tanta gran luce, ed echeggi questo tempio delle più sonore voci dei popoli. Perciò, o fratelli dilettissimi, qui presenti allo splendore mirabile di questa luce santa, vi supplico di unirvi a me per invocare la misericordia di Dio onnipotente; affinché dopo avermi accolto nel numero dei suoi Leviti, senza alcun mio merito, mi doni un raggio della sua luce e mi dia la grazia di cantare degnamente le lodi di questo Cero. Per nostro Signore Gesù Cristo Figlio suo, che con Lui vive per tutti i secoli dei secoli.]

3.° Le lezioni. La terza parte dell’uffizio del sabato santo contiene le lezioni. Quando il diacono ha terminato la benedizione del cero pasquale, depone la dalmatica, e vestito del camice e della stola, sale alla tribuna a cantare la prima lezione. Le altre lezioni son cantate de chierici di grado inferiore. Al gran mistero di nostra rigenerazione la Chiesa ha avuto l’intenzione di applicare il senso di queste dodici lezioni, chiamate profezie: esse sono senza titolo in segno di lutto.

Prophetiæ

I. Profezia (Gen. I, 1-31; II, 1-2)

(Come una nuova creazione il Battesimo renderà alle anime i diritti che avevano, prima della caduta di Adamo, nell’Eden)


In princípio creavit Deus cœlum et terram. Terra autem erat inánis et vácua, et ténebræ erant super fáciem abýssi: et Spíritus Dei ferebátur super aquas. Dixítque Deus: Fiat lux. Et facta est lux. Et vidit Deus lucem, quod esset bona: et divísit lucem a ténebris. Appellavítque lucem Diem, et ténebras Noctem: factúmque est véspere et mane, dies unus. Dixit quoque Deus: Fiat firmaméntum in médio aquárum: et dívidat aquas ab aquis. Et fecit Deus firmaméntum, divisítque aquas, quæ erant sub firmaménto,ab his, quæ erant super firmaméntum. Et factum est ita. Vocavítque Deus firmaméntum, Cœlum: et factum est véspere et mane, dies secúndus. Dixit vero Deus: Congregéntur aquæ, quæ sub cœlo sunt, in locum unum: et appáreat árida. Et factum est ita. Et vocávit Deus áridam, Terram: congregationésque aquárum appellávit Maria. Et vidit Deus, quod esset bonum. Et ait: Gérminet terra herbam viréntem et faciéntem semen, et lignum pomíferum fáciens fructum juxta genus suum, cujus semen in semetípso sit super terram. Et factum est ita. Et prótulit terra herbam viréntem et faciéntem semen juxta genus suum, lignúmque fáciens fructum, et habens unumquódque seméntem secúndum spéciem suam. Et vidit Deus, quod esset bonum. Et factum est véspere et mane, dies tértius. Dixit autem Deus: Fiant luminária in firmaménto cœli, et dívidant diem ac noctem, et sint in signa et témpora et dies et annos: ut lúceant in firmaménto cœli, et illúminent terram. Et factum est ita. Fecítque Deus duo luminária magna: lumináre majus, ut præésset diéi: et lumináre minus, ut præésset nocti: et stellas. Et pósuit eas in firmaménto cœli, ut lucérent super terram, et præéssent diéi ac nocti, et divíderent lucem ac ténebras. Et vidit Deus, quod esset bonum. Et factum est véspere et mane, dies quartus. Dixit etiam Deus: Prodúcant aquæ réptile ánimæ vivéntis, et volátile super terram sub firmaménto cæli. Creavítque Deus cete grándia, et omnem ánimam vivéntem atque motábilem, quam prodúxerant aquæ in spécies suas, et omne volátile secúndum genus suum. Et vidit Deus, quod esset bonum. Benedixítque eis, dicens: Créscite et multiplicámini, et repléte aquas maris: avésque multiplicéntur super terram. Et factum est véspere et mane, dies quintus. Dixit quoque Deus: Prodúcat terra ánimam vivéntem in génere suo: juménta et reptília, et béstias terræ secúndum spécies suas. Factúmque est ita. Et fecit Deus béstias terræ juxta spécies suas, et juménta, et omne réptile terræ in génere suo. Et vidit Deus, quod esset bonum, et ait: Faciámus hóminem ad imáginem et similitúdinem nostram: et præsit píscibus maris et volatílibus cœli, et béstiis universæque terræ, omníque réptili, quod movétur in terra. Et creávit Deus hóminem ad imáginem suam: ad imáginem Dei creávit illum, másculum et féminam creávit eos. Benedixítque illis Deus, et ait: Créscite et multiplicámini, et repléte terram, et subjícite eam, et dominámini píscibus maris et volatílibus cœli, et univérsis animántibus, quæ movéntur super terram. Dixítque Deus: Ecce, dedi vobis omnem herbam afferéntem semen super terram, et univérsa ligna, quæ habent in semetípsis seméntem géneris sui, ut sint vobis in escam: et cunctis animántibus terræ, omníque vólucri cœli, et univérsis, quæ movéntur in terra, et in quibus est ánima vivens, ut hábeant ad vescéndum. Et factum est ita. Vidítque Deus cuncta, quæ fécerat: et erant valde bona. Et factum est véspere et mane, dies sextus. Igitur perfécti sunt cœli et terra, et omnis ornátus eórum. Complevítque Deus die séptimo opus suum, quod fécerat: et requiévit die séptimo ab univérso ópere, quod patrárat.

[In principio Dio creò il cielo e la terra. Or la terra era solitudine e caos, e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso, ma lo Spirito di Dio si librava sopra le acque. Allora Dio disse: «Sia la luce». E luce fu. E Dio vide che la luce era buona, e separò la luce dalle tenebre. E diede il nome di Giorno alla luce e di Notte alle tenebre. Così si fece sera e poi mattina: primo giorno. Poi Dio disse: «Ci sia uno strato in mezzo alle acque, e separi le acque dalle acque». E Dio fece lo strato, e separò le acque che erano sotto da quelle che erano sopra lo strato. E così fu. E Dio chiamò Cielo lo strato. Intanto si fece sera e poi mattina: secondo giorno. Poi Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo si radunino in un solo luogo, e appaia l’asciutto». E così fu. E Dio chiamò Terra l’asciutto, e Mare l’ammasso delle acque. E Dio vide che ciò era ben fatto. Quindi disse: «Produca la terra erba verdeggiante che faccia seme, e piante fruttifere che diano frutto secondo la loro specie ed abbiano in se stesse la propria semenza sopra la terra». E così fu. E la terra produsse verdura, erba che fa seme della sua specie, e piante che danno frutto ed hanno ciascuna la semenza secondo la propria specie. E Dio vide che ciò era ben fatto. Intanto si fece sera e poi mattino: terzo giorno. Dio disse ancora: «Vi siano dei luminari nella volta del cielo per distinguere il giorno dalla notte e siano segni dei tempi, dei giorni e degli anni, e risplendano nel firmamento del cielo per far luce sulla terra». E così fu. E Dio fece i due grandi luminari: il luminare maggiore, affinché presiedesse al giorno: il luminare minore, affinché presiedesse alla notte; e fece pure le stelle. E le mise nella volta del cielo, perché dessero luce alla terra e regolassero il giorno e la notte, e separassero la luce dalle tenebre. E Dio vide che ciò era ben fatto. Intanto si fece sera e poi mattino: quarto giorno. Disse poi Dio: «Brulichino le acque di animali e gli uccelli volino sopra la terra, sotto la volta del cielo». E Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli animali viventi striscianti, di cui si popolarono le acque, secondo le loro specie, ed ogni volatile secondo la sua specie. E Dio vide che ciò era ben fatto. E li benedisse, dicendo: «Crescete e moltiplicatevi, e popolate le acque del mare, e si moltiplichino gli uccelli sopra la terra». E intanto si fece sera e poi mattino: quinto giorno. Disse ancora Dio: «Produca la terra animali viventi secondo la loro specie, animali domestici, e rettili e bestie selvatiche della terra, secondo la loro specie». E così fu. E Dio fece le fiere terrestri, secondo la loro specie, e gli animali domestici, e tutti i rettili della terra, secondo la loro specie. E Dio vide che ciò era ben fatto. Poi Dio disse: «Facciamo l’Uomo a nostra immagine e somiglianza, che domini i pesci del mare, i volatili del cielo, le bestie, e tutta la terra, e tutti i rettili che strisciano sopra la terra». Dio creò l’uomo a sua immagine, lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. E Dio li benedì dicendo: «Crescete e moltiplicatevi, e riempite la terra e rendetevela soggetta, e dominate sui pesci del mare, e sui volatili del cielo, e sopra tutti gli animali che si muovono sulla terra». E Dio disse: «Ecco io vi do tutte le erbe che fanno seme sulla terra e tutte le piante che hanno in se stesse semenza della loro specie, perché servano di cibo a voi; e a tutti gli animali della terra, e a tutti gli uccelli del cielo e a quanto si muove sulla terra ed ha in sé anima vivente, affinché abbiano da mangiare». E così fu. E Dio vide tutte le cose che aveva fatte; ed esse erano molto buone. Intanto si fece sera e poi mattino: sesto giorno. Così furono compiuti i cieli e la terra e tutto il loro assetto. E Dio nel settimo giorno finì l’opera che aveva fatta e nel settimo giorno si riposò da tutte le opere che aveva compiute].

II. Profezia (Gen. V, 32 – VIII, 8, 21)

(Dio, per mezzo del Battesimo fa entrare le anime nella Chiesa, che è l’arca di salvezza)

Noë vero cum quingentórum esset annórum, génuit Sem, Cham et Japheth. Cumque cœpíssent hómines multiplicári super terram et fílias procreássent, vidéntes fílii Dei fílias hóminum, quod essent pulchræ, accepérunt sibi uxóres ex ómnibus, quas elégerant. Dixítque Deus: Non permanébit spíritus meus in hómine in ætérnum,quia caro est: erúntque dies illíus centum vigínti annórum. Gigántes autem erant super terram in diébus illis. Postquam enim ingréssi sunt fílii Dei ad fílias hóminum illæque genuérunt, isti sunt poténtes a sǽculo viri famósi. Videns autem Deus, quod multa malítia hóminum esset in terra, et cuncta cogitátio cordis inténta esset ad malum omni témpore, pænítuit eum, quod hóminem fecísset in terra. Et tactus dolóre cordis intrínsecus: Delébo, inquit, hóminem, quem creávi, a fácie terræ, ab hómine usque ad animántia, a réptili usque ad vólucres cœli; pænitet enim me fecísse eos. Noë vero invénit grátiam coram Dómino. Hæ sunt generatiónes Noë: Noë vir justus atque perféctus fuit in generatiónibus suis, cum Deo ambulávit. Et génuit tres fílios, Sem, Cham et Japheth. Corrúpta est autem terra coram Deo et repléta est iniquitáte. Cumque vidísset Deus terram esse corrúptam , dixit ad Noë: Finis univérsæ carnis venit coram me: repléta est terra iniquitáte a fácie eórum, et ego dispérdam eos cum terra. Fac tibi arcam de lignis lævigátis: mansiúnculas in arca fácies, et bitúmine línies intrínsecus et extrínsecus. Et sic fácies eam: Trecentórum cubitórum erit longitúdo arcæ, quinquagínta cubitórum latitúdo, et trigínta cubilórum altitúdo illíus. Fenéstram in arca fácies, et in cúbito consummábis summitátem ejus: óstium autem arcæ pones ex látere: deórsum cenácula et trístega fácies in ea. Ecce, ego addúcam aquas dilúvii super terram, ut interfíciam omnem carnem, in qua spíritus vitæ est subter cœlum. Univérsa, quæ in terra sunt, consuméntur. Ponámque fœdus meum tecum: et ingrédiens arcam tu et fílii tui, uxor tua et uxóres filiórum tuórum tecum. Et ex cunctis animántibus univérsæ carnis bina indúces in arcam, ut vivant tecum: masculíni sexus et feminíni. De volúcribus juxta genus suum, et de juméntis in génere suo, et ex omni réptili terræ secúndum genus suum: bina de ómnibus ingrediántur tecum, ut possint vívere. Tolles ígitur tecum ex ómnibus escis, quæ mandi possunt, et comportábis apud te: et erunt tam tibi quam illis in cibum. Fecit ígitur Noë ómnia, quæ præcéperat illi Deus. Erátque sexcentórum annórum, quando dilúvii aquæ inundavérunt super terram. Rupti sunt omnes fontes abýssi magnæ, et cataráctæ cœli apértæ sunt: et facta est plúvia super terram quadragínta diébus et quadragínta nóctibus. In artículo diei illíus ingréssus est Noë, et Sem et Cham et Japheth, fílii ejus, uxor illíus et tres uxóres filiórum ejus cum eis in arcam: ipsi, et omne ánimal secúndum genus suum, univérsaque juménta in génere suo, et omne, quod movétur super terram in génere suo, cunctúmque volátile secúndum genus suum. Porro arca ferebátur super aquas. Et aquæ prævaluérunt nimis super terram: opertíque sunt omnes montes excélsi sub univérso cœlo. Quíndecim cúbitis áltior fuit aqua super montes, quos operúerat. Consúmptaque est omnis caro, quæ movebátur super terram, vólucrum, animántium, bestiárum, omniúmque reptílium, quæ reptant super terram. Remánsit autem solus Noë, et qui cum eo erant in arca. Obtinuerúntque aquæ terram centum quinquagínta diébus. Recordátus autem Deus Noë, cunctorúmque animántium et ómnium jumentórum, quæ erant cum eo in arca, addúxit spíritum super terram, et imminútæ sunt aquæ. Et clausi sunt fontes abýssi et cataráctæ cœli: et prohíbitæ sunt plúviæ de cœlo. Reversæque sunt aquæ de terra eúntes et redeúntes: et cœpérunt mínui post centum quinquagínta dies. Cumque transíssent quadragínta dies, apériens Nœ fenéstram arcæ, quam fécerat, dimísit corvum, qui egrediebátur, et non revertebátur, donec siccaréntur aquæ super terram. Emísit quoque colúmbam post eum, ut vidéret, si jam cessássent aquæ super fáciem terræ. Quæ cum non invenísset, ubi requiésceret pes ejus, revérsa est ad eum in arcam: aquæ enim erant super univérsam terram: extendítque manum et apprehénsam íntulit in arcam. Exspectátis autem ultra septem diébus áliis, rursum dimisit colúmbam ex arca. At illa venit ad eum ad vésperam, portans ramum olívæ viréntibus fóliis in ore suo. Intelléxit ergo Noë, quod cessássent aquæ super terram. Exspectavítque nihilminus septem álios dies: et emísit colúmbam, quæ non est revérsa ultra ad eum. Locútus est autem Deus ad Noë, dicens: Egrédere de arca, tu et uxor tua, fílii tui et uxóres filiórum tuórum tecum. Cuncta animántia, quæ sunt apud te, ex omni carne, tam in volatílibus quam in béstiis et univérsis reptílibus, quæ reptant super terram, educ tecum, et ingredímini super terram: créscite et multiplicámini super eam. Egréssus est ergo Noë et fílii ejus, uxor illíus et uxóres filiórum ejus cum eo. Sed et ómnia animántia, juménta et reptília, quæ reptant super terram, secúndum genus suum, egréssa sunt de arca. Ædificávit autem Noë altáre Dómino: et tollens de cunctis pecóribus et volúcribus mundis, óbtulit holocáusta super altáre. Odoratúsque est Dóminus odórem suavitátis.

[Noè, essendo in età di cinquecento anni, generò Sem, Cam e Jafet. E avendo principiato gli uomini a moltiplicarsi sopra la terra e avendo procreato delle figliuole, vedendo i figliuoli di Dio la bellezza delle figliuole degli uomini presero per loro mogli quelle che più di tutte loro piacevano. E disse il Signore : Non rimarrà il mio spirito per sempre nell’uomo, perché egli è carne e i suoi giorni saranno solamente di cento veti anni. In quel tempo vi erano sopra la terra dei giganti: poiché, dopo che si accostarono i figliuoli di Dio alle figliuole degli uomini, esse generarono, e ne vennero questi uomini, forti e robusti, famosi nei secoli. — Vedendo dunque Dio quanto grande era la malizia degli uomini sopra la terra, e tutti i pensieri del loro cuore erano continuamente intesi al mal fare, si pentì d’aver fatto l’uomo. E preso come da un intimo strazio a! cuore: Sterminerò, disse egli, l’uomo da me creato dalla faccia della terra, dall’uomo sino agli animali, dai rettili fino agli uccelli dell’aria; poiché mi pento di averli fatti. — Ma Noè trovò grazia dinanzi al Signore. Questa è la Ascendenza di Noè. Noè fu uomo giusto e perfetto nei suoi, tempi, e camminò con Dio. E generò tre figliuoli: Sem, Cam e Jafet. Ma era corrotta la terra davanti a Dio e ripiena d’iniquità. E avendo veduto Dio come la terra era corrotta, poiché ogni uomo era corrotto nella sua maniera di vivere sulla terra, disse a Noè: Nei miei decreti è imminente la fine di tutti gli uomini; la terra è ripiena d’iniquità per opera loro, e io li sterminerò insieme con la terra. Tu costruirai un’arca con legni lavorati; tu farai delle piccole stanze nell’arca e la invernicerai di bitume di dentro e di fuori. E in questo modo la farai: la lunghezza dell’arca sarà di trecento cubiti, di cinquanta cubiti la larghezza e di trenta l’altezza. Farai una finestra nell’arca e il tetto dell’arca lo farai che vada alzandosi fino ad un cubito. La porta poi dell’arca la farai da un lato; vi farai un piano in fondo, un secondo piano e un terzo piano. Ecco che io manderò le acque del diluvio sopra la terra ad uccidere tutti gli animali che hanno spirito di vita sotto il cielo: tutto quello che è sopra la terra andrà in perdizione. Ma io farò un patto con te ed entrerai nell’arca tu, e i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. E di tutti gli animali d’ogni specie, ne farai entrare nell’arca una coppia, un maschio e una femmina, affinché si salvino con te. Degli uccelli secondo la specie e delle bestie di ogni specie, e di tutti i rettili della terra secondo la loro specie, due entreranno nell’arca con te, affinché possano conservarsi. Prenderai dunque con te di tutte quelle cose che si possono mangiare, e le porterai in questa tua casa e serviranno a te e a loro di cibo. Fece dunque Noè tutto quello che gli aveva comandato il Signore. Ed. egli era in età di seicento anni allorché le acque del diluvio inondarono la terra. Si squarciarono allora tutte le sorgenti del grande abisso, e le cateratte del cielo si aprirono: e piovve sopra la terra per quaranta giorni e quaranta notti. In quello stesso giorno entrò Noè e Sem, Cam e Jafet suoi figliuoli, la moglie di lui e le tre mogli dei suoi figliuoli con essi nell’arca: essi e tutti gli animali secondo la loro specie, e tutto quello che si muove sopra la terra secondo la loro specie. Ora l’arca galleggiava sopra le acque. E le acque ingrossarono fuor di misura sopra la terra: e rimasero coperti tutti i monti più alti sotto il cielo, Quindici cubiti si alzò l’acqua sopra i monti che aveva ricoperti. E restò consunta ogni carne che ha moto sopra la terra, gli uccelli, gli animali; le bestie e tutti i rettili che strisciano sopra la terra: e rimase solo Noè e quelli che con lui erano nell’arca. Le acque occuparono la terra per centocinquanta giorni, ma ricordandosi il Signore di Noè e di tutti gli animali e di tutte le bestie che erano con essi nell’arca, mandò il vento sulla terra, e si abbassarono le acque. E furono chiuse le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo, e si arrestarono le piogge dal cielo. E si ritirarono le acque dalla terra andando e venendo: e cominciarono a scemare dopo centocinquanta giorni. E passati quaranta giorni, Noè, aperta la finestra che egli aveva fatta nell’arca, mandò fuori il corvo, il quale uscì e non tornò fino a tanto che le acque non s’asciugarono sulla terra. Mandò ancora dopo di esso la colomba per vedere se fossero sparite le acque sopra la faccia della terra. Ma la colomba, non avendo trovato ove posare il suo piede tornò a lui nell’arca: poiché le acque erano per tutta la terra: egli stese la mano e presala, la mise dentro l’arca. E avendo aspettato altri sette giorni, di nuovo mandò la colomba fuori dell’arca; ed ella tornò a lui alla sera portando in bocca un ramo d’olivo con verdi foglie. Comprese allora Noè che erano cessate le acque sopra la terra e aspettò non di meno altri sette giorni e rimandò la colomba, la quale non tornò più a lui. E parlò Dio a Noè dicendo: Esci dall’arca tu e tua moglie, i figli tuoi e le mogli dei tuoi figli con te. Tutti gli animali che sono presso di te d’ogni specie, sia di volatili sia di bestie o di rettili striscianti sulla terra, conducili con te; rientrate sulla terra: crescete e moltiplicatevi. E Noè usci coi figliuoli e sua moglie e le mogli dei suoi figli con lui. E tutti, con gli animali e le bestie e i rettili che strisciano sulla terra secondo la loro specie, uscirono dall’arca. E Noè edificò un altare al Signore e, presi tutti gli animali e uccelli mondi, ne offrì in olocausto sopra l’altare. E il Signore gradì il soave odore.]

III. Profezia (Gen. XXII, 1-19)

(Col Battesimo e con la fede in Gesù Cristo i neofiti divengono i figli che Dio aveva promesso ad Abramo)

In diébus illis: Tentávit Deus Abraham, et dixit ad eum: Abraham, Abraham. At ille respóndit: Adsum. Ait illi: Tolle fílium tuum unigénitum, quem diligis, Isaac, et vade in terram visiónis: atque ibi ófferes eum in holocáustum super unum móntium, quem monstrávero tibi. Igitur Abraham de nocte consúrgens, stravit ásinum suum: ducens secum duos júvenes et Isaac, fílium suum. Cumque concidísset ligna in holocáustum, ábiit ad locum, quem præcéperat ei Deus. Die autem tértio,elevátis óculis, vidit locum procul: dixítque ad púeros suos: Exspectáte hic cum ásino: ego et puer illuc usque properántes, postquam adoravérimus, revertémur ad vos. Tulit quoque ligna holocáusti, et impósuit super Isaac, fílium suum: ipse vero portábat in mánibus ignem et gládium. Cumque duo pérgerent simul, dixit Isaac patri suo: Pater mi. At ille respóndit: Quid vis, fili? Ecce, inquit, ignis et ligna: ubi est víctima holocáusti? Dixit autem Abraham: Deus providébit sibi víctimam holocáusti, fili mi. Pergébant ergo páriter: et venérunt ad locum, quem osténderat ei Deus, in quo ædificávit altáre et désuper ligna compósuit: cumque alligásset Isaac, fílium suum, pósuit eum in altare super struem lignórum. Extendítque manum et arrípuit gládium, ut immoláret fílium suum. Et ecce, Angelus Dómini de cœlo clamávit, dicens: Abraham, Abraham. Qui respóndit: Adsum. Dixítque ei: Non exténdas manum tuam super púerum neque fácias illi quidquam: nunc cognóvi, quod times Deum, et non pepercísti unigénito fílio tuo propter me. Levávit Abraham óculos suos, vidítque post tergum aríetem inter vepres hæréntem córnibus, quem assúmens óbtulit holocáustum pro fílio. Appellavítque nomen loci illíus, Dóminus videt. Unde usque hódie dícitur: In monte Dóminus vidébit. Vocávit autem Angelus Dómini Abraham secúndo de cœlo, dicens: Per memetípsum jurávi, dicit Dóminus: quia fecísti hanc rem, et non pepercísti fílio tuo unigénito propter me: benedícam tibi, et multiplicábo semen tuum sicut stellas cœli et velut arénam, quæ est in lítore maris: possidébit semen tuum portas inimicórum suórum, et benedicéntur in sémine tuo omnes gentes terræ, quia obœdísti voci meæ. Revérsus est Abraham ad púeros suos, abierúntque Bersabée simul, et habitávit ibi.

[In quei giorni Dio provò Abramo e gli disse: Abramo, Abramo. Ed egli rispose: Eccomi. E Dio gli disse: Prendi il tuo figlio unigenito, il diletto Isacco, e va nella terra della visione e ivi lo offrirai in olocausto sopra uno dei monti che io ti indicherò. Abramo, dunque, mentre era ancora notte alzatosi, preparò il suo asino e prese con se due servi e Isacco suo figliuolo: e tagliate le legna per l’olocausto, s’incamminò verso il luogo assegnatogli da Dio. E il terzo giorno, alzati gli occhi, vide il luogo da lungi e disse ai suoi servi: aspettate qui con l’asino: io e il fanciullo andremo fin là con prestezza; e, come avremo fatto adorazione, torneremo da voi. Prese anche la legna per l’olocausto e la pose addosso a Isacco suo figliuolo: egli poi portava colle sue mani il fuoco e il coltello. E mentre tutti e due camminavano insieme, disse Isacco a suo padre: Padre mio. E quegli rispose: Che vuoi figliuolo? Ecco, disse quegli, il fuoco e la legna: dov’è la vittima dell’olocausto ? E Abramo soggiunse: Dio ci provvederà la vittima per l’olocausto, figliuolo mio. Andavano dunque innanzi assieme. E giunti al luogo mostrato a lui da Dio, edificò un altare e sopra vi accomodò la legna, e avendo legato Isacco, suo figlio, lo collocò sull’altare, sopra il mucchio della legna.. E stese la mano, e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma ecco l’Angelo del Signore dal cielo gridò, dicendo: Abramo, Abramo. E questi rispose: Eccomi. E quegli a lui disse: Non stendere le tue mani sopra il .fanciullo e non fare a lui male alcuno; adesso ho conosciuto che tu temi Iddio e non hai risparmiato il figliuolo tuo unigenito per me. Alzò Abramo gli occhi e vide dietro a se un ariete che si dimenava tra i pruni e presolo per le corna, lo tolse e lo offerse in olocausto invece del figlio, e a quel luogo pose nome: il Signore vede! Donde fin a quest’oggi si dice: Sul monte il Signore provvederà. Per la seconda volta l’Angelo del Signore chiamò Abramo dal cielo dicendo: Per me medesimo ho giurato, dice il Signore: giacche hai fatto una tal cosa e non hai perdonato al tuo figlio unigenito per me, io ti benedirò e moltiplicherò la tua stirpe come le stelle del cielo e come l’arena che è sul lido del mare; s’impadronirà la tua stirpe delle porte dei suoi nemici; e nella tua discendenza benedette saranno tutte le nazioni della terra, perché hai ubbidito alla mia voce. Tornò Abramo dai suoi servi: e se ne andarono insieme a Bersabea, ove egli abitò]

IV Profezia (Es. XIV, 24-31; XV, 1)

(Col Battesimo Gesù strappa i catecumeni dal giogo di satana; come Mosè liberò gli Israeliti dalla schiavitù dell’Egitto)

In diébus illis: Factum est in vigília matutina, et ecce, respíciens Dóminus super castra Ægyptiórum per colúmnam ignis et nubis, interfécit exércitum eórum: et subvértit rotas cúrruum, ferebantúrque in profúndum. Dixérunt ergo Ægýptii: Fugiámus Israélem: Dóminus enim pugnat pro eis contra nos. Et ait Dóminus ad Móysen: Exténde manum tuam super mare, ut revertántur aquæ ad Ægýptios super currus et équites eórum. Cumque extendísset Moyses manum contra mare, revérsum est primo dilúculo ad priórem locum: fugientibúsque Ægýptiis occurrérunt aquæ, et invólvit eos Dóminus in médiis flúctibus. Reversæque sunt aquæ, et operuérunt currus, et équites cuncti exércitus Pharaónis, qui sequéntes ingréssi fúerant mare: nec unus quidem supérfuit ex eis. Fílii autem Israël perrexérunt per médium sicci maris, et aquæ eis erant quasi pro muro a dextris et a sinístris: liberavítque Dóminus in die illa Israël de manu Ægyptiórum. Et vidérunt Ægýptios mórtuos super litus maris, et manum magnam, quam exercúerat Dóminus contra eos: timuítque pópulus Dóminum, et credidérunt Dómino et Moysi, servo ejus. Tunc cécinit Moyses et fílii Israël carmen hoc Dómino, et dixérunt: Cantémus Dómino: glorióse enim honorificátus est: equum et ascensórem projécit in mare: adjútor et protéctor factus est mihi in salútem,

V. Hic Deus meus, et honorificábo eum: Deus patris mei, et exaltábo eum.
V. Dóminus cónterens bella: Dóminus nomen est illi.

[In quei giorni, era già la vigilia del mattino, e il Signore da una nuvola di fuoco guardò verso il campo degli Egiziani e lo scompigliò. Fece rovesciare le ruote dei cocchi, che erano trascinati nel profondo. Dissero allora gli Egiziani: «Fuggiamo Israele, perché il Signore combatte per loro contro di noi!». E il Signore disse a Mosè: «Stendi la tua mano sopra il mare, affinché le acque si rovescino sugli Egiziani, sopra i loro cocchi e i loro cavalieri». E avendo Mosè stesa la mano verso il mare, sul far della mattina, il mare tornò al suo posto di prima, e le acque piombarono addosso agli Egiziani che fuggivano: così il Signore li travolse in mezzo ai flutti. E le acque, ritornando, coprirono i cocchi e i cavalieri di tutto l’esercito del Faraone, che per inseguire erano entrati nel mare: né un solo di loro scampò. Ma i figli d’Israele camminarono sull’asciutto nel mezzo del mare, e le acque erano per loro come un muro a destra e a sinistra. Così in quel giorno il Signore liberò Israele dalle mani degli Egiziani. E gli Israeliti videro sul lido del mare gli Egiziani morti e la grande potenza che il Signore aveva dispiegato contro di essi. E il popolo temè il Signore e credettero al Signore e a Mosè, suo servo. E allora Mosè cantò coi figli d’Israele questo cantico al Signore, dicendo: Cantiamo al Signore perché si è maestosamente glorificato; ha precipitato in mare cavallo e cavaliere. Il Signore è la mia forza ed il mio cantico;


V. Egli è il mio Dio e lo glorificherò; il Dio di mio padre e Lo esalterò.
V. Il Signore debella le guerre: il suo nome è l’Onnipotente]

V Profezia (Is. LIV, 17- LV. 11)

(Con il Battesimo le anime fanno parte del nuovo popolo col quale Dio stringe un’alleanza infinitamente superiore a quella del Sinai)

Hæc est heréditas servórum Dómini: et justítia eórum apud me, dicit Dóminus. Omnes sitiéntes, veníte ad aquas: et qui non habétis argéntum, properáte, émite et comédite: veníte, émite absque argénto et absque ulla commutatióne vinum et lac. Quare appénditis argéntum non in pánibus, et labórem vestrum non in saturitáte? Audíte audiéntes me, et comédite bonum, et delectábitur in crassitúdine ánima vestra. Inclináte aurem vestram, et veníte ad me: audíte, et vivet ánima vestra, et fériam vobíscum pactum sempitérnum, misericórdias David fidéles. Ecce, testem pópulis dedi eum, ducem ac præceptórem géntibus. Ecce, gentem, quam nesciébas, vocábis: et gentes, quæ te non cognovérunt, ad te current propter Dóminum, Deum tuum, et sanctum Israël, quia glorificávit te. Quærite Dóminum, dum inveníri potest: invocáte eum, dum prope est. Derelínquat ímpius viam suam et vir iníquus cogitatiónes suas, et revertátur ad Dóminum, et miserébitur ejus, et ad Deum nostrum: quóniam multus est ad ignoscéndum. Non enim cogitatiónes meæ cogitatiónes vestræ: neque viæ vestræ viæ meæ, dicit Dóminus. Quia sicut exaltántur cœli a terra, sic exaltátæ sunt viæ meæ a viis vestris, et cogitatiónes meæ a cogitatiónibus vestris. Et quómodo descéndit imber et nix de cœlo, et illuc ultra non revértitur, sed inébriat terram, et infúndit eam, et germináre eam facit, et dat semen serénti et panem comedénti: sic erit verbum meum, quod egrediátur de ore meo: non revertátur ad me vácuum, sed fáciet, quæcúmque volui, et prosperábitur in his, ad quæ misi illud: dicit Dóminus omnípotens.

[Questa è l’eredità dei servi del Signore, e la loro giustizia è affidata a me, dice il Signore. Voi tutti che avete sete venite alle acque; e voi che non avete argento fate presto, comprate e mangiate venite, comprate senza argento e senz’altra permuta, del vino e del latte; per qual motivo spendete voi il vostro argento in cose che non sono pane e la vostra fatica in ciò che non vi sazia? Con docilità ascoltatemi e cibatevi di buon cibo; l’anima vostra si delizierà nel sostanzioso, nutrimento. Porgete l’orecchio vostro e venite a me: Udite, e vivrà l’anima vostra, ed io stabilirò con voi un patto eterno, l’adempimento delle misericordie assicurate a David. Ecco che ho dato lui per testimoniare ai Popoli, condottiero e maestro delle nazioni. Ecco che quel popolo che tu non riconoscevi, tu lo chiamerai; le genti che non ti conoscevano, a te correranno per amor del Signore Dio tuo, e del santo d’Israele, perché ti ha glorificato. Cercate il Signore mentre lo si può trovare: invocatelo mentre egli è vicino. Abbandoni l’empio, la via sua, e l’iniquo i suoi maligni progetti, e ritorni al Signore, il quale avrà misericordia di lui; al nostro Dio, che è largo nel perdonare. Poiché i pensieri miei non sono i pensieri vostri, ne le vie vostre son le vie mie, dice il Signore. Poiché di quanto il cielo sovrasta alla terra, tanto sovrastano le mie vie alle vostre e i miei pensieri ai pensieri vostri. E come scende la pioggia e la neve dal cielo e lassù non ritorna, ma inebria la terra e la bagna e la fa germogliare affinché dia il seme da seminare e il pane da mangiare; così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: essa non tornerà a me senza frutto, ma opererà tutto quello che io voglio, e felicemente adempirà quelle cose per le quali io l’ho mandata: così dice il Signore onnipotente.]

VI. Profezia (Bar. III, 9-22)

(Le anime battezzate gioiranno in una pace eterna se osserveranno le lezioni di vita e di sapienza che a Chiesa dà loro in nome di Dio)

Audi, Israël, mandáta vitæ: áuribus pércipe, ut scias prudéntiam. Quid est, Israël, quod in terra inimicórum es? Inveterásti in terra aliéna, coinquinátus es cum mórtuis: deputátus es cum descendéntibus in inférnum. Dereliquísti fontem sapiéntiæ. Nam si in via Dei ambulásses, habitásses útique in pace sempitérna. Disce, ubi sit prudéntia, ubi sit virtus, ubi sit intelléctus: ut scias simul, ubi sit longitúrnitas vitæ et victus, ubi sit lumen oculórum et pax. Quis invénit locum ejus? et quis intrávit in thesáuros ejus? Ubi sunt príncipes géntium, et qui dominántur super béstias, quæ sunt super terram? qui in ávibus cœli ludunt, qui argéntum thesaurízant et aurum, in quo confídunt hómines, et non est finis acquisitiónis eórum? qui argéntum fábricant, et sollíciti sunt, nec est invéntio óperum illórum? Extermináti sunt, et ad ínferos descendérunt, et álii loco eórum surrexérunt. Júvenes vidérunt lumen, et habitavérunt super terram: viam autem disciplínæ ignoravérunt, neque intellexérunt sémitas ejus, neque fílii eórum suscepérunt eam, a fácie ipsórum longe facta est: non est audíta in terra Chánaan, neque visa est in Theman. Fílii quoque Agar, qui exquírunt prudéntiam, quæ de terra est, negotiatóres Merrhæ et Theman, et fabulatóres, et exquisitóres prudéntiæ et intellegéntias: viam autem sapiéntiæ nesciérunt, neque commemoráti sunt sémitas ejus. O Israël, quam magna est domus Dei et ingens locus possessiónis ejus! Magnus est et non habet finem: excélsus et imménsus. Ibi fuérunt gigántes nomináti illi, qui ab inítio fuérunt, statúra magna, sciéntes bellum. Non hos elegit Dóminus, neque viam disciplínæ invenérunt: proptérea periérunt. Et quóniam non habuérunt sapiéntiam, interiérunt propter suam insipiéntiam. Quis ascéndit in cœlum, et accépit eam et edúxit eam de núbibus? Quis transfretávit mare, et invénit illam? et áttulit illam super aurum eléctum? Non est, qui possit scire vias ejus neque qui exquírat sémitas ejus: sed qui scit univérsa, novit eam et adinvénit eam prudéntia sua: qui præparávit terram in ætérno témpore, et replévit eam pecúdibus et quadrupédibus: qui emíttit lumen, et vadit: et vocávit illud, et obædit illi in tremóre. Stellæ autem dedérunt lumen in custódiis suis, et lætátæ sunt: vocátæ sunt, et dixérunt: Adsumus: et luxérunt ei cum jucunditáte, qui fecit illas. Hic est Deus noster, et non æstimábitur álius advérsus eum. Hic adinvénit omnem viam disciplínæ, et trádidit illam Jacob púero suo et Israël dilécto suo. Post hæc in terris visus est, et cum homínibus conversátus est.

[Ascolta, o Israele, i comandamenti di vita; porgi le orecchie ad imparare la prudenza: quale è la ragione, o Israele, per la quale tu sei in terra nemica? Tu invecchi in paese straniero, sei contaminato tra i morti, sei stato contuso con quelli che scendono nella fossa. Infatti tu abbandonasti la fonte della sapienza. Poiché se tu avessi camminato per la via di Dio, saresti vissuto in una pace eterna. Impara dove sia la prudenza, dove sia la fortezza, dove sia l’intelligenza; affinché sappia a un tempo dove sia la lunghezza della vita e il nutrimento, dove sia il lume degli occhi e la pace. Chi trovò la sede di essa? E chi penetrò nei tesori di lei? Dove sono i principi delle nazioni e coloro che dominano sopra le bestie della terra? Coloro che coi volatili del cielo scherzano; coloro che tesoreggiano argento ed oro, in cui confidano gli uomini, né mai finiscono di procacciarsene? coloro che lavorano l’argento, e gran pensiero se ne danno e non hanno termine le opere loro? Furono sterminati e discesero negli abissi e a loro altri succedettero. Questi, giovani, videro la luce e abitarono sopra la terra, ma la via della disciplina non conobbero e non ne compresero la direzione, né i loro figli l’abbracciarono; essa andò lungi da essi, di lei non si udì più parola nella terra di Canaan, non fu veduta in Theman. I figli ancora di Agar, che cercano la prudenza che viene dalla terra, e i negozianti di Merrha e di Theman e i favoleggiatori e gli scopritori della prudenza e della intelligenza, non conobbero la via della sapienza; né fecero tesoro dei suoi ammaestramenti. O Israele, quanto grande è la casa di Dio, e quanto grande è il luogo del suo dominio! Grande egli è e non ha termine: eccelso e immenso. Ivi furono quei giganti famosi che da principio furono di statura grande, maestri di guerra. Non scelse questi il Signore, né questi trovarono la via della disciplina; per questo perirono. E perché non ebbero la sapienza, perirono per la loro stoltezza. Chi salì al cielo e ne fece acquisto, e chi la trasse dalle nubi? Chi varcò il mare e la trovò e la portò a preferenza dell’oro più fino? Non è chi possa conoscere le vie di lei, né chi comprenda i suoi sentieri. Colui che sa tutto la conosce e la discoprì con la sua prudenza; colui che fondò la terra per l’eternità e la riempì di animali e di quadrupedi, colui che manda la luce ed essa va, la chiama ed essa ubbidisce a lui con tremore. Le stelle diffusero dai loro posti il loro lume, e ne furono liete: chiamate, dissero : Eccoci, e risplenderono con gioia per lui che le creò. Questi è il Dio nostro e nessun altro può essere messo in paragone con lui, questi fu l’inventore della via della disciplina e la insegno a Giacobbe suo servo, e ad Israele suo diletto. Dopo tali cose egli fu visto sopra la terra, e con gli uomini ha conversato.]

VII. Profezia (Ezech., XXXVII, 1-14)

(Il Battesimo infonde una nuova via nelle anime che il peccato aveva fatto morire, ciò è raffigurato dalle ossa disseccate che al comando di Ezechiele si rizzano, si rivestono di carne e divengono un’armata potente)

In diébus illis: Facta est super me manus Dómini, et edúxit me in spíritu Dómini: et dimísit me in médio campi, qui erat plenus óssibus: et circumdúxit me per ea in gyro: erant autem multa valde super fáciem campi síccaque veheménter. Et dixit ad me: Fili hóminis, putásne vivent ossa ista? Et dixi: Dómine Deus, tu nosti. Et dixit ad me: Vaticináre de óssibus istis: et dices eis: Ossa árida, audíte verbum Dómini. Hæc dicit Dóminus Deus óssibus his: Ecce, ego intromíttam in vos spíritum, et vivétis. Et dabo super vos nervos, et succréscere fáciam super vos carnes, et superexténdam in vobis cutem: et dabo vobis spíritum, et vivétis, et sciétis, quia ego Dóminus. Et prophetávi, sicut præcéperat mihi: factus est autem sónitus prophetánte me, et ecce commótio: et accessérunt ossa ad ossa, unumquódque ad junctúram suam. Et vidi, et ecce, super ea nervi et carnes ascendérunt: et exténta est in eis cutis désuper, et spíritum non habébant. Et dixit ad me: Vaticináre ad spíritum, vaticináre, fili hóminis, et dices ad spíritum: Hæc dicit Dóminus Deus: A quátuor ventis veni, spíritus, et insúffla super interféctos istos, et revivíscant. Et prophetávi, sicut præcéperat mihi: et ingréssus est in ea spíritus, et vixérunt: steterúntque super pedes suos exércitus grandis nimis valde. Et dixit ad me: Fili hóminis, ossa hæc univérsa, domus Israël est: ipsi dicunt: Aruérunt ossa nostra, et périit spes nostra, et abscíssi sumus. Proptérea vaticináre, et dices ad eos: Hæc dicit Dóminus Deus: Ecce, ego apériam túmulos vestros, et edúcam vos de sepúlcris vestris, pópulus meus: et indúcam vos in terram Israël. Et sciétis, quia ego Dóminus, cum aperúero sepúlcra vestra et edúxero vos de túmulis vestris, pópule meus: et dédero spíritum meum in vobis, et vixéritis, et requiéscere vos fáciam super humum vestram: dicit Dóminus omnípotens.

[In quei giorni la mano del Signore fu sopra di me: e lo spirito del Signore mi trasse fuori e mi posò in mezzo ad un campo che era pieno di ossa e mi fece girare intorno ad esso: esse poi erano in gran quantità sulla faccia del campo e molto inaridite: e disse a me: Figlio dell’uomo, pensi tu che possano riavere vita queste ossa? Ed io dissi: Signore Dio, tu lo sai. Ed egli disse a me: Profetizza sopra queste ossa e dirai loro: Ossa aride, udite la parola del Signore: queste cose dice il Signore Dio a queste ossa. Ecco che io infonderò in voi lo spirito e avrete la vita. E farò risalire su di voi i nervi e ricrescere sopra di voi le carni, e sopra di voi stenderò la pelle e darò a voi lo spirito, e vivrete e conoscerete che io sono il Signore. E profetai come egli mi aveva ordinato e mentre io profetavo, si udì uno strepito, ed ecco un brulichio: e si accostarono ossa ad ossa, ciascuna alla propria giuntura. E mirai, ed ecco sopra di esse i nervi e le carni vennero e si distese sopra di loro la pelle; ma non avevano spirito. Allora mi disse: Profetizza allo spirito, profetizza. figlio dell’uomo e dirai allo spirito: queste cose dice il Signore Iddio: Dai quattro venti vieni, o spirito, e soffia sopra questi morti ed essi rivivranno. E profetai come egli mi aveva comandato ed entrò in quelli lo spirito e riebbero la vita e stettero sui piedi loro, un esercito grande fuor di misura. Ed egli disse a me: Figlio dell’uomo, tutte queste ossa sono figli di Israele: essi dicono: Aride sono le ossa nostre, ed è perita la nostra speranza, e noi siamo troncati: per questo tu profetizza e dirai loro: queste cose dice il Signore: Ecco che io aprirò le vostre tombe e vi trarrò fuori dai vostri sepolcri, popolo mio, e vi condurrò nella terra d’Israele. E conoscerete che io sono il Signore allorquando avrò aperto i vostri sepolcri e vi avrò tratti dai sepolcri vostri, popolo mio, ed avrò infuso il mio spirito in voi, e vivrete, e vi avrò dato riposo nella terra vostra, dice il Signore, onnipotente.]

VIII. Profezia (Is. IV, 1-6)

(Isaia, dopo un cenno alla vedovanza e al celibato forzato delle vanitose donne di Gerusalemme, prive di uomini per la guerra, parla delle promesse messianiche.)

Apprehéndent septem mulíeres virum unum in die illa, dicéntes: Panem nostrum comedémus et vestiméntis nostris operiémur: tantúmmodo invocétur nomen tuum super nos, aufer oppróbrium nostrum. In die illa erit germen Dómini in magnificéntia et glória, et fructus terræ súblimis, et exsultátio his, qui salváti fúerint de Israël. Et erit: Omnis, qui relíctus fúerit in Sion et resíduus in Jerúsalem, sanctus vocábitur, omnis, qui scriptus est in vita in Jerúsalem. Si ablúerit Dóminus sordes filiárum Sion, et sánguinem Jerúsalem láverit de médio ejus, in spíritu judícii et spíritu ardóris. Et creábit Dóminus super omnem locum montis Sion, et ubi invocátus est, nubem per diem, et fumum et splendórem ignis flammántis in nocte: super omnem enim glóriam protéctio. Et tabernáculum erit in umbráculum diéi ab æstu, et in securitátem et absconsiónem a túrbine et a plúvia.

[Sette donne si disputeranno un sol uomo in quel giorno dicendo: Noi mangeremo il nostro pane, del nostro ci vestiremo; solamente dacci il tuo nome, togli la nostra confusione. In quel giorno il «Germoglio del Signore sarà in magnificenza e gloria, e il «Frutto della terra» sarà il sublime vanto e la gioia dei salvati d’Israele. Tutti quelli restati in Sion, quelli rimasti in Gerusalemme, saranno chiamati santi, tutti quelli inscritti per la vita saranno in Gerusalemme . Quando il Signore avrà lavata dalle macchie la figlia di Sion, e Gerusalemme dal sangue che è in mezzo ad essa con lo spirito di giustizia e lo spirito di fuoco, il Signore allora creerà sopra tutto il monte di Sion, e dovunque sarà invocato, una nuvola di fumo durante il giorno, e lo splendore del fuoco fiammante nella notte, e sopra tutta la sua Gloria vi sarà protezione. Il Santuario farà ombra per il calore del giorno, e di difesa contro la bufera e la pioggia.]

IX. Profezia (Es. XII, 1-11)

(I Battezzati mangeranno la carne dell’Agnello di Dio di cui l’Agnello pasquale è la figura)

In diébus illis: Dixit Dóminus ad Móysen et Aaron in terra Ægýpti: Mensis iste vobis princípium ménsium: primus erit in ménsibus anni. Loquímini ad univérsum cœtum filiórum Israël, et dícite eis: Décima die mensis hujus tollat unusquísque agnum per famílias et domos suas. Sin autem minor est númerus, ut suffícere possit ad vescéndum agnum, assúmet vicínum suum, qui junctus est dómui suæ, juxta númerum animárum, quæ suffícere possunt ad esum agni. Erit autem agnus absque mácula, másculus, annículus: juxta quem ritum tollétis et hædum. Et servábitis eum usque ad quartam décimam diem mensis hujus: immolabítque eum univérsa multitúdo filiórum Israël ad vésperam. Et sument de sánguine ejus, ac ponent super utrúmque postem et in superlimináribus domórum, in quibus cómedent illum. Et edent carnes nocte illa assas igni, et ázymos panes cum lactúcis agréstibus. Non comedétis ex eo crudum quid nec coctum aqua, sed tantum assum igni: caput cum pédibus ejus et intestínis vorábitis. Nec remanébit quidquam ex eo usque mane. Si quid resíduum fúerit, igne comburétis. Sic autem comedétis illum: Renes vestros accingétis, et calceaménta habébitis in pédibus, tenéntes báculos in mánibus, et comedétis festinánter: est enim Phase Dómini.

[In quei giorni disse il Signore a Mosè ed Aronne nella terra di Egitto: questo mese sarà per voi il principio dei mesi, il primo dei mesi dell’anno. Parlate a tutta l’adunanza dei figliuoli d’Israele, e dite loro: Il decimo giorno di questo mese, prenda ciascuno un agnello per famiglia e per casa. Che se il numero delle, persone è insufficiente per mangiare tutto l’agnello, inviterà, il suo vicino di casa, in modo che si abbia il numero sufficiente per consumare l’agnello. Questo poi sarà senza macchia , maschio, di un anno; e con lo stesso rito prenderete anche un capretto. E serberete l’agnello fino al giorno quattordicesimo di questo mese; e tutta la moltitudine dei figliuoli d’Israele lo immolerà alla sera. E prenderanno del sangue suo e lo metteranno su ambedue gli stipiti della porta e sull’architrave della porta delle case nelle quali lo mangeranno. E quella notte mangeranno quelle carni, arrostite al fuoco, con pani azzimi e lattughe selvatiche. Di esso non mangerete niente di crudo, o cotto nell’acqua, ma soltanto arrostito col fuoco; mangerete anche il capo, i piedi e le interiora. Niente di esso deve avanzare per il mattino; se qualche cosa ne avanzasse lo brucerete nel fuoco. E lo mangerete in questo modo; avrete i fianchi cinti, le scarpe ai piedi, e i bastoni in mano, e mangerete alla svelta perché è la Phase del Signore.]

X Profezia. (Jon. III, 1-10)

(Le anime, con la penitenza (Quaresima) ed il Battesimo ottengono la misericordia di Dio, come già i Niniviti)

In diébus illis: Factum est verbum Dómini ad Jonam Prophétam secúndo, dicens: Surge, et vade in Níniven civitátem magnam: et prædica in ea prædicatiónem, quam ego loquor ad te. Et surréxit Jonas, et ábiit in Níniven juxta verbum Dómini. Et Nínive erat cívitas magna itínere trium diérum. Et cœpit Jonas introíre in civitátem itínere diéi uníus: et clamávit et dixit: Adhuc quadragínta dies, et Nínive subvertétur. Et credidérunt viri Ninivítæ in Deum: et prædicavérunt jejúnium, et vestíti sunt saccis a majóre usque ad minórem. Et pervénit verbum ad regem Nínive: et surréxit de sólio suo, et abjécit vestiméntum suum a se, et indútus est sacco, et sedit in cínere. Et clamávit et dixit in Nínive ex ore regis et príncipum ejus, dicens: Hómines et juménta et boves et pécora non gustent quidquam: nec pascántur, et aquam non bibant. Et operiántur saccis hómines et juménta, et clament ad Dóminum in fortitúdine, et convertatur vir a via sua mala, et ab iniquitáte, quæ est in mánibus eórum. Quis scit, si convertátur et ignóscat Deus: et revertátur a furóre iræ suæ, et non períbimus? Et vidit Deus ópera eórum, quia convérsi sunt de via sua mala: et misértus est pópulo suo, Dóminus, Deus noster.

[In quei giorni il Signore per la seconda volta parlò a Giona profeta e disse: Alzati e va a Ninive città grande, e predica ivi quello che io dico a te. E si mosse Giona e andò a Ninive secondo l’ordine del Signore. Or Ninive era una città grande che aveva tre giornate di cammino. E Giona incominciò a percorrere la città per il cammino di un giorno e gridava e diceva: Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta. E i Niniviti credettero a Dio; e intimarono il digiuno e si vestirono di sacco tanto i grandi quanto i piccoli. E fu portata la nuova al re di Ninive: ed egli si levò dal suo trono e gettò via le sue vesti e si vestì di sacco e si assise sopra la cenere. E pubblicò e intimò in Ninive quest’ordine del re e dei suoi principi: Uomini e bestie, bovi e pecore non mangino niente, non vadano al pascolo, e acqua non bevano. E si coprano di sacco gli uomini e gli animali, e gridino verso il Signore con tutta la loro forza e si converta ciascuno dalla sua cattiva vita e dalle sue opere inique. Chi sa che Dio non si rivolga a noi e ci perdoni: e calmi il furore dell’ira sua, e così non ci faccia perire. E Dio vide le opere loro e come si erano convertiti dalla loro mala vita, ed ebbe misericordia del suo popolo il Signore Dio nostro.]

XI Profezia (Deut. XXXI, 22-30)

(Le anime che Dio fa entrare nel suo regno con il Battesimo dovranno, come il popolo che Mosè condusse verso la terra promessa, conservare il ricordo della legge e delle munificenze di Dio)

In diébus illis: Scripsit Móyses canticum, et dócuit fílios Israël. Præcepítque Dóminus Josue, fílio Nun, et ait: Confortáre, et esto robústus: tu enim introdúces fílios Israël in terram, quam pollícitus sum, et ego ero tecum. Postquam ergo scripsit Móyses verba legis hujus in volúmine, atque complévit: præcépit Levítis, qui portábant arcam fœderis Dómini, dicens: Tóllite librum istum, et pónite eum in látere arcæ fœderis Dómini, Dei vestri: ut sit ibi contra te in testimónium. Ego enim scio contentiónem tuam et cérvicem tuam duríssimam. Adhuc vivénte me et ingrediénte vobíscum, semper contentióse egístis contra Dóminum: quanto magis, cum mórtuus fúero? Congregáte ad me omnes majóres natu per tribus vestras, atque doctóres, et loquar audiéntibus eis sermónes istos, et invocábo contra eos cœlum et terram. Novi enim, quod post mortem meam iníque agétis et declinábitis cito de via, quam præcépi vobis: et occúrrent vobis mala in extrémo témpore, quando fecéritis malum in conspéctu Dómini, ut irritétis eum per ópera mánuum vestrárum. Locútus est ergo Móyses, audiénte univérso cœtu Israël, verba cárminis hujus, et ad finem usque complévit.

[In quei giorni Mosè scrisse un cantico e lo insegnò ai figli di Israele. E il Signore diede i suoi ordini a Giosuè figlio di Nun e gli disse: «Fatti coraggio e sii forte: tu introdurrai i figli d’Israele nella terra che ho loro promessa, io poi sarò con te». Or quando Mosè ebbe finito di scrivere le parole di questa legge in un libro, diede ordine ai leviti, che portavano l’arca del patto del Signore: «Prendete questo libro e mettetelo in un lato dell’arca del patto del Signore Dio vostro, che vi rimanga come testimonio contro di te; perché ben conosco la tua ostinazione e la tua durezza di testa. Se, mentre sono ancor vivo e cammino con voi, siete stati sempre ribelli contro il Signore; quanto più dopo la mia morte! Radunate presso di me tutti gli anziani di ciascuna delle vostre tribù, e i vostri prefetti, che pronunzierò dinanzi a loro queste parole, chiamando a testimonio contro di loro il cielo e la terra. Poiché so bene che dopo la mia morte agirete iniquamente, uscendo ben presto dalla strada che vi ho prescritta; e vi cadranno addosso i mali negli ultimi tempi, allorché avrete fatto il male nel cospetto del Signore, provocandolo a sdegno colle opere vostre». Mosè quindi pronunciò e recitò sino alla fine le parole di questo cantico mentre tutto Israele stava ad ascoltarlo.

XII. Profezia (Dan. III, 1-24)

(Le anime che giurano fedeltà a Dio, per mezzo del Battesimo saranno protette nei pericoli, come i tre giovinetti nella fornace)


In diébus illis: Nabuchodónosor rex fecit státuam áuream, altitúdine cubitórum sexagínta, latitúdine cubitórum sex, et státuit eam in campo Dura provínciæ Babylónis. Itaque Nabuchodónosor rex misit ad congregándos sátrapas, magistrátus, et júdices, duces, et tyránnos, et præféctos, omnésque príncipes regiónum, ut convenírent ad dedicatiónem státuæ, quam eréxerat Nabuchodónosor rex. Tunc congregáti sunt sátrapæ, magistrátus, et júdices, duces, et tyránni, et optimátes, qui erant in potestátibus constitúti, et univérsi príncipes regiónum, ut convenírent ad dedicatiónem státuæ, quam eréxerat Nabuchodónosor rex. Stabant autem in conspéctu státuæ, quam posúerat Nabuchodónosor rex, et præco clamábat valénter: Vobis dícitur populis, tríbubus et linguis: In hora, qua audiéritis sónitum tubæ, et fístulæ, et cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, et univérsi géneris musicórum, cadéntes adoráte státuam áuream, quam constítuit Nabuchodónosor rex. Si quis autem non prostrátus adoráverit, eádem hora mittétur in fornácem ignis ardéntis. Post hæc ígitur statim ut audiérunt omnes pópuli sónitum tubæ, fístulæ, et cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, et omnis géneris musicórum, cadéntes omnes pópuli, tribus et linguæ adoravérunt státuam auream, quam constitúerat Nabuchodónosor rex. Statímque in ipso témpore accedéntes viri Chaldæi accusavérunt Judæos, dixerúntque Nabuchodónosor regi: Rex, in ætérnum vive: tu, rex, posuísti decrétum, ut omnis homo, qui audiérit sónitum tubæ, fístulæ, et cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, et univérsi géneris musicórum, prostérnat se et adóret státuam áuream: si quis autem non prócidens adoráverit, mittátur in fornácem ignis ardéntis. Sunt ergo viri Judæi, quos constituísti super ópera regiónis Babylónis, Sidrach, Misach et Abdénago: viri isti contempsérunt, rex, decrétum tuum: deos tuos non colunt, et státuam áuream, quam erexísti, non adórant. Tunc Nabuchodónosor in furóre et in ira præcépit, ut adduceréntur Sidrach, Misach et Abdénago: qui conféstim addúcti sunt in conspéctu regis. Pronuntiánsque Nabuchodónosor rex, ait eis: Veréne, Sidrach, Misach et Abdénago, deos meos non cólitis, et státuam áuream, quam constítui, non adorátis? Nunc ergo si estis parati, quacúmque hora audieritis sonitum tubæ, fístulæ, cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, omnísque géneris musicórum, prostérnite vos et adoráte státuam, quam feci: quod si non adoravéritis, eadem hora mittémini in fornácem ignis ardéntis; et quis est Deus, qui erípiet vos de manu mea? Respondéntes Sidrach, Misach et Abdénago, dixérunt regi Nabuchodónosor: Non opórtet nos de hac re respóndere tibi. Ecce enim, Deus noster, quem cólimus, potest erípere nos de camíno ignis ardéntis, et de mánibus tuis, o rex, liberáre. Quod si nolúerit, notum sit tibi; rex, quia deos tuos non cólimus et státuam áuream, quam erexísti, non adorámus. Tunc Nabuchodónosor replétus est furóre, et aspéctus faciéi illíus immutátus est super Sidrach, Misach et Abdénago, et præcépit, ut succenderétur fornax séptuplum, quam succéndi consuéverat. Et viris fortíssimis de exércitu suo jussit, ut, ligátis pédibus Sidrach, Misach et Abdénago, mítterent eos in fornácem ignis ardéntis. Et conféstim viri illi vincti, cum braccis suis et tiáris et calceaméntis et véstibus, missi sunt in médium fornácis ignis ardéntis: nam jússio regis urgébat: fornax autem succénsa erat nimis. Porro viros illos, qui míserant Sidrach, Misach et Abdénago, interfécit flamma ignis. Viri autem hi tres, id est, Sidrach, Misach et Abdénago, cecidérunt in médio camíno ignis ardéntis colligáti. Et ambulábant in médio flammæ laudántes Deum, et benedicéntes Dómino.

[In quei giorni il re Nabuchodonosor fece una statua d’oro alta sessanta cubiti, larga sei cubiti e la fece alzare nella campagna di Dura, provincia di Babilonia. E così il Re Nabuchodonosor mandò a radunare i satrapi e i magistrati e i giudici e i capitani e i dinasti e i prefetti e tutti i governatori delle Provincie affinché tutti insieme andassero alla dedicazione della statua alzata dal re Nabuchodonosor. Allora si radunarono i satrapi e i magistrati e i giudici e i capitani, e i dinasti, e i grandi che erano costituiti in dignità, e tutti i governatori delle Provincie per andare tutti insieme alla dedicazione della statua, eretta da Nabuchodonosor. E stavano in faccia alla statua alzata dal re Nabuchodonosor: e l’araldo gridava ad alta voce: A voi si ordina, popoli tribù e lingue che nel punto stesso in cui udirete il suono della tromba e del flauto, della cetra, della zampogna, del saltero, del timpano è di ogni sorta di strumenti musicali, prostrati adoriate la statua d’oro eretta dal re Nabuchodonosor. Se alcuno non si prostra e adora, nello stesso momento sarà gettato in una fornace di fuoco ardente. Poco dopo, dunque, appena che i popoli tutti udirono il suono della tromba, del flauto, della cetra, della zampogna, del saltero, del timpano e di ogni genere di strumenti musicali, tutti senza distinzione di tribù e di lingua prostrati, adorarono la statua d’oro alzata dal re Nabuchodonosor. Subito, in quel punto stesso andarono alcuni uomini Caldei ad accusare i giudei e dissero al re Nabuchodonosor: Vivi, o re, in eterno; tu, o re, hai fatto un decreto che qualunque uomo che avesse udito il suono della tromba, del flauto, della cetra, della zampogna, del saltero, del timpano e di ogni sorta di strumenti musicali si prostrasse e adorasse la statua d’oro: che se alcuno non si prostrasse e adorasse, fosse gettato in una fornace di fuoco ardente. Vi son dunque tre uomini giudei i quali tu hai deputati sopra affari della provincia di Babilonia: Sidrach, Misach e gli Abdenago; questi uomini han dispregiato, o re, il tuo decreto: ai tuoi dei non rendono culto, non adorano la statua d’oro, alzata da te. Allora Nabuchodonosor pieno di furore e d’ira, ordinò che gli fossero condotti Sidrach, Misach e Abdenago; i quali furono condotti al cospetto del re. E parlò Nabuchodonosor re, e disse: È vero, o Sidrach. Misach e Abdenago, che voi non rendete culto ai miei dei e non adorate la statua d’oro che io ho eretta? Ora dunque se voi siete a ciò disposti, in quel momento in cui udirete il suono della tromba, del flauto, della cetra, della zampogna, del salterio, del timpano, e ogni genere di strumenti musicali, prostratevi e adorate la statua che io ho fatta che se non l’adorerete in quel punto stesso sarete gettati in una fornace di fuoco ardente: e quale è il Dio che vi sottrarrà al mio potere? Risposero Sidrach, Misach e Abdenago e dissero al re Nabuchodonosor: Non è necessario che noi ti diamo risposta. Perché certamente il Dio nostro che noi adoriamo, può liberarci dalla fornace di fuoco ardente e sottrarci al tuo patere, o re. Ma se anche non lo volesse fare, sappi, o re, che non rendiamo culto ai tuoi dei e non adoriamo la statua d’oro da te eretta. Allora Nabuchodonosor entrò in furore, e la sua faccia cambiò di colore verso Sidrach, Misach e Abdenago, e comandò che si accendesse il fuoco nella fornace sette volte più dell’usato. E ad uomini fortissimi del suo esercito diede ordine che legassero i piedi di Sidrach, Misach e Abdenago, e li gettassero nella fornace di fuoco ardente. E tosto, questi tre uomini legati nei piedi, avendo, i loro calzoni e tiare e i loro calzari e le loro vesti, furono gettati in mezzo alla fornace di fuoco ardente: poiché il comando del re non ammetteva indugi, e la fornace era accesa straordinariamente. Ma la fiamma di, improvviso incenerì coloro che vi avevano gettato Sidrach, Misach e Abdenago: mentre questi tre e cioè Sidrach, Misach e Abdenago caddero legati nel mezzo della fornace ardente. E camminavano in mezzo alle fiamme lodando Dio e benedicendo il Signore.]

4. ° La benedizione del fonte. La quarta parte dell’uffizio del sabato santo è la benedizione del fonte, cioè dell’acqua che deve servire al battesimo dei catecumeni. – L’uso di benedir l’acqua battesimale risale ai primordi della Chiesa. Se ne vede la prova negli scritti dei Padri del IV e anche del III secolo. Allorché i catecumeni avevano sostenuto il loro ultimo esame, fatta la triplice rinunzia e ricevuta l’unzione dal Vescovo, si conducevano alla fonte per benedirli. Tutta l’adunanza dei Fedeli, con in mano dei ceri accesi, andavano in processione cantando le litanie, che si dicevano a tre, a cinque o a sette cori, secondo il numero degli assistenti, o si ripetevano tmilo a due cori fino a tre, cinque e sette volte. Di qui è nato il nome di ternarie, quinarie, settenarie dato a queste litanie: ritornando dal fonte si cantavano le litanie ternarie, che si ripetevan tre volte; e si dicono così anch’oggi.

Finite di cantarsi le profezie, tutto il clero si muove verso il fonte, cantando le litanie. Arrivato al battistero, ilsacerdote benedice l’acqua: incomincia dal ricordare in un sublime prefazio le meraviglie che Dio ha operato per le acque; poi immergendo la mano nel bacino del fonte, divide le acque in forma di croce; domanda a Dio, che le riempia della virtù dello Spirito Santo e le fecondi con la sua grazia. Di poi ne sparge verso le quattro parti del mondo per significare che tutta la terra deve esserne innaffiata, cioè che secondo le promesse di Gesù Cristo, il Vangelo deve fare il giro del mondo, e tutti i popoli debbono esser chiamati al battesimo. Soffia tre volte sull’acqua, scongiurando Gesù Cristo di benedirla con la propria bocca e di sottrarla alla potenza del demonio. V’immerge tre volte il cero pasquale, per mostrarci che per i meriti di Gesù Cristo, morto e resuscitato, di cui questo cero è la figura, essa avrà la virtù di preservare i nostri corpi e le anime nostre dalle insidie del nemico e di rimettere i peccati veniali, facendo nascer nei cuori sentimenti di amor di Dio e di contrizione. Fa cadere qualche goccia di questa cera nell’acqua che ha benedetta, per notare che la virtù di Gesù Cristo vi rimane unita: quindi separa l’acqua che deve servire per il Battesimo. Quando è stata versata nel fonte, vi mescola il santo crisma, che essendo composto d’olio e di balsamo, ricorda la grazia che il battesimo produrrà in quelli i quali lo riceveranno. Quest’acqua – dice egli – per questa mischianza, sia santificata, fecondata, e riceva la virtù di rimettere i peccati e di rigenerare le anime per la vita eterna, in nome del Padre etc.

Una volta, dopo la benedizione il Sacerdote andava aspergendo di quest’acqua santificata tutti gli assistenti; si fa così anch’oggi. Di poi tutti i Fedeli potevano, e possono anch’oggi andare a prendere di quest’acqua per potarsela a casa. S’adopra a preservare dagli accidenti e dai pericoli spirituali e corporali.

Finita la benedizione, si ritorna al coro cantando le litanie. Nella primitiva Chiesa, si conducevano allora in processione all’altare i novelli battezzati, vestiti di bianco, con un cero acceso in mano, e accompagnati dai padrini e madrine. All’altare, ricevevano la santa eucaristia, latte e miele dell’innocenza.

5.° La Messa. La Messa comincia subito dopo ritornati al coro. È senza Introito, perché tutto il popolo era già entrato: nei primi secoli, il popolo era alla chiesa fino dalla vigilia: è molto corta per ragion della lunghezza dei precedenti uffizi. Il medesimo è dei vespri.

L ‘ ORAZIONE.

0 Dio, che avete reso questa santa notte illustre e solenne per la gloria della resurrezione di nostro Signore conservate nei nuovi figli della vostra Chiesa lo spirito d’adozione che avete dato loro , affinchè rinnovati di corpo e d’anima, vi servano con purezza di cuore; per lo stesso Gesù Cristo nostro Signore ec.

L’EPISTOLA .

Lezione tratta dalla Lettera dell’Apostolo s. Paolo ai Colossesi, Cap. III, v. 1. ì .

“Fratelli miei, se siete resuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo sedente alla destra di Dio: abbiate pensiero delle cose di lassù, non di quelle della terra. Imperocché siete morti, e la vostra vita è ascosa con Cristo in Dio. Quando Cristo, vostra vita, comparirà; allora anche voi comparirete con lui nella gloria”.

Se per il battesimo siete morti e resuscitati in Gesù Cristo,dovete condurre una vita tutta nuova, e in certo modo tutta celeste; non dovete avere più nessuna affezione che per il cielo; non desiderj, nè passioni nemmeno che per le cose del cielo, riguardandovi d’ora innanzi come cittadini di questa celeste patria viandanti sullaterra, che deve esser per voi un luogo d’esilio. Voi siete morti al mondo e al peccato in virtù del battesimo, e non dovete vivere’ più che in Gesù Cristo, ed in Lui la vostra vita deve essere come nascosta, deve cioè la vita dei cristiani essere una vita pura, una vita mortificata, che la fede anima e la carità nutrisce; talché tutti i Cristiani, resuscitati col capo di cui son membra, debbono poter dire, come s. Paolo: Io vivo: non sono io che vivo, ma Gesù Cristo che vive in me.

Dopo questa lettera la quale è una lezione che la Chiesa fa a tutti quanti hanno ricevuta una novella vita per il battesimo, essa dà principio alla pasquale solennità, intonando l’Alleluja, non più cantato dalla vigilia della Settuagesima, quando entrò nell’afflizione e nel luttodi penitenza; e intonandolo tre volte, con alzare sempre più la voce, per aggiungere un nuovo grado alla gioia che deve risvegliare in noi la risurrezione di Gesù Cristo. È un canto di lode, di ringraziamento e di allegrezza, il più corto dei cantici, composto di due voci ebraiche esprimenti più vivamente che non potremmo fare nella nostra lingua il suo significato, che è: Lodiamo ringraziamolo, facciamo echeggiare la nostra allegrezza: Alleluja. Dall’Apocalisse è tolto questo grido di gioia. Fu sì familiare ai Fedeli nel tempo pasquale, che era il saluto ordinario che si davan tra loro secondo lo spirito della Chiesa, la quale lo ripete sì spesso ne’ suoi uffiziper tutto questo santo tempo.

IL VANGELO.

Segue il santo Vangelo secondo s. Matteo, Cap. XXVIII, v. 1-7

La sera del sabato, che si schiariva già il primo dì della settimana, andò Maria Maddalena, e l’altra Maria a visitare il sepolcro. Quand’ecco egli fu gran terremoto, poiché l’Angelo del Signore scese dal cielo, e appressatosi, voltò sossopra la pietra, e sedeva sopra di essa, l’aspetto di lui era come un folgore: e la sua veste come neve. E per la paura, che ebbero di lui, si sbigottirono le guardie, e rimaser come morte. Ma 1’Angelo del Signore, presa la parola, disse alle donne: Non temete voi, poiché io so che cercate Gesù Crocifisso. Egli non è qui perocché è resuscitato, conforme disse. Venite a vedere il luogo, dove giaceva il Signore. E tosto andate, e dite ai discepoli di lui, come Egli è resuscitato da morte : ed ecco vi va innanzi nella Galilea: ivi lo vedrete: ecco che io vi ho avvertite.

R. Sia lode a voi, o Cristo.

L’amore premuroso di queste sante donne le conduce avanti giorno alla tomba del lor caro Maestro, e il Signore vi spedisce un angelo ad annunziare ad esse la sua resurrezione. Il fervore e la sollecitudine verso Dio hanno presto la loro ricompensa; ma i devoti tiepidi, le anime inerti e pigre, sono escluse dalla sala delle nozze, perché sempre arrivano troppo tardi. La resurrezione di Gesù Cristo ispira una gioia spirituale e dolcissima a tutte le anime fedeli, mentre riempie di spavento i suoi nemici. Quando l’uomo è veramente di Dio, ed ha una vera pietà e una coscienza pura, prova nelle feste di pasqua, e negli altri misteri nel corso dell’anno, questa dolce gioia che è un saggio di quella del cielo, mentre la falsa pietà, mentre una divozione apparente non è mai più malinconica, e non sente mai meno unzione e fervore che in queste grandi solennità.

6.° Vespri. Si compongono di un solo salmo di due versetti, ma come questo salmo è bene scelto! O nazioni della terra – esclama la Chiesa – lodate il Signore!

Popoli, lodatelo tutti, perché la sua misericordia si è manifestata su noi, e la verità di sua promessa rimane in eterno. Per le nazioni, il profeta intende i Gentili; per i popoli, i figli d’Israele, società un tempo separate, ma unite in questo gran giorno in Gesù Cristo, per non formare più che una sola famiglia. Perciò il profeta vedendo nell’avvenire questo mistero d’ unità, il battesimo,ove i Giudei e i Gentili, ricevendo il medesimo spirito,diventano figli del medesimo Dio, esclama in un santofervore: La sua misericordia si è manifestata su noi;si, sopra noi tutti, sopra voi e sopra noi. Oh! come questo noiè affettuoso! possa egli accendere i nostri cuori; quella carità veramente cattolica ond’è l’espressione!Il sabato santo entriamo nella tomba con Gesù Cristo; lasciamo ivi l’uomo vecchio; riconduciamoci alle notti brillanti e solenni della primitiva Chiesa, ove si inseriva il battesimo; rinnoviamo le nostre promesse; rarifichiamo la nostra veste battesimale con le lagrime di una sincera penitenza, a fine di potere il giorno di Pasqua intervenire alle nozze dell’Agnello.

LO SCUDO DELLA FEDE (107)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

[Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884]

CAPO XVII.

Si dimostra Dio sotto il concetto di un essere sommamente perfetto.

I. Gli osservatori delle stelle, là nell’Egitto costumarono da principio di contemplare ilcielo da que’ loro medesimi campi aperti dove abitavano: ma poi col tempo, perfezionandosi l’arte, andarono a mano a mano scegliendo, per tali osservazioni le specole più sublimi, e ancora formandole: tanto che il più nobile uso che avesse già quell’eccelsissimo tempio di Babilonia, dedicato a Belo, fu il servire con la sua sommità agli astronomi di quei giorni per considerare i moti delle sfere da un’aria men carica di vapori troppo alteranti, con le importunità delle rifrazioni, le misure fedeli, e le mire ferme (Diod. 1. 2. c. 4). Ora noi fin qui, dal piano delle creature, abbiam contemplata qualche cosa alla grossa intorno all’esistenza del Creatore. Giusto è però, che raffinata la forma di specolare, ci solleviamo ormai su tutto il sensibile, per indi contemplare, come da posto più purgato e più prossimo, non il cielo (che ci rimarrà sotto i pie), ma il Creatore del cielo, nel suo grande essere, contenitore in sé di ogni grado di perfezione, che sia diviso in qualunque grado di essere immaginabile. Altrimenti mi parrebbe di far troppo grave torto alla capacità del vostro intelletto, se non mi fidassi di potere imprimere in esso la verità della divina esistenza con altre stampe, che con le grossolane, prestate a noi dalle botteghe de’ sensi.

II. Ed in primo luogo mi piace che giudichiate di qual pena sieno rei gli ateisti, mentre negano l’essere al primo Essere. Anassagora, perché spacciò che il sole non altro fosse che una gran pietra di fuoco, fu riputato degno dagli ateniesi di cruda morte, in virtù di cui non avesse a mirare mai più quel lume che tanto egli andava infamando con tal sentenza. Lascio però al nobile areopago di tutti i savi lo stabilire qual supplizio si debba, non a chi asserisca, che il sole sia un gran crisolito, o un gran carbonchio, quale Anassagora potea dir che intendesse per quella pietra di fuoco: ma a chi non tema affermare che Dio non è, se non un nome chimerico, un fantasma, una favola, un nulla sotto la maschera di ogni bene. E pure a tanto pervengono gli ateisti.

III. Ma adagio un poco, che qui è dove voglio io cavare la talpa, se mi riesce, malgrado suo, di sotterra a mirar la luce, con valermi di questo dilemma acuto.

IV. Voi dite, che Dio non v’è: Non est Deus. Ora bene. Giacché non v’è, è possibile almenoche Egli vi sia, o non è possibile? Non è gran fatto che a prima giunta voi mi concediate la sua possibilità: da che ad alcuni darebbe lieve noia il sapere, che Dio sia possibile, purché si assicurassero, che egli non fosse in atto.Ma piano, piano, che a risponder così voi restatedi subito nella rete, mentre non vedete fra voi, che alla prima cagion di tutte le cose,non si può concedere mai la possibilità senza insieme concederle l’esistenza. Il sole, i mari,i monti, l’uomo vivente, e tutte le altre creature, possono essere quando ancor di fattonon sono. Ma Dio non può. Se è possibile,egli è parimente in atto. Conciossiachè fingete,che Egli possa essere, ma non sia. Adunque vi ha una cagione che può produrlo: non sapendola mente nostra neppure apprendere,che parto alcuno possa uscir mai dai cupi abissi del nulla, ed uscirne di virtù propria.Se n’esce, conviene che vi sia di necessità chi nel tragga fuora, comunicandogli quella esistenza, di cui qualsivoglia effetto, infino a tanto che è meramente possibile, non è peranche arrivato a pigliar possesso. Questa cagione adunque, in vigor di cui sarebbe possibile, che Dio, dal non essere attualmente,passasse all’essere, questa cagion, dico, sarebbe in sé più perfetta, che non sarebbe il termine prodotto da lei con sì grande azione,mentre non solo lo agguaglierebbe in tutte le prerogative di potenza, di sapienza, di scienza,di bontà, e di altre tali, che a lui donasse inprodurlo; ma di più lo precederebbe, per quella priorità almeno che appellasi di natura,se non per quella di tempo, e però questa cagione medesima sarebbe Dio prima dell’effetto prodotto. Ella conterrebbe nel suo seno la sorgente di tutto l’essere, avanti di trasferirla nel seno altrui: e così ella più veramente sarebbe la cagion prima. Mirate dunque, come con illazione necessarissima si deduce, che sesi dà per possibile il primo Essere, non può all’ora stessa non darsi per esistente.

V. Qui l’ateista indurato non può fare altro, che ritrattarsi, e dire, che egli errò nel concedere Dio possibile. Dovea dire anzi, che egli è impossibile affatto e così finire ogni lite.

VI. Ma ecco lo sventurato in peggior viluppo. Perché io dunque mi rimarrò dall’argomentare più oltra contro di lui, per lasciare a lui la fatica non poco grave, di provare sì bell’assunto. Io per me so, che secondo i filosofi possibile è tutto ciò che, se si riducesse all’atto, non recherebbe veruno inconveniente con esso sé. Dica dunque egli, quale inconveniente con esso se può recare la convenienza medesima, la pura perfezione, la pura probità, il puro essere in atto, che è quanto intendiamo noi nominando Dio? Troppo in questa battaglia mostrerei nondimeno di aver timore, se io volessi meramente schifarla, quasi da un alto colle, e non attaccarla. Argomento dunque così.

II.

VII. Tutte le creature stan situate, quasi fra due estremi contrari, tra l’essere e il non essere. E però, partecipando anche tutte dell’uno e dell’altro estremo, in parte sono ricche, in parte sono povere, che è quanto dire, portano ad ogni loro bene congiunta la imperfezione. Ora io qui chieggovi. Perchè son esse imperfette? Perché loro manchi un bene fantastico, favoloso, impossibile, di cui niuna potrebbe divenir vago senza follia? No certamente: mentre il mancare di qualsisia bene falso, non debbe ascriversi a povertà, ma a ventura. Adunque non è impossibile il bene che loro manca. Ma il bene che loro manca, è un bene infinito, potendosi tosto dire quel bene che hanno, ma non potendosi mai finire di dire quel che non hanno. Dunque un bene infinito non è impossibile. E tale è Dio.

VIII. Di poi chi può mai negare, che l’andare esente da ogni difetto, non sia dote, non solo buona, ma ottima, mentre è il fiore di ogni bontà? Óra come dunque direte voi che è impossibile? L’impossibile è odiabile al maggior segno, è dileggiabile, è derisibile. Questo èchiaro fra tutti i saggi (Anton. Perez, de Deo disp, 1. c. 4. et 5). Chi dirà dunque, che odiabile, dileggiabile, derisibile siasi l’andare esente da ogni difetto? Anzi questo è il bene unico che sia degno di sommo amore. Adunque egli è ben possibile, dacché ogni bene si sostenta su l’essere. E se è così, dunque è possibile Dio, non essendo Dio finalmente senonchè un bene puro da qualunque difetto. E certamente se una luce non è contraria mai all’altra luce, né anche una perfezione schiettissima e semplicissima sarà mai contraria ad altra perfezione di simil genere. Adunque potranno tutte d’accordo far lega insieme, come la fanno quanti mai sieno i diamanti in gioiello d’oro; e tutte potranno unirsi comodamente in una somma natura che le possegga senza eccezione. E tale è la natura divina. Mirisi però la stoltizia dell’ateista! Vuole che il bene sommo sia ben chimerico: onde, purché Dio non vi sia, non si cura di altro. Elegge che sia impossibile il sommo bene, piuttosto che l’eleggersi il sommo bene in un Dio possibile.

III.

IX. Su, sia così: non sia possibile Dio. Miriamo un poco quali inconvenienti ad un tratto ne seguiranno (Rigorosamente parlando , gl’incovenienti gravissimi qui registrati dall’autore avrebbero origine più che dalla negazione della possibilità di  ogni guisa; sian fisici, sian morali: i fisici mancando il primo principio; i morali, mancando l’ultimo fine.

X. E quanto ai fisici: se Dio non fosse possibile, non sarebbe possibile cosa alcuna. Perché, come non sarebbe possibile alcun calore, né alcun chiarore, se non fosse possibile il calor massimo, ed il chiaror massimo dalla cui maggiore o minor partecipazione avviene che si ritrovino cose calde, e cose chiare, in sì vari gradi; così non sarebbe possibile verun essere, se non fosse possibile l’esser massimo, che è l’essere da se stesso (S. Th. 1. p. q. 44. art. 1).

XI. Quanto ai morali poi: se Dio non fosse possibile, guardate che ne avverrebbe di detestando! L’amare Dio sopra di ogni altro bene, il temere del suo sdegno, il professargli soggezione, il porgergli suppliche, l’osservare i giuramenti fatti in suo nome, sarebbero tutte cose, non pure stolte, ma ree, come contrarie anche alla retta ragione. Onde non sarebbero virtù ma vizi dell’uomo. All’opposito, l’essere spergiuro, sacrilego, profanatore de’ templi, bestemmiatore, sarebbe secondo la diritta ragione, e si meriterebbe lode maggiore, che non meriterebbesi chi gettasse a terra un idolo dagli altari, e gli protestasse con quell’onta di farlo, perché egli è quivi una statua, non è un Dio vero. Sicché in ultimo le bestemmie, i sacrilegi, gli spergiuri sarebbero non più eccessi nell’uman genere, ma virtù sopraffine, da rendere meritevole di ogni encomio quel Dionisio tiranno di Siracusa, che pure rimase ai posteri tanto infame, per aver non solo sprezzata la religione, ma messala sempre in beffe (Valer. Maxim. 1. 1. c. 2).

XII. Di più, la somma saviezza si avrebbe a riputare somma stoltezza, se Dio non fosse possibile; e la somma stoltezza si avrebbe a riputare somma saviezza. Conciossiachè tutti i maestri delle cose divine si sarebbero allucinati nella prima di tutte le verità. Avrebbero atteso, per le tenute del nulla, ad istancarsi dietro la caccia perpetua di un’ombra vana. Avrebbero dati precetti meravigliosi, di credere, di confidare, di sottoporsi ad un mero sogno, cioè ad un essere, il quale altro esser non ha, che lo sproposito di una chimera, apparsa a deludere la fantasia di chi dorme. Onde tutta la scienza de’ maggiori maestri in divinità sarebbe una insensataggine manifesta; e per contrario il credere non più di quanto si vede, il reputarsi, come le bestie del bosco affatto mortale, il tener per fermo, che un mondo pieno di una simmetria incomparabile, si nelle sue parti speciali, sì nel suo tutto, sia nondimeno un’opera casuale, un edifizio senza architetto, un esercito senza generale, una barca senza governo, sarebbe, se Dio fosse impossibile, la sovrana di tutte le verità: onde, come io dicea, la somma stoltezza sarebbe un sommo sapere, ed il sommo sapere sarebbe una infinita stoltezza.

XIII. Finalmente, se Dio fosse impossibile, ne avverrebbe, che l’uomo fosse privo di ultimo fine. Onde il nostro intelletto anderebbe sempre, qual calamita, anelando ad un primo vero, come a suo polo, senza speranza di vederlo mai in faccia. E la nostra volontà andrebbe sempre, quasi nave, aspirando ad un sommo bene, come a suo porto, senza potere mai giungere ad approdarvi. La natura, che in tutte le cose appare sì amante della veracità, non avrebbe fatto altro, che nutrirci di inganno; e quella che mostrava d’amarci fino alle somme delizie (usque in delicias amamur), ci avrebbe al fine delusi più bruttamente, che non fè già quel sì famoso pittore, quando deludeva gli uccelli con le belle uve della sua tela dipinta.

XIV. Eccovi però che vuol dire essere ateista! Vuol dire avere per mira di mettere sossopra tutte le massime con cui si è governato perpetuamente, e tuttavia si governa il genere umano. E a voi par poco sì orrido inconveniente? Ma se questo e se altri simili senza fine ne seguono dal fingersi Dio impossibile, è impossibilissimo, che Egli non sia possibile. E se è possibile, è dunque ancora, come io vi dissi, di fatto; giacché in tutto quello che sia di necessità assoluta ed antecedente non si distingue dall’essere il poter essere.

XV. Che dite pertanto voi? Vi par bella gloria star dalla banda degli sconvolgitori dell’universo, piuttosto che arrolarsi tra quei che tanto bene lo riducono a legge con dargli Dio? Tornate pure a tormentar l’intelletto più che se il misero fosse schiavo in catene, perché vi dica, doversi Dio mandar esule nel paese degl’ircocervi, piuttosto che darlo all’uomo per suo primo principio da cui dipenda, e per suo ultimo fine. Noi dirà mai. E però questo, in ristretto, è il processo formato da noi sinora contra l’ateismo: Volere a forza ignorare quel bene sommo, che non si può non conoscere: Hæc summa delicti est: nolle eum agnoscere, quem ignorare non possis [Il sommo delitto è questo: non conoscere quel che non si può ignorare] (S. Cypr. de idol. vanit.).