SALMI BIBLICI: “CONFITEBOR TIBI, DOMINE…IN CONSILIO” (CX)

SALMO 110: CINFITEBOR TIBI DOMINE, … in consilio”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR

13, RUE DELAMMIE, 1878 IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 110

Alleluja.

 [1] Confitebor tibi, Domine

in toto corde meo, …

in consilio justorum,

et congregatione.

[2] Magna opera Domini, exquisita in omnes voluntates ejus.

[3] Confessio et magnificentia opus ejus; et justitia ejus manet in sæculum sæculi.

[4] Memoriam fecit mirabilium suorum, misericors et miserator Dominus.

[5] Escam dedit timentibus se; memor erit in saeculum testamenti sui.

[6] Virtutem operum suorum annuntiabit populo suo,

[7] ut det illis hæreditatem gentium. Opera manuum ejus veritas et judicium;

[8] fidelia omnia mandata ejus, confirmata in saeculum sæculi, facta in veritate et æquitate.

[9] Redemptionem misit populo suo; mandavit in æternum testamentum suum. Sanctum et terribile nomen ejus.

[10] Initium sapientiæ timor Domini; intellectus bonus omnibus facientibus eum, laudatio ejus manet in sæculum sæculi.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CX.

Lode di Dio per le sue opere. Questo Salmo ha versetti quante sono le lettere alfabetiche ebraiche. Ma i LXX lo ridussero a soli dieci versetti, mirando più alla somiglianza degli altri Salmi che alle lettere.

Alleluja: Lodate Dio.

1. A te darò laude, o Signore, con tutto il cuor mio, nel consesso de’ giusti e nell’adunanza.

2. Grandi sono le opere del Signore; appropriate a tutte le sue volontà.

3. Gloria e magnificenza sono le opere di lui; e la sua giustizia è stabile per tutti i secoli.

4. Ha lasciata memoria di sue meraviglie il Signore, che è benigno e misericordioso; ha dato un cibo a quei che lo temono.

5. Ei sarà memore eternamente di sua alleanza, le opere di sua possanza rivelerà al suo popolo;

6. A’ quali darà l’eredità delle genti: le opere delle sue mani son verità e giustizia.

7. Fedeli tutti i comandamenti di lui; confermati per tutti i secoli, fondali nella verità e nell’equità.

8. Ha mandata la redenzione al suo popolo; ha stabilito per l’eternità il suo testamento.

9. Santo e terribile il nome di lui; principio della sapienza il timor del Signore.

10. Buono intelletto hanno tutti quelli che agiscono con questo timore: sarà egli laudato pe’ secoli de’ secoli.

Sommario analitico

Questo Salmo, è un cantico di lode a Dio a causa delle sue opere e dei suoi benefici generali che effonde sulla sua Chiesa, benefici figurati da quelli che ha effuso sui Giudei (1).

(1) Questo salmo è nel numero dei dodici che iniziano con Alleluja (Ps. CIV, CV, CVI, CX, CXI, CXII, CXIII, CXIV, CXV, CXVI, CXVII, CXVIII), come i cinque che finivano con questo canto di lode. Di questi salmi, ce ne sono cinque che gli ebrei chiamavano i “grandi alleluja“. Venivano cantati in tutte le feste, ma soprattutto nelle grandi solennità di Pasqua e dei Tabernacoli: i salmi CXIII e CXIV si cantavano prima della cena pasquale, ed i seguenti CXV, CXVIII, dopo i pasti. Talvolta si cantavano prima i salmi CX e CXII (Rosen-Muller). 

I. – Il profeta esprime la risoluzione di lodare e ringraziare Dio:

1° Segretamente nel suo cuore;

2° Nella riunione privata dei giusti;

3° Nelle assemblee pubbliche (1)

II. – Egli ne dà per motivo le opere di Dio:

1° Le opere di Dio in generale: – a) esse sono grandi e conformi alle volontà divine (2); – b) esse rendono pubbliche la sua magnificenza e la sua gloria (3).

2° Le sue opere particolari: – a) la manna e l’Eucarestia della quale essa era la figura, il ricordo della sua alleanza con il suo popolo (4, 5). – b) la potenza che ha fatto brillare per mettere i Giudei ed i Cristiani in possesso dell’eredità che ha loro promesso (6, 7); – c) le leggi della natura e della grazia, che Egli ha fatto immutabili e fondate sulla giustizia e sull’equità (8); – d) l’alleanza eterna che ha concluso con il suo popolo, e dei quali il Profeta sottolinea gli effetti. Egli ha inviato la redenzione, etc. (9).

III. Egli indica le disposizioni necessarie per entrare nell’alleanza di Dio:

Il timore di Dio, inizio della sapienza, che bisogna utilizzare e perfezionare con le opere (10).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1.

ff. 1. – « Io vi loderò, vi renderò grazie. » Tutta la vita del Re-Profeta è passata nel compimento di questi pii doveri; è là che comincia, ed è là che finisce. Tutto il suo soggetto, tutta la sua opera, è stata rendere grazie a Dio, tanto per i benefici che avevano ricevuto, che per le grazie accordate agli altri uomini. (S. Chrys.). –  Quanto questo dovere è oggi dimenticato: l’egoismo si è impadronito del sentimento religioso stesso! Il Cristiano dei nostri giorni chiede ancora solo ciò che gli possa essere utile, cerca i propri interessi; ma il fare tutto per la gloria di Dio – come San Paolo ci raccomanda – celebrare il suo Nome, rendere pubbliche le sue grandezze, le sue perfezioni infinite, tutta questa parte essenziale del culto e della virtù di Religione, è miseramente negletta tra noi o non la comprende più (Mgr. Pichenot, Ps. Du D. p. 116). –  « Con tutto il mio cuore », con tutto l’ardore di cui sono capace, con uno spirito avulso da tutte le preoccupazioni della vita, con un’anima elevata nelle alte regioni che toccano a Dio e staccata dai legami del corpo. Questo non solo con la bocca ed a parole, ma in spirito e cuore (S. Chrys.). – Dio è spirito, ed è in spirito e verità che bisogna adorarlo, lodarlo e pregarlo. A che servirebbe il brusio delle labbra, l’elevazione delle mani, se il cuore resta muto? (S. Agost.). – Nell’anima vi sono più facoltà: lo spirito, la memoria, l’immaginazione, devono essere impiegati al servizio di Colui che ci ha dato tutto; ma è il cuore soprattutto con cui dobbiamo contribuire. L’essenza del culto di Dio, è l’amore e l’assenza della preghiera è soprattutto un atto di volontà, un grido del cuore. – Chi dice “con tutto il cuore”, esclude l’indifferenza, la distrazione, la tiepidezza, e soprattutto le passioni che lo tiranneggiano. (Berthier). – Lodare Dio con tutto il suo cuore, lodarlo in compagnia dei giusti, sia nelle riunioni particolari, ove un piccolo numero di anime pie e ferventi si radunano, si intendono, aprono il loro cuore l’uno all’altro, sia nelle riunioni più numerose e più solenni, come gli esercii pubblici del culto, le feste della parrocchia, le grandi assemblee del popolo cristiano.

II. – 2-9

ff. 2, 3. – Ci sono coloro che rendono grazie a Dio quando sono felici, ma se viene a toccarli il malore, essi lo sopportano appena. Taluni giungono anche a colpevolizzare la Provvidenza negli avvenimento che essa permette. Il Re-Profeta rivela qui il doppio carattere delle opere di Dio in generale: la grandezza dello splendore, l’appropriazione e l’armonia che li distinguono. Egli ci fa qui – ci dice – come un giudice integro, un’assemblea incorruttibile, e si riconoscerà allorché le opere di Dio sono grandi e piene delle più strabilianti meraviglie. La loro grandezza attiene alla loro natura, ma questa grandezza, non appare che agli occhi di un giudice equo. (S. Chrys.). – Grandezza vi è nelle opere della natura, ma grandezza una ancora più ammirevole nelle opere della grazia, della redenzione. – Quanto le opere degli uomini sono piccole e meschine in paragone delle opere di Dio, piccole nell’oggetto che si propongono, piccole nella mobilità che le fa loro intraprendere, piccole nei mezzi che si impiegano, piccole nel fine che vogliono raggiungere, fine questo che ancora sfugge loro il più spesso, malgrado gli sforzi della loro volontà. Le opere di Dio, al contrario, sono grandi e conformi a tutte le sue volontà. Esse sono preparate, disposte con una perfezione che non lascia nulla a desiderare. Esse sono anche conformi alla volontà di Dio, proclamano altamente la sua potenza, e concorrono con un accordo mirabile al compimento degli ordini divini, come il Re-Profeta fa pertanto notare. Esse hanno una missione da compiere possedendo i mezzi e le risorse in sintonia con i disegni del Creatore. Non soltanto tutte le creature eseguono gli ordini di Dio conformemente al fine che si è proposto, creandole, ma obbediscono con una docilità perfetta agli ordini particolari che sono conformi a questo fine. Esse sono disposte in una perfetta sintonia con tutte le sue volontà, con tutti i suoi precetti, con tutti i suoi comandamenti. Ma questo non è il solo fine che si è proposto: Egli vuole essere soprattutto conosciuto dagli uomini; è là la sua volontà primaria e la causa principale della creazione (S. Chrys.). – Fine ultimo di tutte le opere del Creatore è la gloria di Dio e la salvezza delle anime, o meglio ancora – come dice Tertulliano – che così riconduce tutto all’unità: la gloria di Dio per la salvezza delle anime. « Honor Dei salus animarum. » – Che l’uomo faccia tale scelta come gli piacerà tra la giustizia e l’empietà: le opere del Signore sono stabilite in modo tale che la creatura, benché in possesso nel suo libero arbitrio, non possa trionfare della volontà del Creatore, anche quando si tratta di agire contro questa volontà. Dio non vuole che voi pecchiate, perché ve lo proibisce; tuttavia se avete peccato non crediate che l’uomo abbia fatto ciò che ha voluto, e che Dio  abbia sofferto ciò che non ha voluto soffrire; perché anche se Dio vuole che l’uomo non pecchi, Dio ugualmente vuole risparmiarlo quando pecca, affinché ritorni e viva; ugualmente infine Dio vuol punire colui che ha perseverato nel peccato, affinché il colpevole non possa sottrarsi alla potenza della sua giustizia. Così, qualunque cosa facciate, l’Onnipotente non mancherà di mezzi per compiere in voi la sua volontà, perché « le opere di Dio sono grandi e proporzionate a tutte le sue volontà. » – « Le sue opere manifestano le sue lodi e la sua gloria. » In effetti, ciascuna delle opere che vediamo sono sufficienti per eccitare nella nostra anima dei sentimenti di riconoscenza, ed il desiderio di lodare, benedire, glorificare Dio. Noi non abbiamo da dire: Perché questo? Per qual bene questo? Le tenebre come la luce, la fame come l’abbondanza, il deserto, i paesi disabitati come le terre fertili e coperte da ricche messi, la vita come la morte, in una parola, tutto ciò che vediamo, tutto ci porta a rendere a Dio delle azioni di grazie (S. Chrys.). – « La confessione e la magnificenza sono l’opera di Dio. » Cosa di più magnifico che giustificare l’empio? Ma forse l’opera dell’uomo oltrepassa la magnificenza dell’opera di Dio, di modo che merita con la confessione dei suoi peccati, di essere giustificato. In effetti, il pubblicano è disceso dal tempio giustificato e non il fariseo, e non osando levare gli occhi al cielo, si batteva il petto dicendo: « O Dio, siate clemente con me che sono un peccatore. »  Ora la magnificenza del Signore è la giustificazione del peccatore; perché colui che si abbassa sarà elevato, e chi si eleva sarà abbassato. (S. Luc. XVIII, 13, 14). La magnificenza del Signore è quella che a chi è stato perdonato di più, di più ama; (ibid. VII, 42-48); la magnificenza del Signore è che se il peccato è stato abbondante, la grazia è stata sovrabbondante (Rom. VI, 20). Ma è là il frutto delle nostre opere? No, dice l’Apostolo, « perché la grazia non viene dalle opere, affinché nessuno si glorifichi; perché noi siamo l’opera di Dio, essendo stati creati nel Cristo per le buone opere. » (Efes. II, 9-10). – In effetti, « … a chi invece non lavora, ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua fede gli viene accreditata come giustizia » (Rom. IV, 5), e si comincia dalla fede, affinché le sue buone opere non abbiano preceduto la sua giustificazione, ma avendole seguita, mostrino non ciò che egli ha meritato, ma ciò che ha ricevuto. Perché dunque questa confessione? In verità essa non è ancora un’opera di giustizia; tuttavia essa è una disapprovazione del peccato; ma qualunque cosa sia, o uomo, non vi glorificate, « affinché chiunque sii glorificherà, si glorifichi nel Signore. » (1 Cor., I, 33).  Non è dunque solamente la magnificenza con la quale è giustificato l’empio, ma la confessione e la magnificenza che sono l’opera di Dio (S. Agost.) [Sant’Agostino dà evidentemente alla parola “confessione” un senso diverso da quello che gli danno la maggior parte degli interpreti, ma la dottrina che egli appoggia sul senso che ha scelto non è meno piena di solidità e verità]. – La Provvidenza di Dio è sì attenta, sì paterna e sì dolce, che per noi è almeno un motivo di riconoscenza, un soggetto di benedizione come la stessa lode, ed un inno sostanziale e pieno di gratitudine ed amore. –  Non soltanto Dio manifesta la sua bontà e provoca le nostre lodi alla condotta della sua Provvidenza quaggiù, ma vi fa splendere la sua gloria e brillare la sua grandezza e maestà. Noi vediamo d’altra parte, tanto nell’ordine naturale che nell’ordine soprannaturale, nella condotta di Dio verso tutte le creature, nella sua condotta sulla sua Chiesa attraverso i secoli, nel mistero incessantemente rinnovato della grazia e della giustificazione, un’abbondanza, una ricchezza, una pienezza, una magnificenza mirabile. – Un terzo ed ultimo carattere quaggiù, è la giustizia e l’equità dalla quale non si disgiunge mai, malgrado il disordine apparente delle cose umane. La giustizia di Dio avrà il suo corso. Dio è paziente, perché è eterno; prima o tardi Egli renderà a ciascuno secondo le sue pere.

ff. 4, 5. –  « Il Signore ha perpetuato il ricordo delle sue meraviglie », vale a dire Egli non ha mai cessato di fare dei miracoli, non ha mai interrotto di generazione in generazione il corso dei suoi prodigi per risvegliare con questo spettacolo straordinario gli spiriti più grossolani. Uno spirito elevato ed applicato allo studio della saggezza, non ha bisogno di miracoli; ma Dio, la cui Provvidenza si estende non solo su questi ultimi, ma anche su coloro il cui spirito è meno aperto, non ha cessato di operare dei prodigi in ogni generazione (S. Chrys.). – Orbene, in un altro senso che non esclude il primo, Dio ha voluto immortalare, eternizzare il ricordo delle sue antiche meraviglie, con un toccante memoriale nel quale ha come riprodotto e oltrepassato tutti gli effetti della sua saggezza, della sua potenza e del suo amore. Per i Giudei questo fu la manna che per quaranta anni cadde dal cielo, e che lungo tempo dopo, eccitava ancora il trasporto e la riconoscenza del Re-Profeta … Per i Cristiani, è la Santa Eucarestia, della quale la manna era una figura, vero e toccante memoriale dell’amore infinito del Salvatore nel mistero della Redenzione: « fate questo in memoria di me » … Tutti coloro che come i protestanti, perdono il memoriale, perdono la memoria: essi mettono in oblio le verità sante, essi cessano di pensarvi, cessano ben presto di credervi; dalla fede cadono nel razionalismo, dal razionalismo nello scetticismo. – La Santa Eucarestia, è ancora memoriale, perché essa richiama e sorpassa da sola tutte le più grandi meraviglie che Dio abbia mai operato … essa è il memoriale e la continuazione della vita stessa e di tutti i misteri del Salvatore. – «Il Signore è misericordioso e pieno di clemenza. Non c’è in effetti che l’immensa carità di Dio che abbia potuto impegnarsi a fare per noi sì grandi meraviglie, ed a rendere così la sua immolazione eterna (Mgr. Pichenot, Ps. du D.). – Cosa si è proposto soprattutto in questo? « Dare il nutrimento a coloro che lo temono. » Perché parlare qui di coloro che lo temono? Essi sono dunque i soli che Egli nutre? Non è detto nel Vangelo: « Egli fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi? » (S. Matth. V, 45). Perché dunque dire qui: « a coloro che lo temono? » Il Re-Profeta parla qui, non del nutrimento del corpo, ma di quello dell’anima. Ecco perché Egli lo ha ristretto a coloro che temono Dio, perché è ad essi che è destinato (S. Chrys.). – Questi solo che temono Dio e lo servono con fedeltà, meritano di ricevere questo nutrimento. La condizione essenziale per partecipare a questa alimento celeste, è temere il Signore, perché il timore del Signore fa che si porti alla tavola di Gesù-Cristo una coscienza pura; perché questo timore stabilisce nell’anima il desiderio della povertà, delle sofferenze e delle umiliazioni; di conseguenza, essa ci mette nello stato in cui Gesù fu sulla terra (Berthier). – « Il Signore è misericordioso e pieno di clemenza; Egli ha eternizzato la memoria delle sue meraviglie, ha dato il nutrimento a coloro che lo temono. » È nell’Eucarestia soprattutto che il Signore si mostra così pieno di misericordia e di tenerezza al nostro sguardo: – 1° come un uomo compatisce le miserie che ha provato per primo: « Il Pontefice che noi abbiamo, può compatire le nostre debolezze, perché Egli è stato provato come noi da ogni sorta di mali », (Ebr. IV, 15); – 2° Come un Dio verso la sua creatura: « Io sono come un olivo che si copre di frutti nella casa del Signore; io ho sperato nella misericordia di Dio per l’eternità » (Ps. LI, 8); – 3° Come un liberatore verso prigionieri dei quali rompe le catene; – 4° come un ricco verso un povero, al quale Egli dà in questo Sacramento, la rugiada del cielo e l’adipe della terra, grano e vino in abbondanza, (Gen. XXVII, 28); – 5° Come un pastore verso le sue pecore: « Il Buon Pastore ha fatto ciò che ha raccomandato, ha per primo eseguito ciò di cui ha fatto un precetto: Egli ha dato la sua vita per le sue pecore alfine di cambiare nel sacramento dell’Eucarestia il pane nel suo corpo ed il vino nel suo sangue, e nutrire così con l’alimento sostanziale della sua carne, le pecore che aveva riscattato. » (S. Greg. Homl. XIV in Ev.); – 6° come un padre nei riguardi di suo figlio: Colui che era il pane vero ed il latte perfetto del Padre si è dato lui stesso a noi, affinché fossimo nutriti dalla mammella della sua carne, ed essendo abituati da questo allattamento divino a mangiare e bere il Verbo di Dio, noi possiamo riceverlo e conservarlo dentro di noi (S. Iren., 1, IV, c. 74); 7° come l’anima rispetto al corpo: Gesù-Cristo è in questo sacramento l’anima della nostra anima, lo spirito della nostra bocca, (Lament., IV, 20); come il corpo è morto se non è vivificato dallo spirito, così la nostra anima è morta se Gesù-Cristo non conserva in essa la vita per mezzo di questo nutrimento celeste che Egli dà a coloro che lo temono, l’Eucarestia è veramente l’opera delle mani di Gesù-Cristo, che è ugualmente il Sacerdote e la vittima del Sacrificio dell’altare. – « Il Signore si ricorderà eternamente della sua alleanza. » Il salmista vuol combattere le orgogliose pretese dei Giudei e di tutte le anime superbe, e togliere tutti gli oggetti di vanagloria; o piuttosto Egli vuole loro mostrare che i benefici di cui Dio li ha colmati non sono dovuti ai loro propri meriti, ma all’affezione che Dio aveva per i loro padri, ed all’alleanza che aveva stabilito con essi. (S. Chrys.). – Il nostro Dio è un Dio che si ricorda, che sa tutto, al quale nulla sfugge, che ha sempre davanti agli occhi, in un solo e medesimo punto, il passato, il presente e l’avvenire … Egli si ricorda soprattutto della sua alleanza con noi, rispetta per sempre le condizioni del trattato; ciò che ha promesso, lo esegue; quando giudicherà la terra e si degnerà, per così dire, di regolare i suoi conti, l’avrà vinta sui suoi contraddittori, sarà giustificato da essi (Ps. L, 6).

ff. 6, 7. – « Egli annuncerà al suo popolo la potenza delle sue opere. » Il compimento dei disegni di Dio incontra sempre mille ostacoli, la contraddizione è il prezzo delle sue opere. Ciò che era stato promesso al popolo antico, gli era stato disputato da numerosi nemici: è stato necessario che Dio impiegasse incessantemente in suo favore la forza del suo braccio, e non è questa una figura imperfetta dei prodigi operati fin dall’Incarnazione per stabilire il regno di Dio, sostenere l’istituzione nascente della Chiesa, e decidere il mondo a credere dei misteri incomprensibili e abbracciare una morale scoraggiante per la natura … – Tutti i secoli cristiani hanno così fatto risuonare più o meno nel brusio delle meraviglie di Dio e pubblicato la sua gloria e le sue grandezze (Mgr. Pichenot, abrég.). – Perché questo dispiegamento continuo di forza e di potenza? « Per dare l’eredità delle nazioni al suo popolo, e qui, come dappertutto, la giustizia e la verità brillano nell’opera delle sue mani. Per il popolo giudeo, questa era il possesso della terra promessa che i figli di Cam consideravano loro proprietà e loro eredità; per i Cristiani, nel senso profetico, è la conversione di tutti i popoli al Cristianesimo, e l’intenzione nella quale era il Signore, di dare a Gesù-Cristo ed alla sua Chiesa, l’eredità delle nazioni. « Domandate, dice Dio a suo Figlio che ha generato, ed Io vi darò le nazioni per eredità e la terra per impero. » (Ps. II, 8). – Come gli ebrei trionfarono dei cananei e piantarono la loro tenda su questa terra conquistata, così i ministri della nuova alleanza estenderanno dappertutto l’impero della verità e della giustizia, perché tutte le nazioni sono state promesse in eredità. – Ora, perché Dio cacciò le Nazioni dalla terra che esse abitavano, alfine di darle ai Giudei? Egli lo fece per delle giuste ragioni. « Le opere delle sue mani sono verità e giustizia. » Queste parole non devono restringersi al popolo giudeo ed agli avvenimenti che gli sono propri, ma esse hanno un significato generale. – (S. Chrys.). – « La verità ed il giudizio sono le opere delle sue mani. » Conservino energicamente la verità coloro che sono giudicati quaggiù. I martiri sono giudicati quaggiù, essi sono condotti da Dio al tribunale, ove giudicheranno non solo coloro che li avranno giudicati, ma anche gli Angeli (1 Cor., VI, 3). Non si lascino separare dal Cristo né dalla tribolazione, né dalle angosce, né dalla fame, né dalla nudità, né dalla spada, (Rom. VIII, 35); « … perché tutti i suoi precetti sono fedeli. » Egli non inganna mai; Egli dà sempre ciò che ha promesso. Tuttavia non è quaggiù che dobbiamo attendere o sperare ciò che ha promesso; perché « … i suoi precetti sono stati confermati per i secoli dei secoli, stabiliti come sono sulla verità e la giustizia. » Ora è per la verità e la giustizia che noi soffriamo quaggiù, e ci riposeremo nel cielo. In effetti, « Egli ha inviato la redenzione al suo popolo, e da cosa il suo popolo è riscattato se non dalla cattività del suo viaggio quaggiù? Non c’è dunque riposo da cercare se non nella patria celeste (S. Agost.). – Perché, ad esempio, sotto la nuova legge, nel mondo della redenzione, una contrada è chiamata prima di un’altra? Perché questo popolo passa avanti a quest’altro? Quale cammino segue la fiaccola della fede, e come Dio trasporta il candelabro della rivelazione? È il segreto di Dio; a noi è sufficiente sapere che in Dio non c’è ingiustizia, né preferenza di persone; Egli fa bene tutte le cose, Egli ha le sue ragioni per agire così; esse sono sempre degne della sua saggezza e della sua misericordia. « Tutte le sue opere, qualsiasi esse siano, sono verità e giudizio, cioè giustizia. » (S. Chrys.; Mgr. Pichenot).

ff. 8, 9. – Il Re-Profeta, secondo il suo costume, passa dalla saggezza e dall’ordine che brilla nel dettaglio sì variato della creazione, alle leggi stesse della Provvidenza che comincia ad esporre. Ciò non è solo per lo spettacolo delle opere di questa creazione sì ricca e varia, ma è dando delle leggi agli uomini, che ha loro tracciato una sicura regola di condotta; è così che nel salmo XVIII, egli riunisce queste due cose, che sembrano pertanto non aver tra loro alcun rapporto. (S. Chrys.). – Tre sono i grandi caratteri delle leggi di Dio: esse sono fedeli, cioè non ingannano nessuno; sono stabili e permanenti, perché devono durare per sempre; sono fondate sulla verità e la giustizia, perché hanno per autore Dio stesso, che è la verità e l’equità essenziale. (Berthier). – Il Re-Profeta, comprende qui tutte le leggi di Dio, le leggi della creazione, che reggono gli esseri inanimati ed ai quali questi esseri inferiori si sforzano di obbedire; ma soprattutto, ed è di queste leggi che parla il profeta, le leggi fatte per l’uomo, la legge naturale, la legge scritta sulle due tavole, e la legge del Vangelo. – Ora: 1° Queste leggi sono fedeli, non ingannano mai; tutto ciò che esse promettono viene eseguito, la loro sanzione è inevitabile; le ricompense offerte a coloro che le osservano sono assicurate, così come i castighi di cui minacciano i colpevoli. – 2° Queste leggi sono stabili e affermate per sempre. La legge naturale non cambia, i suoi principi sono fissi ed invariabili, fondati sulla costituzione dell’uomo e sulla natura stessa delle cose. I precetti del decalogo non sono mai più abrogati. Cosa bisogna fare per ereditare la vita eterna … si domanda a nostro Signore? « Se volete giungere alla vita, osservate i Comandamenti. » E quali? Quelli che il decalogo enumera. Il Vangelo è vero oggi come lo era ai tempi degli Apostoli. Invano si tenta, dopo milleottocento anni di alterarli, di sminuirli, di mandarli in frantumi; gli eretici, i filosofi ed i cattivi Cristiani vi hanno perso il loro tempo; essi non hanno potuto cancellare il più piccolo iota, questi sussistono nella loro interezza, immutabili e fondati per tutti i secoli; i tempi ed i luoghi non vi mutano nulla, e mentre vediamo i trattati pretesi immutabili, le costituzioni più sapientemente elaborate cadere e sparire al soffio delle rivoluzioni e dei tempi, il Vangelo resta; il suo regno non avrà mai fine, perché Gesù-Cristo: “era ieri, oggi e sarà nei secoli”. – 3° Queste leggi sono fondate “sulla verità”, su ciò che è, sulla conoscenza esatta e precisa di Dio e dell’uomo, sui rapporti necessari che esistono tra di essi; « sulla giustizia », cioè su ciò che deve essere; perché gli obblighi che Dio ci impone scaturiscono dall’essenza e dalla natura stessa delle cose; non c’è nulla di arbitrario, nulla di inutile … Così qui possiamo notare, con gli interpreti, tutto ciò che entra nella definizione di una legge verace: la volontà formale di colui che stabilisce  le leggi, ed ha diritto di stabilirle, « omnia mandata ejus »; la sanzione che è conferma, “fidelia”; la stabilità che le distingue, « confirmata in sæculum sæculi »; la verità e la giustizia che servono loro come base, « facta in veritate ed æquitate. » (Mgr. Pichenot). –Tre sono le grandi opere di Dio per rapportarci a noi: l’opera della creazione, l’opera della redenzione e l’opera della santificazione. Il Profeta già celebra nel salmo il Dio Creatore, le cui opere sono così grandi e sì ben proporzionate alle sue vedute, di cui la Provvidenza è sì paterna e giusta, di cui le leggi infine riposano tutte sulla ragione e sull’equità; qui, egli canta il Dio Redentore. –  Il Signore ha inviato la redenzione al suo popolo. » Nel senso storico, il Re-Profeta vuol parlare della libertà resa ai Giudei; nel senso figurato e profetico, si tratta della liberazione del mondo intero, come vediamo nelle parole seguenti: « Egli ha concluso con lui una alleanza eterna. » Ed è qui questione della Nuova Alleanza: il Profeta ha parlato dell’antica legge e dei suoi precetti, ma siccome essa non è stata osservata e non ha fatto che provocare la collera di Dio, egli aggiunge: « … il Signore ha inviato la redenzione al suo popolo. » (S. Chrys.). Bontà infinita di Dio è l’aver inviato agli uomini un Salvatore, un Redentore, per metterli in condizioni di compiere i suoi precetti con l’infusione del suo Spirito e della sua grazia. « Il Figlio dell’uomo è venuto a dare la sua vita per la redenzione di un gran numero. » (Matth. XX, 28). « Ciò che era impossibile che la legge facesse, indebolendosi la carne, Dio lo ha fatto, quado ha inviato il suo Figlio, rivestito da una carne simile a quella del peccato, ed a motivo del peccato, Egli ha condannato il peccato nella carne, affinché la giustizia e la legge fosse compiuta in noi, che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo spirito. » (Rom. VIII, 3, 4). – E non è solo la redenzione che Egli ci invia, Egli impone una legge a coloro che ha riscattato, affinché la nostra vita sia degna di una sì grande grazia. « Egli ha fatto con lui una alleanza eterna. » (S. Chrys.). – « Il suo Nome è santo e terribile. » Il suo Nome è santo per i santi e per i giusti, è terribile per i peccatori e per i malvagi. (S. Girol.). – Fuggite innanzitutto dai castighi, evitate l’inferno; prima di desiderare le promesse di Dio, sfuggite alle sue minacce; « perché il suo Nome è santo e terribile. » (S. Agost.). Il santo Nome di Dio, è Dio stesso. – Siccome Egli è per sua natura spirituale ed invisibile, non può cadere sotto i nostri sensi, noi siamo ridotti a pronunziare il suo Nome quando vogliamo parlare di Lui, ed il Nome diventa così per la forza stessa delle cose, come è nel genio della lingua ebraica, il simbolo e la personificazione dell’Onnipotente … Dio è santo, Egli detesta il peccato, ha in abominio l’iniquità; il male gli dispiace sovranamente, lo condanna, lo respinge con perseverante energia … questa santità ci obbliga – noi suoi figli, suoi servi – : « siate santi, perché Io sono santo; siate perfetti, come è perfetto il vostro Padre celeste. » … Ma se siamo così ingrati, temerari nell’infrangere la sua legge, subito qualcosa di nuovo avviene in Lui. La sua potenza affrontata, la sua grandezza oltraggiata, la sua bontà disprezzata, la sua giustizia provocata, tutti i suoi attributi violati fremono, e da Santo che era, diventa minaccioso e terribile. (Mgr. Pichenot). 

III — 10.

ff. 10. – « Il timore del Signore è l’inizio della sapienza. » L’inizio della sapienza considerata nel suo effetto, è l’inizio delle operazioni della sapienza in noi, ed in questo senso il Profeta dice: il timor di Dio è l’inizio della Sapienza. Bisogna tuttavia distinguere qui il timore servile dal timore filiale: il timore servile è come un principio estrinseco, che predispone alla saggezza nel senso che allontana dal peccato per la paura del castigo, secondo queste parole dello Spirito-Santo: « Il timore del Signore caccia il peccato; » (Eccli. I); ma il timore casto o filiale è l’inizio della sSpienza come il primo effetto diretto della Sapienza. In effetti, poiché appartiene alla Sapienza dirigere, regolare la vita umana secondo le ragioni divine, è necessario che l’uomo cominci col temere e riverire Dio, e sottomettersi a Lui. È così che come per conseguenza naturale, tutte le sue azioni saranno dirette secondo le regole che Dio stesso ha stabilito. (S. Thom. II; IIæ. q. XIX, art. 7). – Il Profeta-Re, che ha celebrato nel versetto precedente le due alleanze e le due redenzioni, sembra rimarcare in questo, i loro meravigliosi effetti sul cuore, e le disposizioni necessarie per mantenervisi e ben profittarne: il timore che è l’inizio della Sapienza; la Sapienza che è l’effetto ed il coronamento del timore; il timore, che è il carattere proprio della legge antica; la Sapienza che è, con la carità, la gloria della Nuova Alleanza e del santo Vangelo; il timore, che è il primo, il meno perfetto dei doni dello Spirito-Santo e che ci allontana dal male; la Sapienza, che ne è il più eccellente, l’ultimo e che ci porta al bene; il timore e la Sapienza, con i due grandi attributi che li fanno nascere. (Mgr. Pichenot, Ps. de la D.). – Questo timore è buono per il peccatore poiché lo ritrae dal male, dall’abisso dei vizi e delle passioni; quel timore è buono anche per i giusti stessi che, in certi momenti di stanchezza, non hanno più risorse se non nelle terribili minacce, nei pensieri travolgenti degli ultimi fini, nel ricordo della morte che giunge, nelle apprensioni del tribunale che sta per ergersi, negli orrori dell’inferno. In certe occasioni delicate, non c’è che il terrore che possa raffreddare il cuore e fermare la mano; è talvolta l’ultimo freno dello stesso giusto ed è ancora come una schiuma bianca (Ibid.). – Senza dubbio la carità val più del timore; ma il timore precede ordinariamente l’amore e gli serve da furiere, come dice ingegnosamente San Francesco de Sales; è un Giovanni Battista che precede il Salvatore, è l’ago appuntito che buca il tessuto per entrarvi e lasciar passare dopo di esso il filo d’oro o di seta che deve abbellirlo. – « L’intelligenza è buona in coloro che la praticano. L’intelligenza è buone, chi può negarlo? Ma comprendere e non fare, è cosa pericolosa. Di conseguenza, l’intelligenza è vantaggiosa per coloro che agiscono. (S. Agost.). – In effetti la fede non è sufficiente se la nostra vita non è conforme ai suoi divini insegnamenti. Ma come il timor del Signore è l’inizio della Sapienza? Perché esso ci libera da tutti i vizi per insegnarci la pratica di tutte le virtù. Ora la Sapienza di cui parla qui il Profeta, non è quella che consiste nelle parole, ma la Sapienza che si manifesta con le azioni. – Il Re-Profeta non vuole che ci si contenti di ascoltare, bisogna andare fino alla pratica: « Una intelligenza salutare rischiara coloro che la praticano; » cioè coloro che praticano la Sapienza e che la manifestano nella loro condotta, fanno mostra di una vera intelligenza. « Essi possiedono una buona intelligenza; » perché in oggetto c’è una intelligenza cattiva, quella di cui ci parla il Profeta: « essi sono abili e saggi nel fare il male e non sanno fare il bene. » (Ger. IV, 22). – Ciò che il Re-Profeta chiede, è una intelligenza che si metta al servizio della virtù (S. Chrys.). – Sapere tanto per sapere, è mera curiosità; sapere per essere risaputo, è vanità; sapere per vendere la propria scienza, è un vile traffico; ma sapere per edificare gli altri, è prudenza, è chiarezza (S. Bern.). – Aggiungiamo ancora che colui che è intelligente per la buona sorte, cioè – come dice il Re-Profeta – è intelligente e cerca Dio, non solo fa prova di riflessione e di saggezza, ma nel compimento dei propri doveri trova in più una sorgente feconda di attività e di luce. « Una salutare intelligenza rischiara coloro che la praticano. » – E questa pratica non deve gonfiare d’orgoglio, perché è la lode del Signore, « di cui il timore è l’inizio e la Sapienza sussiste per i secoli dei secoli », e questa lode che noi riceveremo da Dio, sarà la nostra ricompensa; colà è il fine ultimo, là è la dimora, là il trono eterno, là si verifica la fedeltà ai precetti del Signore, confermati per i secoli dei secoli, colà si trova l’eredità della nuova alleanza, di cui Dio fa un precetto per l’eternità. (S. Agost.).

PREDICHE QUARESIMALI – (II 2020)

-XIII-

NEL MERCOLEDÌ DOPO LA SECONDA DOMENICA.

[P. Segneri S. J.: Quaresimale; Ivrea, 1844, Dalla Stamperia degli Eredi Franco, Tipogr. Vescov.]

“Die ut sedeant hi duo filii mei, unus ad dexteram tuam, et unus ad sinistram in regno tuo, etc. Nescitis quid petatis.”

Matth. XX, 21 et 22.

1. Se fa mai veruno, che con arti onestissime cercasse di vantaggiare la sua famiglia, o povera o popolare, fu senza dubbio questa donna evangelica, fortunata madre di Giacomo e di Giovanni. Bramò ben ella di sollevare i suoi cari figli dalla barca al trono, e dalla pescagione al comando; eda tal fine procurò diligentemente che fossero collocati, come principali assessori, l’uno alla destra, e l’altro alla sinistra di Gesù, ch’ella credeva dover tra poco aprir una reggia terrena nella Giudea. Ma nol procurò come avviene comunemente, con arti inique. Non pres’ella per questo a perseguitare veruno di quegli Apostoli, che potevano essere i concorrenti da lei maggiormente temuti; non tessè frodi, non tramò furberie, non si valse di adulazioni, non tenne mano ad usure o aperte o palliate, per comperarsi con frequenti regali la grazia del nuovo principe. Ma che? Dopo aver già qualch’anno tenuti i due suoi figliuoli alla servitù stentata di Cristo: dopo averli notte e giorno mandati dietro a lui, scalzi ne’ piedi, e laceri nelle vesti; dopo avergli esposti per tal cagione assai spesso alle beffe del popolo, all’odio degli Scribi, agl’insulti de’ Farisei: dopo essersi ella medesima ancora data a seguirlo dovunque andasse, senza riguardo della casa rimasta sola, del marito lasciato vedovo, delle faccende trascurate, neglette, dimenticate; dopo tanti meriti, dico, verso di Cristo non altro fece che comparirgli dinanzi, che gittarsegli a’ piedi, e che presentargli una supplica ossequiosa, senza veruna né doppiezza di formule, né perversità di rigiri. Dic ut sedeant hi duo filii mei, unus ad dexteram tuam, et unus ad sinistram in regno tuo. Contuttociò tanto fu da lungi che Cristo desse alcun segno di approvazione o di applauso a quella ambiziosa domanda, che la rigettò piuttosto da sé con gravissima indignazione, la tacciò d’insensata, la riprese di temeraria, e con un nescitis quid petatis colmò di pubblica confusione la faccia de’ supplicanti. – Or dove sono coloro, i quali per ansia d’ingrandir la famiglia, o di straricchirla, si valgono non solo di mezzi onesti, e di sollecitudini non viziose, ma di menzogne inoltre e di trufferie, di oppressioni, di crudeltà, di calunnie, d’iniquità? Dove sono quei che a tal fine ardiscono profferire su’ tribunali sentenze ingiuste? Dove quei che stravolgono i testamenti o le cedole da’ lor sensi? Dove quei che defraudano i mercenarj o le chiese del loro dovere? Dove tutti coloro che attendono solamente ad aggravar gli orfani, a soverchiare le vedove, ad aggirare i pupilli, ed a succhiarsi fino all’ultima stilla il sangue de’ poveretti? – Vengano pure questa mattina costoro ad udirmi tutti, perch’io voglio che scorgano ad evidenza quanto malamente consiglinsi in tant’affare. Come? non condona Cristo a una madre per altro sì meritevole e sì modesta quell’affetto soverchio che la conduce a porgere a lui preghiere per esaltazione della famiglia, e lo condonerà a chi procuri esaltarla a dispetto suo? Oh fatiche male spese! oh vigilie mal impiegate! Su le usure dunque, su le rapacità, su le ruberie, su le rovine dei miseri volete voi stabilire la casa vostra, tanto sviscerato è l’amor che a lei portate? Attendete, e vedrete che questo amore, se pur amore ha da dirsi, è un amor crudele.

II. Ma prima, come esser può che voi da voi medesimi non veggiate quanto poco quest’arti debbano riuscire giovevoli al vostro fine? Certa cosa è che gli eredi vostri, se vorranno operare cristianamente, non potran ritenere punto di ciò che voi loro abbiate lasciato di mal acquisto, e per conseguente indarno voi durate al presente tante fatiche per arricchirli: converrà che, voi morti, calin di nuovo al loro pristino stato, che dismettan que’ lussi, che scemino quei servitori, che spopolino quelle stalle, e, in una parola, che vomitino (per usar la forma di Giobbe), che vomitino quante ricchezze hanno divorate: Divitias, quas devoraverint evoment (Job. XX, 15) pur essi non s’indurranno a ciò fare di buona voglia, che accaderà? Iddio medesimo le verrà loro di propria mano a strappare fin dalle viscere: de ventre ipsorum extrahet eas Deus. Che voglio significarci s’essi vorranno ritener punto di ciò che non si dovrebbe, eccovi Dio divenir nemico giurato di casa vostra; e però ditemi: sembra voi di lasciarla sicura assai con una inimicizia così potente? Mi ricordo aver fatto di Giulio Agrìcola, gran senatore romano, ch’essendo negli ultimi anni della sua vita caduto in odio all’imperador Domiziano, fu da esso però spogliato e di molte splendidissime rendite e di una segnalatissima dignità; anzi, come alcuni anche scrivono, avvelenato. Tollerò egli con prudente dissimulazione tanti disastri; e più della sua famiglia sollecito, che di sé, appigliossi morendo a questo stravagante partito. Fe’ testamento, e quivi in primo luogo chiamò per erede suo principale l’Imperadore, favellando sempre di lui con quelle maggiori espressioni di gratitudine, che avrebbe potuto usare non un Proconsole assassinato, ma un servo creato Console. Restarono stupefatti i meno intendenti a così inaspettata risoluzione, e giudicavan quella di Agricola sconsigliata semplicità di chi aveva prima potuto finir di vivere, che finir di adulare. Ma non così riputavano i più sagaci, i quali molto bene intendevano tornar meglio ad una onorata famiglia aver l’eredità svantaggiosa, e ‘l principe amico, che vantaggiosa l’eredità, ma nemico il principe. E conforme a questo, il successo poi dichiarò aver Agricola adoperato anche in ciò con quell’alto senno che sempre aveva dimostrato. E a dir il vero, ditemi un poco: voi stessi, se vi trovaste in eguali necessità non amereste assai meglio di lasciar la vostra casa men facoltosa, ma col principe favorevole, che di lasciarla più florida, ma col principe disgustato? Anzi ogni inimicizia potente che le lasciaste, ancorché fosse di un cavaliere privato, darebbevi gran pensiero: e se poteste comporla a qualunque costo, prima di partir voi dal mondo, non credo io già che perdonereste a danaro. Or s’è così, come dunque temer sì poco di lasciare ai posteri vostri un Dio per nemico? Vi par dunque egli sì debole, che non pigliar sue giuste vendette; o sì milenso ch’egli non sia per pigliarle? Anzi sentite ciò ch’Egli disse a Malachia di costoro che a suo dispetto, voleano pur far alte le case loro là nella superba Idumea: lasciali, lasciali fare, che al fine si vedrà chi miglior braccio, o essi nell’alzare, o io nell’abbattere; isti ædificabunt, et ego destruam (Mal. I, 4). E che sia così.

III. Andate un poco, ed informatevi, nelle divine Scritture di tutte quelle famiglie, le quali con le ree sostanze paterne ereditarono l’inimicizia divina; e poi tornatemi a riferire, se a veruna di loro giovi mai punto splendor di nascita, appoggio di parentele, ampiezza di possessioni, copia di rendite o grandezza anche somma di principato: anzi vedrete che questo appunto è quel caso, nel quale Iddio si è condotto a far cose insolite. Già voi sapete esser di legge ordinaria, che i figliuoli innocenti nulla patiscono per la malizia de’ padri filius non portabit iniquitatem Patris (Ezech. XVIII. 20). Nondimeno Dio, come signore assoluto, ha derogato talora a questa sua le e per lo peccato de’ padri non solamente egli ha puniti i figliuoli, ma i nipoti, ma i bisnipoti, anche sino alla quarta generazione, dacché la quarta comunemente era l’ultima, della quale un padre, già divenuto decrepito, potess’essere spettatore. Or se considerate per qual misfatto de’ padri usasse Iddio di esercitar ne’ figliuoli sì straordinarie vendette, vedrete che fu per questo reo desiderio di volerli arricchir con iniqui acquisti. – Con iniqui acquisti li volle arricchir quell’Acan, il quale contra la proibizione divina rubò in Jerico certa somma di oro ch’egli occultamente trovò; e però non solo fu dato egli alle fiamme, ma vi fu tutta anche data la sua famiglia (Jos. VII). Con iniqui acquisti li volle arricchir quel Giezi, il quale per via di astute menzogne tolse a Naaman una parte de’ donativi ricusati dal profeta Eliseo; e però non solo fu percosso egli di lebbra, ma ne furon percossi i suoi discendenti (IV Reg. 5). Con iniqui acquisti li volle arricchir quel Saule, il quale contro il divieto di Samuele si riserbò avaramente le spoglio degli Amaleciti sconfitti; e però non solo fu privato del suo regno, ma ne fu tutta privata la sua prosapia. (1 Reg. 15). Con iniqui acquisti li fece arricchir quell’Acabbo, il quale con Aperta ingiustizia tolse a Nabot una vigna che non poté appropriarsi a partiti giusti; e però non solo ei perì di morte violenta, mane perì tutta altresì la sua casa (III Reg. 21). Eppure Acabbo (udite cosa incredibile!), eppure Acabbo lasciò, morendo, la sua casa fondata sopra settantadue suoi figliuoli, e figliuoli maschi, onde pareva che essendo ella per altro provveduta di grossissime rendite, e dilatata in amplissime parentele, durar dovesse per via di generazioni gl’intieri secoli. E in manco di quindici anni tutta perì, tutta, tutta, senza che neppur un’anima sola ne rimanesse o de’ parenti prossimi o de’ rimoti: et percussisunt omnes de domo Achab, donec non remanerent ex eo reliquia (IV. Reg. 10. 11 ) . – Sicché vedete, che per questo delitto di malvagi accumulamenti non solamente ne patiscono i padri, i quali li fanno, ma con essi ancora i figliuoli, per cui son fatti, con essi i nipoti, con essi i pronipoti; essendo convenientissimo che in quello appunto l’uomo porti le pene, per cui commette le colpe. Come dunque, per ingrandire la casa vostra, voi vi inducete ad operare quelle arti, le quali appunto sono le più acconce a distruggerla? Vi par ch’ella possa promettersi una lunga stabilità con avere per suo nemico quel Dio medesimo, che in sì piccolo tempo seppe annientare famiglie sì popolate, anzi sì sublimi, sì splendide, sì potenti? Se non vi pare di aver giusta cagione di dubitare, fate pur voi; ma s’è manifesto il pericolo, che sciocchezza, per lasciare i posteri vostri un poco più agiati, lasciarli sì mal sicuri?

IV. Se voi vi abbiate a fabbricare, uditori, qualche edificio, non credo io già che vi porrete a fabbricarlo nel cuore di un crudo verno, ma aspetterete la primavera, ma aspetterete la state; e qualunque altra stagione voi sceglierete più volentieri di quella ch’è la più aspra. E per qual cagione? Perché gli edifici fabbricati di verno non sono durevoli; i ghiacci istupidiscono la calcina, le piogge ammollan la sabbia, e così i sassi non possono tra loro fare alta presa. Ora sapete voi ciò che sia fabbricarsi la casa con l’oro altrui? È fabbricarla di verno. Qui ædifìcat domum suam impendiis aliens (s’oda lo Spirito Santo nell’Ecclesiastico), qui ædifìcat domum suam impendiis alienis, quasi qui colligit lapides suus in hyeme(Eccli. XXI. 9); ch’è quanto dire, ad fabricandum in hyeme, come tutti dichiarano gli espositori. Voi fabbricate di verno,Cristiani miei, voi fabbricate di verno: però fermatevi; altrimenti la casa farà poi pelo,crollerà, caderà, precipiterà, e tutte queste saranno state fatiche gittate al vento; Væ qui ædifìcat domum suam in injustitia, et cœnacula sua non injudicio! così gridava Geremìa (XXII. 13). Vœ qui ædifìcat civitatem in sanguinibus, cioè nel sangue de’ poveri, et præparat urbem in iniquitate! così ripiglia Abacuc (II. 12 ). E voi più credete a’ vostri folli disegni, che alle minacce infallibili de’ Profeti? – Oh quante già fastose famiglie si veggono giornalmente andare in rovina per tal cagione, oh quante, oh quante! non si ricordando le misere, che i torrenti, perché si vogliono ingrossare o ingrassare d’acque non sue, sempre son però meno durevoli d’ogni fiumicello innocente, che del suo viva. Quando Zaccheo ravvedutosi disse a Cristo: Si quid aliquem defraudavi, reddo quadruplum; che rispose il Signore? Hodie salus domui huic  facta est (S. Luc. XIX. 8 et 9). Ma piano un poco. Che risposta fu questa? Pareva che dovesse dire huic homini, perché Zaccheo era stato l’operatore de’ furti, I’operator delle fraudi, che allor volea prontamente rifare i danni; e così pareva che tutta sua dovesse essere la salute. Sì; ma il Signore la intese meglio di noi: e però non disse huic homini, no; huic domui, huic domui; perché vedeva chiaro che se Zaccheo non avesse restituito, non sarebbe stato egli solo a portar le pene di que’ sozzi accumulamenti, quantunque fosse stato solo a commetterli.

V. Ma su, sia così, come voi desiderereste. Diamo che a casa vostra nulla debba arrecare di pregiudizio l’inimicizia divina; diamo che co’ malvagi conquistamenti voi la dobbiate eternare; diamo che le dobbiate accrescere credito, aggiungere autorità, acquistare aderenze; vi par però che vi torni conto di farlo? Infelicissimi hominum (lasciatemi sfogare stamane, ma sin dall’intimo, con le parole del gran prelato Salviano), Infelicissimi hominum, cogitatis quam bene alii post vos vivant, non cogitatis quam male ipsi moriamini! (ad Eccl. 1. 3). E chi mai vi ha insegnato di apprezzar tanto la prosperità temporale della vostra prosapia, che non dubitiate di avventurare per essa, la beatitudine eterna della vostra anima? Oh lagrimevolissima cecità! Dunque sì poco voi siete in pregio a voi stessi, che per verun uomo del mondo vi contentiate di andare ad ardere eternamente nel fuoco, a freneticar co’ dannati, a fremere co’ diavoli? – Io sempre aveva finora sentito dire, amare ogni uomo se stesso sopra d’ogn’altro; e sin da fanciullo mi si era impresso nell’animo il detto di quel Comico latinissimo (Terent.), il quale afferma: omnes sibi melius velle, quam alteri. Ma ohimè, che mi conviene al presente disimparare così celebre verità, mentre mi avveggo trovarsi tanti nel mondo, che co’ suoi stenti procacciano ad altri grandezza, a sé perdizione. Et ut alios affluere faciant deliciis temporariis, se tradunt urendos ignibus sempiternis (Salv. ad Ecc. 1.3). E che potrebbe farvi di peggio il più capitale nemico che aveste in terra? Finalmente ogni altro nemico potrebbe perseguitarvi, questo è verissimo: ma fin dove? fino alla bara, fino alla tomba; ma poi non più: omnis siquidem inimicitia morte dissolvitur, comeragionò l’istesso Salviano (1. 2. ad Eccl.).Ma voi non vi soddisfate per così poco;no, dico, no: vos cantra vos ita agitis, ut inimicitias vestras nec post mortem evadatis.Mentre non solo a benefizio de’ vostri eredi menar volete in questo mondo una vita travagliosissima, ora disputando ne’ tribunali, ora imprigionandovi nelle corti, ora consumandovi ne’ viaggi, ed ora annegandovi, per dir così, tra’ negozj sino alla gola; ma, oltre a ciò, fin dopo la vostra morte voi stendete la vostra persecuzione,e dopo aver per altrui perduta la pace e la sanità, non dubitate ancor di perdere l’anima e ‘l Paradiso. E qual mai de’ vostri avversarj, per inumano che fosse, per implacabile, potrebbe giugnere a farti tanto di male? – Ecco avverato quello che disse Abacucco (II. 6): va; ei, qui multiplicat non sua! Oh sciocco, oh sciocco!se sapesse che fa! Usquequo, et aggravat, contra se densum lutum!Avete notato? Non dice contra alios, no: contra se, contra se;perché, per far bene ad altri, con un amore stranamente crudele rovina sé, gravandosi di quel loto così pesante, da cui dovrà finalmente restare oppresso. E voi frattanto vedete un poco, o Cristiani, come Dio chiami di sua bocca quell’oro che da voi tanto s’ama, tanto s’apprezza: lo chiama fango, densum lutum.

VI. Ma forsechè nell’inferno verrebbevi a cagionare qualche conforto il risaper la grandezza e là gloria de’ vostri eredi? Anzi questo medesimo sarìa quello che forse allor maggiormente vi accorerebbe: considerare che quelli tanto trionfino a spese vostre, e che voi tanto peniate per amor loro. Misero, se a veruno di quanti voi siete qui toccasse (che a Dio non piaccia) una sorte sì luttuosa, di perder l’anima per arricchire la casa! Quante volte il dì si morderebbe lo sfortunato le labbra di si solenne pazzìa! quanto maledirebbe quel giorno ch’egli aperse i suoi lumi a mirare il sole! quanto maledirebbe quell’ora ch’egli snodò la sua lingua a formare accenti: Frattanto, a guisa di finti confortatori, gli verrebbon, credo, d’attorno quei neri spiriti, e con amarissimi insulti.- allegramente (direbbongli), allegramente. Noi veniamo ora dal mondo, ed abbiam quivi potuto ad uno ad uno conoscere tutti i tuoi. Tutti stan sani, prosperosi, gagliardi, ed attendon lieti a godersi quel patrimonio, per cui formare sei tu venuto fra noi. Uno di loro serve ora in corte il tal principe; un altro èssi accasato con la tal dama; un altro si ha buscato il benefizio, e tra poco anche aspira alla prelatura. E di che dunque, o sfortunato, ti attristi? Non ti eleggesti tu di morir dannato per farli grandi: Gli hai fatti: sta allegramente. Già quella femmina, cui per lasciar ricca dote non dubitasti di succhiare il sangue de’ poveri e di schernire i sudori de’ giornalieri, già quella femmina ha ritrovato il partito che tu bramavi; già i nipoti ti crescono, già si sperano i pronipoti: e tu ululi, misero, e ti affliggi? Cristiani miei, pare a voi che questi conforti sarebbon punto bastevoli a consolarvi? Anzi cred’io che parole  tali sarebbonvi tante frecce, sagittas potentis acutæ, violentemente scoccatevi in mezzo al cuore, e cum carbonibus desolatoriis (Ps, CXIX, 4). – Né  mirate all’affetto che or voi sentite verso la vostra prosapia, perché questo allora sarebbe tutto degenerato in rancore, in astio, in asprezza, in ferocità. Di Agrippina, madre dell’ imperatore Nerone, si legge, che essendo ella oltremodo desiderosa di veder lo scettro di Roma in mano al figliuolo, adoperava a questo fine ogni industria più che donnesca. Ne l’ammonirono gl’indovini caldei, chiamati da essa su tanto affare, e tutti ad una voce le dissero ch’egli a lei darebbe la morte, ov’ella a lui conseguisse la dignità. Che importa a me? rispose allora la femmina ambiziosa: occidat, dum imperet; muoja Agrippina, purché Nerone comandi. Ma quando poi si venne all’effetto, oh quanto diversamente si diportò! Non prima cominciò ella a scorgere i preludj della sua morte, benché lontana, nelle crudeltà del suo parto già dominante, che subito cominciossi a pentir di quello che tanto aveva sospirato. Ed ecco (chi ‘l crederebbe?) ch’ella medesima prese a trattar di rimuovere dall’imperio Neron suo figliuolo, e di sostituirvi Britannico suo figliastro, cui si sarebbe più giustamente dovuto per diritto di successione. Anzi a Nerone stesso fe’ riferire, ch’ella sarebbe ita in persona a trovar l’esercito, e che ivi tanto ella avrebbe attizzati gli animi de’ soldati, tanto avrìa perorato, tanto avrìa pianto, finché si risolvesser di eleggersi nuovo principe. Ma poco valsero alla meschina minacce più feroci che sagge; perché da esse vieppiù irritato Nerone, fece morire Britannico di veleno, e indi a poco, sotto sembiante di onore, custodir la madre in palazzo. – Or che pare a voi? S’uno fosse ito a trovar allora Agrippina, mentre ella smaniava dentro a tal carcere, come leonessa in serraglio, o tigre in catena, o, quasi per consolarla, le avesse dotto: serenissima mia signora, e di che vi dolete voi? Non furono vostre quelle sì animose parole: purché Nerone comandi, Agrippina muoja: occidat, dum imperet? E come dunque ve. ne siete ora sì presto dimenticata? Confortatevi: già il vostro figliuolo siede regnante in quel trono che voi con industrie, così sagaci, per non dirsi maligne, gli procuraste; già riscuote i tributi delle provincia straniere, già riceve gli ossequj delle milizie ubbidienti. Anzi con la morte del giovinetto Britannico, che solo potea contendergli il principato, egli è già sicuro. Dunque né vi amareggi la prigionia ch’or patite, né vi atterrisca la morte qualor verrà; perciocché tutte queste sono miserie da voi previste, e nondimeno volute, purché con esse voi conseguiste l’imperio al vostro amato Nerone. Ditemi di grazia, uditori: se uno avesse favellato ad Agrippina in questo tenore, pare a voi ch’ella sarebbesi consolata? Anzi è credibile ch’ella avrebbe prorotto in maggiori smanie, considerando non poter lei contro di altri sfogar la rabbia, che contro di sé medesima. E di fatto, che tali ragioni non bastassero ad acquietarla, è manifestissimo; perch’ella fin di prigione altrettante arti malvagie seguì a tentare per lor l’imperio al figliuolo, quante n’avea prima impiegata per darglielo, a segno tale, che le convenne, qual rea di lesa maestà, comparire in giudizio a giustificarsi. E finalmente, dopo aver schivata in vano la morte altre volte a lei destinata, ben dimostrò su gli estremi della sua vita, quant’ella odiasse chi prima aveva tanto amato; perché veggendo comparire in sua camera un capitano col ferro ignudo, per segarle la gola, o passarle il petto; ella, quasi frenetica di furore, gli offerse il ventre; e: qui qui ferisci (gli disse), ferisci qui; In mortem Centurioni ferrum distringenti protendens uterum: ventrem feri, exclamavit(Tacit. 1. lo. c. 8); non so se per detestazione o se per vendetta di aver lei dato ricetto in esso ad un mostro, o, per usar più portentoso vocabolo, ad un Nerone. – Or mi perdonerete, cred’io, signori miei cari, se con qualche prolissità io ho voluto qui ponderare un successo profano sì, ma forse ancor profittevole. Perocché sembrami di potere da questo argomentare convincentissimamente così: se una madre cotanto ebbra di amore verso il figliuolo, che si offerse a morire per farlo Cesare, quando poi videsi questa morte vicina, cambiò talmente ed opinione ed affetti; che sarà di quei miserabili, i quali nell’inferno si veggano condannati ad un fuoco eterno, per aver fatto i loro, non Cesari (che finalmente sarebbe stata grandezza assai rilevante), ma o di plebei cittadini, o di cittadini nobili, o di nobili consolari? Pare a voi ch’essi non fremeranno di rabbia più che la sfortunata Agrippina? Parlate voi di presente a qualcuno di questi avidi accumulatori di roba, di cui trattiamo, e ditegli: mio signore, avvertite bene: cotesti vostri censi non sono leciti, cotesti vostri cambi non sono leali; e voi giungerete bensì con le oppressioni che giornalmente voi fate de’ poverelli, a comperare al vostro figliuolo il tale cavalierato, la tal commenda, o il tal titolo di rispetto; ma di poi questo probabilmente sarà l’eterna perdizion dell’anima vostra. Che vi rispondono? Si fanno beffe di voi; e se non con le parole, almeno co’ fatti vi dicono: non importa: occidat, dum imperet, occidat dum imperet. Perdiamo l’anima, purché s’ingrandisca la casa; perdiamo l’anima, purché s’ingrandisca la casa. Sì? Oh miseri! voi non capite al presente ciò che voglia dir perder l’anima; ma quando verrà quell’ora che il capirete, e che d’ogn’intorno vi scorgerete orribilmente assediati da fiamme, da mannaje, da ruote, da zagaglie, da vipere, da dragoni, oh quanto subito in voi verranno a cambiarsi sì crudi amori!

VII. – Io certamente mi persuado (sentite bene), se che allora da Dio vi fosse permesso di scappar dagli abissi, e di ritornarvene a’ vostri per piccol’ora, voi nel più cupo della notte entrereste con passo tacito in quella casa che fu vostro antico soggiorno; ed ivi rimirando que’ paramenti, que’ mobili, quegli arredi da voi malvagiamente adunati, non potreste più contenere l’interna smania; ma con le fiamme che avreste d’attorno, ne volereste or in questa parte, or in quella per darle il fuoco. Abbrucereste quelle lettiere dorate, que damaschi magnifici, que’ quadri vani, quegli scrigni preziosi, quelle arche piene, quei vestimenti superbi. Indi calereste furiosi dentro le stalle a soffocare i cavalli, dentro le rimesse ad incendiare le carrozze. Passereste a’ giardini, agli orti, alle ville; e scurendo per quei poderi, da voi comperati con oro di mal acquisto, tutte mandereste in un tratto a fuoco ed a fiamme le viti, gli alberi, e le peschiere, e i boschetti, e i grani, e le biade, per isfogare qual forsennati la rabbia delle vostre miserie contro a ciò che fu la materia delle vostre scelleratezze. – Ma tolga Dio da ciascun di voi questo augurio così funesto; e voi piuttosto confessate frattanto con schiettezza, se non a me, almeno a Salviano che vi domanda (lib. 3 ad Ecc.): non farebbe una pazzìa solennissima chiunque di voi per altrui giugnesse a dannarsi? Oh infelix ac miseranda conditio! bonis suis aliis præparare beatitudinem, sibi afflictionem; aliis gaudia, sibi lacrymas; aliis voluptatem brevem, sibi ignem perennem! La vostra salute siavi raccomandata, la vostra felicità, la vostra anima. Com’è possibile tenerla, voi Cristiani, in pregio sì vile, che la vogliate avventurare per un figliuolo, per un fratello, per un nipote, per un cugino, per un cognato, anzi per un erede talor posticcio, ch’altro del vostro non ha, che un cognome equivoco, se non ancora imprestato? Amate i vostri congiunti (questo va bene, ma dopo l’anima vostra; amate la loro prosperità temporale, ma più la vostra beatitudine eterna; amate la lor grandezza terrena, ma più la vostra gloria celeste: in unaparola: amate, non obsistimus, amate filios vestros, sed tamen secundo vobis gradu, Ita illos diligite(belle parole!), ita illos diligite, ne vos ipsos adisse videamini; inconsultus namque ac stultus amor est, alterius memor, sui immemor. Fin qui Salviano.

VIII. Benché non è questo veramente, non è un amare i congiunti, anzi è un odiarli con furor più che barbaro, più che ostile, e appunto diabolico. Perocché sentite: non vedete voi, che lasciando ai posteri vostri qualunque parte di roba mal acquistata, ponete anch’essi in evidente pericolo della loro dannazione? Ogni ricchezza,  avvengachè procacciala con arti lecite, sempre è pericolosa, quand’è abbondante. Quid enim sunt carnales divitia, così lo dice elegantemente Cirillo (Apol. mor. l. 3. c. 3), nisi blandimenta libidinis, fomenta cupiditatis, onera mortis? Confermalo santo Ambrogio (lib. 2. in Job c. 5; et apud Dan. c. 4. da cui son chiamate materia perfidiæ, illecebra delinquendi. Confermalo Pier Bleseuse (in Job) da cui son dette virtutum subversio, seminarium vitiorum. Confermalo San Giovanni Crisostomo (Hom. 6 de avar.), il quale, oh Dio! che mal non disse di loro? Le chiamò micidiali, le chiamò nemiche implacabili: Homicidæ, crudeles, implacabiles, quæque numquam erga eos, a quibus possidentur, remittunt simultatem. Le chiamò venti che muovono ognor tempesta (Hom.17 ad pop.); le chiamò fiere che sbranano ogn’ora i cuori (Hom. 6. de avar.); le chiamò fiamme che incendiano ogni ora il mondo. Hinc inimicitia, diss’egli, hinc pugnæ, hinc contentiones, hinc bella, hinc suspiciones, hinc convitia, hinc furta, hinc cædes, hinc sacrilegio(Hom. 65. ad pop.).Adunque certa cosa è, che, generalmente parlando, quanto più di ricchezze voi lascerete a qualunque siasi de’ vostri, tanto più lor lascerete ancor di pericoli; né miglior senno farete di chi vada a porre ai bambini in mano un coltello ben aguzzo,ben affilato, perd’egli ha il manico tempestato di gioie. – Or se ciò di tutte le ricchezze si viene a verificare, quanto più dunque di quelle, che siccome son prole d’iniquità, cosi, secondo il bel detto dell’Ecclesiaste, sogliono riuscirsi anche madri di perdizione? Divitiæ conservatæ in malum domini sui (Ecc. V. 12). Quanto rimarrebbe allacciata la coscienza del vostro erede, considerando non poter lui possedere con buona fede punto di ciò che voi gli avete acquistato con male industrie!Ch’egli il restituisca, è troppo difficile; se non lo restituisce, egli è già spedito. Adunque chi non conosce la perdizione che voi loro apportate con tali lasciti? E questo è amore, questa è affezione di padre? anzi è rancore, anzi è rabbia di parricida: inimici hominis domestici ejus (Mich. VII. 6). Meglio sarebbe, dice san Giovanni Crisostomo, che voi li lasciaste mendici: perché finalmente da qualsiasi meschinissima povertà potrebbero cavare qualche ben per l’anima loro, come per la sua ne cavò già tanto Lazaro l’ulceroso; ma da ricchezze inique nessuno. Non enim potest ad bonum proficere quod congregatur de malo (Imperf.hom. 38 in cap. XXII S. Matth.). Non possono con queste né arricchir tempi, né provvedere bisognosi, né soccorrere monasteri, né giovare a’ defunti, né placar Dio; e siccome senza colpa non possono ritenerle, così nemmeno possono spenderle senza colpa. Ditemi dunque, se può nel mondo trovarsi uno più miserabile di chi abbondi di tali beni. E questi beni voi, morendo, volete lasciare per patrimonio a’ vostri più cari? Oh amor crudele! oh stravaganza! oh spietatezza!oh barbarie di mente insana! -Racconta santo Antonino, arcivescovo di Firenze, nella sua Somma un caso atrocissimo.Si trovava già presso morte uno di questi empj ricchi, di cui parliamo; che però fu esortato dal sacerdote a restituire quei mali acquisti, de’ quali era reo; ma egli si stava immobile come un sasso: non si rendeva a preghiere, non si riscuoteva a minacce. Vi s’interposer però fin due suoi stessi figliuoli a persuaderglielo. Ai quali egli: non posso, miei figliuoli, non posso restituire; perché, s’io di poi campassi, mi converrebbe tutto dì mendicare di porta in porta la vita a stento; e s’io morissi, dovresti emendicar voi. Risposer questi, che quanto alle lor persone lasciasse pure diaverne sollecitudine, perché essi meglio amavano il padre salvo e sé poveri, che sé ricchi e il padre dannato. Allora il padre con occhio bieco mirandoli: tacete (disse), o figliuoli senza cervello. Non avete ancor imparato quanto più pietoso sia Dio, che non sono gli uomini? S’io son peccatore, posso sperar che Dio mi usi misericordia; ma se voi sarete mendici, come potrete confidare che gli uomini vi abbiano compassione.E persuaso da questo folle discorso, miserabilmente morì. Fece questo discorso grand’impressione nella mente de’ due fratelli, i quali rimanevano ereditieri delle ree sostanze paterne; nondimeno poi consigliatomi meglio seco medesimo uno di loro, volle fare perfetta restituzione della sua parte;ma non già l’altro la volle far della sua.Che avvenne però? Non andò molto, che di loro, il malvagio fini la vita, e l’innocente si consacrò religioso nell’inclita figliolanza di san Francesco. Or mentre il religioso stava una notte in solitaria contemplazione, ecco mira innanzi a’ suoi occhi spalancarsi una gran voragine, e tra nembi di fumo, tra nuvole di caligine, e tra torrenti di fuoco, tra volume di fiamme scorge il suo padre ed il suo fratello nel mezzo di una foltissima turba di condannati. Qual però credete che fosse l’atteggiamento in cui li mirò? Stavano insieme que’ due meschini afferrati come due mastini rabbiosi, ora svellendosi scambievolmente i capelli, or graffiandosi il viso; e con vicendevoli insulti:per te, maledetto figlio, diceva l’uno, io patisco questi tormenti; ed io, diceva l’altro,per te maledetto padre; meglio era pure ch’io generassi un serpente, diceva il padre; ed io che fossi generato da un orso,rispondevagli il figliuolo. Tu, figlio infame, mi strazi: tu mi braci, padre inumano. E con questi orrendi diverbi, vie più fremendo,avventavano i denti l’un con l’altro,quasi che il lor solo conforto fra tante pene non altro fosse che fare a gara tra lor di mangiarsi vivi, come due mostri legati insieme a una catena medesima. – Or ecco,signori miei, quale per relazion di un Santosi celebre sarà l’emolumento che ritrarranno per tutta l’eternità i padri delle inique ricchezze lasciate a’ figliuoli, ed i figliuoli delle inique ricchezze ereditate da’ padri.Sembra a voi però che si debba a così gran costo comperar la breve fortuna d’una famiglia? Se questo è amare sé stesso, che sarà odiarsi? e se questo è beneficare i congiunti,che sarebbe perseguitarli? Stabilisca dunque, che quando ancora i malvagi accumulamenti punto valessero ad ingrandire la casa, l’ingrandirla così non sarebbe spediente né a voi, né a’ vostri. Pensate poi che sarà, mentre, come da prima noi dimostriamo, questa è la maniera più certa da sterminarla. Væ qui congregat avaritiam malam domui suæ, ut sit in excælso njdus ejus! (Habac. II. 9) Ma perché, santo Profeta?; perché, perché, perché? Cogitasti confusionem domui tuæ (Ib. 10). Voi ponderatelo, ed io mi riposerò.

SECONDA PARTE

IX. Presupposto dunque, che per tante ragioni voi non dobbiate volere, ad ontadi Dio, far la famiglia più ricca di quelch’ell’è, che rimane a dire, se non che deponiate ormai dal cuore quella smoderata sollecitudine, con cui, per provvedervi a’ bisogni de’ vostri eredi, voi trascurate con amor crudo il pensiero della vostra anima? Deh cominciate a prezzar un poco una volta ciò che conviensi apprezzare, e  considerate tra voi: voi per ventura già carichi di anni, già cagionevoli della persona, e per conseguente vicini anche alla morte. Non andrà molto che vi converrà comparire avanti al tribunale divino, per rendere ragion dell’anima vostra: già vi aspettano da una parte gli Angeli come testimoni fedeli di quanto avrete operato;già dall’altra i demonj, come accusatori implacabili: e voi state ancora a pensare che mangeranno gli eredi vostri di buono dopo la vostra morte, come potranno abitare con comodità, come vivere con delizia? Ecce expectat te jam egressurum de ista vita officium tribunalis sacri, ritorna a parlare Salviano (1. 3 ad Eccli.), et tu delicias aliorum mente pertractas; quam bene scilicet post te hæres tuus de tuo prandeat, quibus copiis ventrem expleat, quomodo viscera exsaturata distendat? Queste son dunquele cure vostre più gravi, questi i pensieri più assidui, – come se allora nel tribunale divino doveste essere più sicuri, quando aveste lasciati i vostri più ricchi? So che vi gioverà allora gran fatto di poter dire:Signor, salvatemi. E perché? Perché io,conforme i vostri consigli, ho vestiti tanti ignudi? Perché ho dotate tante fanciulle? Perché ho riscattati tanti prigioni? Perché  ho pasciuti tanti famelici? Perché ho procurato di propagare in mille modi la gloria del vostro Nome? No, Signor mio, non per questo; ma perché ho lasciata la mia casa fornita di molte comodità, perché i miei posteri epulantus quotidie splendide; perché luxuriantur in peristomatis, quæ ego feci; perchè fornicantur in sericis, quæ reliquie (lb. IV, ad Eccl.): però salvatemi. Se dir questo vi par che debba giovarvi,pur ad accumular la roba con sì profonda ansietà; ma se vedete, che ciò piuttosto è per nuocervi, deh convertite l’ansietà in miglior uso, ed in cambio di pensar più tanto ad altri, pensate a voi.Revertere potius in tedirò a ciascuno con le belle parole di santo Eucherio, ut tu sis carior tibi, quam tuis (ep. 1 Parænet.). – Che se pur, de’ giovani vostri voi siete ansiosi, abbiate questa fidanza, che Dio piglierassi continuamente diloro una cura più che paterna, se voi sempre avrete all’amor del sangue anteposto l’onor di Dio. Povera Rut! Non capitò ella in Betlemme, giovane vedovella senza alcun bene? Contottociò, perché Dio n’avea patrocinio, trovò ancora in paese, ov’era straniera, un uomo ricchissimo che la tolse per moglie. Povera Ester! non dimorava ella in Susa, orfana fanciulletta senza alcun nome? Con tutto ciò, perché  Dio n’avea protezione, trovò ancora in paese,dov’era schiava, un potentissimo re che l’assunse al trono. Fidatevi dunque, fidatevi,che Dio non mancherà di pensare egualmente a’ vostri. E se voi frattanto Bramante come un prototipo bello, a cui conformarsi, rappresentatevi quel sì famoso Tobia.

X. Aveva egli nella sua canuta vecchiaia un sol figlioletto, speranza della sua stirpe, sostegno della sua debolezza, e quasi luce della sua cecità. E però, quantunque lo amasse con una svisceratissima tenerezza, era nondimeno sì lungi dal volerlo arricchire per vie men giuste, che udendo un giorno belar in casa un capretto comperatogli dalla madre, cominciò il buon vecchio con alte grida terribili a schiamazzare: ohimè, che sento? un capretto in casa! guardate bene, di grazia, guardate bene ch’egli non sia per ventura scappato qui dalla soglia di alcun vicino; e s’egli è, presto, rendetelo a’ suoi padroni, perché non conviene a noi di mangiare, non conviene a noi di toccare ciò ch’è di altrui. Videte ne forte furtivus sit: feddite eum dominis suis, quia non licet nobis aut edere ex furto aliquid, aut contingere (Tob. II. 21). Anzi, non contento di ciò, tutto quello che poteva mai risparmiare dal quotidiano sostentamento della povera famigliola, tutto veniva ripartito da lui caritatevolmente a persone più bisognose, tutto a’ prigioni, tutto a’ pupilli. Potea parere al giovinetto figliuolo una specie di crudeltà, veder che il padre, già grave di anni, si pigliasse sì poca cura di comporgli un patrimonio, se non fiorito, almeno decente, a potersi poi sostentare. Onde il buon vecchio, quasi che di questo volesse giustificarsi presso il figliuolo, lo chiamò un giorno; e, dopo avergli premessi di molti salutevoli documenti, gli significò lo scarsissimo capitale, ed i sottilissimi censi, che possedevano. Indi con le lagrime agli occhi: non dubitare (soggiunse), figliuol mio caro; bene io veggo quanto sia poco ciò che ti lascio: angustissima abbiamo l’abitazione, meschino il vivere, dispregiato il vestire; ma sappi, figlio, che molto avremo di bene, se non mancheremo d’un timor santo di Dio, e d’un’osservanza esattissima della legge: Noli timere, fili mi: pauperem quidem vitam gerimus, sed multa bona habebimus, si timuerimus Deum(Tob. IV. 23). Così disse il vecchio Tobia. E non credete che, com’egli promise, così seguisse? Non andò molto, che il giovinetto figliuolo incontrò partito sceltissimo di accasarsi, buona dote, onorevole parentela, grossissima eredità. – Ora da questo vorrei che ancor voi pigliaste salutevole esempio, e che con qualche congiuntura opportuna ragionando da solo a’ giovani vostri: miei figli (diceste loro), voi ben vedete quale condizione sia quella di casa nostra. Anch’io potrei, se volessi, procurar di arricchirvi con quelle malvagie industrie, che oggidì sono in uso presso di molti ancora in questa città: potrei tenere anch’io di mano a cambi malsinceri, a censi malsicuri, a fraudi, a doppiezze, a falsificamenti, a litigi, ed a mille altre fallacie nel negoziare. Ma tolga Dio da me tali vizj: io non farei né a prò vostro, né ad util mio. Figliuoli cari, temete Dio, e non dubitate di nulla, perché vivrete sotto buon protettore. Non invidiate a’ cittadini vostri pari, quando vedrete che con biasimevoli acquisti alzino a fronte di casa vostra palazzi assai maggiori di quelli, ne’ quali nacquero, o piantino vicinoa’ vostri poderi ville maggiori doppiamente di quelle che ereditarono; non gl’invidiate di ciò: nolite attendere ad possessiones iniqua (Eccli, V.1), Come il Savio medesimo vi consiglia; ma piuttosto tenete sempre a memoria, che meglio è un piccolo patrimonio ad un giusto, che un grande ad un peccatore: melius est modicum justo super divitias peccatorum multas(Ps. XXXVI. 16). Lasciate pur ch’essi sfoggino per un poco, lasciate che vi soverchino: a Dio toccherà di far un giorno ad ognuno la sua giustizia. Osservate voi la sua legge, rispettatelo, riveritelo; e s’egli non avrà cura di provvedervi, doletevi poi di me. Pauperem quidem vitam gerimus, sed multa bona habebimus, multa bona habebimus, si timuerimus Deum. Tali siano gli avvertimenti che, ad imitazion del giusto Tobia, voi diate ai giovani vostri; e frattanto cominciate un poco a raccorvi in età già grave, a pensare più all’anima che alla casa, più alla coscienza che ai traffichi, più a Dio che al mondo. E se per l’addietro aveste, ch’io già non credo, contaminate le vostre mani d’acquisti poco innocenti, presto, presto, scoteteli presto via, soddisfate ormai tanti poveri mercenarj, pagate spedali, pagate chiese, pagate chiostri, adempite legali pii, e non vogliate ritener più presso di voi, neppur un momento brevissimo, quel danaro che non può se non cagionare a voi dannazione, retare ai vostri esterminio, e, come dice Michea, mantener sempre accesa implacabilmente l’inimicizia divina con casa vostra: ignis in domo impii thesauri iniquitatis ( Mich. VI. 10).

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (13)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (13)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) – P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA ABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO V

Effetti dell’Inabitazione dello Spirito-Santo

LE VIRTÙ INFUSE TEOLOGALI E MORALI

I.

Se la beatitudine fosse data solo a titolo d’eredità, non dovremmo preoccuparci di aver cura di meritarla con le nostre opere; basterebbe per ottenerla il possedere, con la grazia santificante e attraverso di essa, il titolo e la qualità di figlio di Dio adottivo. E’ proprio questo il caso dei bambini battezzati, finché non abbiano raggiunto l’età della discrezione. Per gli adulti è diverso, perché, secondo la parola di sant’Agostino, colui che ci ha creati senza di noi non ha ritenuto opportuno giustificarci e salvarci senza di noi. (S. Aug., De Verbis Apost.f serm , XV, cap. XI). – Era, infatti, per lo meno bene opportuno che, dopo essere stato divinizzato e risuscitato con un dono tanto sublime, fino alla partecipazione dell’essere e della vita di Dio, si dia all’uomo la possibilità di agire divinamente, di esercitare le funzioni della sua nuova vita e diventare così collaboratore di Dio e artefice secondario della propria salvezza. Anche il Concilio di Trento, infallibile interprete della verità rivelata, dichiara apertamente che « la vita eterna deve essere offerta ai giustificati, non solo come grazia misericordiosamente promessa dal Signore ai figli di Dio, ma anche come ricompensa per le loro buone opere e per i loro meriti, come corona di giustizia che il Giudice giusto riserva a chiunque abbia legittimamente combattuto (Conc. Trid.\ sess. VI, c. XVI.). » Per questo l’Apostolo san Paolo ci esorta ad abbondare in ogni tipo di azioni sante, con la ferma convinzione che, lungi dall’essere sterili nel Signore, il nostro lavoro debba invece ricevere una magnifica ricompensa. E per stimolare il nostro zelo e scuotere la nostra apatia, ci ricorda che siamo salvati solo nella speranza, spe salvi facti sumus (I Cor. V, 58 – Hebr. X, 35), e che potendo sempre, ahimè, perdere la grazia ricevuta, dobbiamo operare la nostra salvezza con timore e tremore (Rom. VIII,24). Unendo la sua grande voce a quella di san Paolo, il capo del collegio apostolico ci grida: « Cercate, fratelli miei, di assicurare la vostra vocazione e la vostra elezione attraverso buone opere. Così facendo non peccherete e vi concederete un felice ingresso nell’eterno regno del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo » (Fil. II, 12). – Ma per meritare, per produrre degli atti relativi alla nostra elevazione soprannaturale, per poterci muovere verso quell’ordine superiore che ci è stato assegnato dalla misericordia divina e che la natura non è in grado di raggiungere da sola, per agire divinamente, in una parola, abbiamo bisogno di forze, poteri, energie divine, di un aiuto speciale. Dio non ce li ha rifiutati; ce li concede persino con una varietà ed una sovrabbondanza veramente meravigliosa. Allo stesso modo, in effetti, che come nell’ordine  naturale possediamo un insieme di facoltà, intellettuali e sensibili, che derivano dall’essenza dell’anima e costituiscono altrettanti principi prossimi di operazione; così, nell’ordine soprannaturale, riceviamo con l’essere spirituale, tutta una serie di nuovi poteri, che derivano dalla grazia come sue proprietà, e perfezionano, nobilitano, elevano le nostre facoltà al di sopra di se stesse e permettono loro di produrre atti superiori alle forze della natura. (S. Th., Summa Theol., Ia IIæ, q. CX, a. 4, ad X.). Senza dubbio, la grazia attuale sarebbe di rigore sufficiente per questo tipo di operazioni; e, infatti, è attraverso un tale soccorso temporaneo e transitorio che Dio viene in aiuto del peccatore non rigenerato, per consentirgli di compiere gli atti preparatori alla giustificazione. Ma quando la vita soprannaturale ha raggiunto uno stato di perfezione in un’anima, quando le è stata comunicata in modo stabile con il dono della grazia santificante, non è più solo attraverso l’aiuto transitorio che Dio permette che quest’anima possa esercitare le funzioni della sua nuova vita; le infonde principi di attività proporzionati alle operazioni che deve compiere, le dà forza, qualità soprannaturali permanenti – tronchiamo le parole – delle abitudini, che le permettano di esercitare in modo come naturale, connaturaliter, delle opere soprannaturali. Queste abitudini sono le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo. – Questo organismo soprannaturale è stato mirabilmente descritto in una pagina che ci rimprovereremmo di non mettere sotto gli occhi dei nostri lettori. « È qualcosa di ineffabile – dice Msr Gay -che questo irradiamento attivo e benefico di Dio nella creatura che Egli abita….. Soprattutto, Dio irradia ed opera nell’essenza dell’anima. Egli riversa in essa questa grazia radicale che si chiama santificante, e che, essendo sia la condizione che primario effetto della sua presenza soprannaturale, diventa in noi un titolo e come un passaggio ai suoi altri benefici, e libra l’anima intera alle sue operazioni, almeno di diritto, in potenza e in principio. È con questa grazia che la libera, che la rischiara, che la rende nuova, giovane, candida, aperta a tutte le influenze alle quali la sottopone, docile a tutti gli impulsi che gli dà. – È con questa grazia che Egli tiene, per così dire, le radici di quest’anima, e, innestandola su di Lui, le fa bere la sua linfa tre volte santa, e diventa capace di proiettarla in tutte queste magnifiche potenze con cui si estende come l’albero nei suoi rami. Queste forze naturali, così numerose, così varie e già così ammirevoli, sono divinamente perfezionate da questa diffusione interiore, ciascuna secondo il suo ordine, la sua funzione e il suo fine. Tutte ne ricevono delle qualità nuove, superiori, essenzialmente soprannaturali, che sono allo stesso tempo delle dolcezze e delle energie, delle docilità e delle forze, delle trasparenze e dei concentramenti,  rendendo l’anima più passiva sotto la mano di Dio e allo stesso tempo più attiva nel servirlo e nel fare le sue opere. Queste sono innanzitutto quelle virtù sovrane che si chiamano teologali: la fede, la speranza e la carità. L’esperienza ci mostra che la luce solare unica si sfiocca in diversi colori, e prima di tutto in tre colori principali. Sembra che queste tre grandi virtù siano l’immediata espansione della grazia santificante. Poi ci sono le virtù infuse, sia intellettuali che morali. Queste sono i doni dello Spirito Santo che, derivanti dalle tre virtù teologali e dalla loro fonte, permettono all’anima di esercitare divinamente le virtù secondarie e diventare i semi fecondi dei frutti che Dio vuole raccogliere in noi. Senza dubbio l’unico Sacramento della Cresima dà automaticamente l’abbondanza di questi sacri doni; ma il semplice stato di grazia ne implica la presenza nell’anima, e non c’è un solo giusto che non li possieda tutti in questa o quella misura (Mgr Gay: De la vie et des vertus chrétiennes ie r traité) ». Lo stesso bambino, battezzato all’alba della vita e incapace a quest’età di un atto di bene o di male, riceve tuttavia con la grazia, tutta questa serie di virtù soprannaturali, come altrettanti semi che lo Spirito Santo getta nella sua anima, affinché, al primo risveglio della ragione, stiano già lì, pronti ad entrare in esercizio e a dare i loro frutti.

II.

Possiamo già vedere da quanto appena detto, che un quadruplo elemento costituisce la vita soprannaturale dei giusti: la grazia abituale o santificante, le virtù teologali, le virtù morali infuse e i doni dello Spirito Santo. Non sarà fuori luogo dedicare qui alcune pagine ad una breve esposizione della natura, del ruolo e del funzionamento di questi vari elementi. Se lo studio della vita organica e razionale offre al fisiologo e filosofo un’attrazione mediocre, quale forte interesse non dovrebbe avere un Cristiano nel conoscere gli organi, le funzioni ed i fenomeni della vita soprannaturale, in breve, i mezzi usati dallo Spirito Santo per provocare e promuovere la santificazione della sua anima? Diciamo solo una parola sul ruolo della grazia, la cui natura e i cui effetti abbiamo già sufficientemente spiegato sopra. – Per consentire all’uomo di compiere gli atti che devono condurlo alla visione beatifica, termine finale del suo destino, Dio riversa in lui prima di tutto la grazia santificante che svolge nell’ordine soprannaturale il ruolo dell’anima in quello della natura. Allo stesso modo in cui, con la sua unione al corpo, l’anima fa della materia vile e inerte un essere vivente e umano, così la grazia, vera forma di ordine superiore, comunica a chi la riceve un nuovo essere, un essere spirituale e divino, che fa dell’uomo un Cristiano e figlio di Dio (S. Th., De virt. in comm., q. un., a. 10.). E poiché l’essere è la perfezione propria dell’essenza, così come l’operazione è quella delle potenze, la grazia è ricevuta nell’essenza stessa dell’anima che essa rende partecipe della natura divina, mentre le virtù che l’accompagnano hanno come soggetto le varie facoltà umane che elevano e perfezionano aggiungendo alle loro forze native un’energia extra, più alta e più potente. (S. Th, De Verit., q. XXVII, a. 6 ). Nessuno deve stupirsi che, similmente all’anima che non agisce direttamente sulla sua sostanza, ma con l’intermediazione delle sue facoltà, la grazia santificante non opera immediatamente per se stessa, ma con l’intermediazione delle virtù infuse e dei doni che tengono il posto delle potenze. (S. Th., De Verit., q. XXVII, a. 5, ad 17.). È vero, è un principio di vita e di funzionamento, è un principio radicale e lontano, non un principio immediato e vicino; è la radice o il tronco dell’albero, le virtù soprannaturali sono i suoi rami; eppure, come tutti sanno, sono i rami che di solito portano fiori e frutti.  – Abbiamo nominato le virtù soprannaturali e le infuse. Esse si chiamano soprannaturali perché superano la portata e le esigenze della natura; infuse perché, a differenza delle virtù naturali o acquisite, che sono il risultato dell’attività umana e sono acquisite attraverso la ripetizione frequente degli stessi atti (ad rem. Cf. S. Th. Ia- IIæ q. LI, a, 4), esse possono venire solo da Dio, che le provoca in noi senza la nostra effettiva cooperazione, ma non senza il nostro consenso (S. Th., 1a-IIæ, q. LV, a. 4, ad 6.). Sono ancora chiamate virtù cristiane, perché sono appannaggio esclusivo del Cristiano perfetto, cioè del membro vivente di Gesù Cristo; vengono con la grazia, crescono, si sviluppano e scompaiono con essa, tranne la fede e la speranza, che perseverano nel peccatore e sono distrutte solo da una grave colpa in opposizione ad esse. Le virtù infuse vengono quindi impiantate in noi per elevare e trasformare le energie della natura e renderle capaci di meritorie operazioni di vita eterna, così come i rami di una specie più eccellente e nobile vengono innestati su di una selvatica, e la linfa naturale dell’arbusto, passando attraverso l’innesto, viene corretta e purificata al punto da produrre frutti che non sono più come in precedenza amari e selvaggi, ma dolci e squisiti. – Tra le virtù infuse ci sono in primo luogo le tre virtù teologali, così chiamate perché hanno Dio stesso come oggetto, che solo Lui può diffonderle nei cuori, e che alla rivelazione divina dobbiamo la loro conoscenza (S. Th., Ia-IIæ, q. LXII, a. 1). È impossibile mettere in dubbio l’esistenza di queste virtù, di cui san Paolo fa esplicita menzione nella sua prima epistola ai Corinzi: « Ora – egli dice – rimangono queste tre virtù, fede, speranza e carità; ma la più eccellente delle tre è la carità. Nunc autem manent fides, spes, charitas: tria hæc; major autem horum est charitas » (1 Cor.XIII, 13). Il Concilio di Trento non è meno formale. Esso insegna, infatti, che « nella giustificazione l’uomo riceve, con la remissione dei peccati, le tre virtù della fede, della speranza e della carità, infuse nello stesso tempo nella sua anima da Gesù Cristo su cui sono innestate ». Queste prove di autorità diventano ancora più convincenti se consideriamo il fine verso il quale dobbiamo sforzarci e muoverci attraverso i nostri atti. Se questo fine non fosse altro che la beatitudine proporzionata alla natura, le forze naturali, con l’aiuto di Dio, ci basterebbero per raggiungerlo. Ma poiché, nella sua infinita bontà, Dio si è degnato di chiamarci ad un fine soprannaturale, alla partecipazione della sua propria beatitudine, al possesso di beni che superano assolutamente la portata delle nostre facoltà, è di ogni necessità che Egli aggiunga alle nostre forze native altri principi di azione più potenti, energie di natura divina in relazione alla meta da perseguire e raggiungere. Questi principi superiori sono innanzitutto, le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità, che ci ordinano verso l’ultimo fine, che è Dio (S. Th., Ia-Iiæ, q. LXII, a. 1). Che cosa è necessario, infatti, affinché un essere ragionevole sia in grado di tendere in modo diretto e regolare ad un determinato scopo? Che ne abbia la conoscenza e il desiderio di farlo. La conoscenza: come arrivarci senza di essa? Desiderio: senza il quale gli sarebbe difficile ottenerlo. Ma il desiderio effettivo di un bene presuppone la fiducia che esso possa essere acquisito, perché l’uomo saggio non si mette in moto verso una meta che considera impossibile da raggiungere; poi l’amore, perché si desidera solo ciò che si ama. Da lì, per disporre la nostra anima e renderla capace di muoversi liberamente verso il fine dei suoi destini soprannaturali, nasce la necessità delle virtù teologali: di fede, che ci mostra in Dio, visto e posseduto come è in se stesso, il fine supremo a cui siamo chiamati; la speranza con cui, fiduciosi nell’aiuto che ci è stato promesso, ci aspettiamo dal Padre celeste e la beatitudine eterna, ed i mezzi necessari o utili per raggiungerlo; la carità infine, che ci fa amare al di sopra di tutte le cose, Colui che è la bontà infinita (S. Th., De Virt. In comm., q. un., a. 12). – Queste sono le tre virtù principali che devono dare alla nostra vita la loro vera direzione ed esercitare la loro benefica influenza su tutti i nostri comportamenti: la fede, che il Concilio di Trento chiama « l’inizio della salvezza, fondamento e radice di ogni giustificazione; senza la quale è impossibile piacere a Dio e raggiungere la società dei suoi figli » (Conc. Trid. Sess. VI, c. 8); la speranza, questa solida e ferma ancora che gettiamo nel cielo (Hebr. VI, 19)., affinché né gli uragani, né le tempeste della vita presente possano staccarci da Dio e portare via dal porto la nostra fragile carlinga; la carità, infine, la più nobile ed eccellente delle tre; la carità, questa incomparabile regina che dà alle altre virtù la loro forma e perfezione ultima, facendo convergere i loro atti  verso il proprio oggetto, Dio sommo Bene, e rendendole meritorie della vita eterna.

III.

Per quanto preziose ed eccellenti possano essere le virtù teologali, esse non bastano a regolare da sole tutta la vita del Cristiano; altre virtù devono dare il loro sostegno e la loro assistenza a quest’opera complessa; abbiamo così le nominate virtù morali. Indubbiamente, la prima e più indispensabile condizione di salvezza consiste nell’essere ben ordinati rispetto al fine ultimo; ma questa buona disposizione deve estendersi anche ai mezzi che devono condurci al fine. Inoltre, non è solo verso Dio che abbiamo dei doveri da compiere, ma altri ancora sono a carico nostro verso il prossimo e verso noi stessi. Se, allora, per inclinare la nostra intelligenza ad aderire a Dio come alla prima Verità, se per disporre la nostra volontà a disporsi verso di Lui come oggetto della nostra beatitudine suprema e ad amarlo come bontà infinita, abbiamo bisogno delle virtù teologali, per il fedele, rapido e facile adempimento dei nostri obblighi morali, sono necessarie anche altre virtù: la prudenza, per illuminare e dirigere la nostra condotta, e per insegnarci a discernere ciò che dobbiamo fare e ciò che dobbiamo evitare; la giustizia, per prepararci a rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto; la fortezza, per farci superare le difficoltà incontrate nella pratica del bene; la temperanza, infine, per moderare i piaceri dei sensi e mantenerli entro i giusti limiti. A queste quattro virtù principali, comunemente chiamate cardinali, perché sono come l’asse attorno al quale ruota tutta la nostra vita morale, vi è una moltitudine di virtù secondarie e ausiliarie, che hanno tutte il proprio oggetto e scopo, e contribuiscono, ciascuna nella propria sfera, all’ordine e alla santificazione della nostra esistenza terrena fin nei minimi dettagli. Ma che dire delle virtù morali come la fede, la speranza e la carità? Sono esse divinamente infuse per essere gli organi e gli strumenti della vita soprannaturale, o dovremmo acquisirle con le nostre azioni? Sono un dono dello Spirito Santo o un prodotto della natura? In una parola, dovremmo ammettere come giusto, oltre alle virtù morali naturali che costituiscono l’uomo onesto e che sono acquisite con la ripetizione frequente degli stessi atti, altre virtù simili di ordine superiore –, delle virtù morali cristiane o soprannaturali che Dio produrrebbe direttamente e diffonderebbe nelle anime con la grazia e che sarebbero prerogativa esclusiva dei suoi figli adottivi? Una questione che in passato è stata oggetto di accesi dibattiti ed in cui la diversità di opinioni può ancora avere libero corso. Un certo numero di teologi medievali, considerando da un lato che la l’influenza della carità fosse sufficiente a rendere meritevole della vita eterna degli atti che emanavano da principi naturali, non vedevano la necessità di queste virtù infuse; e, d’altra parte, essi contestavano la loro esistenza come contraria all’esperienza, con il pretesto che dopo la loro giustificazione gli uomini incontravano le stesse difficoltà di prima per il bene. Tuttavia, la caratteristica della virtù è quella di inclinare verso il bene colui che la possiede e di renderla facile da praticare.  Nonostante queste ragioni, più pretestuose che convincenti, la stragrande maggioranza dei dottori ha sempre ritenuto e insegnato come più probabile l’opinione che ammette l’esistenza delle virtù morali infuse. Noi non possiamo, è vero, portare qui a favore di questo sentimento, come abbiamo fatto in precedenza per le virtù teologali, l’autorità del Concilio di Trento, perché esso non fa alcun riferimento alle virtù morali. Ma sarebbe uno strano errore voler argomentare da questo silenzio per combattere un insegnamento comune nella Scuola. Se il Santo Concilio non parla delle virtù morali infuse, la ragione è facile da comprendere; perché per rimanere fedele al suo programma e alla risoluzione presa dall’inizio secondo il principio di concentrare tutti i propri sforzi sulle verità negate dall’eresia e non di dirimere le questioni controverse tra i Cattolici. – E per non fraintendere il suo vero pensiero, il Catechismo ufficiale redatto dai suoi canoni ed approvato dal grande Papa san Pio V elenca, tra gli effetti del battesimo, « il nobilissimo corteggio di tutte le virtù che sono divinamente infuse nell’anima con la grazia: Huic autem additur nobilissimus omnium virtutum comitatus, quæ in animam cum gratia divinitus infunduntur. » (Catech. Conc., part, n, de Baptismo, n. 51). Espressioni certamente singolari, se questa processione consistesse solo delle tre virtù teologali. – Questa non è l’unica occasione in cui la Chiesa ha espresso i suoi sentimenti su questo punto. Già nel XIII secolo, in relazione ad una controversia sugli effetti del Battesimo nei bambini, un tema sul quale i teologi erano divisi in due campi, alcuni sostenendo che la virtù del Sacramento rimette semplicemente ai bambini la colpa originaria, senza conferire loro né la grazia né le virtù infuse, che non consideravano necessarie finché il bambino non fosse stato in grado di compierne gli atti, mentre gli altri essendo di parere contrario, un illustre Pontefice, Innocenzo III, senza commentare il contenuto del dibattito, aveva tuttavia sottolineato che l’affermazione di coloro che sostengono che « né la fede, né la carità, né le altre virtù sono conferite ai bambini, per mancanza di consenso, non è assolutamente accettata dal maggior numero » . Infatti, la maggior parte dei teologi riteneva che l’infusione della grazia e delle virtù fosse un’abitudine, non solo negli adulti, ma anche negli stessi bambini. E di quali virtù si trattava? Delle virtù teologali? Senza dubbio, ma anche delle altre, secondo l’espressione di Innocenzo III. Ora, se le prime fossero state le uniche coinvolte, cosa c’è di più semplice e di più naturale che completare l’enumerazione aggiungendo la speranza, alla fede e alla carità già citata? E perché questo plurale “le altre virtù”, per designarne solo una?

IV.

Un secolo dopo, nel 1312, nel Concilio Ecumenico di Vienne, un altro Pontefice, Clemente V, riprendendo questa stessa questione ancora in discussione tra scotisti e tomisti, questa volta sostenendo chiaramente il sentimento di san Tommaso, e, senza farne una definizione di fede, dichiarava di adottare, con l’approvazione del Concilio, « come più probabile e conforme agli insegnamenti dei Santi e dei teologi moderni, l’opinione secondo la quale la grazia informante e le virtù siano conferite a tutti i battezzati, bambini o adulti » (Clemens V, in Conc. Vienn., De summa Trinit., et Cathol. Fide). Al cospetto di tale autorità, i teologi hanno da allora comunemente accettato l’opinione che ammette l’esistenza delle virtù morali infuse. E la Scrittura, così come la Tradizione, sostengono questa opinione. Le Sante Lettere ci parlano di virtù cardinali che non sono il risultato del lavoro umano, ma il frutto della sapienza divina. « Perché è essa che insegna la temperanza, la prudenza, la giustizia e la forza, cioè ciò che è la cosa più utile in questa vita » (Sap. VIII,7). Anche sant’Agostino dichiara che « ci sono quattro virtù che devono dirigere la nostra vita, secondo la dottrina dei savi e gli insegnamenti della Scrittura. La prima si chiama prudenza; essa ci fa distinguere tra bene e male. La seconda è la giustizia, con la quale restituiamo a tutti ciò che appartiene loro. La terza è la temperanza, attraverso la quale freniamo le nostre passioni. La  quarta è la fortezza, che ci permette di sopportare tutto ciò che è doloroso. Queste virtù ci sono date da Dio con grazia in questa valle di lacrime: Iste virtutes nunc in convalle plorationis per gratiam Dei dantur nobis » (S. Agost. in Ps. LXXXIII). – A sostegno di questa dottrina, San Tommaso fornisce una ragione teologica di grande importanza. E’ necessario – egli dice – che gli effetti corrispondano e siano proporzionati alle loro cause o principi. Tuttavia, tutte le virtù, sia intellettuali che morali, che possiamo acquisire attraverso le nostre azioni, derivano da certi principi depositati nel profondo del nostro essere, da certi germi naturali di cui sono la realizzazione. In luogo ed al posto di questi principi, Dio ci conferisce, nell’ordine della grazia, le virtù teologali, che ci ordinano verso il nostro fine soprannaturale. È quindi necessario, perché ci sia armonia nel piano divino, che queste virtù teologali divinamente infuse corrispondano ad altre abitudini soprannaturali, della stessa origine e dello stesso ordine, che mirino a soprannaturalizzare la nostra vita morale e a rendere i suoi atti meritevoli della vita eterna; abitudini che siano alle virtù teologali ciò che le virtù umane, intellettuali o morali sono ai principi naturali da cui derivano (S. Th., Ia-IIæ, q. LXIII,  a. 3). Infatti, non lo si deve nascondere, le virtù acquisite non sono proporzionate alle virtù  teologali: non sunt proportionatæ virtutibus theologicis » (Idem. ad. 1); derivate da principi naturali, non possono estendere la loro attività oltre i limiti della natura. Senza dubbio, operando sotto l’influenza e l’impero della carità, possono compiere opere meritorie; ma tutto il valore di queste opere deriva in definitiva dal principio che le ispira, e l’atto che emana da una virtù naturale rimane intrinsecamente un atto naturale, senza proporzione di per sé con la ricompensa celeste. – Il Cristiano può quindi possedere due tipi di virtù morali, specificamente diverse, alcune naturali ed acquisite, altre soprannaturali ed infuse: prudenza naturale e prudenza infusa, giustizia naturale e giustizia infusa, ecc. che hanno lo stesso oggetto materiale, ma si differenziano non solo per la loro origine e modalità di crescita, ma anche per il loro oggetto formale e per la loro regola. – Così, mentre la temperanza naturale ci mantiene, nell’uso del cibo, una giusta misura fissata dalla ragione e consistente nell’evitare ogni eccesso capace di nuocere alla salute del corpo o di ostacolare le operazioni intellettive, la temperanza infusa o cristiana, elevandoci più in alto, ci inclina, sotto la direzione della fede, a punire il nostro corpo e ridurlo alla servitù con digiuni, astinenze, veglie e altre mortificazioni; e lo stesso vale per le altre virtù morali, a seconda che siano un prodotto della natura o un dono di Dio. Alcuni possono incontrarsi pure nel peccatore, altri sono privilegio esclusivo dei giusti. Ma allora, da dove possono venire le difficoltà e le ripugnanze nella pratica di certe virtù degli uomini giustificati, e chi dovrebbe quindi possederle tutte? Perché finalmente il miglior marchio, il segno più autentico della presenza di un’abitudine, è la facilità e il piacere che proviamo nel farne gli atti. – Anche san Tommaso, dal quale abbiamo preso in prestito l’obiezione, ce ne fornirà la risposta. « Non è raro – egli dice – trovare qualcuno con un’abitudine intellettuale o morale e che tuttavia abbia difficoltà a compierne gli atti, e non prova né piacere né soddisfazione a causa di alcuni ostacoli estrinseci che si pongono di traverso. Così, uno scienziato incontra a volte una vera difficoltà ad affrontare la scienza che ha acquisito, quando il sonno o qualche altra indisposizione ostacola l’esercizio delle sue facoltà. Allo stesso modo, chi possiede le virtù morali infuse può occasionalmente sperimentare qualche difficoltà nella pratica delle buone opere, come risultato di una cattiva inclinazione precedentemente contratta e che queste virtù non hanno fatto scomparire, perché non sono direttamente opposte ad essa. Lo stesso non si può dire delle virtù acquisite; per gli atti che le generano, rinnovandosi frequentemente, distruggono di per se stesse le disposizioni contrarie ». (S. Th., 1a -IIæ. q. LXV, a. 3, ad 2). – Aggiungiamo, per completezza, che non è universalmente vero che il peccatore giustificato senta, dopo una sincera e generosa conversione, la stessa ripugnanza per il bene come prima.  Quante difficoltà, che all’inizio sembravano insormontabili, vengono improvvisamente superate dall’azione della grazia e scompaiono come per incanto! Ne è testimone S. Agostino che racconta di se stesso: « all’improvviso  mi sembrava dolce il rinunciare alle dolcezze dei vani divertimenti! Io avevo timore di perderli, mentre ora la mia gioia era di lasciarli. Perché li cacciavate lontano da me queste dolcezze, Voi, la vera e sovrana dolcezza; Voi li allontanate ed entrate al loro posto, Voi che siete più dolce di ogni voluttà, ma di una dolcezza sconosciuta alla carne e al sangue … Già l’anima mia era libera dalle cocenti cure che eccitavano in me l’ambizione, la cupidigia, l’amore delle grossolane voluttà; e il mio piacere era di parlare con Voi, Signore mio Dio, che ora eravate oramai la mia gloria, le mie ricchezze e la mia salvezza » (S. Agost. Con. L. IX, c. I).

https://www.exsurgatdeus.org/2020/03/12/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-14/

SALMI BIBLICI: “DIXIT DOMINUS, DOMINO MEO” (CIX)

SALMO 109: “DIXIT DOMINUS DOMINO MEO ominus”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 109

[1] Psalmus David.

    Dixit Dominus Domino meo:

Sede a dextris meis, donec ponam inimicos tuos scabellum pedum tuorum.

[2] Virgam virtutis tuae emittet Dominus ex Sion: dominare in medio inimicorum tuorum.

[3] Tecum principium in die virtutis tuae in splendoribus sanctorum; ex utero, ante luciferum, genui te.

[4] Juravit Dominus, et non poenitebit eum: Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech.

[5] Dominus a dextris tuis; confregit in die irae suae reges.

[6] Judicabit in nationibus; implebit ruinas, conquassabit capita in terra multorum,

[7] de torrente in via bibet; propterea exaltabit caput.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CIX.

Salute del regno di Cristo e del suo Sacerdozio. Cosiè inteso e spiegato in molti luoghi della Sacra Scrittura. — S. Matt., c. XXII; Att. II; Cor. XV; Ebr. I, 5, I., 10.

Salmo di David.

1. Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra; Fino a tanto che io ponga i tuoi nemici sgabello ai tuoi piedi. (1)

2. Da Sionne stenderà il Signore lo scettro di tua possanza; esercita il tuo dominio in mezzo dei tuoi nemici.

3. Teco è il principato nel giorno di tua possanza tra gli splendori della santità; avanti la stella del mattino io dal mio seno ti generai. (2)

4. Il Signore ha giurato, ed ei non si muterà: Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech.

5. Il Signore sta al tuo fianco; egli nel giorno dell’ira sua i regi atterrò.

6. Farà giudizio delle nazioni; moltiplica le rovine; spezzerà sulla terra le teste di molti.

7. (E dirà): Egli nel suo viaggio berrà al torrente; per questo alzerà la sua testa. (3)

***

( 1) Il titolo di Signore, di Sovrano, dato da Davide al Messia, prova la sua divinità.

(2) La parola ἀρκὴ significa nello stesso tempo principium e principatus. – Non c’è versetto che sia stato mai tanto diversamente interpretato, e comparando tutte queste versioni, risulta che siamo al cospetto di un testo che ha sofferto. La causa non è forse perché esprime molto chiaramente la generazione eterna, e di conseguenza la divinità del Salvatore? Noi pensiamo che il testo vero è quello che segue il traduttore greco. Noi diciamo greco, perché scriveva in questa lingua. Si sa che era giudeo. L’espressione ex utero non deve essere preso alla lettera; è una antropologia (S. Gerol.). – Nello splendore dei santi, nel giorno in cui i santi saranno circondati di splendore.

 (3) Agier e de Nolhac fanno qui notare, a ragione, che nei paesi caldi dell’Oriente, e specialmente in Palestina, l’acqua è rara. I viaggiatori ricchi prendono cura di far provviste con otri che vengo portati dai cammelli o dagli schiavi, mentre i poveri sono ridotti a contentarsi di quella che trovano lungo la strada, spesso fornita dai torrenti.  La scrittura fa menzione di un torrente celebre, il torrente del Cedron, in due circostanze notevoli. Davide oltrepassa questo torrente quando esce da Gerusalemme fuggendo davanti a suo figlio Assalonne, ed ebbe ben presto a sopportare le ingiurie e le maledizioni di Séméi (II Re, XXV, 23). Gesù-Cristo passò questo stesso torrente quando uscì da Gerusalemme per andare con i suoi discepoli ove il traditore Giuda doveva poi venire a consegnarlo ai Giudei (Giov. XVIII, 1).

Sommario analitico

È di fede che questo salmo abbia come autore Davide, non solo perché Nostro Signore Gesù-Cristo glielo attribuisce alla presenza dei farisei, alla credenza dei quali Egli lo avrebbe accomodato, ma perché l’argomentazione che fonda sulla citazione che ne fa, non avrebbe valore se questo salmo non fosse composto da Davide. – È ancora di fede che questo salmo abbia per oggetto il Messia e che si riferisca interamente a Nostro-Signore Gesù-Cristo: Egli infatti lo attribuisce a se stesso (Matth. XXII, 44); San Pietro lo ha commentato in questo stesso senso (Act. II, 34), e San Paolo in modo non meno esplicito (I Cor. XV, 25; Ebr. II, 13). – Il Re-Profeta vi annuncia e ne celebra la potenza, la generazione eterna nonché il Sacerdozio del Figlio di Dio:

I. – La sua potenza reale:

1° Nel cielo, il suo trono è comune con quello di suo Padre (1);

2° Sulla terra, aspettando la sottomissione completa dei suoi nemici, punto di partenza di questa potenza (2);

3° Nell’ultimo giorno, secondo il sentimento di diversi Padri, S. Crisostomo, Teodoreto, Sant’Agostino, San Atanasio, etc.

II. – La ragione e la fonte di questa potenza:

1° La ragione di queste vittorie: Tecum principium;

2° il giorno in cui trionferà nella maniera più eclatante;

3° il segreto di tanta potenza e gloria, è la sua generazione eterna (3).

III. – Gli attributi che derivano da questa generazione:

1° Il sacerdozio la cui eccellenza deriva, a) da quanto ha promesso con giuramento; b) dal fatto di essere di un ordine superiore a quello della legge; c) per essere Egli eterno (4);

2° La potenza vittoriosa del Cristo per il rovesciamento degli idoli, il giudizio ed il castigo dei re e dei popoli, e dei demoni, dei quali colmerà le rovine con delle ineffabili sostituzioni (5, 6).

IV. – Il Mezzo con il quale è arrivato a questo alto grado di potenza e di gloria, cioè il merito e la ricompensa.

1° Egli ha bevuto l’acqua del torrente, espressioni che nella Scrittura significano ordinariamente l’umiliazione, le afflizioni ed il dolore (7). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1, 2.

ff. 1. – Quanto questo salmo è breve per numero di parole, tanto più è grande e considerevole per i pesi dei pensieri. (S. Agost.). – Dio ha un Figlio, e questo Figlio è Dio come Lui, e questo Figlio è generato dal Padre suo eternamente, sostanzialmente; « Egli è lo splendore della sua gloria, l’immagine della sua sostanza. » (Hebr. I, 3). Tali sono la magnificenze che canta Davide in questo salmo: « il Signore ha detto al mio Signore. » È Dio Padre che parla a Dio Figlio, e gli ricorda l’ineffabile segreto della sua eterna generazione. – È bello che Davide, al quale il trono era stato promesso nella figura di Gesù-Cristo, fosse il primo a riconoscere il suo impero chiamandolo “mio Signore”, come se avesse detto: in apparenza è a me che Dio promette un impero che non avrà mai fine; ma in verità, è a Voi, o Figlio mio, che siete anche mio Signore, che esso è dato; ed io vengo in spirito per primo tra tutti i vostri assoggettati, a rendervi omaggio nel vostro trono, alla destra del Padre, come al mio sovrano Signore. Ecco perché non è detto in generale: il Signore ha detto al Signore; ma: « al mio Signore » (Bossuet, Med.). – Noi lo vediamo essenzialmente come Dio, e diciamo: « è qui il nostro Dio e non ce n’è altri. » Perché se è generato, Egli è Figlio, della stessa natura del Padre; se è della stessa natura, Egli è Dio, ed un solo Dio con suo Padre; perché nulla è più della natura di Dio che la sua unità. – Egli è Re; io lo vedo in spirito seduto in un trono. Dove è questo trono? Alla destra di Dio; lo poteva mettere in luogo più elevato? Tutto accoglie da questo trono: tutto ciò che è accolto da Dio e dall’impero del cielo, vi è sottomesso. Ecco il suo impero. (Bossuet, Med. LII, j). – «Sedetevi alla mia destra. » Questa espressione metaforica, “sedetevi”, significa due cose, dicono San Crisostomo e san Tommaso: la maestà ed il riposo; la maestà, qui c’è eguaglianza di onore; il trono è simbolo di regalità, e poiché non c’è che un solo trono, entrambi dividono l’onore della medesima Regalità. È ciò che faceva dire a San Paolo (Hebr. I, 7, 8): « Dio ha fatto degli spiriti i suoi inviati, e fiamme i suoi ministri. Ma al Figlio, Egli dice: « Il vostro trono, o Dio, sarà un trono eterno. » (S. Chrys.). – « Sedete alla mia destra, la divinità ci viene sottolineata molto chiaramente nella prima parte di questo versetto; e non lo è meno nella seconda: il Figlio seduto alla destra del Padre, è il segno della sua potenza, della sua perfetta eguaglianza con il Padre, Egli è Dio come il Padre. Ma se c’è uguaglianza perfetta tra il Padre ed il Figlio, c’è pure distinzione di Persone: il Figlio è generato dal Padre; « Egli siede alla sua destra. » – Si può anche dire che queste parole richiamino e suppongano l’umanità di Gesù-Cristo: Egli fa il suo ingresso nel cielo, vi è ricevuto come un ospite, e Gli è assegnato da Dio, suo Padre, un posto distinto. Il Figlio di Dio, è dunque anche il Figlio dell’uomo, perché gli si da il riposo, la potenza e la gloria; il riposo dopo i travagli ed i dolori della sua vita mortale. Egli divide ora il trono di suo Padre associato al suo impero come lo è alla sua divinità. È il Signore: Egli siede nel soggiorno della gloria, e nulla accade nel mondo senza il suo ordine o il suo permesso. « Sedetevi. » La sua potenza è indistruttibile, Egli è seduto! Ben diversamente dai re ed i principi di questo mondo, che sono per così dire in piedi sui loro troni, pronti a partire al primo colpo di vento e che non fanno che prendere e deporre la porpora ed il diadema; Egli è seduto: il suo trono è eterno; il suo regno non avrà fine, (Mgr PICHENOT, PS. du Dim. 29.). – Tutto ciò che è passato nel capo, deve, fino ad un certo punto, rinnovarsi nei membri: « Se siete resuscitati con Gesù-Cristo, cercate le cose del cielo ove il Cristo è seduto alla destra di suo Padre » (Coloss. III, 2). Al termine della nostra carriera, riconoscendo in noi la somiglianza che dobbiamo avere con suo Figlio, Dio Padre ci dirà: Buoni servitori, riposatevi, fermatevi, passate alla destra; gregge fedele, voi avete completato la vostra corsa, avete conservato la fede, avete trionfato del mondo, non vi resta che gustare il riposo, cingere la corona di giustizia e prendere posto sul trono stesso di mio Figlio. – Perché, ecco ciò che dice Colui che è la verità stessa, il testimone fedele e verace, che è il principio della creatura di Dio … « Colui che sarà vittorioso Io gli darò di sedere sul mio trono, come Io stesso ho vinto, e mi sono seduto con Voi, Padre, sul vostro trono. » (Apoc. III, 14-21). – « Finché avrò ridotto i vostri nemici a servire da marciapiede. » Questa espressione “fino a che”, non designa sempre nella scrittura un tempo limitato, è semplicemente un’affermazione che si applica, invero, ad una determinata epoca, e che nondimeno non ne esclude nessuna; perché se il regno di Gesù-Cristo si dovesse intendere al di là, ove sarebbe la verità di queste parole del profeta: « La sua potenza è una potenza eterna, il suo regno, un regno che non deve esaurirsi, e questo regno non avrà fine? » (Dan. VII, 14; Luc. I, 34) Non è sufficiente intendere queste parole, bisogna comprenderle ed entrarne nell’intelligenza anche delle cose che il Profeta ha in vista (S. Chrys.). – Tuttavia, questa maniera di esprimere è logica e fondata sulla ragione; questo “fino a quando” porta in effetti sul lasso di tempo in cui le cose che si affermano sembrano meno verosimili; e dà luogo, di conseguenza, ad un fortiori invincibile per giorni migliori e più felici. Se il Cristo è tranquillamente e gloriosamente seduto sul suo trono alla destra del Padre, anche nell’ora del combattimento, e quando i suoi nemici non sono ancora vinti, Egli deve regnare meglio che mai quando Dio li avrà circondati ed annientati. (Mgr PICHENOT, p. 35.). – Il Figlio di Dio, avrà dunque dei nemici, la Santa Scrittura e l’esperienza ce lo attestano. Essi devono essere come un segno di contraddizione universale: la storia di tutti i secoli non è che il triste e lamentevole commento di queste parole. I Giudei, i Gentili, i popoli civilizzati e quelli barbari, la spada dei Cesari, la penna dei sofisti, l’ascia dei carnefici, tutto è stato diretto contro di Lui, soprattutto ciò che lo richiama, soprattutto quelli che gli appartengono. – Come saranno trattati i nemici? « Essi saranno talmente vinti, umiliati, che Io li ridurrò a servirvi da marciapiedi. » Ciò che si mette sotto i piedi di qualcuno, lo eleva e lo ingrandisce. I nemici del Signore, circondati e confusi, con le loro fronti superbe, formeranno come il primo grado del suo trono e della sua potenza. – Applichiamole – queste parole – ai Giudei, portatori dei nostri titoli, testimoni non sospetti dell’autenticità delle nostre profezie, ai persecutori, ai carnefici, agli scismatici, agli eretici, ai nemici interni ed a noi stessi. – Voi siete il nemico del Signore, sarete un giorno sotto i suoi piedi, infallibilmente adottati o vinti. Vedete quale posto volete occupare sotto i piedi del Signore vostro Dio, perché voi me avrete necessariamente uno, o di grazia, o di castigo; o verrete da voi stessi, condotti dalla grazia, a fare la vostra sottomissione al Redentore, o sarete circondato e schiacciato sotto i piedi delle sue vendette (S. Agost.).

ff. 2. – Il regno del Messia doveva cominciare da Gerusalemme, i Profeti lo avevano annunziato; il Salvatore diceva Egli stesso, non era stato inviato che alle pecore smarrite della casa di Israele, e raccomanda ai suoi Apostoli di predicare innanzitutto nella Giudea. – Questo scettro della potenza divina, questo mezzo particolare di vittoria che Dio ha scelto, è la sua croce, lo strumento stesso del supplizio, alfine di far meglio brillare la sua gloria ed apparire sola nella conversione dell’universo. Essa è stata per gli Apostoli, ciò che altra volta era stata per Mosè la verga miracolosa alla quale Dio aveva comunicato una potenza divina: San Paolo non predicava se non Gesù-Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, follia per i gentili, ciò che era in realtà la saggezza e la potenza di Dio (S. Chrys.). –  « Dominate in mezzo ai vostri nemici, », vale a dire in mezzo alle nazioni frementi. È solamente più tardi, quando i santi avranno ricevuto la gloriosa ricompensa, e gli empi la loro dannazione, che il Cristo dominerà in mezzo ai nemici? Quale stupore che allora vi domini? Ma è ora che Voi dovete dominare in mezzo ai vostri nemici, ora, in questo passaggio dei secoli, in questa propagazione e successione della mortalità umana, in questo torrente di tempi che fuggono, che bisogna assicurare la vostra dominazione in mezzo ai vostri nemici (S. Agost.). Il regno del Messia è un regno legittimo, vero, un regno volontario, ma è un regno contestato, ecco ciò che lo distingue; ci sono sempre dei nemici, Egli ne è circondato da ogni parte: « Io vi invio, diceva Gesù ai suoi Apostoli, come pecore in mezzo ai lupi. » Qual prova più grande di questa vittoria eclatante degli Apostoli, l’aver elevato degli altari in mezzo ai loro nemici, essi che erano come pecore in mezzo ai lupi, … Egli non dice: uccidete, sterminate i vostri nemici, che siano forzati a riconoscere la vostra sovrana potenza (S. Gerolamo). – Egli non dice: Siate vincitori in mezzo ai vostri nemici, ma stabilite il vostro impero, “dominate”, per insegnarci che non è un trofeo che eleva dopo aver trionfato dei suoi nemici, ma un impero che stabilisce con autorità (S. Chrys.). – Tutti i vostri nemici, o mio Re, « devono essere lo sgabello dei vostri piedi. » Essi saranno ridotti, essi saranno vinti, saranno forzati a baciare i vostri passi e la polvere ove avrete camminato; cosa aspettiamo? Mettiamoci volontariamente sotto i piedi di questo Re vincitore, per timore che non ci si metta per forza, per paura che non dica dall’alto del suo trono: « per coloro che non hanno voluto che Io regnassi su di loro, che li si faccia morire davanti agli occhi miei, » davanti alla mia verità, davanti alla mia giustizia eterna; perché questo sarà il loro eterno supplizio, che la verità e la giustizia li condanneranno per sempre, e questa sarà la morte eterna. « Sedetevi, aspettando « nel vostro trono », o Re di gloria, « finché non verrà il tempo di mettere tutti i vostri nemici sotto i piedi, » cioè: dimorate in cielo finché non veniate ancora una volta a giudicare i vivi ed i morti …

II. — 3.

ff. 3. – È sempre il Signore che parla al Signore, è Jéhovah che si trattiene con Adonai fatto uomo. Perché il Figlio di Dio dominerà in mezzo ai suoi nemici? « La sovranità è in Voi dal giorno della vostra potenza, » cioè: essa non è sopravvenuta accidentalmente, essa essenzialmente vi appartiene da sempre. È questa stessa verità che Isaia esprime in questi termini: « Egli porta sulla sua spalla il segno del suo dominio, » (Isai. IX, 6); vale a dire: Egli la porta in se stesso, nella sua natura, nella sua sostanza; è una prerogativa che non hanno i re, la cui sovranità è interamente nelle loro numerose armate (S. Chrys.). – La sovranità è con Lui, essa gli appartiene, è un suo diritto, è il suo eterno patrimonio sulla terra come nei cieli, essa non lo lascia mai. Siete Re? Gli domanda Pilato. « Si, Io lo sono, Egli rispondeva; è per questo che Io sono nato e sono venuto in questo mondo. » (Giov. XVIII, 37). San Giovanni, con uno sguardo di aquila, l’ha posto nell’isola di Patmos: « Egli portava scritto sui suoi vestiti: Re dei re e Dominatore dei dominatori. » Ma ogni sua virtù è interiore, risiede nella sua stessa volontà, scaturisce spontaneamente dalle profondità della sua natura divina. – Non è così di coloro che si chiamano i padroni del mondo: la loro forza non è che un prestito, non è sempre in essi, e soprattutto non è in essi: essa è nel numero e nel coraggio delle loro truppe, nella devozione ed abilità dei loro generali, nell’affezione e le buona volontà dei loro soggetti; essa è nei loro tesori, nelle loro muraglie o nel loro nome … se tutto ciò viene loro a mancare, essi restano soli … (Mgr. Pichenot, Ps. du Dim.). – Il Figlio di Dio conserva questa Maestà suprema in tutti i tempi ed in tutti i luoghi, ma ci sono dei giorni in cui si compiace di far risplendere con più splendore e che per Lui sono i giorni della sua forza per eccellenza. Tre grandi giorni ci sono, in cui la potenza del Figlio di Dio si manifesta: il giorno della Creazione, il giorno della Redenzione ed il giorno del Giudizio e della Resurrezione (S. Agost.- S Chrys.). – Il Re-Profeta dice: « nello splendore dei santi, » e non: nello splendore, perché le ricompense eterne sono numerose e varie. Ci sono più dimore nella casa del Padre (Giov. XIV, 2), diceva Gesù-Cristo, e san Paolo (I Cor., XV, 41): « … il sole ha il suo bagliore, la luna il suo, e le stelle la loro chiarezza, e tra le stelle l’una è più brillante delle altre. » Ne è lo stesso alla resurrezione dei morti. » (S. Chrys.). Chi è colui che sembrerà così grande? Da dove viene la sua forza? Da dove viene la sua maestà? Colui che è consustanziale al Padre e al quale suo Padre ha detto: « Io vi ho generato dal mio seno ». – Un essere non può trarre la esistenza da Dio che in due maniere: o per via di creazione, secondo le parole di san Paolo: « Per noi non c’è che un solo Dio, il Padre dal quale procedono tutte le cose, » (I Cor. VIII, 6); o per via di generazione, secondo le parole di Nostro Signore Gesù-Cristo; « Io sono uscito da mio Padre, » (Giov. XVI, 28); e queste altre del salmista: « Io vi ho generato dal mio seno prima dell’astro del mattino, » non senza dubbio che Dio abbia un seno come le sue creature, ma perché i figli veri e legittimi sono generati dal seno delle loro madri. Dio dunque impiega questa espressione: « Io vi ho generato dal mio seno, » per confondere gli empi, affinché considerandone loro pasto, essi apprendano che il Figlio è il frutto vero e legittimo del Padre poiché esce dal suo dal proprio seno (S. Basilio, Adv. Eunom., lib. V). –  « Io vi ho generato dal mio seno prima dell’aurora. » Ecco ciò che spiega tutto, ed il principio delle sue grandezze. Egli viene dal seno di Dio, è una emanazione della sua sostanza, un altro se-stesso … Egli non è stato creato, non è stato fatto, ma generato; Egli non è l’opera di Dio, è il Figlio suo consustanziale; è là la sua gloria incomunicabile. Il Padre non ha detto a nessuno: Voi siete mio figlio, Io vi ho generato. (Mgr PICHENOT, PS. du D.). – Dio Padre non ha bisogno di associarsi ad altra cosa per essere padre e fecondo; Egli non produce fuori di sé questo altro se stesso, perché nulla di ciò che è fuori di Dio, è Dio. Dio dunque concepisce solo in se stesso: Egli porta in se stesso suo Figlio che gli è coeterno. Ancorché non sia che Padre, e che il nome di madre legato ad un sesso imperfetto per sé, e degenerante non gli convenga, Egli tuttavia ha come un seno materno nel quale porta suo Figlio: « Io ti ho – Egli dice – generato oggi da un seno materno. » Ed il Figlio unico si chiama Egli stesso: « Figlio unico che è nel seno del Padre, è un carattere unico proprio del Figlio di Dio; » perché dove è il Figlio, Egli solamente, che è sempre nel Padre suo, e non esce mai dal Padre suo? La sua concezione non è distinta dalla sua nascita; il frutto che è perfetto, dal momento che è concepito e non esce mai dal seno che lo porta. Chi è portato in un seno immenso è innanzitutto così grande e così immenso, come il seno in cui è concepito, e non ne può mai uscire (Bossuet, Elev. 11, S. I, El.). – Queste parole: « Prima della stella del mattino, » non significano … prima che si levi la stella del mattino, ma … prima della creazione e la nascita di questa stella. La Scrittura distingue perfettamente queste due circostanze. Prima della natura, la creazione, e prima del levarsi (Sap. XVI, 28; Ps. LXXI, 17-5), (S. Chrys.). – La stella del mattino, il precursore è messo qui per tutti gli astri, designando la Scrittura il tutto con la parte, e tutti gli astri con l’astro più brillante (S. Agost.). – Cosa dunque? La sua generazione non ha preceduto se non la stella del mattino? No, senza dubbio, poiché infatti leggiamo: « il suo trono esiste da prima della luna. » E non solo prima della luna, poiché lo stesso Re-Profeta dice del Padre: « Prima della formazione delle montagne, prima della formazione della terra e del mondo, Tu sei Dio di tutti i tempi e per l’eternità. » (Ps. LXXXIX, 2). Dio non esiste solo dopo l’inizio dei secoli, ma prima di tutti i secoli (S. Crys.). – Tanto fu senza dubbio per ricordare questa generazione eterna, che il Figlio di Dio ha voluto nascere nel tempo, a metà della notte, prima dell’aurora.   

III. — 4-6.

ff. 4. – Davide dà ora alla sua profezia la forma di un giudizio solenne, e si rivolge al Figlio di Dio stesso, segno evidente di un amore ardente, di una gioia straordinaria, di un’anima piena dello Spirito di Dio … Egli discende dalle altezze ove si era posto e tratta così di volta in volta della divinità o dell’umanità del Salvatore (S. Chrys.). –  Mistero d’amore e di condiscendenza, Dio fa, per così dire, il sacrificio della sua dignità e scende fino a prestare giuramento tra le nostre mani, se posso esprimermi così, fino a giurare per se stesso che ha detto la verità e che si possa credere alla sua parola. – Gli uomini giurano per Colui che è più grande di essi, ma l’Altissimo per chi dovrebbe giurare? Non trovando – dice S. Paolo – superiori o eguali, Egli giura per se stesso, così come ci afferma, ed il suo giuramento resta in eterno! – Cosa ha giurato? « Voi sarete sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek. » Gesù-Cristo è Sacerdote, è il Pontefice della Nuova Alleanza, il Vescovo delle nostre anime, è Lui e Lui solo che riconosce ed adora come esse meritano le grandezze di Dio, le ringrazia degnamente per i loro benefici, disarma la sua giustizia ed effonde su tutti i doni del Signore. – Egli è Sacerdote eterno; si può dire, a rigore, che il suo Sacerdozio non è cominciato e non finirà e che, fin nelle profondità di Dio, Egli celebra le sue ineffabili grandezze, riflettendole nella sua adorabile Persona. Ma il suo Sacerdozio propriamente detto non è cominciato che con il mondo. Dopo la caduta, in particolare, il Figlio di Dio preludeva al ministero ed alle funzioni sante del suo Sacerdozio. Egli è l’Agnello immolato fin dall’inizio del mondo … La Giudea, la terra intera, non è che un immenso altare ove tutto richiamava, figurava, questa grande Vittima. – Egli è Sacerdote soprattutto dopo la sua incarnazione ed in tutto il corso della sua vita mortale. È perciò che il Figlio di Dio, entrando nel mondo dice: Voi non avete voluto sacrificio né oblazione, ma mi avete formato un corpo: gli olocausti ed i sacrifici per il peccato non vi sono graditi, allora io ho detto: Eccomi (Ebr. X, 5-7). –  Egli è Sacerdote sulla croce, ove lo vediamo, con la mani stese al cielo, offrire il grande Sacrificio della preghiera … Egli resuscita e risale verso i cieli per continuarvi le auguste funzioni del suo Sacerdozio. Egli ancora è Sacerdote sulla terra e nei nostri santi tabernacoli, ove si immola ogni giorno, ove rinnova e perpetua il Sacrificio della croce. I Sacerdoti non sono che gli strumenti della sua potenza e come i veli con i quali ricopre le sue ineffabili operazioni (V. S. Paolo, Ep. ad Hebr.). –  Voi siete Sacerdote eternamente, secondo l’ordine di Melchisedek; come lui, non avete né precursori né successori; il vostro Sacerdozio è eterno; Egli non dipende dalla promessa fatta a Levi né ad Aronne ed ai suoi figli: « Venite Gesù, Figlio eterno di Dio, senza madre nel cielo, e senza padre sulla terra; nel quale noi vediamo e riconosciamo una discendenza reale; ma per quanto concerne il Sacerdozio, non lo avete se non da Colui che ha detto: « Voi siete mio figlio, oggi vi ho generato. » (Ps. II, 7). Per questo divin Sacerdozio, non bisogna essere che Dio, e Voi avete la vostra vocazione per la vostra nascita eterna. Voi venite anche da una tribù alla quale Dio non ha ordinato nulla circa il sacrificare: « la vostra ha questo privilegio di essere stabilita per giuramento », immobile, senza ripetizioni e senza cambiamenti; il Signore, Egli dice, « ha giurato, e non se ne pentirà mai. La legge di questo sacerdozio è eterna ed inviolabile. » Voi siete solo: Voi lasciate tuttavia dopo di voi dei Sacerdoti, che non sono che vicari, e non successori, senza poter offrire altre vittime se non quella che avete offerto sulla croce e che offrite eternamente alla destra di vostro Padre (Bossuet, Elev. XI+  II, S. VII, E.). Voi celebrate per Voi un ufficio ed una festa eternamente alla destra di vostro Padre, gli mostrate incessantemente le cicatrici delle piaghe che l’appagano e ci salvano; Voi gli offrite le nostre preghiere, intercedete per le nostre colpe, ci benedite, ci consacrate; dall’alto dei cieli, battezzate i vostri figli, cambiate dei doni terrestri nel vostro corpo e nel vostro sangue, rimettete i peccati, inviate il vostro Spirito-Santo, consacrate i vostri ministri, fatte tutto ciò che essi fanno nel vostro Nome; quando noi nasciamo, voi ci lavate con acqua celeste; quando moriamo ci sostenete con una unzione di conforto; i nostri mali diventano dei rimedi e la nostra morte una passaggio alla vita eterna. O Dio! O Re! O Pontefice! Io mi unisco a Voi in tutte queste auguste qualità; io mi sottometto alla vostra divinità, al vostro impero, al vostro Sacerdozio, che onorerò umilmente e con fede nella persona di coloro attraverso i quali vi piace esercitarli sulla terra (Bossuet, Médit. LII, J.). – Questa promessa che Dio Padre indirizzava a suo Figlio avanti i secoli, non si compie con meno splendore in seno alla Chiesa cattolica. Là pure, Gesù-Cristo è sempre vivente nel corpo augusto dell’episcopato e del sacerdozio; Egli non è solo il Principe dei pastori, ne è anche l’anima; la loro dignità sublime è il prolungamento del suo sacerdozio supremo attraverso il tempo e lo spazio. Sacerdote, « secondo l’ordine di Melchisedech, » cioè senza genealogia mortale. La volontà dell’uomo non vi ha parte; esso non è né nella carne né nel sangue che va ad affondare le sue radici e succhiare la linfa che l’alimenta; ma Egli è nato da Dio; la fede, la grazia e la celeste verginità lo propagano e lo perpetuano. Misterioso ed immacolato alla sua origine, è imperituro nella sua durata. L’impegno è preso: Colui che ha fatto questa importante opera non la distruggerà rimpiangendo di averla creata. Un Vescovo, un Sacerdote si estinguono; un altro Vescovo, un altro Sacerdote gli succedono, spariscono a loro volta, ma l’istituzione rimane. (Mgr PLANTIER, Mission remplie par l’Episcop.). – « Secondo l’ordine di Melchisedech. Come Melchisedech ha offerto a Dio una vittima non sanguinante, il pane ed i vino in sacrificio, e lo ha offerto al vincitore, così il Figlio di Dio istituisce il Sacrificio della Nuova Alleanza sotto le specie e le apparenze del pane e del vino. Questi semplici elementi scoprono ai nostri occhi i più profondi misteri ed i più ricchi doni. – « Avendo dunque per Sommo Pontefice Gesù, Figlio di Dio, salito nel più alto dei cieli, restiamo fermo nella fede; avviciniamoci a Lui con un cuore puro e devoto; andiamo dunque con confidenza davanti al trono della grazia, per ricevervi misericordia e trovarvi grazia in un soccorso opportuno (Hebr, IV, 14, 15).

ff. 5. – Il Re-Profeta si rivolge qui al Signore stesso che ha fatto questo giuramento: O Signore, voi che avete giurato ed avete deS per l’eternità è il Signore che sta alla vostra destra perché Voi stesso gli avete detto: «Sedete alla mia destra. »  Ma questo Cristo, il Signore seduto alla vostra destra, a chi avete fatto giuramento del quale non vi pentirete, che fa nella sua qualità di Sacerdote in eterno? Che fa, Egli che è alla destra di Dio, che intercede per noi (Rom. VIII, 34), e che entra come Sacerdote all’interno del Santo dei santi, nelle profondità segrete dei cieli, essendo il solo senza peccato e per questo anche purificante con facilità gli uomini dai loro peccati (Hebr. IX, 12, 14, 24)? « Stando alla vostra destra, ha distrutto i re nel giorno della sua collera. » Quali re? Avete dunque dimenticato queste parole: « … I re della terra si sono levati, ed i principi si sono riuniti contro il Signore e contro il suo Cristo? » (Ps. II, 2). Ecco i re che la sua gloria ha distrutti, Egli li ha gettati sotto i suoi piedi del suo nome, in maniera che non potessero fare ciò che volevano. In effetti essi hanno fatto mille sforzi per cancellare dalla terra il nome Cristiano, e non lo hanno potuto perché « chiunque urterà contro questa pietra, sarà distrutto. » (S. Matth. XXI, 44). Questi re si sono scontrati contro la pietra di inciampo, e sono stati distrutti, per essersi detti: Cos’è il Cristo? Io non so qual giudeo, qual galileo, morte in tal modo, ucciso in tale maniera. La pietra è davanti ai vostri piedi, essa è là come qualche cosa di oscuro e vile; voi vi scontrate contro di essa disprezzandola, cadete urtandola, e vi siete distrutti cadendo. Se dunque la collera del Signore è così terribile quando si nasconde, qual sarà il suo giudizio quando si manifesterà? …« Chiunque si scontrerà contro questa pietra sarà distrutto, e colui sul quale cadrà questa pietra, sarà schiacciato. » (S. Luc. XX, 18). Quando si urta contro di essa, che è come umilmente stesa a terra, ci si sgretola; ma se essa cade dall’alto, allora schiaccia. Con queste doppie espressioni: « essa distruggerà, ed essa schiaccerà, egli urterà contro di essa, essa piomberà su di lui … sono designate due epoche diverse, quella dell’abbassamento e della glorificazione del Cristo, quella del castigo nascosto e del giudizio a venire. » (S. Agost.). – « Nel giorno della sua collera; » espressione di cui la Scrittura si serve per mettersi alla nostra portata, a causa della similitudine degli effetti. Quando un uomo è spinto allo stremo, si riempie di collera, e nella sua giusta indignazione, getta e distrugge ciò che gli resiste. Così Dio, contrariato nei suoi disegni, disprezzato nel suo amore, colpisce rudemente tutti coloro che si ostinano a lottare contro di Lui e non voglio arrendersi; ma ciò che facciamo nella collera, Egli lo fa con un sangue freddo divino che è molto più terribile; Egli lo fa nella sua eterna calma, nella sua profonda ed inalterabile immutabilità; Egli è pieno di collera, non conosce altro. Che dire ancora: « Nel giorno della sua collera? » Dio non colpisce che al momento, ha dei rimpianti. La bontà è la sua natura, la giustizia è un’opera che gli è come estranea. Per se stesso, Egli non è che buono; siamo noi che armiamo le sue mani di fulmini, che lo forziamo ad essere giusto, severo, impietoso (S. Agost.) (Mgr PICHENOT, PS. du D..).

ff. 6. – « Egli eserciterà il suo giudizio in mezzo alle nazioni. » Dio governa tutto quaggiù, e nulla gli sfugge: Egli conduce i popoli e gli imperi come le famiglie ed i semplici individui, con la stessa cura e con la stessa facilità … c’è l’occhio della provvidenza, come c’è il braccio della giustizia, ed è per ciò che da Lui si rialzano tutti gli imperi, ed Egli li giudica con una sì perfetta equità. Gli uomini non vedono nel governo dei popoli che gli sforzi della politica, le combinazioni del genio o i semplici giochi del caso; il Cristiano sa che gli uomini per quanto facciano e si agitino, è Dio che li guida; invano i saggi propongano, Dio solo dispone e regola tutto con maestria. – « Egli moltiplicherà o li colmerà di rovine. »  Giudizio di Dio di due tipi: gli uni di rigore, gli altri di bontà e di misericordia. – La maggior parte degli interpreti traducono: Egli moltiplicherà le rovine, seminerà dappertutto la desolazione e la rovina, giungerà alla disfatta dei suoi nemici. Qualche altro, San Agostino, in particolare, spiega così: « Egli riempirà, colmerà le rovine fatte dalla sua giustizia, riedificherà ben presto su di un altro piano ciò che sarà obbligato a rivoltare dapprima. Quali rovine? Chiunque – egli dice – avrà temuto il suo nome, cadrà; quando sarà caduto, ciò che era sarà rivoltato, affinché ciò che non era, sia costruito.  Sappiatelo, voi ribelli al Cristo, voi elevate all’aria una torre che cadrà! Vi è più utile rivoltarvi da voi stessi, farvi umili, gettarvi ai piedi di Colui che è assiso alla destra del Padre, affinché si faccia di voi una rovina che possa essere rialzata. (S. Agost.). – Queste due interpretazioni possono essere adottate entrambe; si ha così il pensiero del profeta, e si legano facilmente queste parole alle due specie di giudizio indicato qui sopra. I salmi ci mostrano Dio di volta in volta in questi due grandi atti della sua sovrana dominazione, e la storia è là per attestare la successione e la perpetuità di questi giudizi sulla nazioni e sui popoli. – Nell’attesa che i suoi nemici siano lo sgabello dei suoi piedi, Egli non lascerà di esercitare il suo impero sulla terra; Egli schiaccerà la testa dei re; un Nerone, un Domiziano, attaccheranno la sua Chiesa, ma Egli schiaccerà la loro testa superba; un Diocleziano, un Massimiano, un Galero, un Massimino tormenteranno i fedeli, ma Egli li degraderà, li perderà, li batterà con una piaga irrimediabile, come fece con Antioco; un Giuliano l’Apostata gli dichiarerà guerra, ma perirà per mezzo di una mano sconosciuta, forse quella di un Angelo, certamente con un colpo ordinato da Dio. Tremate dunque o re, nemici della sua Chiesa! Ma voi, piccolo gregge non temete nulla: « il vostro Re metterà ai vostri piedi tutti i vostri nemici, fossero i più potenti tra i re » (BOSSUET, Médit, LII, j.).

ff. 7. – Qual è questo cammino, è il mondo per il quale il Cristo ha camminato durante la sua vita mortale. Egli è disceso dal cielo per camminare nella via di questo secolo, ha bevuto dell’acqua dal torrente che scorre nel secolo. Un torrente non ha acque naturali il cui corso sia regolare e continuo, esso è formato dalle acque dei temporali e delle tempeste; un torrente non scorre mai sulle montagne, ma sempre nelle vallate, nei burroni e nei precipizi; esso si gonfia di acque straniere, e scorre portando con sé dappertutto la devastazione e la distruzione. Le acque dei torrenti non sono mai chiare e limpide, ma sempre torbide e fangose. Ora, volete sapere come il Signore ha bevuto da questo torrente fangoso? Sentitelo dire: « … la mia anima è triste fino alla morte. » (Matth. XXVI) « Ed Egli cominciò, dice l’Evangelista, a rattristarsi ed a turbarsi. »Nostro Signore ha dunque bevuto le acque torbide del torrente di questo secolo, acque tristi e che non portano gioia con loro. Egli ha preso il calice, lo ha riempito con l’acqua di questo torrente e vedendola così torbida, ha detto: « Padre mio, se è possibile si allontani da me questo calice. » Egli ha dunque bevuto l’acqua del torrente, ma l’ha bevuta non come nella casa, ma nella via, quando si accingeva a camminare verso il termine del suo viaggio. Egli ha dunque bevuto l’acqua del torrente, perché Egli era per la via. Ora, se nostro Signore ha bevuto l’acqua del torrente di questo secolo, quanto a maggior ragione, i Santi devono berlo dopo di Lui? Volete una prova che i Santi bevono l’acqua del torrente? « … la nostra anima, dice il Profeta, ha traversato le acque del torrente. » (Ps. CXXIII). Ma sentendo parlare dei torrenti di questo secolo, non perdete coraggio. Questi torrenti restano ben presto a secco: essi sembrano gonfiarsi, le loro acque sono abbondanti, ma si ritirano prontamente se avete la pazienza di attendere (S. Gerem.). –  « Egli berrà nel suo cammino l’acqua del torrente. » Tuttavia, qual è questo torrente? Il corso fuggitivo della mortalità umana. similmente, in effetti, ad un torrente – formato dal concorso di acque pluviali – si gonfia, muggisce, corre e scorre correndo, cioè finisce la sua corsa fino a seccarsi, così è del corso della nostra mortalità. Gli uomini nascono, vivono e muoiono; mentre alcuni muoiono, altri nascono; questi a loro volta muoiono ed altri nascono ancora; tutto in successione, arrivo, partenza, cambiamento. Cosa c’è di stabile quaggiù? Cosa c’è che non scorra come l’acqua? Cosa c’è che non sia precipitato nell’abisso, come un torrente d’acqua pluvia? In effetti, similmente ad un torrente che si forma improvvisamente dalla riunione di acque pluviali, ed innumerevoli gocce di pioggia, così la massa del genere umano si forma con mille elementi segreti, e prende il suo corso fino a che la morte la rigetti nel segreto da dove è uscita; tra questi due abissi, essa fa un po’ di schiamazzo e passa. È a questo torrente che il Signore ha bevuto. Egli non ha disdegnato di bere da questo torrente; perché, per Lui, bere da questo torrente, era nascere e morire. Questo torrente ha due termini: la nascita e la morte. » (S. Agost.). – Non ci sono che due cose, quaggiù: la culla e la tomba, la nascita ed il trapasso; Gesù-Cristo li ha presi. Colui che vive e regna nei secoli si è assoggettato ai tempi; il fiume del tempo li ha trasportati nel suo corso, come i maledetti figli di Eva. – Questa acqua del torrente ha ancora un altro significato e figura la vita umile, semplice, povera del Signore, che non aveva altro per spegnere la sua sete che le acque del torrente (S. Chrys.). – Nelle sante Scritture, le acque del torrente sono ancora il simbolo delle pene e delle tribolazioni di questo esilio. Ora, tutta la vita di Gesù, è stata una croce ed un martirio continuo; ma è soprattutto alla fine della sua triste carriera che Egli ha bevuto il calice fino alla feccia. È una circostanza che gli evangelisti non ci hanno consegnato, ma che la tradizione ci ha trasmesso: Gesù-Cristo, trasportato fuori dal giardino degli Ulivi a Gerusalemme, in piena notte, fu obbligato ad attraversare il torrente di Cedron. Le guardie impietosamente lo spinsero con brutalità e lo fecero cadere nel letto quasi secco del torrente. Il Figlio di Dio, tramortito dalla caduta, avvicinò le sue labbra alle acque fangose che bagnarono i suoi vestiti sanguinanti; Egli volle gustarne l’amarezza (Mgr PICHENOT). nello stesso senso aveva detto ai suoi Apostoli, che gli chiedevano i primi posti nel suo regno: « … potete bere il calice che Io berrò? » (Matth. XX, 22), che Egli intendeva manifestamente essere la sua passione, e quando fece per tre volte questa preghiera nel Getsemani: « Padre mio, Padre mio, se è possibile questo calice passi via da me. » (Ibid. XXVI, 39). Ecco perché Egli alzerà gloriosamente la testa. » Dunque, è perché ha bevuto nel cammino l’acqua del torrente, che Egli ha alzato gloriosamente la testa; vale a dire, « poiché si è umiliato, e si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Ecco perché Dio lo ha esaltato tra i morti e gli ha dato un Nome che è sopra ogni altro nome, affinché al Nome di Gesù si pieghino i ginocchi in cielo, sulla terra e negli inferi, e che ogni lingua confessi che il Signore Gesù è nella gloria di Dio Padre. » (Filipp., II, 8-11). – Il Figlio dell’uomo si è fatto uomo, si è umiliato, annientato, fino a prendere forma di schiavo; Egli è stato povero e nel lavoro ha passato la sua giovinezza; Egli ha sofferto alla sua nascita, durante la sua vita, alla sua morte; Dio ha posto in questo triplice grado di umiliazione il principio delle sue grandezze e della sua elevazione. – Gesù-Cristo è il nostro modello: occorrerà essergli trovati conformi – dice San Paolo – per prendere posto al suo fianco nei cieli. Non ci sono che coloro che soffrano con Lui che potranno sperare di essere glorificati con Lui. – La Chiesa anche, come il suo divino sposo, camminando sul Calvario, è stata spesso rovesciata nel cammino, ed ha bevuto l’acqua del torrente; ma all’indomani della sua caduta, e precisamente a causa della sua umiliazione della vigilia, ha sollevato la testa sempre più in alto. Essa è nata nel sangue di Cristo; essa ha posto il suo trono reale a Roma, sul corpo sanguinante di Simon Pietro, il primo Vicario di Cristo; la sua storia non è che una lunga scia di sangue versata per essa  (Mgr PIE, Elog. des vol. Cath., t. v, p. 55.).– È una legge stabilita, ci dice Bossuet, che la Chiesa non può gioire di alcun successo che non gli costi la morte dei suoi figli, e che per affermare i propri diritti, occorra che sparga del sangue. Il suo Sposo l’ha riscattata con il sangue che ha versato per essa, e vuole che essa compri con un prezzo simile le grazie che Egli le accorda. »  (BOSSUET, Panég. de S. Th. de Cant.). – « Egli berrà dal torrente nella via; » Egli berrà il calice della passione, « ma in seguito alzerà la testa. » Beviamo con Lui le afflizioni, le mortificazioni, le umiliazioni, la penitenza, la povertà, le malattie; beviamo da questo torrente con coraggio; che questo torrente non ci trascini, non ci abbatta, non ci inabissi come il resto degli uomini. Allora noi eleveremo la testa; le teste orgogliose saranno distrutte, noi lo vediamo; ma le teste umiliate con un abbassamento volontario, saranno esaltate con Gesù-Cristo. (BOSSUET, Médit, LII° Jour.)

IL MERITO DELL’UOMO

IL MERITO

[Encicl. Cattolica, Vol. VIII, C. d. Vatic. 1952 – col. 721-726]

MERITO DELL’UOMO. – Il merito, teologicamente, è l’opera buona che, compiuta dall’uomo in determinate condizioni, è degna di premio soprannaturale.

I. REALTÀ DEL M. DELL’U.

1. La S. Scrittura. – La parola « merito » manca nella Bibbia, ma non la cosa, poiché mercede, rimunerazione, corona, retribuzione delle buone opere sono concetti correlativi. Nel Vecchio Testamento la visuale è ancora poco aperta ai beni eterni e lo sguardo è rivolto piuttosto alla collettività che al singolo, cui però a mano a mano vien dato rilievo. Del resto, anche le sanzioni terrestri sono divine ed è logico pensare che il rapporto sia trasportato alla sfera superiore. – Nel Nuovo Testamento il Regno, cioè la beatitudine eterna, si presenta come dono che discende dalla gratuita compiacenza del Padre. Ma accanto all’iniziativa divina trova posto l’elemento umano che ne condiziona normalmente l’applicazione. Sono da ricordare il discorso della montagna con le beatitudini e la norma morale del Regno, le parabole dei talenti, delle mine, degli operai della vigna. – Il Regno, che inizialmente è puro dono, diventa soggettivamente, nella sua fase di progresso e di perfezione, anche conquista per mezzo delle opere: « Possedete il Regno; avevo infatti fame e m’avete dato da mangiare » (Mt. 25, 34). Ciò che Gesù aspramente condanna non sono le opere della legge, che compie il fariseo, ma il principio umano su cui esclusivamente le fonda; la vana ostentazione davanti agli uomini e la petulante davanti a Dio. « Han già ricevuto la loro mercede »; non rinnega però le opere con il loro diritto alla ricompensa; anzi insegna il modo di rendere tale diritto veramente certo ed efficace davanti al Padre, che vede nel segreto (Mt. VI, 4). – La dottrina degli Apostoli è in perfetta armonia conil Vangelo. S. Giacomo sa che « ogni buona donazione e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre dei lumi» (Iac. 1, 17); ma inculca le opere buone e ne mette in risalto il valore: « che gioverebbe, fratelli miei, se uno dicesse d’avere la fede mentre non ha le opere? forse che la fede lo potrà salvare? » (ibid. 14). S . Pietro parla de « l’incorruttibile corona della gloria » (1 Pt. V, 4), che all’apparire del Principe dei pastori riceveranno i « presbiteri » che avranno compiuto degnamente il loro ministero; la stessa ricompensa attende tutti i fedeli per le loro buone opere (II Pt. 1, 5-6). Secondo s. Giovanni, Dio scruta reni e cuori e darà a ciascuno secondo le sue opere (Apoc. 2,23) e la mercede ai suoi servi (ibid. 11, 18). « Sii fedele sino alla morte e ti darò la corona della vita » (ibid. 2, 10). La morte per coloro che muoiono nel Signore è riposo dalle fatiche; le buone opere tengono loro dietro (ibid. 13). S. Paolo, mentre sottolinea il compito principale della Grazia nell’ordine della salvezza e l’assoluta gratuità, afferma il valore delle opere buone compiute dal giustificato. « L’uomo mieterà quel che avrà seminato… dalla carne la corruzione, dallo spirito la vita eterna » (ibid. 6, 8). « Ciascuno riceverà la mercede secondo la propria fatica » (Cor. 3 , 8 ) e « dal Signore la retribuzione dell’eredità » (Col. III,23) « nel giorno della Rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere » (Rom. II, 6-7). I giustificati sono come atleti gareggianti in corsa: « Correte così da fare vostro il premio, che sarà corona incorruttibile » (1 Cor. IX, 24-25) : « Ho combattuto la buona battaglia, ho terminata la corsa, ho conservata la fede: del resto a me è serbata la corona della giustizia che il Signore, giusto Giudice, renderà a me in quel giorno, né solo a me ma anche a coloro che desiderano la sua venuta » (II Tim. IV, 7-8). Così la S. Scrittura insegna che il giustificato può, con la Grazia, fruttificare in opere buone, che deve compiere e che esse sono meritorie davanti a Dio.

2. La tradizione. – La fede della Chiesa nel valore meritorio delle opere buone si rileva dagli scritti dei secc. 1 e 11, nei quali, a giudizio del protestante Schutz, accanto alla Grazia di Dio, l’acquisizione d’una ricompensa per l’azione dell’uomo appare come una cosa naturale. – S. Giustino: « Abbiamo appreso dai profeti e manifestiamo per vero che le pene e i supplizi e le buone ricompense vengono ripartite secondo il merito delle opere di ciascuno » (Apologia I, 43: PG 6, 392). S. Ireneo: « Stimiamo preziosa la corona… che si acquista con la lotta… e tanto più preziosa quanto più attraverso il combattimento ci viene » (Adv. Hæres., 4, 37, 7: PG 7, 1104). Tertulliano fu il primo a introdurre la parola meritum, rimasta nell’uso teologico (Apologeticum, 18: PL, 434-35). S. Cipriano: «Puoi giungere a veder Dio, se avrai meritato Dio con la vita e le opere » (De opere et eleemosynis, 14: PL 4, 635). L’insegnamento dei Padri si determinò progressivamente soprattutto nella catechesi ordinaria e nelle omelie; p. es., s. Cirillo di Gerusalemme dice: « Radice d’ogni buona azione è la speranza della risurrezione, poiché l’aspettativa della mercede tonifica l’anima» (Cathech., 18, 1: PG 33, 107); s. Ambrogio: « Davanti ai singoli sta la bilancia dei nostri meriti; nel giorno del giudizio o le nostre opere ci saranno di aiuto o ci immergeranno nel profondo » (Epist., 2, 14, 16: PL 16, 883); s. Agostino: «avendo detto (Rom. VI, 23) salario del peccato la morte, chi non riterrebbe di soggiungere: salario poi della giustizia, la vita eterna? Ed è vero, poiché come al merito del peccato vien resa come castigo la morte, così al merito della giustizia come ricompensa la vita eterna» (Epist., 194, 20-21 : PL 33, 881; cf. Rivière, articolo cit. in bibl., col. 576 sgg).

3. La scolastica. – Il medioevo raccolse l’eredità patristica, l’assoggettò a rigorosa analisi, approfondendo le nozioni di naturale e soprannaturale e la « sinergia » tra Grazia e volontà libera, indagando l’essenza e il fondamento del m. dell’u., precisando i concetti di merito de condigno e de congruo. La distinzione è fondata sul diverso rapporto tra l’opera meritoria e il premio. Il merito de condigno importa una certa morale e proporzionale (non aritmetica) eguaglianza tra l’opera buona e il premio, così che, posta l’accettazione e la promessa da parte di Dio, il premio è dovuto secondo giustizia; quello de congruo non si fonda su eguaglianza e quindi il premio non è nell’ordine della giustizia, ma piuttosto in quello della convenienza (decentia) e della benignità; se vi si aggiunge la promessa divina, cui Dio è fedele, si ha il merito de congruo infallibile. Tra i due c’è solo analogia; merito vero, in senso proprio e stretto, è soltanto quello de condigno: con tale valore va preso, secondo l’interpretazione comune dei teologi, il termine « merito » nei documenti tridentini.

4. Il magistero ecclesiastico. — Nel 529, al termine della controversia semipelagiana, il secondo Concilio di Orange, al can. II (Denz – U, 191) affermò: « La Grazia non è prevenuta da merito alcuno. Alle buone opere, se vengono compiute, è dovuta la mercede, ma affinché esse siano fatte, precede la Grazia che non è dovuta ». Il Concilio di Trento trattò l’argomento con particolare chiarezza, specialmente nel cap. 16 e can. 32 della sess. VI: « Chi avrà detto che le buone opere dell’uomo giustificato sono talmente doni di Dio, da non essere anche meriti buoni dello stesso giustificato, o che il giustificato stesso con le opere buone, che da lui son compiute per la Grazia di Dio e per il merito di Gesù Cristo (di cui è membro vivo), non merita veramente l’aumento della Grazia, la vita eterna e della stessa vita eterna il conseguimento (se tuttavia sarà morto in Grazia) ed anche l’aumento della gloria, sia scomunicato » (Denz – U, 809, 842; cf. anche i cann. 2, 24 e 26: (Denz-U, 812, 834, 836). Nel 1567 s. Pio V condannò gli errori di Michele Bajo, il quale, misconoscendo la distinzione tra l’ordine naturale e soprannaturale, affermò che le opere dell’uomo danno diritto alla ricompensa celeste « in virtù d’una legge naturale » e negò che per veramente meritare l’uomo abbia bisogno della Grazia della filiazione divina e dello Spirito Santo inabitante (cf. propp. 2-18; Denz-U, 1002-18). – Nel 1653 Innocenzo X dichiarò e condannò come eretica la 3a proposizione di Giansenio: « Nello stato di natura decaduta, per meritare e demeritare non si richiede nell’uomo la libertà dalla necessità, ma basta la libertà da coazione » (Denz – U, 1094).

5. Battute polemiche. — Dopo questa rapida scorsa, si può concludere che quando la Chiesa alle negazioni della « riforma » oppose i memorabili capitoli e canoni della VI sessione tridentina, essa non altro esprima che la dottrina di Gesù. La « riforma » fu essenzialmente una lotta violenta contro il merito delle opere buone. È vero che alle prime radicali negazioni luterane furono aggiunti, subito e ancor più in seguito, dei correttivi, ma la sostanza restò e resta nei libri simbolici e nella concezione generale del cristianesimo protestante e riformato. Si pensò del tutto spenta per il bene la forza di volontà dell’uomo decaduto, così che resterebbe in sé inerte anche sotto la Grazia divina, mentre una giustificazione solamente esteriore e imputata non può certo recare uno stabile interno principio del vivere e dell’agire schiettamente umano e insieme divino. Si ragionò secondo ilfalso presupposto che la Grazia e l’opera dell’uomo sono come due rette originanti da due punti distinti, mentreè la Grazia che inizia, cui si allea, movendosi vitalmentesotto la sua continua spinta, forte e soave, la volontà libera. Il m. è il prodotto di due fattori, Grazia e libertà,ambedue realmente operanti e indispensabili alla realtà dell’effetto.L’opera meritoria dell’uomo sembra porre la creatura con diritti di fronte al Creatore, e ciò per di più suun terreno soprannaturale, di cui la gratuità è nota essensenziale. A tale obiezione si risponde concedendo di unaparte che tra Dio e l’uomo non vi può essere rapporto di rigorosa giustizia, e ricordando dall’altra la « coronadi giustizia » di s. Paolo e il detto di s. Agostino: « Dio si è fatto debitore non con il dovere ma con il promettere.Non possiamo dirgli: rendi quel che hai ricevuto, ma bene diciamo: rendi ciò che hai promesso » (En. in Ps.LXXXIII, 16: PL 37, 1068). Chese il Signore ha affermato: (S. Luc.XVII, 10) che ci si deve considerare « servi inutili », ha anche detto (S. Mt. XXV, 23): « Bravo! Servo buono e fedele. » Mala Scrittura dice che la vita eterna è eredità per i figli. È vero, ma dice anche che è mercede promessa ai figli operanti il bene. Si noti di passaggio come ancorauna volta l’eresia s’affermi come visione parziale, pretendente alla totalità. Per altro verso non reca ingiuria al merito di Gesù Cristo il m. dell’u., come non fa ingiuria alla vite il grappolo che pende dal tralcio. Faefficace il merito della passione e morte del Signoreda ottenere che l’uomo in lui potesse meritare. C’è poiil falso presupposto, molto comune, che in nome d’un purismo morale qualifica come grettamente egoistica ed interessata la dottrina cattolica del merito ove, si dice, domina la « mania della ricompensa ». Senza voler confutare a fondo tale posizione, si nota che esiste un rapporto oggettivo tra l’opera buona e il premio e che pertanto è morale che l’uomo, nel suo operare, positivamente intenda la retribuzione.

II. CONDIZIONI DEL M. DELL’U. –

1. Da parte dell’operante. — Questi deve essere : a) in statu viæ, perché al sopraggiungere della notte (la morte) nessuno può più operare » (Io. IX, 14); occorre compiere il bene « mentre abbiamo tempo » (Gal. VI, 10). B) in statu gratiæ (v. il Concilio Tridentino e la condanna degli errori di Bajo, sopra citati), deve cioè essere inserito vitalmente, come membro vivo di Cristo, da cui solo deriva nell’uomo l’operare cristiforme e meritorio. La dottrina cattolica non ipostatizza le opere, considerandole così avulse dal soggetto perante come avessero un valore in sé e per sé, come la moneta d’oro posseduta dal ladro, se non ripetessero tale valore meritorio de Condignoanche dalla dignità soprannaturale del soggetto operante, costituito per la Grazia abituale amico di Dio.

2. Da parte dell’opera. – Questa deve essere: a) libera, perfettamente, cioè non solo esente da costrizione esterna, ma anche da interna necessità (v. la 3a prop. di Giansenio dichiarata eretica): il merito è nell’ordine dei valori morali umani, la cui radice è la libertà; per questo il giustificato che muore prima di aver compiuto atti liberi ottiene la vita eterna solo come eredità; né il merito cessa ove l’opera sia obbligatoria: è comandamento evangelico l’amore dei nemici, eppure è detto che per chi li ama sarà grande la mercede » ( S. Lc. VI, 35); nel caso del precetto per cui l’opera è già dovuta a Dio, S. Tommaso ritiene che l’uomo ne ha il merito, « perché di propria volontà fa ciò che deve » (Sum. Theol., 1a – 2æ, q. 104, a. 1, ad 1); b) buona, ossia secondo tutti gli elementi richiesti per l’onestà dell’atto umano: l’opera cattiva merita il castigo; l’omissione di un’azione cattiva risulta meritoria quando richiede forza morale; c) soprannaturale: certamente per ragione del principio elicitivo prossimo, che è la facoltà elevata dall’abito infuso, che probabilmente dev’essere mossa dalla Grazia attuale. Che l’atto umano debba anche essere in qualche modo orientato verso Dio come autore della salvezzasoprannaturale è da ammettere; i teologi però non sono d’accordo nel precisare quale intenzionalità o motivooccorra. La Chiesa ha condannato alcune proposizioni di Quesnel tendenti ad affermare che solo l’atto di carità è meritorio (Denz – U, 1403 sgg.).

3.  Da parte di Dio. — Occorre la promessa di Dio di accettare l’opera buona e di premiarla. La ragione è che l’uono non può pretendere d’avere uno stretto diritto di fronte a Dio; occorre che Dio prenda graziosamente l’iniziativa d’ordinare a sé l’opera umana con la promessa del premio. La Rivelazione ha messo in chiaro questo punto in tutti i passi della Scrittura e dei Padri dove si dice che si può e si deve compiere opere buone. I teologi discutono sulla funzione che compete a tale ordinazione e promessa circa il m. dell’u. C’è chi pensa che l’opera, pure compiuta nelle condizioni richieste, non è in séaffatto proporzionata al premio senza la promessa divina; altri, all’opposto, ritengono che lo è intrinsecamente; molti affermano che tale opera ha in sé radicalmente e in actu primo la ragion di merito, che la divina promessa integra e compie in actu secundo, così che il premio le sia strettamente dovuto. Quest’ultima sembra la vera sentenza, poiché tiene in giusto conto e la dignitàintrinseca dell’opera e la trascendenza di Dio, che solo promettendo si fa nostro debitore. Da ultimo è da notare che per il merito de congruonon si esige lo stato di Grazia e che la promessa di Dio è solo richiesta per il merito de congruoinfallibile.

III. OGGETTO DEL M. DELL’U . –

Il Concilio Tridentino (sess. VI, cap. 16, can. 2, sopra riferiti) definisce gli oggetti che l’uomo, gratuitamente giustificato, con le buone opere merita veramente, cioè de condigno, e sono: 1) la vita eterna, oggetto principale;2) l’aumento della gloria, in quanto il Signore darà aciascuno secondo le sue opere e secondo la sua fatica: chi ha guadagnato dieci mine sarà costituito sopra dieci città, chi cinque, su cinque (S. Lc. XII, 16 sgg.). Epoiché il Regno di Dio, che è la vita eterna, s’inizia in terra nell’anima del giusto, dove la Grazia intrinsecamente aumentabile ne è il seme, la preparazione e la caparra, e poiché a un determinato grado di Grazia abituale corrisponderà un determinato grado di gloria, si deduce che anche l’aumento di Grazia è oggetto di merito. Il giusto merita pure il conferimento o soluzione della mercede eterna, che sarà però data a suo tempo e alla condizione ch’egli muoia in Grazia di Dio. – Non sono oggetto di merito de condigno: a) la giustificazione e le grazie per prepararvisi: s. Paolo lo afferma più volte e il Concilio di Trento lo ha definito (Sess. VI, cap. 8; Denz-U, 801); infatti la condizione per tale merito è l’esser giusto; qui pertanto vale il principio: « la prima grazia non può essere oggetto di merito »; b) ogni bene soprannaturale che il giusto intende ottenere per altri: Dio rende a ciascuno secondo le proprie opere, che sole, in quanto personali, valgono per la corona; è privilegio esclusivo di Gesù Cristo, l’unico mediatore, d’aver meritato de condignoper gli altri; c) la Grazia efficace in quanto tale: è sentenza comune dei teologi, fondata anche sulla mancanza, a questo riguardo, della promessa divina; d) il dono della perseveranza finale, che il Tridentino chiama magnum donum, circa il quale anche il giustificato deve sempre essere in salutare timore: lo stesso Concilio non lo elenca tra gli oggetti del merito vero, ma lo mette come condizione al meritato conseguimento della vita eterna; e) la propria riparazione, dopo la perdita della Grazia. La colpa mortale pone l’uomo nello stato di condannato a morte eterna, con sentenza immediatamente eseguibile: se Dio lo rifà suo figliolo, ciò è dovuto alla sola sua benignità. Quanto all’oggetto del merito de congruo, il peccatore può meritare: a) le ulteriori grazie attuali, con cui disporsi più da vicino alla giustificazione; questo merito, per la promessa di Dio, è infallibile; b) la giustificazione. E la sentenza più comune e meglio fondata nella Rivelazione e in alcuni incisi del Tridentino. Anzi quando si tratta dell’atto di contrizione perfetta il merito de congruoè infallibile. Il giusto può meritare: a) le Grazie efficaci e la stessa perseveranza finale; mancando però la promessa divina, il merito è fallibile: si osservi con il Suàrez (De Gratia, 12, 38, 14) che la perseveranza finale è meritata non con uno o più determinati atti o durante un certo tempo, ma con una serie di atti buoni svolgentesi per tutta la vita; il «gran dono» è oggetto infallibile della «supplice preghiera»; b) anche i beni temporali, in quanto sono d’aiuto per la vita eterna. Per gli altri, il giusto può meritare de congruo tutto ciò che in qualunque modo può meritare per sé, in più la prima Grazia soprannaturale e la prima Grazia efficace, s’intende fallibilmente. Tre grandi cose sono assolutamente e soltanto doni per chi li riceve: la prima Grazia soprannaturale, la prima Grazia efficace, e la predestinazione totale. L’ultimo tocco della misericordia divina è la reviviscenza dei meriti (v.).

BIBL.: I. Rivière, Mérite, in D Th C, X, coli. 574 – 785: id., La doctrine du mérite au Concile de Trente, in Revue des sciences religieuses, 7 (1927), PP. 262 – 98; id., St Thomas et le mérite «de congruo », ibid., pp. 641 – 49; id., Sur l’origine des formules «de congruo », « de condigno », i n Bullettin de la littérature ecclésiastique, 28 (1927). PP – 75 – 89; H. Lange, De Gratta, Friburgo in Br. 1929, pp. 123 – 29, 557 – 90; A. Landgraf, Die Bestimmung des Verdienstgrades in der Fruhscholastik, in Scholastik, 8 (1933), pp. 1 – 4 0; – E . Hugon, Le mérite dans la vie spirituelle, Juvisy 1 9 3 5 ; P. De Letter, De ratione meriti sec. s. Thomam, Roma 1939; P. Parente, Anthropologia supernaturalis, 2″ ed., Roma 1946, pp. 173 – 81; – B. Bartmann, Manuale di teologia dogmatica, II, trad. R. di N. Bussi, Alba 1949, PP. 347 – 57. Mario Ghirardi

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO VI – “ADEO NOTA”

L’Adeo nota, è una delle encicliche che il Santo Padre Pio VI scrive in occasione dei moti rivoluzionari francesi che miravano, sotto la direzione degli Illuminati e delle logge sataniche, a colpire la società francese, ma soprattutto la Chiesa e la Religione Cattolica. In realtà tutte le rivoluzioni dei tempi moderni del neopaganesimo risorgimentale hanno mirato unicamente, sotto coperture politiche o sociali, a destabilizzare il Regno di Cristo ed affermare il motto luciferino: “Non serviam”. Qui alla Santa Sede viene sottratto il territorio di Avignone e del contado annesso, ma le cose vanno ben oltre, nel senso che si mira allo scisma ed alla distruzione della giurisdizione gerarchica in seno alla Chiesa francese. Nulla di dissimile oggi, quando le forze della sovversione – mascherate da finta democrazia asservita alle logge e, attraverso di loro, a coloro che odiano Dio, la Chiesa di Cristo e tutti gli uomini – oltre ad aver posto il dominio su tutto l’ambito politico e finanziario internazionale, agiscono fomentando scismi a catena dalla vera Chiesa Cattolica, oggi eclissata e ridotta in anfratti e sottoscala. Cosa sono infatti i falsi vescovi delle sette scismatiche lefebvriane o sedevacantiste che non hanno alcuna missione canonica, né uno straccio di giurisdizione, sovrapponendosi fraudolentemente ad autorità anch’esse invalide perché non in comunione col vero Vicario di Cristo, perseguitato ed in cattività. È una epidemia di scismi ed eresie pronunciate in nome di una pseudo-tradizione che però si sgancia da ogni regola dottrinale circa la gerarchia ecclesiastica (oggi, visto il traballare delle prime linee, si sono chiamati a resistere alla vera Chiesa, anche – ridicoli – triari!!). Si è costituito un mondo totalmente sacrilego – quanti Malieri in giro – ed ancor più tenebroso del Novus ordo, chiaramente divenuto tentacolo della piovra oggi incoronata dal Kether Malkhuth, come ci fanno sapere i mass media satanico-mondialisti che ci propinano i successi nefasti e terrorizzanti della “Corona” luciferina (chi ha intelletto comprenda!). Abbiamo qui in questa lettera, la cronaca dolorosa del primo attacco frontale delle forze delle tenebre verso la Chiesa, attacco che poi è stato portato dall’interno di essa dalla quinta colonna gestita dalle logge Ecclesia & C. Il Santo Padre Pio VI, che avrebbe poi personalmente provato sulla propria pelle la violenza dei satanisti organizzati, protesta vibratamente contro le decisioni del direttorio insediato dagli Illuminati. Oggi una voce simile è stata silenziata e sostituita da quella di un fantoccio partorito dalle sette d’oltreoceano. Ma nessun problema, il Cattolico sa che, come Cristo, sarà perseguitato e martirizzato, e sa che tutto questo sarà di gran merito per lui, per cui noi del pusillus grex, ringrazieremo di cuore chi ci farà soffrire nel corpo e nell’anima, perché ci darà l’occasione di testimoniare il Nome del Redentore e così conquistare la vita eterna, come promesso infallibilmente dal Salvatore Gesù.

Pio VI
Adeo nota

1. Sono così noti e divulgati presso le Nazioni i delitti perpetrati contro le leggi del santuario sia ad Avignone sia nel Contado Venesino di Nostra giurisdizione, e contro i diritti di sovranità, tanto che non hanno bisogno di lunga e particolareggiata descrizione. – Gravemente infatti si è peccato contro di Noi da parte di ambedue i popoli; ma la defezione del popolo avignonese è assai peggiore di quella del popolo del Contado. Gli Avignonesi infatti, per nulla preoccupati d’aver seguito la malvagità di pochi uomini che, per Nostra clemenza, erano sfuggiti alle pene dovute per i loro delitti, come se avessero impugnato con le loro mani il vessillo della ribellione, hanno tanto progredito in prepotenza, da indurre quelli del Contado, anche a mano armata, a formare con loro una nefanda società e a costringere a seguire il loro partito sia quelli del Contado sia gli Avignonesi che si fossero opposti, convincendoli con ogni genere di minacce, di stragi e di supplizi.

2. Ma di codesto delitto, come di altri, non parleremo; possono essere di validissima prova i rispettabili cittadini e gli uomini di Chiesa rapiti a morte, la città di Chalon sur S. occupata con la forza e saccheggiata, le irruzioni ostili nella città di Carpentras, ed altri generi di sfrenata violenza, che macchieranno gli scellerati autori di eterna ignominia e d’infamia. Essi infatti, imitando la crudeltà di Giasone, nemico delle patrie leggi e di Dio, come le sacre pagine di lui attestano, al fine di allontanare i cittadini e quelli del contado dalle leggi della patria e di Dio, non risparmiarono di stragi i loro concittadini, né pensarono che la prosperità acquisita contro gli amici fosse il massimo dei mali, come se essi catturassero trofei di nemici, non dei concittadini: degni perciò che essi, non diversamente come fu di Giasone (II Macc. capp. IV-V), fossero dichiarati a tutti odiosi, dissacratori delle leggi e traditori della patria.

3. Fra il popolo cominciarono a diffondersi la causa e il peso di quelle ribellioni, dalle quali il popolo era oppresso sempre di più. Ma quando a ciascuno parve chiaro che la motivazione di tutto ciò era assolutamente fittizia e piena di calunnia, in quanto gli Avignonesi e il popolo del Contado, oppressi da nessun genere di tasse, usufruivano di un regime tanto leggero e temperato che le altre Nazioni invidiavano, non senza motivo, la loro felicità, apparve evidente che l’unica vera causa era il desiderio di una sfrenata libertà: per raggiungere la quale si dichiarò essere necessaria l’integrale Costituzione dell’Assemblea Francese che s’impegna tanto nelle materie politiche quanto in quelle ecclesiastiche e religiose, e porta ad una maggiore e più duratura felicità, e conseguentemente i popoli di Avignone e del Contado passassero sotto la sovranità francese.

4. Fra queste scellerate perversità non abbiamo cessato di manifestare all’uno e all’altro popolo quanta e quale sia la Nostra benevolenza di padre e di sovrano verso gl’ingrati. Fu infatti Nostra cura, non senza rilevante dispendio dell’erario pontificio, liberare tali popoli dagl’impegni incombenti con grande carità; e li abbiamo paternamente ammoniti di guardarsi dalle insidie occulte, che si offrivano loro, alla Religione e anche alla pubblica utilità sotto la chimera della libertà. Se tuttavia per la stessa varietà dei tempi, od anche per l’umana prevaricazione, fosse insorta qualche trasgressione contro le leggi, o si fosse introdotto qualche abuso particolare, abbiamo apertamente dichiarato che Noi, ascoltate le Comunità, avremmo prestato la Nostra opera e l’aiuto perché tutto ritornasse, con la debita correzione, al retto ordine. E affinché nessuno dubitasse che per quanto era in Nostro potere saremmo intervenuti con la Nostra autorità, abbiamo immediatamente deliberato di inviare costà il diletto figlio Giovanni Celestini, uomo ben noto a molti ad Avignone, gestore di affari del Contado Venesino, affinché al più presto raggiungesse Avignone e Carpentras, ed ivi, col Nostro pro-legato e con i più esperti e prudenti cittadini trattasse di quei capitoli, cioè di quei punti che soprattutto si desiderava conoscere, affinché con voti unanimi potessimo assecondare la determinazione di quelle cose che fossero giudicate convenienti ed opportune. In tal senso si espressero due Nostre lettere in forma di Breve, l’una scritta il 21 aprile dell’anno scorso ai diletti figli nobili e al popolo della Nostra città di Avignone, l’altra scritta il 24 febbraio dello stesso anno al Venerabile Fratello il Vescovo di Carpentras, e ai diletti figli designati dai comizi generali della stessa città.

5. Ma del tutto inutili furono i Nostri benefici, inutili le paterne ammonizioni, inutile il viaggio del delegato. Infatti, i cittadini di Avignone, costretti poco legalmente ad intervenire ad una riunione per sostenere quei decreti che avevano estorto al Nostro pro-legato, e che da Noi erano già stati dichiarati nulli e irriti, gli Avignonesi, diciamo, costretti alla riunione rifiutarono di accogliere il delegato e minacciarono persino che l’avrebbero ritenuto un perturbatore pubblico se avesse messo piede in città o nel territorio. Inoltre cercarono il modo di esautorare il diletto figlio Filippo Casoni, pro-legato, e gli altri Nostri ministri, fra i quali non mancò chi, per le insidie subite, fu costretto a darsi alla fuga; infine presero la decisione di sottomettersi alla giurisdizione e al comando del carissimo in Cristo figlio Nostro il cristianissimo Re delle Gallie, e a questo fine furono mandati deputati allo stesso Re e all’Assemblea Francese. Da questo momento per mezzo della Municipalità fu ordinato allo stesso pro-legato di allontanarsi da Avignone; ed effettivamente egli partì il 12 giugno 1790, avendo prima espresso le proteste del caso sia a voce davanti agli stessi ufficiali della Municipalità, che gli avevano ordinato di andarsene, sia con uno scritto davanti a testimoni, poiché ad Avignone non si trovò alcun notaio che registrasse quelle proteste. Pertanto lo stesso pro-legato, partito per Carpentras, rinnovò tosto le proteste il 16 e il 21 del medesimo mese davanti al notaio Oliveiro, cancelliere della Rettorìa, e ordinò che esse fossero conservate fra gli atti della Segreteria, affinché non morisse mai il ricordo di tale evento. Nello stesso tempo da parte dell’Assemblea di Avignone fu pensato all’adeguamento delle materie politiche ed ecclesiastiche con la Costituzione generale dell’Assemblea Francese, e per far questo rapidamente si operò con tale e tanto furore da ogni parte, che nulla di simile nessuno vide neppure nei comizi Gallicani.

6. Da questo derivò che da una parte al legittimo ed antico principato subentrò un misero stato di anarchia, e dall’altra furono tolte dai canoni leggi secolari, sì da sovvertire la sacra gerarchia, l’autorità della Chiesa e la stessa Religione Cattolica. Infatti le Chiese furono spogliate dei loro beni; le suppellettili d’argento furono rubate; i sacri vasi sottratti da mani sacrileghe e trasportati a Marsiglia col ricavo di ingenti somme di danaro; infranti i recinti dei monasteri; maltrattate le sacre vergini e costrette a bussare ad altri monasteri o a ritornare ai patrii lari. Inoltre con pubblico editto del 30 novembre dello scorso anno, sia al Venerabile Fratello Arcivescovo di Avignone, che si era ritirato a Villanova, località della sua Diocesi, sia a tutti i parroci e a tutti gli uomini di Chiesa si ordinava che nel più breve spazio di tempo si portassero ad Avignone ed ivi si vincolassero con giuramento alla civica religione: giuramento dal quale nacque la causa maggiore di tutti i mali. Se fosse stato altrimenti, tutti avrebbero dovuto ritenersi decaduti dal loro grado e le loro Chiese ugualmente, come se mancassero del loro Pastore. – Questo atto Ci richiama alla mente quello scellerato editto contro i buoni e legittimi Pastori emanato dall’imperatore Costante su consiglio e per iniziativa degli Ariani: il che tutti gli scrittori hanno condannato con giustificato orrore. Infatti, anche questo editto, mentre praticamente chiedeva un impegno dagli ecclesiastici, al contempo formulava minacce concepite con queste parole: “O firmate, o vi allontanate dalle Chiese“.

7. Alle minacce contenute nell’editto risponde un episodio pieno di profana scelleratezza e traboccante immane sacrilegio. – Infatti il 26 febbraio di quest’anno entrò nella Chiesa cattedrale un ufficiale municipale, di nome Duprazio, abile nell’uso delle armi, con la spada nella mano destra, seguito da un ingente reparto di soldati del Comitato. Egli osò costringere i Canonici della Chiesa, che stavano uscendo dal coro, ad entrare nella sala capitolare per eleggere, in nome della Municipalità, un Vicario capitolare, col pretesto che, secondo i decreti dell’Assemblea Gallicana adottati dagli Avignonesi, dovevano ritenere l’Arcivescovo civilmente morto e la sua Chiesa priva del pastore perché egli da qualche tempo non si trovava ad Avignone e non aveva prestato il giuramento civico.

8. I Canonici negarono di poter eseguire quell’ordine, contrario a tutte le regole della Chiesa, ma l’ufficiale minacciò che non li avrebbe lasciati muovere piede da lì finché non avessero eletto il Vicario. Allora i Canonici chiesero che si facesse venire un notaio, il quale recasse la testimonianza della violenza loro inferta. Ma, rifiutata la loro richiesta, l’ufficiale presentò loro una carta nella quale erano scritti otto nomi di uomini, fra i quali dovevano scegliere il Vicario, e nello stesso tempo fece chiamare ed introdurre il notaio Poncezio e il segretario della Municipalità Escuierio, affinché presenziassero alla elezione. Invano i Canonici si opposero nuovamente, ma, costretti a dare il proprio voto, le cose si svolsero in modo tale che nessuno potesse dirsi regolarmente eletto. Infatti, dei dieci Canonici presenti in capitolo, il Canonico della Cattedrale Malierio ebbe soltanto quattro voti, l’altro Canonico della Cattedrale Depretis due voti e altrettanti Messangeanio, Canonico della Collegiata di San Genesio; gli altri cinque nessun voto. Tuttavia Duprazio volle che siffatta elezione di Malierio, per il quale non la maggior parte del capitolo, com’è prescritto, ma solo quattro avevano votato, fosse ritenuta valida; volle inoltre che i canonici, sebbene contrari e riluttanti, la sottoscrivessero con la loro firma; e con la minaccia di gravi pene vietò ai notai della città, tanto ai presenti quanto agli assenti, di registrare nei loro atti qualsiasi protesta dei Canonici.

9. Quando l’ufficiale ebbe estorto ai Canonici questa fittizia elezione che i voti e i consigli della Municipalità chiedevano, simulò di non ricordare affatto se il civico giuramento fosse stato prestato dagli stessi Canonici. Pertanto si adoperò affinché lo prestassero. Ma rifiutando i Canonici di volersi vincolare con quel tipo di giuramento, come egli stesso aveva previsto, tosto, in nome della Municipalità, dichiarò che il Capitolo era estinto e che d’ora in poi i Canonici non potevano svolgere nessun ufficio nella Chiesa e in alcun modo formare un solo corpo e riunirsi.

10. Benedetto Francesco Malierio era così avanzato in età da somigliare ad Eleazaro, illustre vecchio della storia sacra: poteva anch’egli lasciare alla gioventù e a tutto il popolo un glorioso esempio, cercando di imitarlo mediante importantissime e santissime leggi. Ma egli si comportò molto diversamente da Eleazaro, il quale, reputando nel suo animo che più dell’età, della veneranda vecchiaia, della nobile canizie era preferibile una gloriosissima morte, piuttosto che abbracciare una vita odiosa, decise di non fare cose illecite per un breve tempo di vita corruttibile. -Invece Malierio, non solo davanti ai soldati presenti nell’aula capitolare non rifiutò l’ufficio di Vicario capitolare, che, essendo ancora vivo il suo Arcivescovo, le leggi della Chiesa e quelle più sante di Dio vietavano potesse essere trasferito a chicchessia, ma lasciato totalmente libero ringraziò pubblicamente la Municipalità, e il 6 marzo – dopo la Messa celebrata dal sacerdote dell’Oratorio, Mouvansio vestito dell’insegna municipale sopra i sacri paramenti – non esitò ad iniziare in Cattedrale, con un rito più solenne, l’ufficio che gli era stato affidato e a prenderne possesso in mezzo ai soldati. Inoltre non disdegnò ricevere gli elogi che gli venivano fatti, come se fosse la colonna della rivolta, sia da Ricarzio, prefetto della città, sia da Vinaio, sostituto procuratore della stessa; infine non tardò ad aggiungere a tutte queste cose un’altra scelleratezza. Infatti davanti a tutti si vincolò con il civico giuramento verso la Nazione, le leggi e il Re della Francia, usando tali parole che neppure i più sfrontati usavano in Francia, e promise di rispettare anzitutto la civile Costituzione del clero, qualsiasi ostacolo si frapponesse e qualsiasi critica venisse mormorata contro di lui, sia dai nemici che lo guardavano di traverso, sia dagli amici dai quali si vedeva abbandonato.

11. Per confermare ciò ancor più coi fatti, lo stesso giorno comandò che si facesse pervenire ai parroci un certo scritto in cui parlava di sede vacante, ed osava sciogliere il vincolo del precetto quaresimale. Il giorno 9 dello stesso mese, con un altro scritto simile, interdisse dai loro uffici tutti coloro che in qualsiasi modo presiedevano ai seminari, perché avevano rifiutato di prestare giuramento; eliminò due seminari; e infine con tanta temerarietà, quanta nessuno a stento possa credere, con lettera del 5 dello stesso mese Ci informò della sua elezione, pregandoci di non disapprovarla affatto. Che le cose stiano così nessuno dubiterà, senza che egli cerchi di attribuire la vergogna e il giuramento alla propria vecchiaia.

12. La città di Avignone si è comportata con Noi secondo codesto criterio. Per quanto riguarda la città di Carpentras e le altre comunità del Contado, Ci arrideva la speranza che sarebbero tornate in breve tempo ai loro doveri. Esse infatti, costrette ad un’assemblea rappresentativa, non solo accolsero il pro-legato espulso da Avignone e Giovanni Celestini mandato da Roma, ma il 27 maggio dell’anno scorso dichiararono apertamente che avrebbero abbracciato la Costituzione Francese solo in ciò che conveniva ai loro interessi, al loro paese e alle circostanze, e che potesse accordarsi con l’ossequio a Noi dovuto, ed affermarono di voler rimanere sempre sotto il Nostro governo e la Nostra giurisdizione. Ma poi, a seguito di violenze o di allettamenti o di insidie dei rivoltosi di Avignone, esse mostrarono apertamente che veneravano il Sommo Pontefice e onoravano i suoi ministri soltanto formalmente, ma in realtà i loro consigli a null’altro miravano se non che il Pontefice e i suoi ministri approvassero, sancissero ed eseguissero tutta la Costituzione Francese sia per gli affari ecclesiastici, sia per quelli politici.

13. Senza dire con inutili parole tutte le deliberazioni prese dall’Assemblea del Contado, basterà citare quei diciassette articoli dove i diritti dell’uomo erano pressappoco accolti come erano stati spiegati e proposti nei decreti dell’Assemblea Francese, ossia quei diritti che erano contrari alla Religione e alla società; essi venivano accolti come fossero base e fondamento della nuova Costituzione. Altrettanto basterà ricordare gli altri diciannove articoli, che erano i primi elementi della nuova Costituzione, presi e attinti dalla stessa fonte della Costituzione Francese. Pertanto, poiché non poteva assolutamente accadere che Noi sancissimo tali deliberazioni e che i Nostri ministri, dovunque fossero, le osservassero, avvenne che l’Assemblea rappresentativa tosto manifestasse quel furioso ardore di ribellione per il quale già da tempo combatteva e che fino ad oggi aveva nascosto.

14. Perciò, presa dall’odio nei confronti del Nostro pro-legato perché non aveva accolto le sue richieste né aveva prestato il giuramento civico, l’Assemblea lo spogliò di qualsiasi potere giurisdizionale e dichiarò che non poteva più considerarlo come Nostro ministro. Né diversamente si agì nei confronti del diletto figlio Cristoforo Pieracchi, rettore di Carpentras, e di tutti gli altri ministri pontefici. Poscia in luogo del pro-legato fu istituito un nuovo tribunale, furono nominati tre conservatori di stato, e furono mandati a Noi due deputati preparati secondo un preciso ordine pieno d’arroganza e d’insulti, indice di aperta defezione: questa la ragione per cui abbiamo negato qualsiasi udienza a deputati siffatti. – Esautorati così i Nostri ministri, Giovanni Celestini dovette ritornare a Roma, e gli altri delegati pontifici, allontanatisi di là, giunsero prima ad Aubignano, luogo vicino a Carpentras, poscia a Bucheto, vicino ai confini del Contado Venesino, quindi, crescendo il tumulto, a Montelimarzio, nel Delfinato, e infine a Camberiaco, ove il 5 marzo di quest’anno rinnovarono le opportune proteste, curando di farle inserire negli atti della cancelleria vescovile.

15. Chi mai avrebbe creduto che questa partenza dei Nostri ministri, determinata da nessun’altra causa se non che essi erano stati spogliati di ogni giurisdizione e vedevano la loro vita in pericolo, come dimostrano le loro ripetute e frequenti proteste, che questa partenza – ripetiamo – sarebbe stato l’appiglio per il Consiglio municipale di Carpentras e per altre comunità di raccontare e ripetere alla gente che i popoli erano stati abbandonati dal loro Principe? – Sciolti pertanto dal giuramento di fedeltà, potevano, se volevano, sottomettersi al Re cristianissimo, come in realtà essi decretarono di fare. – Il popolo Avignonese e del Contado si sottrasse alla Nostra sovranità osando violare le leggi umane e divine. Ma Noi mai pensammo di abbandonare quei popoli, e pertanto presteremo la Nostra opera e daremo il Nostro aiuto in futuro, come in passato, affinché ritornino a Noi. Per questa ragione a coloro che si fossero allontanati da Noi abbiamo perdonato, senza alcuna condizione. Ma questo singolare atto della Nostra clemenza, sia ad Avignone sia a Carpentras, fu accolto con sfrenata arroganza e furono anche adottate dall’una e dall’altra parte deliberazioni indegne, che è meglio passare sotto silenzio e coprire con le tenebre, piuttosto che metterle in luce.

16. Ma non per questo il Nostro amore venne meno. Non ignoriamo infatti, Venerabili Fratelli, che non v’è nessuno fra voi che non detesti con grande orrore i delitti fin qui commessi e da essi non si allontani, per meglio adempire al suo ufficio di pastore. Sappiamo anche che fra voi, diletti figli, canonici, parroci, ed ecclesiastici di Avignone e del Contado vi sono molte persone eccellenti per virtù, accese di fervore religioso, pronte per ciò a sopportare qualsiasi sacrificio per difendere la causa di Dio, della Chiesa e della Patria. Sappiamo infine, diletti figli, che nel vostro nobile e civico rango si trovano molti dotati di apprezzabile devozione verso la Chiesa e di ottimo animo verso di Noi, sia ad Avignone, sia molto di più nel Contado, dove intere comunità conservano intatte ed intemerate la Religione e la fedeltà. Da qui, ammaestrati dalla divina sapienza, deduciamo che abbiano ragione i probi e i giusti; conseguentemente sopportiamo con mansuetudine i cattivi. E quantunque scorgendo tanti delitti siamo afflitti da grandissimo dolore, vogliamo tuttavia parlare paternamente agli uni e agli altri, affinché i buoni perseverino nel proposito di bene, e i cattivi vi ritornino e, con la penitenza, purghino le loro colpe. Inoltre, giacché scriviamo per questo tempo, nulla è più santo di ciò che porta con sé il giorno della riconciliazione e della pace. – Non siamo pertanto inorriditi per le cose contrarie che sono avvenute sia costà che nel regno dei Galli, come se Dio Ci avesse abbandonato. Ma pensiamo e reputiamo che le cose siano accadute sia per i Nostri peccati, sia per quelli del popolo, e non per la morte, ma per la correzione della Nostra stirpe. Pertanto confidiamo che in futuro il Dio ottimo e massimo, davanti al quale tanto spesso Ci siamo prostrati per chiedere perdono a favore del popolo affidato alla Nostra cura, si riconcili con i suoi servi, non allontani mai la sua misericordia da Noi, ma, abbracciando nelle disgrazie il suo popolo, non lo abbandoni: chi è abbandonato nell’ira di Dio onnipotente, di nuovo sarà esaltato nella riconciliazione del grande Signore.

17. Ascoltate, Venerabili Fratelli e diletti Figli, le Nostre paterne parole, che, seguendo il consiglio dei Nostri Venerabili Fratelli Cardinali Santa Romana Chiesa, vi rivolgiamo come pastore universale e vostro principe sul divario delle cose ecclesiastiche e politiche. Per quanto riguarda il regime ecclesiastico, nei confronti di coloro che con giuramento lo abbracciarono e seguirono, o mai abbracceranno e seguiranno costì la Costituzione civile del clero, agiremo con la stessa benignità con la quale abbiamo agito nei confronti di coloro che fecero lo stesso nelle Gallie, ove nacque la medesima Costituzione, in parte eretica, in parte scismatica, e nel complesso lontana dalle regole e avversa alla disciplina ecclesiastica; così è Nostro proposito di non fare altro che comminare ed estendere le stesse pene canoniche che reca la Nostra lettera del giorno 13 di questo mese, mandata ai diletti Nostri figli i Cardinali di Santa Romana Chiesa e ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi, ai diletti figli del capitolo, al clero e al popolo del regno delle Gallie. Di questa lettera mandiamo a voi molte altre copie, Venerabili Fratelli, affinché le facciate pervenire alle mani dei capitoli, del clero e dei popoli di codesta Nostra giurisdizione.

18. Pertanto, con la Nostra Autorità Apostolica, dichiariamo irriti, illegittimi e sacrileghi tutti gli atti che con qualsiasi nome, sia ad Avignone, sia a Carpentras, sia altrove siano stati compiuti per fare abbracciare o seguire, sia tacitamente, sia esplicitamente, tutta la Costituzione civile del clero od anche soltanto una parte, e tutti questi atti che diamo per espressi li condanniamo, respingiamo ed aboliamo.

19. Soprattutto annulliamo ed aboliamo l’editto dell’8 ottobre 1790, col quale il Consiglio municipale di Avignone, non solo temerariamente, ma anche empiamente, tentò di costringere il Venerabile Fratello Arcivescovo di quella città, i canonici, i parroci e gli altri ministri ecclesiastici ad unirsi a sé con civico giuramento, essendo proprio di qualsiasi indegno uomo cattolico, una volta promulgata la dichiarazione, considerare vacanti la sede arcivescovile, le parrocchie e tutti gli altri uffici se non viene espresso un giuramento di tal fatta: tale editto perciò è invalido, sacrilego, e per sua natura idoneo a favorire lo scisma.

20. Parimenti condanniamo ed annulliamo l’elezione di Malierio a vicario capitolare, e la dichiariamo empia, violenta, irrita e sacrilega poiché è del tutto ignorato nella Chiesa di Dio che si possa togliere al pastore legittimo ancora vivente il governo del suo gregge, se non per cause canoniche, previste dalla stessa Chiesa o da questa Santa Sede; e poiché manca dei necessari suffragi ed è priva di ogni libertà, così l’elezione non può essere considerata né canonica, né ecclesiastica, ma un atto militare ed ostile. Infatti la forza militare estorse i suffragi; con la forza militare avvenne che codesta fittizia elezione venisse presentata al popolo fra le giuste proteste dei canonici che precedettero e seguirono l’atto profano; si deve perciò ritenere che lo stesso possesso dell’eletto sia stato accreditato con la forza militare. – A questa vicenda si possono dunque applicare le parole che furono scritte dal Sinodo di Alessandria nella lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica, quando Sant’Atanasio fu cacciato dalla sua sede nel conciliabolo di Tiro: “Quando il capo presiedeva, quando il capo parlava, gli altri stavano in silenzio, o piuttosto prestavano ossequio al capo; ciò che comunemente piaceva ai Vescovi, da lui era impedito; egli usava il comando, noi eravamo guidati dai soldati“. Ottimamente il Sinodo affermò che siffatta degradazione era da considerare “intrigo di comandanti, non atto sinodale“.Ugualmente si confanno le parole dette da San Giulio, quando al posto dello stesso Atanasio i Vescovi Ariani sostennero il dissipatore Giorgio, e lo mandarono ad Alessandria protetto dal braccio militare. – Egregiamente il Santo Pontefice scriveva che Giorgio era entrato in Chiesa “non con i sacerdoti e i diaconi della città, ma con i soldati… credetemi, carissimi, poiché parliamo con verità come se fosse presente Dio: codesto non è un fatto pio, né giusto, né ecclesiastico“.

21. La dichiarata nullità dell’elezione porta con sé la nullità di tutti gli atti compiuti da Malierio fin dall’inizio, senza giurisdizione, contro i rettori del seminario, contro i buoni pastori, contro i religiosi privati dei loro uffici per nessun’altra causa, se non perché rifiutarono di prestare il giuramento di osservare una Costituzione assolutamente acattolica.

A proposito della nostra questione, ancora San Giulio esclama: “Gli atti compiuti da Giorgio nel suo ingresso, mostrano quale sia stata la regola nella sua ordinazione; preti… indegnamente fatti… rapiti i sacri misteri per costringere con la forza alcuni ad approvare la costituzione di Giorgio. Queste cose ed altre simili dimostrano chi siano i prevaricatori dei canoni. Infatti… neanche con la prevaricazione della legge avrebbe costretto ad ubbidire coloro che legittimamente ubbidivano ad essa“.

22. Pertanto, quantunque siano gravi e molti i delitti commessi da Malierio, tuttavia, volendo lasciargli tempo e possibilità di ritirarsi e di purgare le sue colpe con pubblica e opportuna riparazione, Ci asteniamo dall’imporgli le pene canoniche più gravi e gli comminiamo la pena più mite di tutte, dichiarandolo sospeso dall’Ordine sacerdotale e colpevole d’irregolarità se osasse esercitare il predetto Ordine.

23. Ordiniamo inoltre al predetto Malierio, sotto pena di sospensione, di non osare da qui in poi di chiamarsi Vicario capitolare né di esercitare alcun ufficio inerente in qualche modo a questa dignità, alla quale è giunto né per diritto né canonicamente. Soprattutto vogliamo che gli sia interdetto mandare lettere dimissorie a coloro che si apprestano a ricevere gli ordini, e che non siano da lui nominati in alcun modo parroci, rettori di seminari, funzionari ed altri ministri ecclesiastici di qualsiasi genere, anche se eletti dal popolo, dichiarando nulli ed irriti tutti i provvedimenti e gli incarichi che fino a questo momento fossero stati disposti, con tutte le relative conseguenze, e qualsiasi altro atto che osasse fare in seguito.

24. Comminiamo la stessa pena della sospensione dall’esercizio dell’Ordine al predetto Mouvansio, prete dell’Oratorio, che celebrò la Messa quando lo pseudo-Vicario Malierio prese possesso, e per somma temerità aggiunse le insegne della Municipalità alle vesti sacerdotali che indossava.

25. Rivolgendoci a voi, diletti figli, canonici, ecclesiastici e cittadini tutti di Avignone, vi preghiamo nel Signore di non accogliere il predetto Vicario capitolare, o qualsiasi altro ministro che per vie tortuose e sotterrane e tentasse di occupare incarichi ecclesiastici; al contrario vi raccomandiamo di ubbidire anzitutto all’Arcivescovo ed ai vostri legittimi parroci; questi infatti saranno sempre i vostri pastori, anche se costretti ad allontanarsi contro la loro volontà; ciò anche se, con orribile sacrilegio, fosse eletto e consacrato un altro Arcivescovo o si designassero altri parroci. – Questo tipo di sacrilegio è stato da Noi denunciato e condannato con Nostra lettera ai Vescovi delle Gallie trasmessa anche a voi. -Sarà quindi compito dell’Arcivescovo guidare le sue pecore, e dei buoni parroci offrire aiuti spirituali al proprio popolo come meglio potranno. Ricordatevi che senza il giudizio canonico della Chiesa non potete, anche in condizioni di violenza e di necessità, sottrarvi o liberarvi da quel vincolo d’obbedienza con il quale siete legati all’Arcivescovo ed ai vostri parroci, come fu riconosciuto e dichiarato il 25 febbraio nel convegno straordinario tenutosi presso la celebre Università della Sorbona.

26. A questo punto riteniamo opportuno difendere sia il vostro Arcivescovo sia gli altri funzionari dalle accuse con le quali erano stati colpiti ingiustamente nell’editto del Consiglio municipale, come se gli stessi non potessero essere lontani da Avignone senza contravvenire a quanto prescritto dai canoni. Effettivamente, secondo i canoni, non possono essere senza colpa né l’Arcivescovo né gli altri ministri assenti, che per l’esercizio del loro dovere sono obbligati ad essere presenti alla Chiesa, sia quando l’Arcivescovo, per giusti e razionali motivi inderogabili, si reca fuori diocesi e quivi si ferma oltre il tempo consentito, sia quando gli altri ministri ecclesiastici si allontanano dal servizio della Chiesa cui sono addetti. Ma se ciò accadesse, gli autori dell’editto non devono affatto ignorare che a norma degli stessi canoni non è permesso ai laici sentenziare contro gli ecclesiastici e castigarli con l’estrema pena della privazione: ma devono essere lasciati alla Chiesa il libero diritto e la facoltà di trattare nei loro riguardi con gradualità e con diverse pene, o privandoli dei redditi dei benefici, o castigandoli con pene spirituali, o privandoli infine degli stessi benefici. Così come se si trattasse del Metropolitano assente, “il Vescovo residente più anziano, sotto pena dell’interdetto da incorrere immediatamente, è tenuto a denunciare entro tre mesi, per lettera o per mezzo di un ambasciatore, al Romano Pontefice, il quale, secondo la maggiore o la minore contumacia, con l’autorità della sua Sede suprema potrà riprendere gli assenti e provvedere le Chiese stesse di pastori più utili, così come riterrà più salutare nel Signore e come è stabilito con le stesse parole dal Concilio Tridentino“.

27. Per la verità sono conosciute da tutti quelle grandi masse, costì eccitate, che costrinsero i nobili e gli ecclesiastici ad abbandonare la patria e il domicilio per evitare di giurare o per sfuggire a quei danni che altri probi uomini miseramente subirono; quei danni ai quali non poterono essere sottratti neppure i loro patrimoni, come avvenne per la casa arcivescovile e per gli altri beni dell’Arcivescovo. Si giunse a questo ancorché l’Arcivescovo non avesse mai mosso un piede fuori della sua Diocesi; infatti Villanova, dove egli ha dimorato e tuttora dimora, si trova entro i confini della sua stessa Diocesi; così che per questo non si può dire che egli si sia scostato dalla disposizione Tridentina, che ordina ai Metropolitani di risiedere nella Chiesa arcivescovile o nella Diocesi. Del resto a Noi, cui spetta il giudizio su queste cose, consta per certo che niente più ardentemente desiderava l’Arcivescovo che ritornare costì e sarebbe già tornato da voi, anche con rischio della sua vita, se non avesse temuto che la sua morte, più che di utilità alle sue pecore, fosse di danno e detrimento in questi infelicissimi tempi.

28. Le cose che abbiamo detto al clero e al popolo di Avignone sull’ubbidienza dovuta all’Arcivescovo e ai pastori, ripetiamo anche a voi, diletti figli, canonici, ecclesiastici, e genti delle altre Chiese del Contado. State lontani da coloro che invasero le Chiese altrui o che tentano ancora di invaderle, evitateli, guardateli con orrore: amate invece i vostri legittimi Vescovi e Parroci, ossequiateli ed ascoltateli.

29. Tutti gli abitanti di Avignone e del Contado formino unità di animi e volontà quando si tratta di argomenti religiosi: rivolgete sempre gli occhi alle leggi divine, alle leggi ecclesiastiche e a quelle di questa Sede Apostolica. La Chiesa infatti e la Sede Apostolica sono mosse dallo Spirito di Dio. Se così vi comporterete, come confidando sulla vostra pietà speriamo per il futuro, l’ira di Dio si convertirà in misericordia e da questo riporterete trionfo; coloro che combattono contro la Religione saranno costretti a dire di voi ciò che i nemici dei Giudei dicevano dei Maccabei, cioè che i Giudei avevano Dio quale protettore e per Lui erano invulnerabili perché osservavano le leggi da Lui stabilite.

30. Passando ora dal governo ecclesiastico a quello civile non possiamo comportarci con voi nello stesso modo con il quale Ci comportammo con i Galli. A questi, infatti, non abbiamo voluto parlare della nuova legge relativa alle cose civili approntata dalle Assemblee Generali e sancita dal Re per competenza. Al contrario non possiamo tacere con voi che da molti secoli siete sotto la Sede Apostolica, sotto il governo dei Sommi Pontefici, e che senza la Nostra suprema autorizzazione non potete cambiare la forma del regime temporale: ciò richiedono sia le leggi umane, sia quelle divine.

31. Perciò, usando la Nostra suprema e legittima potestà, in qualità di Principe, annulliamo tutti e i singoli atti compiuti contro i diritti del Nostro Principato sia ad Avignone, sia a Carpentras, sia in qualunque parte del Contado, e riproviamo innanzi tutto e annulliamo, in quanto irrite, le delibere piene di violenza e di sedizione adottate costà con il proposito di sottrarvi dalla Nostra sovranità per trasferirvi a quella Francese; delibere – diciamo – che il carissimo Nostro figlio in Cristo il cristianissimo Re insieme alla sua inclita Nazione non può approvare e neppure mettere in discussione senza ledere i sacrosanti diritti delle genti, come abbiamo specificato allo stesso Re con ripetute rimostranze.

32. Disapproviamo parimenti ed annulliamo le delibere ugualmente assurde e sediziose di vivere costì con ordinamento repubblicano; riproviamo e annulliamo anche le delibere con le quali per somma pazzia si accolgono le leggi civili straniere, sia emanate sia da emanare, e con le quali si antepongono leggi nuove, pericolose e incerte, alla Costituzione antica, domestica e legittima, sotto la quale voi ed i vostri antenati siete vissuti tranquillamente ed in pace per tanti secoli.

33. E, tralasciando altre innovazioni compiute in massima parte senza il Nostro consenso, nell’eccitazione degli animi e nello stesso calore della sedizione, per cui si debbono ritenere illecite come se a questo punto le avessimo ricordate singolarmente, annulliamo soprattutto gli indegnissimi atti di violenza, per i quali il Nostro pro-legato, il rettore e gli altri ministri sono stati prima esautorati e poscia costretti ad allontanarsi dai nuovi ufficiali e dai tribunali subentrati. E affinché non si possa mai dubitare che Noi conserviamo intatto ed integro il Nostro antico possedimento e custodiamo tutti i Nostri antichi, legittimi e tutelati diritti, con queste parole e nel modo più solenne possibile, con diritto confermiamo non solo le proteste sopra ricordate, spesso rinnovate per mezzo del Nostro pro-legato e che qui vogliamo siano ricordate come se fossero scritte parola per parola, ma anche i reclami che, seguendo l’esempio dei Nostri predecessori, e imitando il costume di altri principi, abbiamo curato di mandare al Re delle Gallie e ad altre assemblee cattoliche con l’intento e la volontà, se sarà necessario, di ricorrere a rimedi più forti, che sono in Nostro potere, per vincere la sempre più insistente pervicacia.

34. Ciò premesso, vi ammoniamo paternamente e vi esortiamo, Venerabili Fratelli e diletti figli che siete rimasti fedeli, affinché non solo con l’esempio, ma anche con la parola esortiate coloro che tanto ed in tanti modi si allontanarono, ad abbandonare quella sedizione, nella quale si sono miseramente avviluppati e a ritornare a Noi, che li abbiamo sempre portati nell’animo, in modo tale che, abbracciandoli nuovamente, non possiamo non accoglierli in seno. – Si ricordino che per il precetto stabilito da Dio, e che le sacre pagine tanto spesso ripetono, i sudditi devono ubbidire al loro Principe, e debbono eseguire le patrie leggi che da lui furono emanate. – Si guardino diligentemente dalla ricerca di cose nuove, che quantunque in apparenza sembrino utili, sono sempre collegate ad un sommo pericolo. Se nelle patrie leggi entrò qualche abuso (già altre volte abbiamo dichiarato e ancora dichiariamo) siamo pronti a sradicarlo e a toglierlo di mezzo, ascoltando, per quanto starà in Noi, i vostri desideri. – Cessino le fazioni e le discordie fra i cittadini; le cose tornino al loro posto; agli animi siano restituite la carità, la giustizia e la pace. Infatti sarete felici ovunque se, osservando le leggi di Dio, della Chiesa e del vostro Sovrano, godrete della pace, dal momento che il Dio della pace e dell’amore sarà con voi, come promise l’apostolo Paolo ai suoi fedeli. – Noi intanto, in pegno di quella pace che per tutti invochiamo dal Signore, a voi, Venerabili Fratelli, e a voi, diletti figli, impartiamo con affetto la Nostra Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 23 aprile 1791, anno diciassettesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA II DI QUARESIMA (2020)

DOMENICA II DI QUARESIMA (2020)

Stazione a S. Maria in Domnica

Semidoppio. – Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

La Stazione a Roma si tiene nella chiesa di S. Maria in Domnica, chiamata così perchè i Cristiani si riunivano, in altri tempi, la Domenica nella casa del Signore (Dominicum). Si dice che S. Lorenzo, distribuisse lì i beni della Chiesa ai poveri. Era una delle parrocchie romane del V secolo. Come nelle Domeniche di Settuagesima, di Sessagesima e di Quinquagesima, i testi dell’Ufficiatura divina formano la trama delle Messe della 2a, 3a, e 4a Domenica di Quaresima. – Il Breviario parla in questo giorno del patriarca Giacobbe che è un modello della più assoluta fiducia in Dio in mezzo a tutte le avversità. Assai spesso la Scrittura chiama il Signore, il Dio di Giacobbe o d’Israele per mostrarlo come protettore. « Dio d’Israele, dice l’Introito, liberaci da ogni male ». La Chiesa quest’oggi si indirizza al Dio di Giacobbe, cioè al Dio che protegge quelli che lo servono. Il versetto dell’Introito dice che « colui che confida in Dio non avrà mai a pentirsene ». L’Orazione ci fa domandare a Dio di guardarci interiormente ed esteriormente per essere preservati da ogni avversità ». Il Graduale e il Tratto supplicano il Signore di liberarci dalle nostre angosce e tribolazioni » e « che ci visiti per salvarci ». Non si potrebbe meglio riassumere la vita del patriarca Giacobbe che Dio aiutò sempre in mezzo alle sue angosce e nel quale, dice S. Ambrogio, « noi dobbiamo riconoscere un coraggio singolare e una grande pazienza nel lavoro e nelle difficoltà » (4° Lez. Della 3° Domenica di Quaresima).  – Giacobbe fu scelto da Dio per essere l’erede delle sue promesse, come prima aveva eletto Isacco, Abramo, Seth e Noè. Giacobbe significa infatti « soppiantatore »: egli dimostrò il significato di questo nome allorché prese da Esaù il diritto di primogenitura per un piatto di lenticchie e quando ottenne per sorpresa, la benedizione del figlio primogenito che il padre voleva dare a Esaù. Difatti Isacco benedì il figlio più giovane dopo aver palpato le mani che Rebecca aveva coperte di pelle di capretto e gli disse: « Le nazioni si prosternino dinanzi a te e tu sii il signore dei tuoi fratelli ». Allorquando Giacobbe dovette fuggire per evitare la vendetta di Esaù, egli vide in sogno una scala che si innalzava fino al cielo e per essa gli Angeli salivano e discendevano. Sulla sommità vi era l’Eterno che gli disse: « Tutte le nazioni saranno benedette in Colui che nascerà da te. Io sarò il tuo protettore ovunque tu andrai, non ti abbandonerò senza aver compiuto quanto ti ho detto. Dopo 20 anni, Giacobbe ritornò e un Angelo lottò per l’intera notte contro di lui senza riuscire a vincerlo. Al mattino l’Angelo gli disse: « Tu non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele (il che significa forte con Dio), perché Dio è con te e nessuno ti vincerà » (Il sacramentario Gallicano (Bobbio) chiama Giacobbe « Maestro di potenza suprema »).Giacobbe acquistò infatti la confidenza di suo fratello e si riconcilia con lui.Nella storia di questo Patriarca tutto è figura di Cristo e della Chiesa. – La benedizione, infatti, che Isacco impartì a suo figlio Giacobbe — scrive S. Agostino — ha un significato simbolico perché le pelli di capretto significano i peccati, e Giacobbe, rivestito di queste pelli, è l’immagine di Colui che, non avendo peccati, porta quelli degli altri » (Mattutino). Quando il Vescovo mette i guanti nella messa pontificale, dice infatti, che « Gesù si è offerto per noi nella somiglianza della carne del peccato ». « Ha umiliato fino allo stato di schiavo, spiega S. Leone, la sua immutabile divinità per redimere il genere umano e per questo il Salvatore aveva promesso in termini formali e precisi che alcuni dei suoi discepoli « non sarebbero giunti alla morte senza che avessero visto il Figlio dell’uomo venire nel suo regno » cioè nella gloria regale appartenente spiritualmente alla natura umana presa per opera del Verbo: gloria che il Signore volle rendere visibile ai suoi tre discepoli, perché sebbene riconoscessero in lui la Maestà di Dio, essi ignoravano ancora quali prerogative avesse il corpo rivestito della divinità (3° Notturno). Sulla montagna santa, ove Gesù si trasfigurò, si fece sentire una voce che disse: « Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto,ascoltatelo ». Dio Padre benedì il suo Figlio rivestito della nostra carne di peccato, come Isacco aveva benedetto Giacobbe, rivestito delle pelli di capretto. E questa benedizione data a Gesù, è data anche ai Gentili a preferenza dei Giudei infedeli, come essa fu data a Giacobbe a preferenza del primogenito. Così il Vescovo mettendosi i guanti pontificali, indirizza a Dio questa preghiera« Circonda le mie mani, o Signore, della purità del nuovo uomo disceso dal cielo, affinché, come Giacobbe che s’era coperte le mani con le pelli di capretto ottenne la benedizione del padre suo, dopo avergli offerto dei cibi e una bevanda piacevolissima, cosi, anch’io, nell’offrirti con le mie mani la vittima della salute, ottenga la benedizione della tua grazia per nostro Signore ».Noi siamo benedetti dal Padre in Gesù Cristo; Egli è il nostro primogenito e il nostro capo; noi dobbiamo ascoltarlo perché ci ha scelti per essere il suo popolo. « Noi vi preghiamo nel Signore Gesù, dice S. Paolo, di camminare in maniera da progredire sempre più. Voi conoscete quali precetti io vi ho dati da parte del Signore Gesù Cristo, perché  Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione in Gesù Cristo Signor nostro » (Epist.). — In S. Giovanni (I, 51) Gesù applica a se stesso l’apparizione della scala di Giacobbe per mostrare che in mezzo alle persecuzioni alle quali è fatto segno, egli era continuamente sotto la protezione di Dio e degli Angeli suoi. « Come Esaù, dice S. Ippolito, medita la morte di suo fratello,il popolo giudeo congiura contro Gesù e contro la Chiesa.Giacobbe dovette fuggirsene lontano; lo stesso Cristo, respinto dall’incredulità dei suoi dovette partire per la Galilea dove la Chiesa, formata di Gentili, gli è data per sposa ». Alla fine dei tempi, questi due popoli si riconcilieranno come Esaù e Giacobbe.La Messa di questa Domenica ci fa comprendere il mistero pasquale che stiamo per celebrare. Giacobbe vide il Dio della gloria, gli Apostoli videro Gesù trasfigurato, presto la Chiesa mostrerà a noi il Salvatore risuscitato.

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV:6; XXIV:3; XXIV:22

Reminíscere miseratiónum tuarum, Dómine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominéntur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.

[Ricòrdati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai triònfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]

Ps XXIV:1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam.

[A te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Reminíscere miseratiónum tuarum, Dómine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominéntur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.

[Ricòrdati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai triònfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]

Orémus.

Deus, qui cónspicis omni nos virtúte destítui: intérius exteriúsque custódi; ut ab ómnibus adversitátibus muniámur In córpore, et a pravis cogitatiónibus mundémur in mente. [O Dio, che ci vedi privi di ogni forza, custodiscici all’interno e all’esterno, affinché siamo liberi da ogni avversità nel corpo e abbiamo mondata la mente da ogni cattivo pensiero.]

LECTIO

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Thessalonicénses.

1 Thess IV: 1-7.

“Fratres: Rogámus vos et obsecrámus in Dómino Jesu: ut, quemádmodum accepístis a nobis, quómodo opórteat vos ambuláre et placére Deo, sic et ambulétis, ut abundétis magis. Scitis enim, quæ præcépta déderim vobis Per Dominum Jesum. Hæc est enim volúntas Dei, sanctificátio vestra: ut abstineátis vos a fornicatióne, ut sciat unusquísque vestrum vas suum possidére in sanctificatióne et honóre; non in passióne desidérii, sicut et gentes, quæ ignórant Deum: et ne quis supergrediátur neque circumvéniat in negótio fratrem suum: quóniam vindex est Dóminus de his ómnibus, sicut prædíximus vobis et testificáti sumus. Non enim vocávit nos Deus in immundítiam, sed in sanctificatiónem: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli, Sc. Tip. Arciv. Artigianelli – Pavia, 1929]

– LA PURITÀ –

“Fratelli: Vi preghiamo e supplichiamo nel Signore, che, avendo da noi appreso la norma, secondo la quale dovete condurvi per piacere a Dio, continuiate a seguire questa norma, progredendo sempre più. Poiché la volontà di Dio è questa: la vostra santificazione: che vi asteniate dalla fornicazione, che ciascuno di voi sappia possedere il proprio corpo nella santità e nell’onestà, e non seguendo l’impeto delle passioni, come fanno i pagani che non conoscono Dio; che nessuno su questo punto soverchi o raggiri il proprio fratello: che Dio fa vendetta di tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e dichiarato. Dio, infatti, non ci ha chiamati all’immondezza, ma alla santità: in Cristo Gesù Signor nostro” (I Tess. IV, 1-7).

San Paolo, nel chiudere il cap. terzo della sua prima lettera ai Tessalonicesi, assicura che egli prega Dio, perché, togliendo gli ostacoli che finora vi s’erano frapposti, voglia concedergli di poter recarsi ancora a Tessalonica a completare il suo apostolato. E fa voti che Dio faccia abbondare nella carità i Tessalonicesi, a quel modo che egli abbonda nella carità verso di loro; affinché siano trovati irreprensibili per il giorno in cui Gesù Cristo comparirà con tutta la corte celeste. Adesso passa ad esortarli a cooperare da parte loro alla grazia, crescendo sempre più nella perfezione cristiana, secondo i precetti da lui dati da parte di Gesù Cristo. Precetti che rievoca cominciando da ciò che riguarda la purità. Parliamo anche noi di questa virtù la quale:

1. È voluta da Dio, che non chiede cose impossibili,

2. A lui ci avvicina,

3. E’ richiesta dalla nostra vocazione.

1.

La volontà di Dio è questa: la vostra santificazione; che vi asteniate dalla, fornicazione, che ciascuno di voi sappia possedere il proprio corpo nella santità e nell’onestà. – Queste parole dell’Apostolo sono una risposta a coloro che vanno dicendo essere impossibile condurre una vita pura. Se fosse impossibile, Dio non ce ne farebbe comando. L’esercizio di qualsiasi virtù incontra certamente delle difficoltà. Ogni comandamento della legge di Dio richiede i suoi sacrifici; e il sesto comandamento ne richiede non pochi. Si tratta, però, sempre non di impossibilità, ma di difficoltà da superare. Difficoltà, che chi ama Dio supera con l’aiuto della sua grazia. «Io posso tutto in colui che mi fortifica» (Filipp. IV, 13), dichiara l’Apostolo. La prima difficoltà da superare è la cattiva inclinazione dei sensi. Per viver casti non bisogna aver aperti gli occhi a tutte le curiosità, le orecchie intente a ogni sorta di discorsi, la gola sempre disposta alle crapule, non esser dediti al vino, «sorgente di dissolutezza» (Ef. V, 18). Bisogna vincere la tendenza all’ozio. Diciamo che l’ozio è padre di tutti i vizi. È padre di tutti i vizi in generale, e dell’impurità in modo particolarissimo. L’uomo nemico della parabola evangelica va a sparger la zizzania nel campo seminato di buon grano, mentre gli agricoltori dormono. Quando il corpo e lo spirito sono occupati, l’uomo nemico ha poco da fare. Le cattive inclinazioni non si fanno sentire, la fantasia non può far la sbrigliata; i desideri trovano chiusa la porta; non si commettono certe laidezze. Bisogna evitare le cattive compagnie. Chi va col lupo, impara ad urlare. Chi va con gente sboccata, a poco a poco diventerà sboccato; chi va coi libertini, diventerà presto libertino. E van considerati come pessimi compagni certi giornali e certi libri. La loro lettura comincia con attirare la curiosità, poi eccita la fantasia, turba l’animo, e finisce con guastare la mente, il cuore e anche il corpo di tanti incauti lettori. Chi non vede che cattive azioni, e non legge che di cattive azioni, misura tutto dalla propria debolezza e dalla debolezza degli altri e conclude: «E’ impossibile viver puri». Qui vengono a proposito le parole di S. Gerolamo: « Molti, giudicando i precetti di Dio non dalle azioni virtuose dei Santi, ma dalla propria debolezza, dicono essere impossibile ciò che vien comandato » (L. I Comm. in Matth. c. 5, v. 4). Mancano forse nella Storia Sacra e nella storia della Chiesa esempi luminosi di purezza? Nei primi tempi della Chiesa si poteva affermare dei Cristiani in faccia ai loro nemici: «Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne» (Lettera a Diogneto 5, 8). E la dottrina cattolica, che formava anime pure allora, le forma anche nei nostri tempi. Il Card. Massaia, nel suo ritorno in Europa, quando fu esiliato dall’Abissinia, ebbe parecchie conversazioni in Suakim con un ricco mercante arabo, Sciek Abdallàh. In una di queste conversazioni, l’arabo, ammirato della vita intemerata e delle virtù angeliche del Messia e dei suoi compagni missionari : « Allah Kerim! — esclamò — noi mussulmani camminiamo strisciando per terra, laddove voi Cattolici, stendendo le ali, volate sì alto che noi non possiamo raggiungervi neppure con lo sguardo » (Can. L. Gentile, L’Apostolo dei Galla, 2. ed. Torino 1910, p. 380). Anche nei secoli di maggior corruzione non mancano mai Cristiani, uomini e donne, di vita illibatissima, i quali si attirano l’ammirazione di coloro stessi, che ne scrutano le minime azioni per aver pretesto di combatterli. E ciò che hanno potuto far essi, perché non posso farlo io, con l’aiuto della grazia del Signore?

2.

San Paolo continua, dicendo che Dio non vuole che noi serviamo alla concupiscenza « come fanno i pagani che non conoscono Dio ». L’ignoranza della volontà di Dio e delle relative sanzioni, come era appunto il caso dei pagani, allontana sempre più l’uomo dal suo Creatore e lo lascia cadere nella depravazione. Al contrailo, l’uomo che conosce la volontà di Dio, e vuol metterla in pratica, cerca di purificarsi sempre più. Quanto più un’anima è pura, tanto più è disposta alle ascensioni verso Dio. L’anima è spirito, e solamente i piaceri dello spirito la possono soddisfare, «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio», dice Gesù (Matt. V, 8). La purezza del cuore, qui encomiata da Gesù, esclude ogni peccato o vizio che possa imbrattare l’interno dell’uomo, e che avrà completamente il premio promesso nella seconda vita, Ma coloro che vivono casti sono più atti ad occuparsi delle perfezioni di Dio, anche durante il terreno pellegrinaggio. L’occhio sano tanto più vede quanto più è limpido. Così il cuore quanto più è puro tanto più percepisce le cose di Dio. L’uomo quanto meno è attratto dal fango e dalle brutture di quaggiù, tanto più è inclinato a sollevarsi in alto fino alla bellezza increata. « La castità — dice S. Bernardo — unisce l’uomo al cielo » (Liber ad sor., De Modo bene vivendi, 64). E S. Atanasio insegna che « la mondezza dell’anima la rende atta a veder Dio per se stessa » (Or. contra Gentes, 2). L’anima pura sente di essere legata in modo particolare a Dio, purezza infinita. Chi è puro s’intrattiene volentieri con Dio per mezzo della preghiera e dei sacri cantici. Trova le sue delizie nello star vicino al tabernacolo del Dio vivente; passa momenti di paradiso quando si unisco a Lui nella santa Comunione. Il pensiero della presenza, di Dio, che tanti sgomenta e che da tanti è trascurato, è per essa un forte incitamento all’esercizio di tutte le virtù; e le dà la costanza di superare qualunque ostacolo. E il Signore, che si compiace delle anime caste, dopo averle sostenute nella lotta. Fa loro sentire tutto il conforto della sua vicinanza.

3.

Lontani da Dio si vive in ogni sregolatezza. Questa era la vita dei Tessalonicesi, prima che si convertissero al Cristianesimo. Adesso che sono seguaci di Gesù Cristo devono tenere una condotta affatto opposta, mettendosi a praticare ogni virtù. Dio, infatti, non ci ha chiamati all’immondezza, ma alla santità. Chi continuasse a vivere nell’immondezza, non sarebbe degno di appartenere ai seguaci di Gesù Cristo; verrebbe meno ai doveri della sua vocazione. Lo stesso mondo corrotto e corruttore, è giudice severo verso coloro che conducono una vita poco casta. Chiuderà gli occhi su tante mancanze; ma aguzzerà in modo straordinario la vista per scoprire, se coloro che si mettono a condurre una vita cristiana, mancano sotto questo rispetto. E se gli è dato di scoprire qualche mancanza, fa del rumore, crea dei pretesti per additare al disprezzo i Cristiani praticanti. Un Cristiano abbia pure le più belle doti di mente e di cuore, compia pure molte opere buone, si acquisti dei meriti svariati, se è schiavo dell’immondezza disonora la sua vita: e non sarà mai un apostolo che convince. Poca macchia guasta una bellezza: soprattutto quando si tratta della macchia dell’impurità. Al contrario, la purità compenetra, per così dire, tutte le altre virtù e ne rivela le bellezze. Ci sono certi fiori che, in un mazzo, attirano lo sguardo più degli altri, nello stesso tempo che accrescono grazia al mazzo intero. Nel mazzo delle virtù che adornano la vita cristiana, la purità è quella che maggiormente influisce su l’animo di chi osserva; e gli presenta tutte le altre virtù sotto un luce tutta particolare. Essa è « il fiore dei costumi » (Tertull., De Pudicitia,1). E la storia della Chiesa, antica e moderna, la storia dei nostri giorni, quella che si svolge sotto i nostri occhi, e quella che si svolge nei paesi delle Missioni, c’insegna che tanti e tanti, rimasti irremovibili davanti ai ragionamenti e alle esortazioni, a poco a poco si lasciano soggiogare e trascinare dal fascino che esercitano le anime pure. Questa bella virtù, che tanto ci innalza agli occhi di Dio, che tanta efficacia esercita sull’anima degli uomini, che è invidiata, se non osservata, anche da coloro che vivono immersi nelle passioni, deve essere dai Cristiani costantemente praticata e gelosamente custodita. I tesori, quanto più sono preziosi, tanto più esigono cure, perché non vadano perduti. Si devono sostenere lotte e privazioni per conservare il tesoro della purità; ma quanto più lotteremo e ci mortificheremo, tanto più diventeremo belli e preziosi all’occhio di Dio. Le vette nevose delle Alpi tanto più spiccano e affascinano con il loro candore, quanto più sono flagellate dalle bufere e dalle tempeste. Le lotte e le privazioni che si devono sostenere per conservare la purità avranno, del resto, il più felice coronamento; poiché di essa, soprattutto, è scritto nei Libri Santi, che « incoronata trionfa nell’eternità, avendo riportato il premio dei casti combattimenti » (Sap. IV, 2).

 Graduale

Ps XXIV: 17-18

Tribulatiónes cordis mei dilatátæ sunt: de necessitátibus meis éripe me, Dómine,

[Le tribolazioni del mio cuore sono aumentate: líberami, o Signore, dalle mie angustie.]

Vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea.

[Guarda alla mia umiliazione e alla mia pena, e perdònami tutti i peccati.]

Tractus

Ps CV:1-4

Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus. [Lodate il Signore perché è buono: perché eterna è la sua misericordia.]

Quis loquétur poténtias Dómini: audítas fáciet omnes laudes ejus?

[Chi potrà narrare la potenza del Signore: o far sentire tutte le sue lodi?]

Beáti, qui custódiunt judícium et fáciunt justítiam in omni témpore.

[Beati quelli che ossérvano la rettitudine e práticano sempre la giustizia.]

Meménto nostri, Dómine, in beneplácito pópuli tui: vísita nos in salutári tuo. [Ricórdati di noi, o Signore, nella tua benevolenza verso il tuo popolo, vieni a visitarci con la tua salvezza.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.

Matt XVII: 1-9

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus Petrum, et Jacóbum, et Joánnem fratrem eius, et duxit illos in montem excélsum seórsum: et transfigurátus est ante eos. Et resplénduit fácies ejus sicut sol: vestiménta autem ejus facta sunt alba sicut nix. Et ecce, apparuérunt illis Móyses et Elías cum eo loquéntes. Respóndens autem Petrus, dixit ad Jesum: Dómine, bonum est nos hic esse: si vis, faciámus hic tria tabernácula, tibi unum, Móysi unum et Elíæ unum. Adhuc eo loquénte, ecce, nubes lúcida obumbrávit eos. Et ecce vox de nube, dicens: Hic est Fílius meus diléctus, in quo mihi bene complácui: ipsum audíte. Et audiéntes discípuli, cecidérunt in fáciem suam, et timuérunt valde. Et accéssit Jesus, et tétigit eos, dixítque eis: Súrgite, et nolíte timére. Levántes autem óculos suos, néminem vidérunt nisi solum Jesum. Et descendéntibus illis de monte, præcépit eis Jesus, dicens: Némini dixéritis visiónem, donec Fílius hóminis a mórtuis resúrgat.”

[In quel tempo Gesù prese con sé Pietro, e Giacomo, e Giovanni, suo fratello, e li menò separatamente sopra un alto monte; e fu dinanzi ad essi trasfigurato. E il suo volto era luminoso come il sole, e le sue vesti bianche come la neve. E ad un tratto apparvero ad essi Mosè ed Elia, i quali discorrevano con lui. E Pietro prendendo la parola, disse a Gesù: Signore, buona cosa è per noi lo star qui: se a te piace, facciam qui tre padiglioni, uno per te, uno per Mosè, e uno per Elia. Prima che egli finisse di dire, ecco che una nuvola risplendente, li adombrò. Ed ecco dalla nuvola una voce che disse: Questi è il mio Figliuolo diletto, nel quale io mi sono compiaciuto: lui ascoltate. Udito ciò, i discepoli caddero bocconi per terra, ed ebbero gran timore. Ma Gesù si accostò ad essi, e toccolli, e disse loro: Alzatevi, e non temete. E alzando gli occhi, non videro nessuno, fuori del solo Gesù. E nel calare dal monte, Gesù ordinò loro, dicendo: Non dite a chicchessia quel che avete veduto, prima che il Figliuol dell’uomo sia risuscitato da morte.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Per la trasfigurazione del Signore s’intende quel cangiamento miracoloso, che Gesù Cristo fece della sua Persona, alla presenza di s. Pietro, s. Giacomo e s. Giovanni, sul monte Thabor, ove apparve nella più sfolgorante mostra della sua gloria, tra Mosè ed Elia. S. Tommaso prova che era conveniente che Gesù Cristo si trasfigurasse per rendere più ferma la fede e la speranza dei suoi Apostoli. L’una e l’altra dovevano essere stranamente provate alla vista degli obbrobri, dei patimenti e della morte ignominiosa del Salvatore. Gli Apostoli, prima della discesa dello Spirito Santo, non avevano che un’idea materiale della religione: imperfettissima era la loro fede e debole la speranza. I miracoli che il Figlio di Dio faceva erano un potente motivo di credenza; ma alla fine Mosè, Elia, e tanti altri profeti senza essere Dio avevano fatto di simili miracoli; vi bisognò qualche cosa di più splendido, che fosse una visibile prova della sua divinità, e porgesse loro una più giusta idea dell’eterna felicità che doveva essere la loro ricompensa: e questo è ciò che nella Trasfigurazione del Salvatore sensibilmente si trova. Gesù Cristo prese s. Pietro seco, dice s. Giovanni Damasceno, perché doveva essere il pastore della Chiesa universale, ed aveva già confessato la divinità del Salvatore, seguendo la luce ricevutane dall’eterno Padre. Prese s. Giacomo, perché esso doveva il primo confermar col suo sangue la divinità di Gesù Cristo: prese s. Giovanni, come quello de’ suoi evangelisti che doveva pubblicare nella maniera più chiara e precisa la sua divinità: Nel principio era il Verbo, e il Verbo era appresso Dio, e il Verbo era Dio. Ma se Gesù Cristo gli fa testimoni della sua gloria sul Thabor, vuole che siano ancora della sua agonia sul monte degli ulivi. Il Salvatore non fa parte delle sue dolcezze se non a quelli che prendon parte ai dolori della sua passione. In disparte e sopra un monte elevatissimo Gesù Cristo si mostra ai suoi discepoli nello splendore della sua trasfigurazione; così Egli si svela ancora tutti i giorni alle anime fedeli, che trae a sé nel ritiro, e che con l’orazione s’innalzano al di sopra di tutte le cose create. Le anime infingarde, che strisciano tutto il tempo di loro vita sulla terra, sono indegne di tali celesti favori, che Dio non fa se non a quelli che aspirano alla più alta virtù. Questo corpo sfigurato oggi, abbattuto, consunto dalle fatiche della penitenza, splenderà come un sole per tutta l’eternità. È un tal pensiero che sostiene tanti fervorosi Cristiani, tanti santi religiosi, nel rigore di una vita austera. Le dolcezze spirituali di questa vita sono i frutti della croce: in mezzo a questa gloria che brilla da ogni parte, in mezzo a questo splendido giorno, che può dirsi un giorno di trionfo della sacra umanità di Gesù Cristo, questo divin Salvatore non parla che delle umiliazioni della sua morte e de’ suoi patimenti: tutta la gloria di un Cristiano sulla terra dev’essere nella mortificazione e nelle croci. Absit mihi gloriari nisi in cruce Domini nostri Iesu Christi, diceva l’Apostolo. Gesù Cristo proibisce ai testimoni della sua gloriosa trasfigurazione di parlarne prima della sua risurrezione: tanto Egli teme che la pubblicità di questa notizia non impedisca la sua morte! Cosa ammirabile! Gesù Cristo, per fare splendere la sua gloria, sceglie un monte in disparte; non prende con sé che pochi testimoni, e impone loro il silenzio su quanto hanno veduto; ma quando si tratta di soffrire una vergognosa morte, sceglie un monte esposto agli occhi di tutta Gerusalemme. Così, o mio Salvatore, voi confondete il nostro orgoglio.

Domanda. Padre nostro, che siete nei cieli, fate che noi ascoltiamo il vostro amatissimo Figlio, e custodiamo fedelmente i comandamenti vostri e della Chiesa, dei quali la vostra grazia ci rende l’osservanza non solo possibile, ma talvolta facilissima; e non permettete che mai prestiamo l’orecchio a perfide insinuazioni, tendenti a persuaderci che quanto esigete da noi è impossibile; insinuazioni ingiuriose alla vostra giustizia ed alla vostra bontà.

Omelia II

 [Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra l’abito del peccato, che è l’effetto del peccato

“Miserere mei, Domine, fili David, fìlia mea

male a dæmonio vexatur”. Matth. XXIII.

In questa guisa, fratelli miei, una donna Cananea domandava a Gesù Cristo la guarigione della sua figliuola ossessa. Fu la sua preghiera accompagnata da una fede si viva e da una fiducia sì costante, che ottenne quanto desiderava; la figliuola fu liberata dal demonio che l’invasava e fu renduta a sua madre. Era questo senza dubbio uno stato molto deplorabile; ma quello di un uomo in cui il demonio ha fissato la sua dimora col peccato è ancora più da compiangere, principalmente quando il demonio vi regna con un peccato abituale. Quando uno comincia a peccare, il demonio fa la sua entrata nell’anima, ed è facile il farnelo uscire. Ma quando uno è abituato nel male ed il vizio è radicato in un’anima con una lunga serie di peccati da essa commessi, il demonio fissa talmente la sua dimora in quell’anima e sì fortemente la incatena che è ben difficile lo scuoterne il giogo; si ricerca un miracolo della grazia per liberar quest’anima dalla trista schiavitù cui ella è ridotta. Ah! allora si è che il peccatore deve ricorrere a Gesù Cristo e chiedergli istantemente la propria liberazione. Signore (deve dire, alzando la sua voce come la Cananea del nostro Vangelo), quest’anima che è vostra figliuola, creata a vostra immagine e somiglianza, cui voi avete data una nuova vita morendo per essa sulla croce, che avete purificata nel vostro sangue prezioso; quest’anima è divenuta l’abitazione del demonio, essa è schiava di un cattivo abito che le ha portati colpi mortali: male a dæmonio vexatur; abbiate dunque pietà della sua miseria, spezzate le sue catene e mettete in fuga il demonio che se ne è reso padrone. Ecco, o peccatori, ciò che far dovete per uscire dalle vostre cattive abitudini: quanto a voi che non vi siete ancora involti, temetene le funeste conseguenze; e sì gli uni che gli altri imparate quest’oggi la condotta che dovete tenere o per correggervi o per preservarvi. Se voi non volete contrarre giammai cattivi abiti, conoscetene i perniciosi effetti. Primo punto. Se desiderate sinceramente correggervi dai vostri abiti viziosi, applicatevi a conoscerne i mezzi i più efficaci. Secondo punto. In due parole, ciò che l’abito fa contra l’abito ecco tutto il piano del mio discorso ed il soggetto della vostra cortese attenzione.

I . Punto. L’abito del peccato è una facilità di commetterlo, la quale si acquista con gli atti reiterati che si fanno. Questo abito può anche contrarsi con un solo peccato che venisse da una passione veemente e che lasciasse nel cuore gagliarde impressioni del male. Non è dunque sempre necessario, per giudicare che un abito sia formato, che gli atti ne siano sovente ripetuti; si conosce per mezzo dell’affetto a commettere certi peccati quando se ne presenta l’occasione. Cosi si può dire che un impudico, un intemperante che si abbandonano alle loro passioni, nelle occasioni in cui non si trovano che di rado, sono peccatori abituati, perché gli è sol per difetto di occasione e non d’inclinazione che non peccano frequentemente. Ora, di qualunque natura sia l’abito, in qualunque modo si contragga, egli è dannosissimo nei suoi effetti; egli rende il peccatore più colpevole, la sua conversione più difficile e la sua morte nel peccato più certa. – Quanto più la volontà è determinata al male e moltiplica i suoi mancamenti, tanto più ella è colpevole avanti a Dio. Or, siccome l’abito è l’effetto di una volontà ostinatamente attaccata al male ed è una sorgente feconda di peccati, convien conchiudere ch’egli rende il peccatore più colpevole. L’ignoranza, la fragilità, la sorpresa, una tentazione violenta, una occasione non preveduta, tutto ciò diminuisce l’enormità del peccato, perché tutto ciò suppone meno di determinazione nel peccatore: ma niente v’ha che scusi chi pecca per abito; perché lo fa con cognizione di causa; ben lungi di resistere alla tentazione, si abbandona spontaneamente al suo nemico; ben lungi di fuggir l’occasione, la cerca a bella posta, se ne fa una gloria ed un onore, pecca con disprezzo della legge di Dio; il che è il sommo della malizia. Pecca senza quasi alcuna resistenza; mentre l’abito una volta formato diventa la cagione di un’infinità di peccati, peccati dalla stessa specie, peccati di diverse specie. Niuno ve n’è che non si commetta da un abituato; l’abito è un tronco avvelenato dal quale escono mille funesti rampolli; un peccato ne tira un altro, si cade da abisso in abisso: abyssus abyssum invocat (Psal. XLI). Si ammassano, si accumulano peccati su peccati, desideri su desideri, azioni sopra azioni: con questo mezzo la passione si fortifica; la passione fortificata signoreggia al ragione e la conduce dove vuole: trangugia l’iniquità come l’acqua, senza quasi accorgersene; di modo che il peccatore si trova legato e come involto dalle catene del peccato, e fa tante cadute quanti passi: Iniquitates suæ capiunt impium, et funibus peccatorum suorum costringitur (Prov. 5). – Oh! chi potrebbe comprendere sino a qual eccesso l’abito conduce il peccatore? Chi potrebbe scoprire al giusto tutti i pensieri peccaminosi che un impudico rivolge nella sua mente, tutti i desideri iniqui cui abbandona il suo cuore, tutti gli sguardi lascivi che permette a’ suoi occhi, tutti i piaceri brutali in cui non ha vergogna d’immergersi? Chi potrebbe contare tutte le bestemmie che un bestemmiatore pronunzia solamente in un giorno? Non avvi alcuno de’ suoi discorsi che non ne sia infetto; egli stesso non potrebbe numerarle. Vedete quell’uomo abbandonato all’intemperanza, che non sa più serbare moderazione alcuna nei suoi pasti; egli si abbandona all’ubriachezza ogni qual volta ne trova l’occasione; la cerca anche con premura, e non è giammai più contento che quando può associarsi dei ghiottoni con cui passar le giornate intere a tavola e sovente una gran parte della notte; perversa e funesta società, ove si fa prova a chi berrà di più; quindi quali eccessi! La ragione n’è turbata, e la sanità alterata. L’abito è ancora cagione di molti peccati di diversa specie. Un uomo soggetto ad una passione mette in opera tutte le altre per soddisfare quella che in lui predomina: così un vendicativo impiega la maldicenza, la calunnia, l’ingiustizia, gli attentati per eseguire i neri disegni che la passione gl’inspira. Di quanti disordini l’impurità, l’intemperanza non sono esse cagione? Quante altre passioni non si tirano dietro per giungere al fine che si propongono? Non è forse l’abito cagione anche dei sacrilegi di cui un gran numero di peccatori si rendono colpevoli? Mentre, donde viene che, dopo tante confessioni e comunioni, si vedono sì pochi cangiamenti nella maggior parte di coloro che si accostano ai sacramenti? Perché non v’apportano le disposizioni necessarie, perché ricevono i sacramenti senza dolore del passato e senza buon proponimento per l’avvenire; quindi è che l’uso delle cose sante li la più colpevoli invece di santificarli. Infatti non hanno essi alcun dolore del passato, perché il loro peccato è un peccato che non vogliono togliere, e perché, ben lungi dal detestarlo, ne richiamano con piacere la rimembranza. Non hanno alcun buon proponimento per l’avvenire, perché non vogliono emendarsi. Quindi trovano essi un confessore zelante che tenta di guarirli con rimedi salutevoli? Se esso li mette alla prova, e se esige da essi savie dilazioni che la prudenza gl’inspira, si disgustano, non ritornano più al tempo loro assegnato, amano meglio marcire nei loro disordini che mettersi in istato di profittare della grazia dei sacramenti. Nulla di meno in un tempo di Pasqua, o nelle altre solennità, siccome vogliono salvar le apparenze, e conservare nel mondo la loro riputazione, vanno a cercare altri confessori sulla speranza di trovarli più indulgenti, e a cui celano il tristo stato della loro anima, per avere una assoluzione di cui sono indegni così è che per comparire Cristiani innanzi agli uomini, divengono sacrileghi avanti a Dio, e non essendo più trattenuti da alcun motivo, si abusano di ciò che la religione ha di più sacro. Perciocché, dopo aver profanato il Sacramento della riconciliazione passano arditamente dal tribunale alla sacra mensa, ove vanno ancora a profanare il corpo ed il sangue di Gesù Cristo, che ricevono in un cuore schiavo del peccato. Ecco, fratelli miei, qual è il disordine e la conseguenza dell’abito, ecco ciò che fa la vita di un gran numero di peccatori, una serie di sacrilegi; ed ecco forse il tristo stato di quei che mi ascoltano. Non v’ingannate su di ciò, bisogna interamente rinunziare ai vostri cattivi abiti, se volete ricevere degnamente i Sacramenti; altrimenti voi lo profanerete, e quel che servir deve alla santificazione vostra, non servirà che alla vostra condanna. Aprite dunque gli occhi e rimediate ad un sì gran male con una buona confessione che ripari tutto il passato e che vi liberi per sempre dal peso dei vostri cattivi abiti; voi tanto maggiormente far lo dovete, quanto che, se più tardate, renderete la vostra conversione più difficile. Non avrei io bisogno, fratelli miei, d’altre prove che la testimonianza medesima del peccatore abituato per far vedere quanto gli è difficile di convertirsi. Tutti i giorni non si lamentano forse i peccatori abituati di questa gran difficoltà? Io vorrei benissimo, dice quel bestemmiatore, correggermi di quelle bestemmie che offendono il mio Dio e danno scandalo al mio prossimo, ma non posso contenermi. Vorrei anch’io, dice quell’impudico, romper quell’affetto disordinato che ho per quella persona; ma la mia passione ha preso su di me un tal impero che non posso risolvermi ad abbandonarla. Non occorre, fratelli miei, essere sorpresi di questa difficoltà. Giudichiamo dell’abito del peccato come degli altri. L’abito dicesi esser una seconda natura; si fa con piacere e per una specie di necessità ciò che si ha per costume di fare. Questo è ancora più vero riguardo al peccato; tosto che uno s’abbandona alla sua passione, si passa al costume, dice s. Agostino, e dal costume ad una specie di necessità di fare il male: Deum servitur libidini, fit consuetudo; et dum consuetudini non resititur, fit necessitas. Necessità per altro che, non togliendo la libertà, non diminuisce punto la malizia del peccato; sia perché il peccatore si è impegnato di sua propria elezione in quella fatale necessità, sia perché non dipende che da lui opporsi alla sua malvagia inclinazione coll’aiuto della grazia e con gli sforzi che deve fare per resistervi; ma non facendo alcuno sforzo egli si mette quasi nell’impossibilità di convertirsi; mentre per convertirsi bisogna distruggere quel corpo di peccato che l’abito ha formato, bisogna ammollire un cuor indurito nella colpa: il che è tanto difficile, dice lo Spirito Santo, quanto far cangiare la pelle ad un etiope e il colore ad un leopardo: Si potest æthiops mutare pellem suam, et pardus varietates suas et vos poteritis bene facere, quam didiceritis mala (Jer. XIII). Ah! fratelli miei, se è già sì difficile resistere alla malvagia inclinazioni della natura quando l’abito non è ancora del tutto formato, se anco i più gran Santi hanno provata questa difficoltà; che sarà poi, allorché l’abito unirà le sue forze a quelle della natura e assuefatto si sarà a fare ciò a cui era già portato per sua inclinazione? Perciò vediamo sì pochi peccatori convertirsi. Invano, per svegliare quel peccatore abituato dal suo letargo, farete voi scoppiare il tuono sopra il suo capo e gli annunzierete il terrore dei giudizi di Dio: egli è sordo alla voce di queste minacce; come un altro Giona, rimane in un profondo sonno in mezzo delle tempeste da cui è agitato, o se è commosso, ciò non è che per un momento: simile, dice s. Agostino, ad un uomo che si risveglia e che si lascia ben tosto prender dal sonno. Invano vorrete ancora trarre quel peccatore con la bellezza delle ricompense che il Signore promette alla virtù; egli è insensibile a tutte le promesse che gli si fanno. Invano l’esorterete ad accostarsi ai Sacramenti; egli se ne allontana; o se si accosta a queste sorgenti di grazia, le sue malvage disposizioni ne arrestano il corso. Invano ancora impiegherete le ammonizioni, i rimproveri dei suoi amici che gli rappresentano i suoi disordini, che lo prendono per li sentimenti d’onore, nulla vuol egli ascoltare; la sua passione la vince su d’ogni cosa, il suo abito è come un torrente che rovescia quanto gli si oppone; né la vergogna né il timore né i rimorsi della coscienza han forza di ritenerlo: sono argini troppo deboli; possono bensì trattener certi peccatori che non sono ancora divenuti familiari con la colpa, ma il peccatore abituato si è fatto una fronte di bronzo: egli non sa più arrossire; niente è capace di contenerlo nel suo dovere: Frons meretricis facta est tibi (Jer. V). Quindi niuna conversione più difficile che quella dei peccatori abituati. Cerchi Dio medesimo di ricondurre questi peccatori, tagli la radice del male, togliendo loro l’oggetto delle loro passioni peccaminose: portano essi ben presto la loro mira altrove e, per cangiar d’oggetti, non cangiano punto d’inclinazione, Ah! che questi infermi sono in una trista situazione, poiché tanti rimedi a nulla loro servono! È necessario per guarirli un miracolo della grazia, che Dio di rado suol accordare. – Il che ha voluto Gesù Cristo rappresentarci nella risurrezione di Lazzaro nella tomba, coi piedi o con le mani legate; una grossa pietra ne chiudeva il sepolcro: il suo corpo cominciava di già a putrefarsi e spargeva un odore insopportabile. Ecco lo stato del peccatore abituato: egli è morto e sepolto nella tomba del peccato, attaccato a mille oggetti con legami d’iniquità, oppresso sotto il peso delle sue inclinazioni perverse; ha occhi e non vede, perde di vista il suo Dio, la salute, la sua eternità: ha orecchie e non ode; non ha gusto che per quello che può lusingarlo e non cangiarlo; invano la grazia batte alla porta del suo cuore per eccitarlo, attirarlo: il peso del suo abito lo trattiene e gli impedisce di sollevarsi a Dio. Oh! si richiede un altrettanto grande miracolo per trarlo da questo stato, quanto quello che fece Gesù Cristo per risuscitar Lazaro. Questo Dio Salvatore, che aveva già renduta la vita a molti morti con una sola parola, poteva nello stesso modo renderla a questo: ma fa più passi, si conturba, freme, piange, alza la voce e getta un gran grido: Lazare, veni foras (Jo. XI). Lazzaro, esci dalla tomba. Perché tutto questo? Per apprenderci, dicono i santi Padri, quanto è difficile far uscire un peccatore abituato dalla tomba del peccato; questo peccatore si ritrova anche in disposizioni che rendono il suo ritorno alla vita più difficile che quello di Lazzaro. Questi non fece alcuna resistenza alla voce di Gesù Cristo, uscì subito dalla tomba: statim prodiit (ibid.) Ma il peccatore di cui parliamo, che deve fare sforzi per risuscitare, si rende indegno non solamente di un miracolo della grazia, ma anche delle grazie comuni che Dio accorda agli uomini; così il suo stato lo conduce alle porte della morte eterna. – Ed ecco, o peccatori, il terzo e il più tristo effetto del vostro abito: egli rende la vostra morte nel peccato più certa; e ciò per due cagioni, che vi prego di ben osservare, perché far debbono su di voi salutevoli impressioni.

1. L’abito vizioso vi espone ad essere sorpresi dalla morte nello stato del peccato.

2. Quando voi non foste sorpresi e aveste il tempo di riconoscervi, voi non vi convertirete tuttavia e morrete nel vostro peccato: in peccato vestro moriemini, (Jo. VIII).

Noi vediamo talvolta morti subitanee cagionate da accidenti improvvisi o da qualche malattia occulta, cui non si può metter riparo. Ma la morte, benché subitanea, non è sempre improvvisa. Un uomo può esser sorpreso dalla morte e trovarsi nel felice stato della grazia che ha avuto cura di conservare, dopo di averla ricuperata con la penitenza: in questo caso la morte non è improvvisa, benché sia subitanea. Chi per conseguenza pecca di rado, che si rialza prontamente e persevera nella grazia, ha minori motivi di temere d’esser sorpreso dalla morte nello stato di peccato, che un peccator abituato il quale non è quasi mai in grazia di Dio. Perciocché tale è, peccatori, lo stato funesto cui vi riduce il vostro abito, di potere appena trovare un sol giorno nella vostra vita in cui non siate in peccato. Se per un colpo miracoloso della grazia o per qualche sforzo straordinario dal canto vostro, qualche volta vi rialzate, quanto tempo state voi in piedi? Ohimè! Sovente lo stesso giorno che vi ha veduti rialzarvi vi vede anche ricadere. La vostra vita è dunque una serie di delitti che non ha quasi mai interruzione. Se dunque voi dovete morire di morte subitanea, non è egli verisimile che la morte vi sorprenderà nel peccato, poiché il vostro abito vi tiene in esso quasi sempre legati? Or, chi può assicurarvi che voi non morrete di qualcuno di quei generi di morte che avete veduto accadere a tanti altri che non hanno avuto il tempo di ravvedersi? E se questo vi accade, non è egli evidente che voi siete eternamente perduti? Come, fratelli miei, sono dieci, venti anni che voi siete nel peccato; dappoicchè voi avete contratto quest’abito, tutti i vostri giorni sono d’iniquità; e sperereste che quello di vostra morte fosse un giorno di santità? Strano accecamento! io non comprendo come voi possiate viver tranquilli, stando continuamente sull’orlo del precipizio. Se un sì grande pericolo non vi fa rientrare in voi medesimi, voi avete perduta la fede e la ragione. Ma suppongasi ancora che non siate sorpresi dalla morte, che abbiate il tempo su cui contate per convertirvi, io sostengo ancora che voi non vi convertirete né in età avanzata né all’ora della morte. La ragione ne è molto sensibile, io voglio convincervene per voi medesimi. Voi non potete, mi dite, rompere ora quel cattivo abito a cagione dell’impero che esso ha preso su di voi, e come romperete le vostre catene, allorché saranno divenute più forti? Voi non potete sgravarvi di un peso che vi opprime; come ve ne sgraverete, allorché sarà divenuto più pesante? Voi non avete voluto sradicare quei cattivi abiti allorché erano ancora alberi giovani che si possono facilmente svellere; come li sradicherete voi quando saranno divenuti grossi alberi che avranno gettate profonde radici nel vostro cuore? Perciocché non credete che il tempo, la caducità del temperamento snervi la forza del cattivo abito; voi sarete nella vostra vecchiezza quali siete stati nella vostra gioventù e porterete in un corpo caduco e languido tutto il vigore delle vostre passioni, voi avrete alla morte le medesime inclinazioni che durante la vita; voi non vi separerete dall’oggetto delle vostre passioni che vostro malgrado; e se Dio prolungasse i vostri giorni, voi prolunghereste le vostre iniquità; così il vostro attaccamento per li beni del mondo niente affatto diminuirà alla morte. Se voi fate allora alcune pie disposizioni, ciò sarà o per disgusto contro coloro che pretendevano ai vostri beni o perché non potrete portarli con voi. Voi non avete voluto perdonare al vostro nemico durante la vita, voi non lo farete alla morte che per salvar le apparenze: in una parola, voi morrete come siete vissuto, voi siete vissuto nel peccato, e nel peccato morrete: in peccato vestro moriemini. Tali sono, fratelli miei, le funeste conseguenze dell’abito vizioso; chi di voi non temerà? Se voi non siete soggetti al peccato d’abito, temete di cadervi, e che questo timore vi renda più vigilanti, se voi vi siete soggetti, temete di morirvi e che questo timore v’induca a correggervene. Mentre a Dio non piace che noi disperiamo della salute di questi peccatori! Benché difficile sia la loro conversione, ella non è impossibile. Ma bisogna per questo servirsi dei mezzi che sono per loro prescrivere nel secondo punto.

II. Punto. Per correggersi di un cattivo abito è necessario soprattutto una buona volontà; nulla avvi di cui non si venga a capo quando veramente si vuole e il successo da noi dipende. Dio, la cui misericordia è infinita, invita i peccatori abituati, come gli altri, a ritornare a Lui, loro offre il suo aiuto, non vuole che rimangano nella schiavitù; è dunque in poter loro di uscirne. Non si sono forse veduti e non si vedono ancora uomini schiavi delle passioni più violente e soggetti agli abiti più inveterati scuoterne il giogo e diventare modelli di conversione ai più gran peccatori? Testimonio un s. Agostino, che si può proporre per un vero modello di penitenza. Chi fu mai più soggetto all’impero dell’abito, di quel che fosse egli prima della conversione? Con tutto ciò fratelli miei, benché dure fossero le sue catene, venne a capo di romperle, e benché inflessibile fosse l’inclinazione che lo dominava, ne seppe trionfare: D’allora un amor sommo pel Creatore regnò nel cuor suo invece di quello che aveva per le creature, e si fece un dovere di rinunziare sinceramente per sempre a tutti i piaceri che aveva gustati secondo le sue passioni. E perché, o peccatori, non potrete trionfare dei vostri abiti, come quel gran Santo, e rompere come egli le catene che vi tengono avvinti? Voi non avete che a volerlo tanto efficacemente come egli, e ben tosto ne verrete a capo. Or per venirne all’effetto, fa d’uopo primieramente andar all’origine del male. O gli abiti vengono dall’occasione, oppure sono l’effetto delle vostre cattive inclinazioni: se vengono dall’occasione, convien allontanarvene, perché l’occasione manterrà sempre l’abito: se i vostri abiti vengono dalle vostre inclinazioni, conviene ricorrere ai rimedi capaci di operare la guarigione, quali sono l’orazione, la penitenza, i Sacramenti; convien combattere queste inclinazioni con gli atti della virtù loro contrarie. Ed in vero fratelli miei, se per rompere un’abitudine si richiedono grazie forti e potenti, l’orazione ve l’otterrà. Dio non vi deve queste grazie, bisogna dunque meritarle con l’orazione. La Cananea del Vangelo ci dà una prova dell’efficacia di questo mezzo; ella s’indirizza a Gesù Cristo per chiedere la liberazione della sua figliuola; e benché da principio rigettata, non cessa punto di pregare, e sempre grida, clamat post nos, e merita con la sua perseveranza nella orazione la grazia ch’ella domandava. Fu per mezzo della preghiera che le sorelle di Lazzaro ottennero la risurrezione del loro fratello. Indirizzatevi dunque al Signore con fervore e confidenza: Egli solo può guarirvi e risuscitarvi; nulla ricusa ad una preghiera che parte da un cuor umiliato. Elevate, come il re-Profeta, la vostra voce dal profondo dell’abisso, ove siete immersi; De profundis clamavi ad te, Domine (Psal. CXXIX). Ovvero dite con la Cananea: Signore, abbiate pietà di me, la mia anima è crudelmente tormentata dal demonio, che la tiene soggetta sotto il suo impero; filia mea male a dæmonio vexatur. O finalmente, come le sorelle di Lazzaro: Signore, colui che amate è infermo, Ecce quem amas infirmatur (Jo. XI). Non solamente egli è infermo, ma si trova nelle ombre della morte, è nella tomba oppresso sotto il peso di un cattivo abito; venite dunque a rendergli la vita, che ha perduta col peccato: ecce quem amas infirmatur. – Ma l’orazione sola non opererà la vostra guarigione né vi scioglierà dai legami della morte, se voi non vi aggiungete un altro mezzo che è la Penitenza. Perciocché evvi questa differenza tra la risurrezione dei morti e quella del peccatore, che la prima si fa senza cooperazione da parte loro, laddove, per risuscitare il peccatore, Dio domanda la sua cooperazione. Il che Gesù Cristo ha voluto farci conoscere nelle circostanze della risurrezione di Lazzaro. E perché questo Dio Salvatore versò lagrime e fremette prima di fare quel miracolo, se non per insegnare al peccatore che deve piangere, gemere, che il suo cuor deve spezzarsi pel dolore dei suoi peccati? Perché Gesù Cristo ordinò che si slegassero le bende da cui era legato? Per apprendere al peccatore che deve rompere le catene che l’attaccano alla creatura: osserviamo ancora die Gesù Cristo volle che gli Apostoli slegassero le bende che tenevano legato Lazzaro, per insegnare ai peccatori ad indirizzarsi ai ministri della penitenza, che hanno ricevuta la potestà di sciogliere nel Sacramento da lui instituito a questo effetto: Solvite eum. – L’uso frequente del Sacramento della Penitenza è dunque un eccellente mezzo per guarire dei cattivi abiti, sia per le grazie ch’egli comunica, sia per gli avvisi salutari che si ricevono da un saggio direttore. Venite dunque, o infermi venite ad immergervi in questa piscina salutevole, che deve rendervi la sanità. Ma prima di presentarvi, fate un serio esame di tutta la vostra vita; almeno da poi che il vostro abito ha cominciato, per riparare con una confessione generale tutte quelle che avete fatte in tempo del cattivo abito, che rende per l’ordinario le confessioni nulle o sacrileghe. Non aspettate anche per correggervi, che vi accostiate al sacro tribunale; venite dopo avere rinunziato di cuore ad ogni abito malvagio: questo è il primo passo che far dovete verso Dio; mentre, non saprei dirvelo troppo, il santo ministero di cui siamo incaricati non ci permette di dispensare le cose sante agli indegni: quantunque muniti della potestà di sciogliere i peccatori, pure abbiamo noi medesimi lo mani legate, quando non sono disposti a ricevere la grazia del nostro ministero: ora l’abito che non è ritrattato né corretto, è un ostacolo a questa grazia. Provatevi dunque voi medesimi prima di presentarvi al Tribunale della riconciliazione: o se ve ne accostate, chiedete di esser provati durante qualche tempo per mettere in pratica gli avvisi che vi si daranno. Noi non domandiamo, fratelli miei, che d’immergere i peccatori nei sacri bagni, che debbono purificarli; ce ne dispiace quanto ad essi di rimandarli; risparmiateci adunque questo fastidio togliendo gli ostacoli che ci arresterebbero, di modo che possiate dire quando vi confesserete alla Pasqua, che da poi un certo tempo, almeno durante questa quaresima, voi non siete caduti nei vostri peccati; allora noi vi riceveremo a braccia aperte, o piuttosto Gesù Cristo vi riceverà nel seno delle sue misericordie. Ora per distruggere i vostri abiti viziosi fa d’uopo, come ve l’ho detto, produrre atti delle virtù contrarie. Mirate dunque quali sono le malattie della vostr’anima, quali sono le vostre cattive inclinazioni; opponete loro le virtù che le combattono; opponete all’orgoglio che v’innalza, l’umiltà che vi abbassa; all’avarizia che predomina, la liberalità che ama a comunicarsi; a quell’invidia che vi affligge del bene altrui, la carità che se ne rallegra; a quell’ira che vi trasporta, la mansuetudine che vi ritiene; a quell’intemperanza che vi disordina e vi toglie il senno, la sobrietà, il digiuno, l’astinenza che vi mortificano; mentre Dio, che vuole la vostra santificazione, come dice l’Apostolo, pretende che voi evitiate tutto ciò che può oscurare la bellezza di questa virtù: Hæc est voluntas Dei, sanctificatio vestra; ut abstineatis a fornicatione (1Tess., IV). Opponete finalmente all’accidia che vi rende effeminati, il fervore che vi anima a riempir tutti i vostri doveri di Cristiano. Imperciocché se vi sono abiti che portano al male, ve ne sono altri che allontanano dal bene; dai primi nascono i peccati di commissione, e dagli altri i peccati di omissione. Si combattono i primi reprimendoli, privandoli degli oggetti che li lusingano, e si combattono gli altri con le violenze che ci facciamo per operare, per far il bene che Dio ci comanda. Voi siete negligenti a far le vostre orazioni, a frequentare i sacramenti ed assistere ai divini uffizi, a compiere gli obblighi del vostro stato; per vincere questa negligenza si richiede dell’attività, della puntualità a fare ciò cui vi siete obbligati. Per quel che riguarda certi abiti che sono difficilissimi a correggere, come quelli di bestemmiare, di mettersi in collera, richiedono molti sforzi; ma si viene a capo di tutto, quando uno è ripieno di buona volontà e di zelo per. la sua salute. Se vi fosse qualche profitto a fare, se la vostra fortuna dipendesse dalla vittoria di un cattivo abito, voi ne verreste sicuramente a capo; prova certissima che la vittoria dipende da voi.

Pratiche. Per riuscire a correggervi di qualsisia abito, imponetevi qualche penitenza ogni qual volta cadrete in quel peccato, come di dare una limosina ai poveri, di fare alcune mortificazioni: subito che vi accorgerete della vostra caduta, gemetene avanti a Dio, fate un atto di contrizione che parte da un cuore che desidera sinceramente la sua conversione; ogni mattina ritrattate il vostro abito e proponetevi di passar il giorno senza peccato; fate lo stesso l’indomani, verrete a capo di correggervi interamente: ogni sera fate il vostro esame di coscienza, e se scoprite qualche infedeltà nella giornata, punitevi severamente dei minimi mancamenti. Vorreste voi, fratelli miei, all’ora della morte essere carichi del peso di un cattivo abito, che vi strascina nell’abisso se lo portaste con voi al giudizio di Dio? Non aspettate dunque alla morte di correggervene, fate in modo che vi sia un intervallo tra i vostri disordini e la vostra ultima ora, e che possiate dire in quel momento: dopo un tal tempo, dopo tanti anni io mi sono corretto, io ho cominciato a viver meglio, ciò sarà per voi un gran soggetto di consolazione. – Ma il più sicuro mezzo di preservarsi dalle conseguenze di un cattivo abito, si è di non impegnarvisi, si è di prevenirlo evitando il peccato, si è di soffocarlo sin dal suo principio reprimendo i suoi primi movimenti. Non date entrata alcuna al peccato nel vostro cuore, ma fatevi regnar la virtù; assuefatevi per tempo alla pratica del bene, siate assidui all’esercizio delle virtù cristiane, formate in voi i santi abiti, voi li contrarrete facilmente con l’aiuto della grazia: un buon abito dipende qualche volta da un atto eroico che voi farete in certe circostanze o ve avrete una forte tentazione a superare. Si arriva anche a grandi virtù per via della fedeltà nelle piccole cose; si tratta di farsi un poco di violenza: non è che con la violenza, dice Gesù Cristo che si guadagna il regno dei cieli. Io ve lo desidero. Così sia.

Credo

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 47; CXVIII: 48

Meditábor in mandátis tuis, quæ diléxi valde: et levábo manus meas ad mandáta tua, quæ diléxi. [Mediterò i tuoi precetti che ho amato tanto: e metterò mano ai tuoi comandamenti, che ho amato.]

Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quæsumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [Guarda, o Signore, con occhio placato, al presente sacrificio, affinché giovi alla nostra devozione e salute.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps V: 2-4 – Intéllege clamórem meum: inténde voci oratiónis meæ, Rex meus et Deus meus: quóniam ad te orábo, Dómine. [Ascolta il mio grido: porgi l’orecchio alla voce della mia orazione, o mio Re e mio Dio: poiché a Te rivolgo la mia preghiera, o Signore.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut quos tuis réficis sacraméntis, tibi etiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas. [Súpplici Ti preghiamo, o Dio onnipotente: affinché, a quelli che Tu ristori coi tuoi sacramenti, conceda anche di servirti con una condotta a Te gradita.]

Ultimo Evangelio e preghiere leonine:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

LO SCUDO DELLA FEDE (102)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA – (12)

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XII.

Testimonianza che rendono di Dio gli animali, da Lui provveduti a stupore.

I. Robusta senza dubbio fu la difesa che di sé fece Sofocle, accusato in giudizio da’ suoifigliuoli medesimi, come inetto a governare la casa in età decrepita per mancamento di senno volle egli, che a favor suo perorassero le opere, non le lingue. Che però subito pose in mano de’ giudici una tragedia che egli stava allor componendo. Mirassero dall’argomento di essa, dall’invenzione, dall’intreccio, dallo scioglimento del nodo, dal costume di tanti interlocutori, dalla proprietà dello stile, dal peso delle sentenze, se quello fosse lavoro di un uomo scemo. Ora gli ateisti, per quanto si aiutino a scancellare in sé le sembianze del loro padre, sono pur figliuoli di Dio, ma figliuoli sì sconoscenti, che gli contendono l’essere, non che il senno. Ecco però, che a terminare tanta lite egli cava fuori, non un solo volume, ma mille emille, di opere stupendissime che Egli ha fatte eche va tuttora facendo. Ardiranno eglino contuttociò di negare all’Autore di esse l’intendimento? Se quei figliuoli avessero opposto a Sofocle, che una tragedia sì bella non era in lui contrassegno infallibile di giudizio, mentre ella poteva così essergli scorsa a caso; credete voi, che quei giudici avrebbero punto ammessa sì sciocca replica? Piuttosto l’avrebbero ributtata da sé colle derisioni. Ne altrimenti avrebbero proceduto, se coloro avessero opposto, che la beltà di quell’opera poetica poteva venire dalla natura della tal pergamena, della tal penna, o del tale inchiostro adoperatosi in farla, non dalla virtù di colui che lo adoperò. E perché trattando di Dio volete dunque voi che si giudichi in altra forma? Via via, chi di Lui non confessa, l’opere sue tutte essere testimoni di mente altissima? Date un sol guardo alla considerazioni dei bruti. Questa è più che bastevole a farci dire: Chi li formò, chi li pasce, chi li provvede, oh di quanto accorgimento conviene che soprabbondi! Io mi ristringo a due pensieri, per dir così, che egli di loro sì prende. A quello di mantenerne gl’individui, ed a quello di mantenerne le spezie. Tratteremo prima dell’uno, dappoi dell’altro, al pari divini (A questi due pensieri dell’ autore pare a me doversene opportunamente e logicamente aggiungere un terzo, che ambedue gli altri contempera insieme, siccome quello, che abbraccia il vincolo necessario, il quale stringe gli individui con la specie, cui appartengono. L’essenza specifica è una ed identica in tutti gli individui della medesima classe; questi per contro sì differenziano all’infinito, tantoché non se ne danno due onninamente gli stessi. Ora, come mai la specie, pur rimanendo una, può moltiplicarsi in una pluralità di individui senza fine; e come conciliasi l’identità e l’unità delle specie con la diversità e moltiplicità degl’individui?Forsechè tutto questo non argomenta l’unità di una mente suprema ed infinita, che sia come la ragion d’essere e la cagione efficiente delle creature infinitamente varie e molteplici, che compongono l’universo?)

I.

II. E quanto al mantenimento degl’individui, abbiamo sempre dianzi agli occhi un miracolo sterminato, eppure lo passiamo senza avvertenza. Non è forse un grande stupore, che albergando nell’aria, nell’acqua, e sopra la terra, tanti animali di generi sì diversi, a nessuno mai, dentro uno stuolo sì folto, manchi da vivere; sicché la fame, la qual sì frequentemente scappa dagli abissi, qual furia per consumare le popolazioni degli uomini e le provincie, se la prenda si di rado co’ bruti nelle foreste: massimamente dovendo quivi la loro provvigione riuscire proporzionata non solo al numero, e però vasta, ma ancora alle inclinazioni, e però varissima? Da ciò si scorge, non essere altri Chi da principio li fece, altri Chi dipoi li conserva, mentre sa tanto per appunto conoscere i loro gusti, esa soddisfarli.

III. Quindi è,che a maggiore dimostrazione d’ingegno non si vuole egli diportare con tutti i bruti, come con leconchiglie, cui va stillando dalle nuvole il pascolo fino in gola. Vuole, che i più. s’industrino a procacciarselo da se stessi con mille modi. E però chi può esprimere gl’istrumentidi cui li guernì a tale effetto? I principalissimi sono i sensi esterni ed interni, che specialmente negli animali più piccoli accrescono a dismisura la meraviglia.

IV. Ora sugli esterni voi dovete osservare, come due sono gli ordini di animali. Alcuni sono atti ad andar vagando; e tali sono tutti quegli che vivono fuor dell’ acque: altri non danno mai passo, e tali dentro l’acque son le ostriche, le ortiche, le spugne marine, stimate insieme piante, insieme animali. Di questi può dubitarsi, se oltre al tatto, comune a tutti, ed al gusto, abbian altro senso, quasi non necessario, mentre il medesimo scoglio, sul quale nacquero, tiene loro all’intorno dispensa aperta. Ma quanto agli altri non se ne può dubitare. E però né di vista, né di udito, né di odorato èmancante qualsisia degli insetti, ancora tenuissimi. Or come dunque nel corpicino medesimo di una pulce trovò l’Artefice tanto spazio da collocare gli ordigni di cinque operazioni così diverse? Un oriuoletto formato dentro un anello parve già meritevole delle dita di Carlo V, tanto quanto era meritevole della sua destra lo scettro di un mondo intero. E noi distribuiremo gli affetti nostri sì iniquamente, che ammirando ad ogni poco i lavori dell’arte umana, che èla discepola, non ammireremo mai quelli della divina, che èla maestra? Eppure tali sono i lavori della natura, tra cui i soli peluzzi che spuntino dallo gambe di un vil meschino contengono più di artifizio, che tutte le invenzioni de’ nobili professori, nuovi ed antichi, famosi al mondo.

V. Che direm poi delle potenze interiori, per cui questi animaluzzi ed amano il loro bene veementemente, ed odiano chiunque loro vi si attraversi, e temono, e si adirano, e assaltano, e fuggono, e si pongono in tempo su le difese; ed ora sperano, or temono: ora sospettano, or godono al modo loro ? In un campo sì angusto battaglie di tanti affetti! O Dio meravigliosissimo! Voi ci chiudete di verità tutti i passi con opere da sé atte a tenerci stupidi gli anni sani! E v ‘è chi tuttavia si vorrebbe sottrar da voi, scotendo ogni ammirazione?

VI. In paragone però degli organi destinati alle sensazioni di questi sì minuti viventi, sembra che calino assai di pregio quei che sono destinati alla loro nutricazione. Eppure chi può dir quanto siano compiti anch’essi ? Trovatemi il più piccino tra simili animaluzzi, e sia pure un verme, mobile succidume dei letamai, ancora in quello convien che sieno le parti principali, di cuore, da cui si diffonda il calor vivifico ad ogni membro; di cerebro, in cui si formino gli spiriti necessari per ogni moto; di stomaco, ove concuocasi l’alimento; di condotti che lo distribuiscano per la vita; d’intestina ove si riceva il soverchio del già concotto: cui parimente forza è che si aggiungano denti a rodere, mascelline a tritare, morse a tenere, ed altri simili ordigni, infiniti a dirsi (Francesco Redi nelle osservazioni intorno ai viventi ne’ viventi pag. 64). Eppure ove sono? Appena si può credere che vi sieno, non che capirlo. Ma grazie a quel microscopio, veridico ingranditore di ciò che al tempo medesimo ecopre e scopre, mentre egli non solamente ci ha rivelato tanto più di natura a noi già mal noto, ma ci ha confermato altresì, che quivi ella veramente è più tutta, ove ha men di luogo: Nusquam magis quam in minimis, tota est(PI. 1. 46. c. 2).

II.

VII. Senonchè, quando noi vogliamo fermarci nell’artifizio di qualsisia corpo organico, non sarà facile il determinare cui si debba la palma, se alle minori opere, o alle maggiori. Certamente al sommergersi in questo abisso c’interverrà come ad un nuotatore, il quale, andando sott’acqua, da qualunque banda egli voltasi non vede altro che mar profondo. Per ora consideriamo solamente il di fuori. Con quali industrie si potevano adattar meglio negli animali tutte le parti al fine per esse inteso, o con quali invenzioni, che fossero insieme varie, insieme uniformi, che è ciò donde appare più, come già dicemmo, la verità di un intelletto operante? Mirate in prima i volatili. Voi scorgerete che la natura dà loro un piccolo capo, armato di rostro acuto per fender l’aria; dà piume lievi, per non gravarli di peso; e le dà parimente disposte in modo, che non si oppongano al vento ne’ loro voli, ma l’assecondino: dà l’ale provvedute di molti muscoli, perchè sieno con esse più presti al moto, ma le dà piegate per maggior comodo loro, e incavate modestamente per quando volino e per quando riposino; per quando volino, a radunare più d’aria che li sostenti; e per quando riposino, a ricoprirsi più dall’ambiente che li molesta.

VIII. Osservate poi la differenza tra essi pienissima di consiglio. Nel popolo degli uccelli, altri si cibano in terra, e però questi hanno tutti i lor piedi adunchi, da potersi tenere di ramo in ramo, cercando il loro alimento; chi dove è vermini, come fan le beccacce; chi dov’è spighe, come i colombi; chi dov’è spine, come i cardelli; chi dov’è tronchi, come le gazze, o le ghiandaie, che rodono fin le querce.

I X. Altri si cibano in acqua, dove fanno il maggior soggiorno; e tali sono i cigni, e più simili, cui miriamo dato però collo eccessivo, affine di pescare al fondo delle lagune quei vegetabili quivi ascosi; dati i piedi spaziosi in guisa di remi, a vogare, immersi nell’onde, ma non sommersi, e dato il rostro ‘ungo, largo e schiacciato, per aggrappare i pescetti, e per ingoiarseli.

X. Altri sen vivono di rapina per l’aria, come fa il nibbio, l’avvoltoio, l’aquila, lo sparviere: e questi hanno il rostro rinforzato e ritorto, per fare in pezzi la preda morta; e l’unghie sode e sottili, per arrestare la viva, sicché non fugga.

XI. Tutti con diversa voce da unirsi insieme se vanno a schiere, come le grue che conoscono ancora re: con diverse maniere di ricrearsi, con diverse malizie per rubacchiare, e con altre vivacità in corpiccioli sì brevi affatto stupende, se nelle opere della natura non procedessero i più degli uomini come quegli ignoranti che passeggiando per li portici di qualche rinomata accademia pascono gli occhi con la veduta di quelle scuole maestose, ma nulla intendono delle scienze ivi lette.

XII. Lasciamo noi frattanto i rimproveri benché giusti, e seguitando il discorso nostro, passiamo alla considerazion de’ quadrupedi. Alcuni dovevano sostentarsi di carni uccise: e questi troverete armati alla mischia. I muscoli delle lor tempie sono più validi, per la forza che dovevano trasmettere alle mascelle. I denti a foggia di sega, per dividere l’inimico: con quattro zampe da arrestarlo fuggente. Le unghie adunche ed acute a tenerlo saldo, ma riposte nelle guaine delle zampe medesime perché non perdano il filo nel camminare, e non si rintuzzino.

XIII. Diversa è l’architettura degli animali che dovean pascersi d’erbe. In loro i denti sono tutti alzati ad un piano: ma gli anteriori sono più stretti e taglienti, por recidere il pascolo, o di vermene, o di virgulti, o di fieno; e i posteriori sonò più larghi ed ottusi, per masticarlo. Le unghie, dovendo solamente servir di base alla mole de’ loro corpi, sono solidissime, senonché in alcuni sono intere, in altri son bifide, in altri son fatte a dita. Sono intere in quegli animali, che sprovveduti di corna, conviene che de’ piedi si vagliano ancor per arme, com’è ne’ muli. Sono bifide in quegli che de’ lor pie dovevano puramente valersi per camminare, siccome i buoi; o dovean poterò sostenersi pascendo in greppi scoscesi, come icervi, le capre, le pecorelle. Sono fatte a dita in quei che dei pie si dovean anche valere quasi di mani a fermar lo prede, come è in cani, in leopardi, in leoni, ein altri da caccia.

XIV. La lunghezza del collo è poi proporzionata all’altezza de’ loro stinchi. Onde il cammello, come il più alto di tutti i giumenti, è provveduto altresì di collo più lungo: altrimenti non gli sarebbe possibile pascolare se non giacendo. E perché a quella mole di carne che l’elefante si porta con esso sé non si confarebbe una tal lunghezza di collo, gli fu data per supplemento la sua proboscide, di cui si serve come di mano perfetta per vincer tutte le incomodità che gli arreca la sua grave corporatura, massimamente nello sterpare le piante qualor si pasce, o nel guadare i fiumi quando non può guadarli, se non vi nuota.

XV. Già scorgete che io meno il pennello a volo, ponendo quasi in iscorcio quelle figure che per le angustie della tela non possono starvi ritte. Però passiamo da’ quadrupedi ai pesci, tanto bene adattati a quell’elemento per cui son fatti. Il loro capo comunemente èbislungo, dovendo come tale servir di prua a quei legnetti animati che solcan l’onde. Le pupille lor sono sferiche, perché se fossero, come negli animali terrestri, in forma di lente, i raggi visuali, in passar l’acqua, mezzo più denso, che non è l’aria, verrebbero a rinfrangersi più del giusto: laddove i pesci han bisogno di vista somma a scoprire il cibo da lungi. Non han palpebre, perché il fine d’esse èsalvar gli occhi prestamente da’ bruscoli inaspettati: e questi van volando per l’aria, ma non per l’acqua. Non hanno lingua, se non molto imperfetta, perché non dovendo masticare essi il cibo, ma divorarlo, per non dar tempo all’acqua di entrare in copia, fu il gusto loro ristretto alle sole fauci. Non hanno collo, perché loro non abbisognava a formar la voce, nascendo mutoli, come porta il loro elemento. Non hanno piedi, perché non hanno da andare a modo di chi cammina, ma di chi naviga. Vero è, che invece di piedi hanno essi nel ventre chi due pennette, chi quattro, come più facea di mestieri a supplir di remi nel correre da ogni banda. All’estremità hanno una penna più larga, la quale nella loro navigazione val di timone, ed un’altra ne hanno pur sopra il dorso per regolarsi, quando abbiano mai vaghezza di andar supini. Le sole lamprede, con altri simili pesci a foggia di serpi, non han né piedi né penne, perché loro talento è di strisciare per l’acque, non è di andare. Sono foderati di scaglie, perchè, se di peli, non reggerebbero all’acque: e le scaglie son tutte andanti a seconda, perché non si oppongano al nuoto. Quei che tra loro hanno meno di sangue, come men calidi, non respirano l’aria per rinfrescarsi; ma ben la respirano tutti quei che tra loro son più sanguigni: onde è che questi furono provveduti di polmoni vicino al cuore, negati ad altri; ed hanno vicino al capo alcuni canali, per cui rispingono l’acqua da loro troppo bevuta nell’ire a fondo.

XVI. E nello scrivere queste cose vorrei pur intignere nel più amaro fiele la penna, per abilitarla ad un’acerba invettiva contra quel superbissimo Alfonso, decimo di tal nome, re delle Spagne, che, quasi avesse il suo trono di gradi eguali a quel dell’Altissimo, si lasciò uscir dalle labbra queste empie voci, che se egli si fosse trovato presente a lui nella creazione delle cose, gli avrebbe suggerite migliori idee nel modello di esse, e migliori istrumenti nel magistero. Venga, non il suo capo scemissimo, ma la sapienza di tutte le menti umane, di tutte le angeliche, e si cimenti in tanta varietà di creature, e massimamente di viventi, o nell’aria, o nell’acqua, o sopra la terra, a riformare, non dico una spezie intera, non dico il capo, non dico il cuore, ma i1 guscio di una lumaca. È questo un animale sì dispregevole, che siccome non si può muovere senza lasciare dovunque va, colla striscia della sua bava, un’attestazione della sua putredine somma, così non può circoscriversi senza noia. E nondimeno io son certo, che con tutta la loro maestria non solamente non sapranno essi distinguere in miglior forma, o colorire con migliori pennellature, o condurre a maggior perfezione quella casa rustica, fabbricata dalla natura ad un suo vil parto; ma che, se questa in qualche lato s’infranga, non gliela sapranno rifare; anzi neppure rappezzare sul dorso, sicché gli si adatti, non dico meglio di prima, ma almeno non malamente. Pensate poi che farebbero ad una chiocciola, non di terra, ove son le vili, ma di mare, ove stan le nobili! Leggano innanzi le parole di Plinio, che mi piace loro apportare distesamente, e poi tra sé conferiscano sull’impresa: Firmioris iam terrœ murices, et concharum genera, in quibus magna ludentis naturœ varietas. Tot ibi colorum differentiœ, tot figurœ, planis, concavis, longis, lunatis, in orbem circumactis, dimidio orbe cœsis, in dorsum elatis, levibus, rugatis, denticulatis, striates, vertice muricatim intorto, margine in mucronem emisso, foris effuso, intus replicato: iam distinzione virgulata, crinita, crispa, canaliculatim reticulata, in obliquum, in rectum expansa, densata, porrecta, sinuata, brevi modoligatis, toto latere connexis, ad plausum apertis, ad buccinam recurvis(Plin. 1. 9. c. 33). – Tal è la faccia esteriore dell’edifizio, lavorato dalla natura per casa di una bestiuola, per altro di nessun pregio, qual è la chiocciola. Or non basterebbe ella sola a farcì riconoscere Dio, massimo ancor nelle minime sue fatture? Con qual arte, con quale avvedimento, con qual finezza dovrem noi credere che sieno ordite nel loro interno tante opere più importanti? E se il nicchio di un vermicciuolo è di avanzo a farci irrefragabile la riprova della divina sapienza, non sarà bastante a farcela un mondo intero? Diasi pur luogo ad ogni estasi di stupore. Questa è la lode più giusta che possa da noi porgersi al Creatore, che tanto ha fatto: non celebrarne le opere, ma ammirarle : Virtutis divinœ miracula obstupuisse, dixisse est(Greg. 1. 2. Mor. c. 5).

III.

XVII. E tuttavia non è poco, se si ottenga da alcuni, che almen le osservino. Quinci, per rimetterci in via, ciò che di vantaggio anche mostra la provvidenza assistente ai bruti, si è, che prima di qualunque esperienza sanno discernere il cibo buono dal reo. Però si vede, che appena nato un cagnolino sa subito ritrovare le poppe della sua madre, e attaccarsi ad esse e spremerle, e suggerle; né mai va, per fallo a cercar quelle di una gatta. E questo avvenimento è tanto accertato, che molti animali hanno insegnate all’uomo l’erbe salubri, con la scelta che ne facevano; insegnate l’erbe nocevoli co’ rifiuti. Così parimente ravvisano i loro nimici innanzi al provarli tali, e da lor si guardano: e i pesci fuggono dalle reti prima d’esservi entrati mai: e prima di ogni riprova gli agnellini fuggon da’ lupi, non fuggono da’ mastini: le colombe si spaventano dello sparviere, non si spaventano dell’avvoltoio: e le fiere si ascondono al ruggir de’ leoni, e non si ascondono al barrire dell’elefante. Come van però queste cose? I bruti non le fanno per elezione, ma per istinto, come tra gli uomini fanno le loro i bambini: il che si raccoglie chiarissimo dal vedere, che tutti le fanno sempre all’istessa forma, benché non l’abbiano apprese. Chi fu però, che loro die tale istinto ? La loro natura? Ma di questa medesima si addimanda: chi la fe’ tale? Si fece ella da sé, con determinarsi a tale aggiustatezza di operazioni, se ella è natura, ma natura di bruto? Adunque potremo dire, che ancor da sé si sia fatto quell’organo, detto idraulico, il quale, al passar dell’onda, or alza’ i tasti, or gli abbassa, con tanta legge di note armoniche, che non potrebbe far più, se egli fosse dotato d’intendimento. Tutto l’opposito. Ne’ movimenti di chiunque è mosso appare subito la virtù del vero motore (S. Th: 1. 2. q. XIII. art. 2. ad 1). Però, siccome nelle operazioni di quell’organo, privo di senso, appare l’arte umana, che gli fa dare que’ tratti tanto aggiustati al passar dell’acqua; cosi nelle operazioni de’ bruti, privi di senno, appare l’arte divina, che fa proromperli in quelle inclinazioni così prudenti, al comparire ora di un oggetto, or di un altro, che sveglia in essi variamente le spezie, cioè sveglia appunto i lor tasti.

SALMI BIBLICI: “DEUS, LAUDEM MEAM, NE TACUERIS” (CVIII)

SALMO 108: “DEUS, LAUDEM MEAM, NE TACUERIS”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 108

In finem. Psalmus David.

[1] Deus, laudem meam ne tacueris,

quia os peccatoris et os dolosi super me apertum est.

[2] Locuti sunt adversum me lingua dolosa, et sermonibus odii circumdederunt me, et expugnaverunt me gratis.

[3] Pro eo ut me diligerent, detrahebant mihi; ego autem orabam.

[4] Et posuerunt adversum me mala pro bonis, et odium pro dilectione mea.

[5] Constitue super eum peccatorem; et diabolus stet a dextris ejus.

[6] Cum judicatur, exeat condemnatus; et oratio ejus fiat in peccatum.

[7] Fiant dies ejus pauci, et episcopatum ejus accipiat alter.

[8] Fiant filii ejus orphani, et uxor ejus vidua.

[9] Nutantes transferantur filii ejus et mendicent, et ejiciantur de habitationnibus suis.

[10] Scrutetur foenerator omnem substantiam ejus, et diripiant alieni labores ejus.

[11] Non sit illi adjutor; nec sit qui misereatur pupillis ejus.

[12] Fiant nati ejus in interitum; in generatione una deleatur nomen ejus.

[13] In memoriam redeat iniquitas patrum ejus in conspectu Domini, et peccatum matris ejus non deleatur.

[14] Fiant contra Dominum semper, et dispereat de terra memoria eorum:

[15] pro eo quod non est recordatus facere misericordiam,

[16] et persecutus est hominem inopem et mendicum, et compunctum corde mortificare.

[17] Et dilexit maledictionem, et veniet ei; et noluit benedictionem, et elongabitur ab eo. Et induit maledictionem sicut vestimentum; et intravit sicut aqua in interiora ejus, et sicut oleum in ossibus ejus.

[18] Fiat ei sicut vestimentum quo operitur, et sicut zona qua semper praecingitur.

[19] Hoc opus eorum qui detrahunt mihi apud Dominum, et qui loquuntur mala adversus animam meam.

[20] Et tu, Domine, Domine, fac mecum propter nomen tuum, quia suavis est misericordia tua.

[21] Libera me, quia egenus et pauper ego sum, et cor meum conturbatum est intra me.

[22] Sicut umbra cum declinat ablatus sum, et excussus sum sicut locustae.

[23] Genua mea infirmata sunt a jejunio; et caro mea immutata est propter oleum.

[24] Et ego factus sum opprobrium illis; viderunt me, et moverunt capita sua.

[25] Adjuva me, Domine Deus meus; salvum me fac secundum misericordiam tuam.

[26] Et sciant quia manus tua hæc, et tu, Domine, fecisti eam.

[27] Maledicent illi, et tu benedices; qui insurgunt in me confundantur, servus autem tuus lætabitur.

[28] Induantur qui detrahunt mihi pudore, et operiantur sicut diploide confusione sua.

[29] Confitebor Domino nimis in ore meo, et in medio multorum laudabo eum;

[30] quia astitit a dextris pauperis, ut salvam faceret a persequentibus animam meam.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI].

SALMO CVIII.

Profezia, a morto di imprecazione, contro Giuda traditore e contro i Giudei persecutori del Cristo.

Per la fine: salmo di David.

1. Non tener celata, o Dio, la mia lode; perocché la bocca dell’iniquo e del traditore si èspalancata contro di me.

2. Han parlato contro di me con lingua bugiarda, e con discorsi spiranti il mal animo mi hanno circonvenuto e impugnato senza cagione.

3. Invece di amarmi, mi nimicavano; ma io orava.

4. E rendettero a me male per bene, e odio per l’amor mio.

5. Soggetta colui al peccatore, e il diavolo gli stia alla destra.

6. Quand’egli è chiamato in giudizio, ne esca condannato; e l’orazione di lui diventi un peccato.

7. I giorni di lui siano pochi, e il suo ministero sia dato ad un altro. (1)

8. Divengano orfani i suoi figliuoli, e vedova la sua moglie.

9. I suoi figliuoli errino vagabondi, e mendichino, e sieno discacciati dalle loro abitazioni.

10. Le sue facoltà rintracci tutte l’usuraio e sien depredate dagli stranieri le sue fatiche.

11. Non sia per lui chi l’aiuti, nè sia chi dei suoi pupilli abbia pietà.

12. I figliuoli di lui sieno sterminati; in una generazione sola resti cancellato il suo nome.

13. Torni in memoria dinanzi a Dio l’iniquità dei suoi padri, e il peccato di sua madre non sia cancellato l.

14. Sieno (i loro peccati) sempre davanti al Signore, e sparisca dalla terra la memoria loro; perché egli non si èricordato di usare misericordia. (2)

15. E ha perseguitato un povero e un mendico, e uno che aveva il cuore addolorato, per metterlo a morte.

16. E ha amato la maledizione, e gli verrà; non ha voluto la benedizione, e sarà lontana da lui.

17. E si è rivestito della maledizione quasi di un vestimento ed ella ha penetrato come acqua nelle sue interiora, e come olio nelle sue ossa. (3)

18. Siagli come la veste che lo ricuopre, e come la cintola con cui sempre si cinge.

19. Questo è presso Dio il guadagno di coloro che mi nimicano e macchinano sciagure contro l’anima mia.

20. E tu, Signore, Signore, sta dalla parte mia per amor del tuo nome; imperocché soave ell’è la tua misericordia.

21. Liberami, perché io son bisognoso e povero; e il mio cuore è turbato dentro di me.

22. Svanisco com’ombra, che va declinando; e mi agitano come si fa delle locuste. (4)

23. Le mie ginocchia sono snervate per lo digiuno, ed è stenuata la mia carne, priva di umore.

24. Ed io divenni il loro ludibrio: mi miravano, e scuotevano le loro teste.

25 Aiutami, Signore Dio mio; salvami secondo la tua misericordia.

26. E sappiano che in questo vi è la tua mano, e che questa cosa da te è fatta, o Signore.

27. Eglino malediranno, e tu benedirai; quelli che si levano contro di me siano svergognati; ma il tuo servo sarà nell’allegrezza.

28. Sieno coperti di rossore quelli che mi nimicano; e sieno rinvolti nella lor confusione come in un doppio mantello.

29. Celebrerò altamente colla mia bocca il Signore, e nella numerosa adunanza a lui darò lode.

30. Perché egli si è messo alla destra del povero, per salvar da’ persecutori l’anima mia.

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(1) Episcopatum ejus, secondo l’ebraico, il suo incarico, la sua carica, la sua intendenza.

(2) Siccome i padri sono stati santi, si può utilmente fare il ricordo dei loro meriti in favore dei loro figli colpevoli; ma, se al contrario, anche i padri sono stati colpevoli, quale difesa resta ai loro figli, che non possono ricorrere né alla loro giustizia, né a quella dei loro avi? (Bourd.)

(3) Tre gradi progressivi: il vestito, l’acqua, l’olio.

(4) « Io sono stato di qua e di là come la cavalletta ». La cavalletta non resta mai in un solo posto.  

Sommario analitico

L’Apostolo san Pietro, citando un versetto di questo salmo come essendo di Davide (Act. I, 16-20), non ci lascia alcun dubbio sul suo autore e, applicando questo testo al tradimento di Giuda, ci dà, per così dire, la chiave che deve servirci per entrare nell’intelligenza dell’intero salmo. In questo salmo, composto da Davide durante la persecuzione di Saul, o di Assalonne, o secondo delle tradizioni di Doeg l’idumeo, o di Architofel, il Profeta, parlando a nome del Messia nella sua passione, ricorda il crimine odioso di Giuda e dei Giudei deicidi dei quali Giuda fu il capo, ed i castighi che ne sono stati la sequela per questo discepolo traditore e per tutta questa perfida nazione.

I. – Egli chiede a Dio suo Padre che la sua innocenza non sia confusa dagli sforzi dei suoi nemici, vale a dire:

1° dalle loro empietà e menzogne (1); – 2° dai loro inganni e violenze (2);

3° dal loro odio immotivato (3); – 4° dalla loro piùnera ingratitudine, che fa loro rendere il male per il bene (4).

II. – Ne predice il castigo:

1° ne fa vedere la severità; – a) nella loro anima, 1) il demonio costituito sopra di essi (5); 2) Dio divenuto per essi un giudice inesorabile (6);  – b) nel loro corpo, la loro vita distrutta, i loro giorni ridotti ad un piccolo numero (7); – c) nel loro onore, l’apostolato di Giuda trasferito ad un altro; – d) nei loro figli, divenuti orfani, erranti e mendicanti, cacciati dalle loro dimore, spogliati dei loro beni (8-10); – e) nei loro amici, nessuno che venga in loro soccorso (11); – f) nei loro discendenti, la distruzione della loro posterità e l’oblio completo del loro nome in una sola generazione, ed i figli che portano la pena dovuta ai crimini dei loro padri (12-14);

.2° Egli ne indica la causa: – a) il difetto di misericordia (15); – b) il loro eccesso di crudeltà (16); – c) la preferenza che essi hanno dato alla maledizione sulla benedizione (17, 18); – d) le loro calunnie e le loro menzogne (19).

III. – Implora il soccorso da Dio e ne dà come motivo:

1° La potenza di Dio e la sua bontà sovranamente misericordiosa;

2° la sua povertà, la sua indigenza, l’esaurimento delle sue forze, lo stato di debolezza al quale è ridotto, la perdita del suo onore e della sua reputazione (20-24);

3° Dio attesterà così la sua misericordia e la sua potenza (25, 26);

4° Egli coprirà di confusione i suoi nemici, e diffonderà la gioia nel cuore del suo servitore (27, 28).

IV. – Promette a Dio solenni azioni di grazie, in riconoscenza di un sì grande beneficio (29, 30).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1—4

ff. 1, 2. – « Dio, non tacete la mia lode; » cioè: Giuda mi ha tradito, i Giudei mi hanno perseguitato ed inchiodato alla croce, ed hanno creduto di avermi perso senza speranza di ritorno; ma Voi, « … non tacete la mia lode. » La Chiesa intera, su ogni punto del pianeta, canta le lodi del Signore, e così si trova compiuta questa preghiera che Egli faceva a suo Padre: « O Dio, non tacete la mia lode. » Vedete quanto sia grande la dignità di un prete; i preti aprono la bocca, ed è per il loro ministero che Dio non tace sulle lodi di suo Figlio (S. Gerol.). – La gloria dell’anima giusta è inseparabile dalla gloria di Dio, essa non può cercarla che in Dio. « È in Dio che la anima sarà glorificata. » dice allora il Salmista. » (Ps. XXXIII, 3) « Chi si glorifica si glorifichi nel Signore. » (I Cor. I, 31) – È dunque permesso cercare in Dio la sua gloria, la sua giustificazione e la sua lode, e rimettere nelle sue mani la difesa della propria innocenza oppressa. Egli sarà ben parlare quando sarà tempo. –  Il peccatore qui è distinto dall’uomo ingannatore, perché quest’ultimo costituisce una specie particolare in materia di calunnia, quando tenta di essere amico di colui che distrugge crudelmente in sua assenza (Dug.) – « Essi mi hanno come assediato con i loro discorsi pieni di odio, etc. » Qual eccesso di perversità, quale colpevole complotto, quale premeditazione nel crimine! Ecco ciò che provoca soprattutto l’indignazione di Dio: è questa combinazione sapiente e riflessiva del crimine nei malvagi che lo commettono. –  Grande differenza c’è tra colui che la seduzione ed l’occasione fanno cadere nel crimine, e colui che ne fa professione, che lo commette a sangue freddo, e soprattutto chi va fino all’ultimo limite esercitando la sua malvagità sulla stessa innocenza (S. Chrys.). – Come i giusti amano Gesù-Cristo gratuitamente, così gli empi lo odiano gratuitamente; perché come i buoni ricercano la verità per se stessa e senza interesse personale, così i malvagi ricercano l’iniquità; ciò che fa dire ad un autore profano di un celebre cospiratore (Sallustio, Catilina), che egli era malvagio eternamente senza motivo (S. Agost.). – È la prova più grave della pazienza: si cede più facilmente tra gli altri mali in cui non si cela la malizia degli uomini; ma quando la malignità dei nostri nemici è la causa della nostre disgrazie, si ha difficoltà a trovar pazienza. E la ragione è, ad esempio, che nelle malattie, un certo corso naturale delle cose ci apre più chiaramente l’ordine di Dio, al quale la nostra volontà, benché indocile, vede bene non di meno di doversi adattare; ma quest’ordine, che ci viene mostrato nelle necessità naturali, ci è nascosto al contrario, dalla malizia dell’uomo. Quando noi siamo circuiti dalle frodi, dalle ingiustizie, dagli inganni; quando vediamo che i nostri nemici ci hanno come assediato e circondati con parole di odio; così come parla il divin salmista, che le uscite per fuggire, le venute in nostro soccorso, sono chiuse da una circonvallazione di iniquità, e che da qualunque lato ci volgiamo, la loro malizia ha preso di fronte, e ci ha chiuso da ogni parte, allora è disagevole riconoscere l’ordine di un Dio giusto tra tante ingiustizie che ci opprimono; e ci sembra che per la malizia degli uomini che ci ingannano e che ci opprimono, il nostro cuore creda di avere il diritto di rivoltarsi; ed è qui che si può essere spinti agli ultimi eccessi. O Gesù, Gesù crocifisso tra gli empi! O Giusto perseguitato nella maniera più oltraggiosa! Venite in nostro soccorso e fateci vedere l’ordine di Dio nei mali che noi sopportiamo per la malizia degli uomini. (Bossuet, IV Serm. sur la Passion).

ff. 3, 4. – « Invece di amarmi, mi hanno calunniato. Vi sono sei tipi di procedimenti nei riguardi del prossimo: rendere il bene per il male, non rendere il male per il male; rendere il bene per il bene, rendere il male per il male; non rendere il bene per il bene, rendere il male per il bene. I due primi sono propri dei giusti, e la prima delle due è la migliore; le due ultime sono proprie dei malvagi, e l’ultima è la peggiore delle due; i due intermedi sono propri dei malvagi che vivono tra il bene ed il male, ma il primo appartiene piuttosto ai buoni ed il secondo ai malvagi (S. Agost.). – Così i due estremi sono: rendere il bene per il male, e questo fu il processo di Gesù-Cristo; e rendere il male per il bene, questo fu il crimine dei Giudei. Il Salmista riunisce questi due estremi e fa intendere con questo che non parla che di Gesù-Cristo, che ha reso il bene più grande per il male più grande, e che dei Giudei, che hanno reso il male più grande per il bene più grande. – « Ed io, tuttavia pregavo. » Vedete che saggezza! Qual moderazione, qual dolcezza, qual pietà! Io non prendevo le armi, non marciavo per combatterli, per vendicarmi; è presso di Voi che mi rifugiai, in questa fortezza inespugnabile, in questo porto inaccessibile alla tempesta, nell’asilo assicurato dalla preghiera, per la quale tutte le cose più difficili diventano facili e leggere. Io imploravo la vostra alleanza, la vostra protezione, queste armi invincibili, questo soccorso al quale niente può resistere. (S. CRHYS., in hunc Ps. et hom. xxix, in Gen.). – « Ed io, tuttavia, pregavo. » Ecco le armi del Signore: la preghiera; tali devono essere anche le nostre armi. Se siamo perseguitati, se siamo oggetto di invidia, di odio, diciamo: « … invece di amarmi, essi mi disprezzano con le loro maldicenze; ed io, che facevo? Io pregavo. » questo per trionfare dei miei nemici? A Dio non piace. Il Signore non pregava per ottenere la vittoria sui suoi nemici. « Da parte mia, io pregavo. Qual era l’oggetto della mia preghiera? « Padre mio, perdonate loro, perché non sanno cosa fanno. » – Qual bene hanno ricevuto? Qual male hanno reso?  Egli risponde: « odio per l’amore mio. » Ecco il loro crimine tutto intero, ed è grande. In effetti, qual male potevano fargli i suoi persecutori, a Lui che moriva per sua volontà, e non per necessità? Ma il crimine più grande del persecutore era l’odio stesso, benché il supplizio fosse volontario (S. Agost.). – Il salmista ha spiegato per bene la sua prima parola: « Invece che amarmi, » e dimostrato che si trattava per essi, non di dare un amore qualsiasi, ma di rendere l’amore che Egli portava loro (S. Agost.) – Considerate, Cristiani, prete o religioso, l’esempio del Signore vostro: è con il bacio che Egli ha accolto il discepolo traditore che veniva a consegnarlo ai suoi aguzzini; se Egli apre la bocca, è solo per pregare suo Padre per coloro che lo crocifiggono, e noi cosa dobbiamo fare riguardo ai nostri fratelli? (S. Gerol.).

II. — 5-19.

ff. 5-14. – Il Profeta predice il castigo che riceveranno a causa della loro empietà, e sembra, per la forma che utilizza, desiderare, come per desiderio di vendetta, che questi castighi si compiano, mentre che non fa che annunciare pene certissime, giustamente meritate da tali uomini, e che saranno loro inflitte dalla giustizia di Dio. C’è chi non comprendendo questa maniera di profetizzare l’avvenire sotto l’apparenza di una imprecazione, crede che il Profeta rende ai malvagi odio per odio. In effetti ci sono pochi uomini capaci di distinguere il piacere che causa il castigo dei malvagi ad un accusatore che brucia nel soddisfare il suo odio, dalla soddisfazione tutta diversa di un giudice che nella rettitudine della sua volontà, punisce un crimine. Il primo rende il male per il male; ma questo giudice, anche quando colpisce, non rende il male per il male, poiché rende ad uno ingiusto, ciò che è giusto. Ora, ciò che è giusto è certamente buono; egli non punisce per il piacere della sofferenza altrui, ciò che è il rendere male per il male, ma per amore della giustizia, ciò che è rendere il bene per il male. (S. Agost.). –  Giusta punizione del peccatore è quella che nello stesso tempo che crede di essersi assoggettato i giusti che ha oppresso, è egli stesso sottomesso al potere del principe dei peccatori; perché noi diventiamo schiavi di colui che ci ha vinto (II. Piet. II, 19). – Egli non ha voluto vivere sotto le leggi di Cristo e sottomettersi al suo impero, è condotto dal demonio che si tiene sempre alla sua destra, perché ordinariamente si mette alla destra ciò che si preferisce: « Io pongo sempre innanzi a me il Signore, sta alla mia destra, non posso vacillare. » (Ps. XV, 8) – (S. Agost.). – Davide non dice: che venga in giudizio; ma, quando lo si giudicherà, che esce condannato, perché dove c’è il giudizio si dubita della colpevolezza; ma quando c’è condanna, il crimine è manifesto (S. Gerol.). – Cosa importano a noi i giudizi degli uomini, a noi che dobbiamo poter dire con san Paolo: «Io non mi prendo pena dell’esser da voi giudicato, o da un tribunale umano, ma il Signore è il mio giudice. » Ciò che noi dobbiamo temere è questo tribunale del Giudice sovrano, la cui sentenza è senza appello, perché essa è conforme alle leggi della eterna Verità. – « E che pure la sua preghiera gli sia imputata a peccato. » Il pentimento di Giuda è stato un nuovo e più grande crimine. E come questo? Egli se ne andò e si pentì; » dopo aver tradito il suo Maestro diede la morte a se stesso. Io lo dico ad onore della clemenza e della misericordia del Signore, Giuda offese Dio più gravemente dandosi la morte che traendo il suo divino Maestro. La sua preghiera sarebbe servita come sua penitenza, essa però si è rivoltata in un nuovo peccato, così è per coloro che si sono separati volontariamente dalla Chiesa, o che perseverano volontariamente nel crimine: essi pregano e la loro preghiera si cambia in peccato. Il sovrano dolore dell’uomo è che la sua preghiera non sia esaudita; ma il malore peggiore che possa arrivargli, è che la sua preghiera gli sia imputata come peccato, che divenga un peccato. Ora la preghiera diventa un peccato o in ragione della sua forma, o in ragione della sua materia, o in ragione delle circostanze che l’accompagnano. – 1° a motivo della forma, è un peccato quando non è diretta a Dio; 2° a motivo della materia, essa diventa peccato quando si chiede a Dio ciò che non gli si deve domandare, come la morte di un nemico o delle cose nocive per la salvezza; 3° a motivo delle circostanze che l’accompagnano, essa è un peccato: a) quando il peccatore prega con l’intenzione formale di perseverare nel suo peccato: « se ho considerato l’iniquità nel mio cuore, Dio non mi esaudirà (Ps. LXXV, 18); « c’è una preghiera esecrabile, quella dell’uomo che chiude l’orecchio per non ascoltare la legge, »;  b) quando la preghiera è fatta con negligenza affettata: « maledetto è colui che ha fatto l’opera di Dio con negligenza. » (Ger. XLVIII, 10); c) quando è fatta in mezzo ai tumulti delle passioni e delle affezioni che tengono il cuore attaccato alla terra: « Allora prostrata parlerai da terra e dalla polvere saliranno fioche le tue parole; sembrerà di un fantasma la tua voce dalla terra, e dalla polvere la tua parola risuonerà come bisbiglio, » (Isai. XXIX, 4); d) Quando la preghiera è congiunta ad un sentimento di arroganza o di ambizione, tale era la preghiera del fariseo (Luc. XXIII); e) quando è frammista all’ipocrisia: « quando pregate, non siate come gli ipocriti che amano pregare in piedi nelle sinagoghe e sulle pubbliche piazze, per essere visti dagli uomini; in verità, Io vi dico, essi hanno già ricevuto la loro ricompensa. » (S. Matt. VI,5); f) infine quando parte da un cuore chiuso alla misericordia ed alla carità fraterna; « lasciate il vostro dono davanti all’altare, ed andatevi prima a riconciliare con il vostro fratello, ed allora verrete ad offrirmi la vostra offerta. » (S. Matt. XXIII, 14). La preghiera diventa un peccato nella bocca di colui che maledice il suo nemico. Ecco un Cristiano che domanda la morte del suo nemico, e persegue nella sua preghiera colui che non ha potuto raggiungere con la sua spada. Colui che egli maledice vive ancora, ma colui che lo ha maledetto è già colpevole della sa morte. Pregare in tal modo, è combattere nelle proprie preghiere contro il Creatore di tutti gli uomini, ciò che fa dire al Re-Profeta parlando di Giuda: « che la sua preghiera gli sia imputata a peccato. » – La vita degli empi e dei peccatori è breve. « Alcun bene c’è per l’empio; Dio abbrevierà i suoi giorni; coloro che non temono il volto del Signore passeranno come l’ombra; » (Eccli. VIII, 13); e visse un gran numero di anni, ma la sua vita è sempre breve, perché la maggior parte dei giorni sono inutili per la salvezza, e non solo inutili, ma opposti alla salvezza, e materia stessa di eterna riprovazione. (Berthier). – Qual soggetto di tristezza e di lacrime eterne, quando un altro viene a prendere il posto e la corona che ci erano destinate! – Dio punisce spesso i figli per i peccati dei loro genitori, e non, in verità, di una punizione interiore che riguarda l’anima, perché qui ciascuno porta il suo fardello, ma con una punizione esteriore che riguarda i mali di questa vita, che si estendono talvolta fino alla terza e quarta generazione ed oltre. Lungi dall’accusare qui Dio di ingiustizia, bisogna piuttosto lodare la sua misericordia e la sua saggezza del fatto che punendo con pene temporali, fin nei bambini di coloro che lo hanno offeso con i loro crimini, spaventano salutarmente tutti gli altri ai quali questi castighi servono da lezione. (Duguet). –  « Che l’usuraio ricerchi ogni suo bene. » Voi gli avete dato una somma di denaro come agli altri, Signore, … che ne ha fatto? Non lo ha conservato in un panno, non lo ha sotterrato nella terra, senza preoccuparsi di farlo fruttare, ma dato che fu in possesso del talento del suo padrone, ricevette dai suoi nemici trenta denari e se ne servì per vendere il suo Maestro. Ecco perché io vi supplico Signore, esigete da lui l’usura del vostro denaro (S. Gerol.). – Il peccatore, al momento della morte, prova tutto ciò che dice qui il profeta, con la differenza che, in rapporto a lui, le conseguenze di questo stato di abbandono e di riprovazione, sono eterne. Tutto ciò che possedeva di virtù puramente umane, non può supplire alla sua indigenza spirituale: questi sono come lavori perduti per lui. Egli non trova alcuna risorsa né nella stima pubblica, né nel talento che ha avuto nel trattare i grandi affari, né nell’amore dei suoi prossimi, né nei rimpianti dei suoi amici. I suoi veri figli dovevano essere le opere di pietà cristiana, l’esercizio dell’amore di Dio, la carità del prossimo, lo zelo della Religione, l’imitazione di Gesù-Cristo e dei Santi. Tutto questo gli manca. È forse un saggio del mondo, un filosofo forse riverito nel paganesimo; ma nel tribunale di Dio questi nomi non sono ammessi. Egli non conosce il Vangelo, ed è questo Vangelo che lo accuserà. Gesù-Cristo non è venuto per acquistare filosofi per il regno di suo Padre, ma per popolare il cielo di uomini che abbiano disprezzato il fasto della filosofia e l’orgoglio del mondo, che abbiano combattuto l’amor proprio, fatto la guerra ai loro sensi, praticato l’umiltà e la rinunzia, che abbiano sopportato in spirito di fede, le tribolazioni di questa vita, e che non abbiano sospirato se non il soggiorno dei Santi. (Berthier).

ff. 15-19. –  Giuda non si è ricordato di far misericordia a Colui che l’aveva accolto con tanta bontà, nel momento stesso in cui stava per tradirlo con un bacio. (S. Girol.). – « Egli ha perseguitato l’uomo povero ed indigente, e cerca di far morire colui il cui cuore è affranto dal dolore. » L’ultimo grado della crudeltà, il colmo della disumanità, è attaccarsi a colui per il quale dovrebbe piuttosto nutrire sentimenti di pietà e di commiserazione. Colui che è giunto a questo grado, scende fino agli istinti delle bestie feroci, e le sorpassa anche in crudeltà. Gli animali per natura possiedono questo istinto di ferocia; l’uomo al contrario, che ha la ragione, prostituisce al crimine questa nobile facoltà (S. Chrys.). – Nessuno presenta la maledizione come l’oggetto dei suoi desideri e del suo amore; ma tutti i peccatori commettono, per scelta e piena convinzione, delle azioni che essi sanno dover essere seguite dalla maledizione. – « Ecco che io oggi metto davanti a voi la benedizione e la maledizione: la benedizione se obbedite ai Comandamenti del Signore vostro Dio; e la maledizione se non obbedite ai precetti del Signore vostro Dio, e se volgete via lo sguardo dalla via che Io vi mostro ora per camminare in luoghi stranieri che non conoscete. » (Deuteron. XI, 26-28). – Diversi sono i gradi di maledizione: 1° essere coperto come da un vestito: sono le maledizioni esteriori, che non colpiscono che al di fuori; – 2° la maledizione « che entra come l’acqua nelle viscere »: queste sono le maledizioni esteriori che entrano fin dentro l’anima; – 3° « Come l’olio nelle ossa: »  sono le maledizioni che penetrano fino in fondo, nel più intimo dell’anima, fino al cuore; – 4°  « essere cinto per sempre come da una cintura: » è questa la terribile ed eterna maledizione che Dio lancerà contro i riprovati, nel grande giorno del giudizio finale (Duguet) – Il peccato ha questo di proprio, che imprime una macchia nell’anima, che ne sfigura tutta la beltà, e passa la spugna sui tratti dell’immagine del Creatore che è rappresentato in essa. Ma un peccato reiterato, oltre a questa macchia, produce ancora nell’anima una tendenza ed una forte inclinazione al male, per il motivo che entrando nel fondo dell’anima, mina tutte le sue buone inclinazioni, e la spinge, con il suo peso, verso gli oggetti della terra. La scrittura si serve di tre paragoni potenti per esprimere il danno di questa malattia: « Egli si è rivestito di maledizione come di un vestito; essa vi è penetrata come l’acqua dentro di lui e, come l’olio, fin nelle sue ossa. » La maledizione è, nel peccatore d’abitudine, come un vestito perché essa riempie tutto il suo esterno, tutte le sue azioni, tutte le sue parole; la sua lingua non fa che proferire menzogna; essa entra come l’acqua al suo interno e ne corrompe i pensieri in modo tale che non ne abbia più se non di ambizione, etc.; ed infine essa penetra come l’olio nelle sue ossa, vale a dire ciò che sostiene la sua anima e gli dà solidità. Egli spegne tutti i sentimenti della fede, perché infine tutto svanisce in questi grandi attaccamenti che ha al peccato; egli affossa la speranza, perché tutto il suo sperare è nella terra; egli spegne la carità, perché l’amore di Dio non può accordarsi con l’amore delle creature; orbene il vestito rappresenta la tirannia, l’acqua l’impetuosità, l’olio una macchia che si spande dappertutto e non si cancella quasi mai (BOSSUET, Sur le péché d’habitude. « Ecco l’opera di coloro che mi calunniano davanti al Signore. » Il Profeta non ha detto: « Ecco la ricompensa, » ma: « … ecco l’opera ». In effetti è evidente che questo vestito di cui l’empio si riveste e di cui si copre, questa acqua, quest’olio, questa cintura, significano le opere con le quali l’empio acquista l’eterna maledizione (S. Agost.).

III. — 20-28.

ff. 20-27. – Tutte le condizioni di una santa preghiera sono in questi versetti: una grande idea di Dio e del suo santo Nome; la piena fiducia nella sua bontà e nella sua misericordia; un sentimento profondo della propria miseria, della propria indigenza, delle piaghe della propria anima. C’è molta forza e tante istruzioni in queste parole: Signore, fate insieme a me; se io sono solo, io non posso niente; con Voi io posso tutto. Gesù-Cristo solo poteva servirsi di questa espressione in tutta la sua estensione; perché Egli stesso dice che è sempre con suo Padre, che suo Padre fa tutto con Lui, che le sue operazioni sono quelle di suo Padre. Ma S. Paolo dice anche: « Io sono, per grazia di Dio, ciò che sono; … io ho lavorato più degli altri, non solo da me stesso, ma la grazia di Dio con me. » Il grande segreto della pace e del benessere, è che Dio faccia tutto con noi. Se Egli è l’agente principale in tutto e dappertutto, non si dovrà temere che noi facciamo male ciò che facciamo o ciò che noi vogliamo fare. (Berthier). – Vediamo nello stesso tempo la religione e l’umiltà del Profeta; i mali che egli subiva, erano un titolo legittimo per ottenere il soccorso di Dio … Tuttavia, egli non fa uso di questo titolo, e non mette la fiducia se non nella bontà di Dio: « Agite per me a causa del vostro Nome. » Non è perché io ne sono degno, ma perché Voi siete buono e misericordioso. Egli aggiunge: « Perché la vostra misericordia è piena di dolcezza. » Non è lo stesso della misericordia degli uomini, che diventano, sovente, con le loro mani, strumento di distruzione e di morte, mentre Dio non è mai misericordioso se non per i nostri interessi. « Liberatemi perché io sono povero, etc. » Egli prega Dio di nuovo di liberarlo, non perché ne sia degno, né perché sia giusto, ma perché egli è tutto spossato in preda ad innumerevoli dolori. (S. Chrys.). – « Io sono sparito come l’ombra al suo declinare. »  È la figura della morte. Così come, in effetti, la notte viene al declinare delle ombre, così la morte giunge al declinare della carne mortale. (S. Agost.). –  « Io sono stato gettato qua e là come le cavallette: » io ero venuto per proteggere il mio popolo, e gli ho detto: « Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che vengono a te inviati, quante volte ho dovuto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali. » (Matth. XXIII). Io ero venuto come una chioccia per proteggerli, ed essi mi hanno accolto con le disposizioni più ostili; io ero venuto come una madre, ed essi mi hanno messo a morte come un omicida. « Io sono stato gettato qua e là come cavallette. » Cosa vuol dire? Essi mi hanno perseguitato, mi hanno rigettato, io abitavo a Nazareth e mi hanno perseguitato. Io sono venuto a Cafarnao ed il loro odio mi ha seguito. Da Cafarnao sono venuto a Bethsaida, e vi ho trovato nuovi persecutori. Io sono venuto a Gerusalemme, non potevo permettermi di separarmi dal mio popolo, e vi ho trovato persecutori ancora più accaniti:  « Io sono stato gettato qua e là come le cavallette. » (S. Gerol.). –  Stato di un uomo oppresso da mali è questo: la sua vita si estingue, erra da una parte all’altra come le cavallette, le sue ginocchia non possono più sostenerlo, la sua carne è disseccata. Gesù-Cristo, durante la sua passione, fu ridotto in questo stato deplorevole. Egli era l’Eterno, e la sua vita sulla terra gli sfuggiva come l’ombra; Egli era il centro di tutti gli esseri, di tutti i beni, di tutte le perfezioni, immutabile nella sua felicità, invariabile nei suoi decreti, e sulla terra fu esposto a tutte le tempeste, l’oggetto di tutte le contraddizioni, il trastullo di tutte le passioni degli uomini. La fine di tanti contrasti fa la gloria ed il trionfo di Gesù-Cristo. Questa roccia – dice S. Agostino – è battuta dalle tempeste, ma tutte queste onde si sono infrante contro di Lui; i suoi nemici sono periti, e Lui solo sussiste. Ecco il nostro modello: « Siamo in questo secolo, che è un mare pieno di burrasche, siamo pronti ad affrontare con coraggio tutte le tempeste; non cederemo ad alcun uragano, sosteniamo tutti gli assalti, sussistiamo con Gesù-Cristo. » (Berthier). – Gesù-Cristo non è stato solamente oppresso, ma riempito di obbrobri; I Giudei lo hanno trattato da samaritano, e dicevano: « è nel nome di belzebuth, principe dei demoni, che Egli caccia i demoni; non è il figlio di Giuseppe? I suoi fratelli e sorelle non sono forse in mezzo a noi? » E ancora « Tu che distruggi il tempio di Dio e lo ricostruisci in tre giorni, scendi ora dalla croce. » (S. Gerol.). –  Siamo ben lieti di essere trattati come Gesù-Cristo, che il mondo non approvi niente di ciò che noi facciamo, scuota la testa nel vederci, come lo ha scosso vedendo Gesù-Cristo sulla croce (Dug.). – « Tutti sappiano che la vostra mano è là, e che siete Voi, Signore, che fate queste cose. » Comprendano i Giudei che il loro odio omicida non ha prevalso contro di me, ma che è per effetto della vostra volontà e della mia che Io ho sofferto, e per questo ho detto, in quanto uomo: mio Dio, Io sono venuto per fare la vostra volontà; è la vostra volontà e la mia, e non la loro volontà, che sono state causa delle mie sofferenze. Ciò che Voi avete voluto, l’ho voluto anch’Io. Era necessario che arrivasse lo scandalo, ma maledizione a colui mediante il quale esso è arrivato (Matth. XVIII), (S. Gerol.). – Tre cose hanno concorso alla redenzione del genere umano: la volontà di Dio, l’accettazione di Gesù-Cristo, la malvagità dei Giudei; ci sono dei prodigi in questo avvenimento: un prodigio di giustizia e di misericordia da parte di Dio, un prodigio di sottomissione e di amore da parte di Gesù-Cristo, un prodigio  di accecamento e di furore da parte dei Giudei. Un quarto prodigio è che gli uomini si perdono, dopo essere stati riscattati a così gran prezzo. (Berthier).

ff. 28. « Essi malediranno e voi benedite. » È dunque questa una vana e fallace maledizione, come quella dei figli degli uomini, che amano la vanità e cercano la menzogna (Ps. IV, 3). Dio al contrario quando benedice, agisce così come parla (S. Agost.). –  Il Re-Profeta ci insegna che tutte le maledizioni dei suoi nemici non possono prevalere contro la benedizione di Dio; non solo esse non faranno alcun male, ma questi oltraggi ed obbrobri, ricadranno con tutto il loro peso sugli autori. « Ma  il vostro servo gioirà in Voi. »  La sorgente della gioia è la stessa dalla quale si riversano su di lui tanti beni. (S. Chrys.). – Non è solo il castigo, ma l’umiliazione, l’onta che richiama su di essi, affinché sia per essi una correzione ed una occasione per divenire migliori. (S. Chrys.).

IV. — 29-30

ff. 29-30. – Per tutti questi beni che ha ricevuto da Dio, egli offre un inno, un cantico di lode, di azioni di grazie; egli annuncia a tutti gli uomini le opera della sua Potenza, e rende pubblico, come in un teatro, i benefici di cui Dio lo ha ricolmato. Ecco il sacrificio, ecco l’offerta che Dio gradisce: conservare sempre il ricordo dei suoi benefici, inciderli profondamente nella propria anima, renderli continuamente pubblici, e portarli a conoscenza di tutti gli uomini. (S. Crys.). – È facile fare violenza al povero, perché egli è povero; ma più sembra disprezzabile ed abbandonato, più si deve temere di fargli violenza, perché credendo di attaccare un uomo, si attacca Dio, « … che si pone a destra del povero, » e si dichiara il sostegno dei poveri ed il difensore degli oppressi (Berthier). 

SACRO CUORE DI GESÙ (28): IL Sacro CUORE di GESÙ e la sua CHIESA.

[A. Carmagnola: IL SACRO CUORE DI GESÙ. TORINO, S. E. I. – 1920]

DISCORSO XXIX

Il Sacro Cuore di Gesù e il Papa.

(1) Di questo discorso stampatosi a parte nel 1892, per mezzo dell’Eminentissimo

Card. Rampolla Segretario di Stato, fu umiliata copia dall’autore

a S. S. LeoneXIII; e n’ebbe in risposta questa consolante lettera:

Bev. mo Signore,

Con molto piacere ho rassegnato al S. Padre uno dei recontissimi

esemplari del discorso, al quale si riferisce la lettera da Lei indirizzatami

l i 2 del corrente mese.

Sua Santità si è degnata accoglierlo con espressioni di particolare

gradimento e nel commettermi di ringraziarla nell’Augusto Suo nome Le

ha con affetto impartita l’Apostolica Benedizione.

Mentre mi affretto ad eseguire i l venerato incarico, L a ringrazio ben

di cuore anche in mio nome dell’esemplare, che gentilmente mi ha E l la

favorito, di esso discorso, e con sensi di distinta stima mi dichiaro

Di V. S.

Soma, 7 Luglio 1892.

Bev. D. ALBINO CARMAGNOLA                Aff. mo nel Signore M. Card.                         Sacerdote Salesiano

Boma.

                                                                                RAMPOLLA.

Aff. mo nel Signore

M. Card.

Nel corso di questo mese gettando lo sguardo sopra le opere del Cuore Sacratissimo di Gesù, non ne trovammo certamente alcuna, che non si mostrasse ammirabile, non ci parlasse della sua bontà e della sua misericordia infinita per noi. Ammirabile Vedemmo la sua Chiesa, ammirabili i suoi Sacramenti, ammirabile la sua dottrina, ammirabili i suoi esempi, ammirabili le sue promesse e le sue grazie, e tutto, grazie, promesse, esempi, dottrina, Sacramenti e Chiesa ci hanno fatto esclamare con gratitudine: Oh quanto è buono il Cuore di Gesù con noi! quanto è grande il suo amore, la sua misericordia! Eppure o miei cari, fra tante opere ammirabili del Cuore di Gesù Cristo io ne scorgo ancor una non meno ammirabile delle altre, che anzi più ancor dì ogni altra mi manifesta la sua bontà e la sua misericordia; e voglio dire il Papa. Sì, il Papa! e per poco che consideriate anche voi quest’opera, non penerete a convincervi della verità di questa mia asserzione. Ed invero, donde mai la Chiesa ritrae la essenza di sua unità, la beneficenza dei suoi Sacramenti, l’integrità di sua dottrina, la sicurezza della parola e degli esempi di G. Cristo? … Dal Papa. È il Papa, che in un cuor solo ed in un’anima sola unisce tutti i popoli a Cristo. È il Papa, che ci comunica la grazia per mezzo dei Vescovi e dei Sacerdoti. È il Papa, che custodisce inviolato il deposito del Santo Vangelo. È il Papa, che ci assicura degli insegnamenti di Gesù Cristo. È il Papa insomma quella fonte prodigiosa, che lo stesso Gesù Cristo ha stabilito nella Chiesa per farci gustare perpetuo il benefizio della sua redenzione, per tramandare in eterno l’abbondanza della sua misericordia. Ben ho ragione di asserire che il Papa è un’opera delle più ammirabili uscite dal Cuore ferito di Gesù Cristo, e che con quest’opera il Cuore di Gesù ha fatto alla sua Chiesa uno dei più segnalati benefizi. Ben ho ragione, additandovi il Papa, d’invitarvi con tutte le forze dell’animo mio a benedire questo Cuore Santissimo ed a confessare il suo amore e la sua bontà infinita per noi! Questo per l’appunto è lo scopo del discorso di oggi, questo giorno in cui celebriamo la festa del primo Papa, di S. Pietro, mettervi in qualche luce questo sì grande benefizio, affinché da tale considerazione se ne tragga la natural conseguenza di ricambiare il Cuore di Gesù della conveniente gratitudine.

I . — Ogni famiglia, ogni Stato, ogni società abbisognano di un capo. L’anarchia a cui tanti evviva s’innalzano ai giorni nostri non è che il più stupido degli assurdi: imperciocché anche gli anarchici costituiti in partito, come sono oggidì, obbediscono essi pure agli ordini di un capo o per lo meno si lasciano spingere da’ suoi iniqui incitamenti. Se pertanto a non sovvertire l’idea istessa di famiglia, di stato e di società assolutamente si appalesa la necessità di un rispettivo capo, ognuno vede a primo aspetto, che a porre ben salde le fondamenta di quell’ammirabile società, che il Cuore amoroso di Cristo venne a stabilire in sulla terra, era affatto necessario che le donasse un capo; un capo che con rettitudine la governasse, un capo che l’ammaestrasse con sapienza; un capo che per ogni verso la guidasse con sicurezza alla meta sublime, che

Cristo le assegnava. Senza di un capo, supremo nella sua autorità, infallibile nel suo magistero, la Chiesa, quest’opera divina uscita dal Cuore squarciato di Cristo, sarebbe andata priva del principio di sua unità e di sua perfezione ed in breve divisa e moltiplicata nel governo, varia e confusa nella dottrina, sarebbe riuscita a quello scompiglio, di cui in ogni tempo l’eresia ha dato al mondo sì triste spettacolo. Ma grazie, infinite grazie sieno rese al Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo! Ripieno per la sua Chiesa di un amore infinito e divino, Egli allontana da Lei un tale pericolo, e pur rimanendo Egli stesso a suo capo invisibile sino alla consumazione dei secoli, le dona un capo visibile nel Romano Pontefice, il cui supremo potere, corrisposto dall’universale sommessione, costituirà sino alla fine del mondo il principio della vita, dello sviluppo e del perfezionamento della Chiesa istessa. Ecco il Divin Redentore a Cesarea di Filippo. Circondato da’ suoi discepoli, a questo modo li interroga: « Chi dicono gli uomini che io sia? » E i discepoli rispondono: « Gli uni dicono che voi siete Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti. » — « Ma voi, soggiunse il Salvatore, voi chi dite ch’io sia? » A questa domanda Simon Pietro, pigliando la parola a nome suo e degli altri Apostoli, esclama: « Tu sei il Cristo, Figliuolo di Dio vivo. » Allora il Salvatore ripiglia: « Beato te, o Simone, figliuolo di Giovanni, perché non è né la carne, né il sangue che ti ha rivelato ciò che tu dici, ma il Padre mio, che è ne’ cieli. Ed io dico a te che tu sei Pietro, e sopra di questa pietra fabbricherò la mia Chiesa e le potenze d’inferno non prevarranno contro di essa giammai. A te io darò le chiavi dei regno de’ cieli e tutto ciò che avrai legato sopra la terra sarà legato anche ne’ cieli, e tutto ciò che in sulla terra avrai sciolto, sarà sciolto anche nei cieli. » Udiste? Con parole del tutto esplicite Gesù Cristo promette a Pietro di lasciare in lui un capo alla sua Chiesa con autorità suprema di comando. Ed invero, dopo di averlo detto beato per aver parlato conforme l’illustrazione avuta dal Padre celeste, gli cambia il nome di Simone in quello di Pietro o Pietra e soggiunge: « Sopra di questa pietra fonderò la mia Chiesa; » come dicesse: Tu, o Pietro, sei destinato a far nella mia Chiesa quello, che fa il fondamento in una casa. Il fondamento è la parte principale e indispensabile in un edilizio. E tu sarai nella mia Chiesa l’autorità affatto necessaria. E come nella casa le parti che non posano sul fondamento cadono e vanno in rovina, così nella mia Chiesa chiunque si dividerà da te, non ubbidirà a te, non seguirà te, fondamento della mia Chiesa, non apparterrà alla medesima e cadrà nell’eterna rovina. Inoltre Gesù Cristo disse ancora a Pietro: « A te darò le chiavi del regno de’ cieli. » Ma le chiavi non sono per eccellenza il simbolo della padronanza e del potere? Quando il venditore di una casa porge le chiavi al compratore di essa, non intende forse con questo atto mostrargli che gliene dà pieno ed assoluto possesso? Parimenti quando ad un re sono presentate le chiavi di una città, non si vuole forse con tal omaggio significare che quella città lo riconosce per sovrano? Per simile guisa le chiavi spirituali del regno dei cieli, cioè della Chiesa, che Gesù Cristo promette a Pietro, indicano chiaramente che Egli è destinato ad essere signore, principe e reggitore della nuova Chiesa. Laonde Gesù soggiunge allo stesso: « Tutto quello che legherai sulla terra, sarà altresì legato in cielo e tutto quello che scioglierai in terra, sarà pure sciolto in cielo; » vale a dire: Tu avrai l’autorità suprema di obbligare e sciogliere la coscienza degli uomini con decreti e con leggi riguardanti il loro bene spirituale ed eterno. — Né si dica che anche gli altri Apostoli sono stati fatti capi della Chiesa, perché anche a loro Gesù Cristo diede la facoltà di sciogliere e di legare, che tale facoltà Gesù Cristo la diede loro in comune e dopoché già erano state rivolte a Pietro le parole soppradette, affinché capissero che la loro autorità doveva essere sotto ordinata a quella di S. Pietro, divenuto loro capo e principe, incaricato di conservare l’unità del governo e della dottrina. Ma alla promessa tien dietro il fatto. Dopo la risurrezione Gesù Cristo, avendo mangiato co’ suo discepoli per assicurarli vie meglio della realtà del suo risorgimento, si rivolge a Simon Pietro e gli domanda per tre volte: « Simone, mi ami tu più di questi? » Pietro che dopo il fallo della negazione di Cristo è divenuto più modesto, si contenta di rispondere: « Signore, voi sapete che io vi amo. » E due volte il Signore gli dice: « Pasci i miei agnelli. » Ed una terza volta: « Pasci le mie pecorelle. » Per siffatta guisa il Cuore amoroso di Cristo costituiva S. Pietro Principe degli Apostoli, Pastore universale di tutta la Chiesa; conferendogli di fatto il primato di onore e di giurisdizione, ossia quel potere supremo che dapprima avevagli promesso, e non sola sopra i semplici fedeli raffigurati negli agnelli, ma eziandio sopra i sacerdoti e sopra gli stessi vescovi raffigurati nelle pecorelle. Ma il Divin Redentore promettendo e donando a Pietro il supremo potere su tutta la Chiesa, cogli stessi termini gli prometteva egli donava l’infallibilità di magistero. Difatti era possibile che egli dicesse a Pietro: « Tu sei Pietro e sopra di questa Pietra innalzerò la mia Chiesa, e le potenze dell’inferno non prevarranno giammai contro di Essa; — Io ti darò le chiavi del regno de’ cieli: tutto ciò che avrai legato o sciolto su questa terra, sarà legato o sciolto in cielo; — Pasci i miei agnelli; pasci le mie pecorelle; » — e poi permettesse che Pietro avesse a sbagliare, e tutt’altro che essere agli altri fondamento della Fede, crollasse egli stesso nella medesima; tutt’altro che aprire agli uomini le porte del cielo colle chiavi di esso, li trascinasse alle porte dell’inferno; tutt’altro che pascere della verità e i pastori e gli agnelli, li avesse talora a pascere dell’errore? Ciò non era assolutamente possibile. D’altronde anche per questo riguardo Gesù Cristo ha parlato nei termini più chiari e precisi. Imperocché nell’ultima Cena, rivolto a Pietro, gli dice : « Simone, io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli. » (Luc. XXII) Ora, o bisogna dire che la preghiera di Gesù Cristo non fu esaudita, il che sarebbe una bestemmia, o fa d’uopo ammettere che il suo Cuore amoroso, mediante la sua preghiera, assicurò a Pietro una particolare assistenza, affinché come Maestro universale non avesse mai a venir meno nella fede, epperò con labbro infallibile insegnasse mai sempre la verità in tutto ciò riguarda la fede e la morale cristiana. – Ma qui, o miei cari, procuriamo di farci una idea esatta di questa infallibilità che Gesù Cristo prometteva e donava a Pietro. Perciocché vi hanno di coloro che non possono credere che, per quanto si tratti di un uomo posto alla testa di tutta la cristianità, non possa peccare come tutti gli altri uomini, non possono credere che bisogna aggiustar fede ad ogni parola, ad ogni giudizio che egli esprima, e su qualsiasi soggetto; non possono credere che Gesù Cristo abbia posto nella Chiesa un privilegio tirannico che inceppa la libertà dello spirito umano nelle sue ricerche scientifiche. Ma stolti ed ignoranti che sono! Se fosse questo l’infallibilità! … Ma è così forse? No, assolutamente. L’infallibilità non è affatto l’impeccabilità, perché Pietro in quanto è nomo potrà anch’egli peccare e dovrà perciò anch’egli gettarsi ai piedi di un altro ministro del Signore per implorare il perdono delle sue colpe. L’infallibilità non è legata ad ogni sua parola e ad ogni suo giudizio, che anch’egli come persona privata esprimendo il suo parere o sopra la storia, o sopra la scienza, o sopra la filosofia, o sopra la teologia potrà fallire. L’infallibilità non è un potere tirannico che inceppi la libertà della mente, è anzi un privilegio che l’affranca e la protegge dall’errore. L’infallibilità è quella prerogativa per cui Pietro, come Capo della Chiesa, in virtù della promessa di Gesù Cristo, giudicando e definendo dall’alto della sua suprema cattedra cose riguardanti la fede ed i costumi, non può cadere in errore, né quindi ingannare se stesso o gli altri. Ecco, o miei cari, che cosa è l’infallibilità. Ed una tale infallibilità non era del tutto necessaria alla Chiesa per raggiungere quaggiù il suo fine, la salvezza delle anime, mercé l’insegnamento della dottrina e della pura dottrina insegnata da Gesù Cristo? – Il divin Redentore adunque ha dato a S. Pietro quel potere supremo e quell’infallibile magistero, che come a Principe degli Apostoli e capo di tutta la Chiesa gli erano necessari. E S. Pietro riconobbe d’aver ricevuto tali prerogative, e senz’altro in lui le ammisero e le riverirono gli altri Apostoli e i primitivi fedeli. Difatti, appena salito al Cielo Gesù Cristo, Pietro nel cenacolo piglia il primo posto, parla pel primo e propone egli l’elezione di un altro apostolo in luogo di Giuda, il traditore. Nel dì della Pentecoste è egli che pel primo predica la fede di Gesù Cristo e la conferma coi miracoli. In seguito è ancor egli che pel primo avendo convertiti i Giudei, va pel primo a battezzare i Gentili. Così è egli, Pietro, che stabilisce i primi punti di disciplina e compone qualsiasi dissidio che insorga, tanto che tutta la Chiesa, pastori e fedeli a lui si affidano, lui seguono, lui obbediscono; e lo stesso grande S. Paolo, benché fatto apostolo direttamente da Gesù Cristo non è pago fino a che non ha fatto confermare da Pietro il suo ministero. – Se non che, o miei cari, quelle prerogative che Gesù Cristo donava a Pietro, erano a lui donate come a privato individuo, sicché colla sua morte avessero a perire? No assolutamente. E come poteva ancora sussistere la Chiesa, se per la morte di Pietro veniva a mancarle il fondamento? Come poteva rimanere unito e ordinato il gregge di Gesù Cristo, se per la morte di Pietro perdeva il pastore supremo? Come potevano i Vescovi e i fedeli essere ancora confermati nella fede se per la morte di Pietro veniva a mancare il Maestro infallibile di tutta la Chiesa? Il primato di Pietro adunque non è un privilegio personale, che abbia a perire colla sua morte; è un privilegio che raccoglierà ogni suo successore, un privilegio che rimarrà in tutti quelli che continueranno il suo pontificato sino alla consumazione dei secoli, ascendendo quella stessa cattedra romana, sulla quale per divina ispirazione egli andò ad assidersi e ad esercitare il suo supremo potere ed infallibile magistero; poiché Gesù Cristo colla durata perpetua della Chiesa volendo sino alla consumazione dei secoli trasmettere agli uomini il beneficio della sua redenzione, vuole altresì che sino alla consumazione dei secoli abbia a durare il primato di Pietro. Oh! consumi pur dunque il principe degli Apostoli in un sacrificio di amore il suo governo e magistero glorioso, cada pure ancor esso sotto i colpi di quella morte, che tutti miete implacabile senza eccezioni di sorta; non per questo andrà priva la Chiesa di un capo che la governi, di un dottore che l’ammaestri; le chiavi di S. Pietro passeranno nelle mani di S. Lino in quelle di San Cleto e per una trasmissione non. mai interrotta nel corso di diciannove secoli arriveranno alle mani del glorioso Pontefice regnante, dinnanzi al quale tutto il popolo cristiano prostrato, come dinnanzi a Pietro primo capo visibile della Chiesa, col cuore riboccante di amore e di entusiasmo ripeterà le parole di Cristo: Tu es Petrus, et super hanc petram ædificabo Ecclesiam meam, et portæ inferi non prævalebunt adversus eam. – Così da diciannove secoli ha sempre creduto la Chiesa, e così ha sempre riconosciuto col fatto. Tutti i Padri, tutti i Dottori, tutti i Santi, tutti i Concili furono sempre di accordo nel credere e proclamare altamente che il Papa, il pontefice romano è il vicario di Gesù Cristo, il successore di Pietro e il reggitore della Chiesa universale e il suo infallibile Maestro. Ed ogni qualvolta i reggitori e maestri delle Chiese particolari, i Vescovi, si trovarono nel dubbio o nell’incertezza, o nel timore, o nella controversia per riguardo a qualche pratica religiosa, o a qualche punto di dottrina, fu sempre al Papa che si rivolsero siccome all’autorità suprema e al supremo maestro, per essere da lui consigliati, illuminati, rassicurati, e fu sempre alla sua decisione, al suo giudizio, alla sua sentenza, che si affidarono come all’oracolo divino; tanto che quando S. Ambrogio asseriva che dove è Pietro, ossia il Papa, ivi è la Chiesa con tutti i suoi poteri e tutte le sue prerogative; quando S. Agostino tagliava netto sentenziando: Roma ha parlato, la causa è finita; quando S. Girolamo volgendosi a S. Damaso Papa del suo tempo dicevagli: Ohi non è con voi, è contro Gesù Cristo: chi con voi non raccoglie, disperde; non erano altro che la voce di tutta la Chiesa, la quale in tutti i secoli, e negli anteriori a loro e nei posteriori, ha sempre creduto che Pietro rimane e vive in quelli che continuano nel suo pontificato: Perseverat Petrus et vivit in sucessoribus suis. (S. LEO. Serm. II). Sia adunque benedetto Gesù Cristo, che a mantenere incrollabile l’edifizio della sua Chiesa ci ha dato il Papa; quel Papa, che nella persona di Pietro fu stabilito della Chiesa medesima il saldo fondamento, che nella persona di Pietro ricevette le chiavi del supremo potere, che nella persona di Pietro ricevette l’incarico di addottrinare nella fede e pastori e fedeli, che nella persona di Pietro fu dichiarato infallibile nel supremo esercizio del suo ministero, quel Papa insomma che nella persona di Pietro fu costituito Luogotenente di Dio nel governo spirituale del mondo.

II. — Ma l’empietà, o miei cari, riconoscendo al par di noi che il Papa è veramente la base della Chiesa Cattolica, il centro di sua unità e la sorgente della sua vita e delle sue grandezze, contro il Papa mosse ognora i suoi più furiosi assalti, follemente sperando di abbattere il suo trono, e col trono del Papa la Chiesa istessa. Ma qui per l’appunto è dove che il Cuore amoroso di Gesù Cristo ci dà un’altra prova luminosa del suo infinito amore per noi, nel conservare cioè il Papa in tutto il corso dei secoli contro tutti gli assalti che gli furon mossi. Gettate uno sguardo sulle pagine della storia. Nel corso di diciannove secoli le più nobili e potenti dinastie dei regnanti si cangiarono e morirono; ma la dinastia del Papa persistette e persiste tuttora invariabile ed immortale. – La Chiesa, questa figlia di Dio, vagiva ancora in fasce, e i tiranni di Roma si armarono per ispegnerla. La rabbia dei persecutori si scatena più furente contro di coloro che i cristiani riconoscono e venerano per loro augustissimi capi. S. Pietro da Nerone, ventinove altri Pontefici in seguito da altri imperatori son fatti morire e della morte più spietata; gli uni son crocifissi, gli altri sono lapidati, gli altri precipitati nei fiumi, gettati altri in pasto alle fiere. « E si è mai veduto, domanda qui l’illustre Bougaud, una dinastia che cominci con trenta condannati a morte? » E si è mai veduta, soggiungo io, una dinastia che abbia resistito per lo spazio di tre secoli ad un assalto così formidabile? Eppure vi ha resistito il Papato. All’indomani di quel giorno, in cui credevasi di avere spenta colla vita del Papa la cristiana religione, nell’oscurità delle catacombe sorgeva un Papa novello, nelle cui braccia gettavasi fidente la Chiesa perseguitata a sangue. [Da allora nulla è cambiato, come allora anche oggi gli empi usurpanti servi di lucifero, hanno creduto di abbattere la Chiesa impedendone il Papato, ma esattamente come allora, nella Chiesa –  tra l’oscurità delle catacombe, dell’eclissi prodotta dalla sinagoga di satana, e tra la persecuzione delle anime a forza di malefiche eresie e culti diabolici – è sorto il Papa novello a guidare la navicella di Pietro – n.d.r.]. Ed intanto, che più restava delle famiglie di Nerone, di Massimiano, di Diocleziano, di Giuliano l’Apostata? Colla ignominiosa lor morte avrebbesi voluto por fine, non che alla loro discendenza, alla loro stessa memoria. Dopo i persecutori vennero gli Eretici. Il loro assalto contro del Romano Pontefice fu tanto più accanito quanto più astuto e fraudolento. Nel quinto secolo dapprima, e dopo più di mille anni nel secolo decimo quinto e decimo sesto quegli uomini infernali suscitati dall’odio diabolico contro di quella pietra che Gesù Cristo poneva a base della sua Chiesa, lanciaronsi contro di lei con un furore frenetico. E tanto fu l’apparato della forza, tanti gli artifici dell’inganno, tanto il fervore delle passioni, che come dapprima il mondo cristiano pareva essersi staccato dal Romano Pontefice per gettarsi nelle braccia di Ario, così dappoi parve staccarsi dal Romano Pontefice per gettarsi nelle braccia di Lutero, di quel Lutero che nell’ebbrezza del suo immaginario trionfo osava gridare: Pestis eram vivus, mortuus tua mors ero, Papa. Ma gli eretici non furono più forti contro del Papa di quello che furono i tiranni, e mentre Ario e Lutero con tutta la loro sequela finivano di orribile morte la loro vita, il Papato vincitore dell’eresia restava fermo sul suo trono fatto rutilante di luce più viva. Dopo l’eresia e di conserva alla stessa, a combattere il Romano Pontefice sorgono i governanti della terra. Dapprima gli imperatori del basso impero di Costantinopoli, dappoi quelli di Germania con una prepotenza incredibile pretendere di adunare concilii, di dettar articoli di fede, di manipolar i preti a lor capriccio, di conferire essi stessi ai vescovi l’autorità e nel dare loro in mano il pastorale e l’anello, che giurino di dipendere da loro e di servire ciecamente alle loro voglie, e soprattutto che il Papa, il Vicario di Cristo, il successore di Pietro ceda a queste loro pretese, acconsenta alle lor matte proposte, soscriva alle erronee lor formole e ai loro patti iniqui. Oh chi sa dire a che dure prove, a che aspri cimenti, a che gravosi patimenti furono assoggettati i Pontefici nell’una e nell’altra epoca ? Nella prima un Giovanni è gettato in carcere dove soccombe per i cattivi trattamenti; un Agapito è mandato in esilio; un Silverio, spogliato de’ suoi abiti pontificali e raso il capo, vien deportato i n un’isola ov’è lasciato morir di fame; un Vigilio, preso pei capelli e per la barba, è strappato dall’altare che aveva abbracciato ed è fatto perire in esilio; un Martino è tolto da Roma e carico di catene è gettato a languire nel Chersoneso. Nell’altra epoca, sotto gli imperatori di Germania, altri fra i Pontefici sono assediati in Roma, altri rinchiusi in prigione e fatti morir di fame e di miseria, altri avvelenati, altri cacciati in bando dove muoiono esclamando: « Ho amato la giustizia, ho odiato l’iniquità, perciò muoio in esilio. » E chi mai nell’imperversare di sì furiose tempeste non avrebbe creduto che il Romano Pontificato avesse a perire? Eppure no! Perirono l’un dopo l’altro tutti i suoi assalitori, trascinando nel sepolcro la lor discendenza, ma i Papi restarono ed alla morte dell’uno un altro sempre ne successe a governare, ad ammaestrare quella Chiesa, di cui Iddio lo eleggeva a capo. E ai tempi dei nostri avi e dei nostri padri l’empietà lasciava forse alcun che d’intentato contro dei Romani Pontefici? La rivoluzione, al cui apparecchio avevano lavorato orgogliosi filosofi, dopo aver bandita la croce al Cristianesimo, scannati a decine e a centinaia i Vescovi più venerandi e i sacerdoti più eletti, abbattute nelle chiese le sacre immagini e surrogatavi in lor vece la sozzura vivente della Dea Ragione, finì per gettare le mani sulla veneranda canizie del sesto Pio, strapparlo violentemente dalla sede di Pietro e trascinarlo nella terra d’esilio ed ivi con serie infinita di vessazioni e di dolori procurargli la morte. Più tardi un soldato felice insuperbito dei suoi trionfi, rinnovava le stesse sevizie su Pio settimo, gettandolo a gemere diviso dai suoi più cari in penosissima cattività, dove oltre al privarlo del pane necessario al sostentamento, negavagli persino il conforto della penna. Oh mio Dio! Tutto è pianto per la Sposa di Cristo; più non regna che la ragion del più forte, e quanti non hanno fede credono che a Savona debba alfin morire l’ultimo dei Papi. Ma viva Dio! Un bel giorno, mentre il rombo delle empie e sconsigliate guerre odesi ancora echeggiare per tutta Europa, gli eserciti dell’irrequieto conquistatore sono rotti e dispersi, lo snaturato tiranno vinto e soggiogato è mandato a languire sopra un arido scoglio dell’oceano, mentre il mite e travagliato Pontefice liberato dalla sua prigione e come portato sugli omeri di tutto il popolo cristiano ritorna trionfante nella santa città. Ma l’empietà, o miei cari, si ostina a non profittare delle toccate sconfitte ed anche ai dì nostri ritenta la prova e si getta rabbiosa a cozzare col Papato. Né si è ristretta a dimostrazioni di lingua e di penna. Armi si sono impugnate, atroci violenze si sono commesse, e il Capo Venerabile della Chiesa. Io qui mi arresto…. I fatti ai quali accenno sono accaduti ed accadono tuttora davanti ai vostri occhi, né avete bisogno che io ve li esponga. Vi chiederò piuttosto: Vi ha da temerne? …. Potrà temere colui che non crede o non conosce l’amore di Gesù Cristo per la sua Chiesa. Ma chi getta lo sguardo su quel Cuore tutto i n fiamme, chi porge ascolto ai suoi rinfrancanti detti: Ecce vobiscum sum usque ad consummationem sæculi; allo sforzo degli empi sorride, perché si assicura che, come il Cuore amoroso di Cristo non abbandonò mai il Papa, nel corso dei passati secoli, così non l’abbandonerà neppure nei secoli venturi e conservandolo in mezzo ad ogni sorta di assalti, lo circonderà di universale amore e gli preparerà uno splendido trionfo. Viva, viva adunque il Cuore Santissimo di Gesù che ci ha dato il Papa e lo conserva con tanta cura, ed affetto!

III. — Ma altra prova di amore, non meno splendida delle antecedenti, ci ha dato il Cuore Sacratissimo di Gesù nel glorificare il Papa. Conoscendo Egli a perfezione il cuore umano, che tanto facilmente sì lascia attrarre dalle cose sensibili, volle eziandio per la via delle cose sensibili trarre gli uomini all’amore ed alla venerazione del Papa; epperò non pago di conferirgli un’autorità spirituale, in tutto il corso dei secoli, lo circonda ognora di fulgidissima gloria ispirandogli ed aiutandolo a compiere opere, che niun’altra dinastia del mondo potrà mai vantare sì numerose e sì perfette. Ed in vero, o miei cari, a chi la gloria di atterrare i delubri del paganesimo, di raddolcire i costumi, di spezzare le catene della schiavitù, di far risplendere il sole della cristiana civiltà? Al papa! O santi pontefici de’ tre primi secoli, io mi prostro riverente dinanzi alla vostra veneranda persona. La vostra vita non passò che nell’oscurità delle catacombe, ma dal fondo di quei sotterranei il suono della vostra voce uscì per tutta la terra a portare dovunque la serenità e la pace! — A chi la gloria di evangelizzare il inondo, di spargere dappertutto il regno di Cristo, di inalberare per ogni dove lo stendardo della croce, di radunare i popoli in un sol cuore, in un’anima sola? Al Papa! Io vi saluto, o Gregorio Magno, o Nicolò I, o Zaccaria, o Gregorio II e III, o Giovanni XIII, o Gregorio IV; è per opera vostra, pel vostro soffio che sono successivamente evangelizzate l’Italia non solo, ma le Gallie, la Spagna, la gran Bretagna, la Svezia, l’Olanda, la Germania, la Polonia, la Russia, le immense contrade del nord. È per opera vostra, pel vostro soffio, o Sommi Pontefici, che a tutti i popoli del settentrione e del mezzodì, dell’oriente e dell’occidente, dell’antico e del nuovo mondo la fede rifulge, il vero Dio si adora, Cristo è amato. — A chi la gloria di liberarci dalla dominazione dei barbari e dei mussulmani, d’impedire che ricadessimo nella primiera barbarie? Al Papa! O magno Leone! io vi veggo, rivestito del vostro papale ammanto, in trepido, farvi innanzi a chi si noma flagello di Dio, ammansar quella belva e allontanarla d’Italia. Io vi veggo, o S. Leone IV, respingere ad Ostia colle vostre milizie i Saraceni, che vi sbarcarono già sicuri della vittoria. Io vi veggo, o S. Leone IX, combattere, a Civitella per l’indipendenza delle terre italiane e cadendo prigioniero restar tuttavia vincitore. Io veggo voi, o grande Ildebrando, farvi l’energico difensore dell’Italia contro l’influenza straniera ed umiliare a Canossa la prepotenza di un imperatore Germanico. Io veggo voi, o Alessandro III, farvi capo di una lega per allontanare dalle nostre terre il Barbarossa e felicemente riuscirvi, e voi, o Gregorio IX, tentare risolutamente la stessa cosa contro Federico II. Io vi veggo o grande Pio V, destare l’Europa col suono della vostra voce, radunarne i principi, benedire i loro eserciti, spedirli contro le falangi musulmane, e colle vostre preghiere ottener loro la più splendida vittoria. — Ancora. A chi la gloria di vedere suoi figliuoli gli stessi re ed imperatori del mondo, di essere il consigliere nelle loro imprese, l’arbitro nelle loro questioni, il pacificatore nelle loro contese? A chi la gloria di intimare ai prepotenti il dovere e la giustizia, di resistere ai loro capricci, di difendere l’innocenza ed il diritto contro il loro despotismo? Al Papa. Siete voi, o Innocenzo III, che obbligate Filippo Augusto di Francia a ripigliare la sua legittima sposa; voi, o Pio VI, e Pio VII, che forti per coscienza resistete alla volontà degli iniqui; voi, o Gregorio XVI, e Pio IX, che agli imperatori delle Russie ordinate di trattar meglio i Cattolici, — E finalmente, a chi la gloria d’aver protetto le lettere, le scienze, le arti? A chi?. Al Papa, sempre al Papa. È il Papa che nel buio del medio evo, apre scuole a spargervi la luce delle lettere e delle scienze: il Papa, che favorisce e promuove le università, il Papa che raccoglie biblioteche, il Papa che si circonda di dotti, il Papa che chiama ed accoglie onorevolmente nella sua Roma i più celebri artisti. È Giulio II, è Paolo III, èSisto V, è Leone X, èPio VI, èPio VII, è  Pio IX, è il glorioso Leone XIII, la cui splendida munificenza verso le scienze, le lettere e le arti va del pari colla sua altissima sapienza. E dinanzi a tanto splendore, dovrebbesi ancora far conto di quel po’ di nebbia che parvero gettare sul Papato alcuni pochi Pontefici? Io non nego che vi sia stato fra di loro qualcuno di ua vita non dicevole alla sublime dignità. Ma che per questo? Se come persone private fallirono, come Pontefici vennero forse meno al loro gravissimo ufficio? Lo stesso Alessandro VI, di cui tanti scrittori farisaici inorridiscono, dato pure che l a sua vita privata non sia stata sempre buona, non compié in qualità di Pontefice delle grandi cose? Non fu egli, come scrive lo stesso Boterò, che allo scoprimento di tante terre fatte dagli Spagnuoli e dai Portoghesi si adoperò presso i loro re, perché in quelle terre si attendesse anzitutto alla conversione dei popoli? Non fu egli che chiamato arbitro da questi due sovrani nella questione dei confini dell’America pose fine ai loro litigi, con la famosa linea di partizione da lui tracciata sulla carta geografica e che accolta di buon animo prova manifestamente che come Papa era avuto in altissima stima dai principi e dai popoli? E per non dire più di altro, non attese forse come Papa col massimo zelo al bene della Chiesa? Chi vuole adunque giudicare dirittamente dei Papi, distingua bene ciò che in essi vi è di umano e di persona privata, ed allora vedrà, se non vuole esser cieco, che come non vi ha dinastia di una potenza intima più grande, così non vi ha dinastia alcuna di una gloria più splendida e più pura. D’altronde, pur riconoscendo che sulla cattedra di Pietro insieme col supremo potere e col magistero infallibile si è assiso qualche Papa malvagio, il vero Cristiano non rinnoverà mai il delitto di Cham, ma chiudendo gli occhi come Sem e Jafet, si farà invece a coprire le colpe di questi padri col manto della pietà filiale. Benedizione adunque, benedizione eterna al Cuore di Gesù, che non solo ci ha dato il Papa e lo conserva con tanta cura ed affetto, ma lo circonda ancora di tanta gloria a radicare ognor più nei cuori nostri la venerazione e l’amore per lui, a costringere alla sua ammirazione tutti gli uomini del mondo. Ma se il Cuore Sacratissimo di Gesù nel darci il Papa, nel conservarlo e glorificarlo ci ha fatto il più segnalato benefizio e ci ha data una gran prova di amore, nostro dovere per conseguenza è quello di corrispondere a tanto benefizio colla più sincera gratitudine. E il modo migliore di manifestare al Cuore di Gesù la nostra gratitudine in questo caso è quello per l’appunto di obbedire, rispettare ed amare il Papa. Allor quando nel battesimo di Cristo lo Spirito Santo erasi posato sopra il suo capo nella sembianza di colomba, dalle altezze dei cieli era pur scesa la voce dell’Eterno Padre dicendo: « Questo è il mio Figliuolo prediletto, nel quale ho riposto le mie compiacenze; lui ascoltate.» Ebbene, o miei cari, qui avviene un fatto somigliante. Il Cuore Santissimo di Gesù posandosi sulla persona del Papa rivolge a tutti i suoi figli la sua voce e grida: Questi è il mio Vicario: ascoltatelo, rispettatelo, amatelo. Chi ascolta lui, ascolta me: chi disprezza lui, disprezza ine; chi non ama il Papa, non ama neppure me stesso. E vi sarà tra di noi chi si rifiuti a questo comando di Gesù ? Ahimè! se io getto lo sguardo nel mondo, vedo pur troppo di coloro che non ascoltano il Papa, che non lo rispettano, che l’odiano anzi e sino al furore; che vorrebbero, se loro fosse possibile, schiantarne l’ultimo vestigio dalla faccia della terra, e in fondo in fondo non per altra ragione, se non perché il Papa a nome di Dio impone loro una legge, ch’essi non vogliono praticare; perché il Papa svela le loro nequizie e le loro ipocrisie, condanna la loro superbia e la loro corruzione; perché il Papa mette in guardia il mondo dalle loro diaboliche arti; perché infine il Papa pel libero esercizio di quella autorità che ha ricevuto da Dio reclama quel temporale dominio, che la Divina Provvidenza gli ha a tal fine accordato. Sì, per questo, per questo solo tante bocche impure si aprono a bestemmiarlo, tante penne sataniche schizzano veleno a maledirlo, tante sozze caricature s’inventano a coprirlo di fango. Oh infelice Pontefice! Curvo sotto il peso di una responsabilità così grande, qual è quella che emana dalla sua autorità, egli deve per soprappiù gemere sotto il peso della moderna empietà e corruzione, che gli muove una guerra cotanto aspra. Ah deh! per quella gratitudine che ci lega al Cuore Sacratissimo di Gesù, che i suoi gemiti trovino un’eco pietosa nel cuore de’ suoi veri figli. Che noi almeno col rispetto e coll’obbedienza alla sua autorità, in tutto quello che egli ci prescrive per il vero nostro bene ci studiamo di porgere un po’ di conforto alle sue afflizioni. Che da noi almeno non mai si sparli del Papa, non mai si censurino i suoi pensamenti e le sue operazioni, non mai anche solo per rispetto umano si sorrida a chi lo deride: che da noi, da noi almeno si porti sempre alta la bandiera su cui sta scritto: Cattolici e Cattolici col Papa. E quando il Papa nella piena del suo dolore a noi si volge additandoci il cuore che gli sanguina, sempre abbia da noi tale una risposta… Miei cari amici! Allorché nel secolo passato, una grande imperatrice d’Austria, Maria Teresa, viste invase dalle potenze straniere le sue terre, confidata nell’amore dei suoi popoli, ancor sofferente di fresca malattia, presentossi alla dieta e svelate le sue pene chiese protezione per se e pel suo bambino, udì tosto con entusiasmo ripetere: Moriamur prò rege nostro Maria Theresia! Ealle parole s’aggiunsero i fatti: gli abili alle armi si fecero soldati e formossene un numeroso esercito: non mai dalla fertile Ungheria uscirono tante provvigioni: non mai con la violenza si riscossero tanti tributi, quanti allora spontanei, e l’ardore non fe’ mai sì belle prove. Ecco la risposta che dobbiamo dar noi all’appello del Papa: balzare risoluti al cospetto delle sue sofferenze, gettarci ginocchioni a’ suoi piedi, protestando di amarlo e di difenderlo; brandire coraggiosi le armi dell’azione e della preghiera, cooperare per quanto sta in noi e colle parole, e cogli scritti e colla stampa e coll’obolo della nostra carità, a mantenergli la gloria e lo splendore che gli si addice; con gemiti incessanti supplicare il Cuore di Gesù che lo renda libero, che lo conservi, lo vivifichi; lo faccia beato in terra e non lo lasci cadere nelle mani de’ suoi nemici; e piuttosto che vili cedere quest’armi in faccia ai nemici del Papa: Moriamur prò Papa nostro Leone! siamo pronti a soffrir qualsiasi iattura, anche la morte istessa se .le circostante lo richiedessero. Morir per il Papa saria lo stesso che morir per Cristo: perché il Papa è il Vicario di Cristo: e di miglior gratitudine non potremmo ripagare il Cuore di Cristo, né miglior testimonianza potremmo rendere alla sua bontà e misericordia nell’averci dato il Papa. E voi, o Cuore Sacratissimo di Gesù, che con l’istituzione del Papa avete dato alla vostra Chiesa il più saldo fondamento, fate che adesso noi siamo mai sempre uniti di mente e di cuore, sicché coll’amore, col rispetto, coll’obbedienza al Papa, Capo visibile della vostra Chiesa, noi siamo pur sempre muti a Voi, che ne siete il Capo invisibile, adesso e nell’eternità. [Oggi più che mai rinnoviamo questo grido di gioia e di fedeltà: Moriamur prò Papa nostro Gregorio!

DISCORSO XXVIII.

Il Sacro Cuore di Gesù e la sua Chiesa.

Nella grand’opera della creazione del mondo cosa senza dubbio assai degna di ammirazione si è che Iddio avendo creato gli animali maschio e femmina per mezzo della stessa parola e nel medesimo tempo, non fece così riguardo alla creazione dell’uomo e della donna. Perciocché prima creò l’uomo e poscia addormentatolo in un sonno misterioso, trattagli una costa dal suo fianco ne formò la donna. E quale poté mai essere la ragione di una creazione cotanto singolare? S. Tommaso, quel gran genio che si è certi sempre d’incontrare sulla via, quando si ricerca la ragione di qualche mistero del Cristianesimo, ha detto che l’uomo fu creato prima della donna e la donna fu tratta dall’uomo, perché fosse conservata la dignità dell’uomo coll’essere egli il principio dell’universo. In secondo luogo, che la donna non venne creata dalla testa dell’uomo, perché si conosca che essa non deve essere al di sopra dell’uomo né fargli da padrona; che neppure fu creata dai piedi dell’uomo, perché si sappia non dover essere dall’uomo disprezzata come una misera schiava, ma che venne tratta dal fianco dell’uomo, vale a dire da vicino al suo cuore, perché apparisse manifesto che l’uomo deve amarla, siccome l’oggetto che più gli appartiene, siccome una parte la più intima di se stesso. – Ma oltre a queste ragioni di ordine storico e naturale, lo stesso dottore, seguendo S. Paolo e S. Agostino, asserisce esservene un’altra di ordine profetico e sacramentale. Il primo Adamo era la figura del secondo Adamo, che è Gesù Cristo. Epperò il suo sonno appiè di un albero e la formazione dal suo fianco della donna doveva essere una stupenda figura del sonno di morte, a cui sarebbesi dato Gesù Cristo sull’albero della croce e della formazione della vera Eva, la Chiesa, che sarebbe uscita dal suo Sacratissimo Cuore trafitto. Sì, o miei cari, come Eva fu tratta dal fianco di Adamo, così la Chiesa, mistica sposa, ma pur vera sposa di Gesù Cristo, nacque dall’apertura del suo divin Cuore: Ex Corde scisso Ecclesia Christo iugata nascitur. Il che vuol dire in altri termini che la Chiesa fu anche essa per eccellenza un’opera del Cuore di Gesù Cristo, una delle più grandi prove del suo amore per noi. Ed invero. Gesù Cristo volendo applicare davvero agli uomini di ogni tempo e di ogni luogo l’efficacia della redenzione, affine di operare sempre e dappertutto la loro salute, ha propriamente nella sua carità infinita creata la sua Chiesa. Ed ecco la bella e grande verità che considereremo oggi.

I . — Gesù Cristo era venuto in questa terra per compiere la grand’opera della redenzione degli uomini e realmente l’aveva compiuta, soprattutto con la sua amarissima passione e morte di croce. Per i meriti infiniti che Egli vi aveva acquistato, Egli aveva guadagnato altresì infinite grazie per gli uomini e il diritto a ciascuno di essi di poter conseguire l’eterna beatitudine. Ma perché tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo potessero godere di sì gran benefizio era assolutamente necessario che la grazia guadagnata da Gesù Cristo fosse di mano in mano a .ciascuno degli uomini in particolare applicata. Inoltre Gesù Cristo venuto pure su questa terra per illuminare ogni uomo sulle verità, che si devono conoscere e credere e sulle opere che si hanno a praticare per salvarsi, aveva predicato la sua celeste dottrina pel corso di tre anni nei paesi della Giudea. Ma poiché la luce di questa dottrina doveva spandersi sopra gli uomini di tutti i secoli e di tutte le nazioni, bisognava perciò che anche dopo il ritorno di Gesù Cristo al suo Eterno Padre, fosse predicata a tutte le creature. Gesù Cristo ancora aveva istituito per gli uomini i Sacramenti come altrettanti fonti visibili della sua grazia invisibile, ma perché questi sacramenti ridondassero di vantaggio a tutti gli uomini per sempre, si conveniva che a tutti gli uomini per sempre potessero essere amministrati. E finalmente durante la sua vita Gesù Cristo era stato il buon Pastore che conosce le sue pecorelle e che le guida per i pascoli sani della verità e della giustizia, era necessario che questa guida visibile non venisse mai a mancare alle altre pecorelle che sarebbero entrate a far parte del suo gregge, tanto più che il numero sarebbe immensamente cresciuto. Che cosa fece pertanto nostro Signor Gesù Cristo a conseguire tutti questi fini, perché realmente tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi in conformità alla sua volontà vera, avessero ad essere salvi ed a pervenire al conoscimento della verità. Già fin dai tempi antichi i profeti avevano annunziato che a tal fine Gesù Cristo avrebbe creato una società visibile a guisa di un regno potente che si sarebbe esteso sino agli estremi confini della terra; (DAN. II, 44) a guisa di una casa del Signore, che sta sulla vetta dei monti e si solleva sopra tutti i colli ed alla quale sarebbero accorsi in folla tutti i popoli; (Is. II, 2) a guisa di una città santa, nella quale sarebbero entrate le moltitudini delle nazioni ed i popoli gagliardi. (Is. LX) Lo stesso Gesù Cristo poi aveva promesso durante la sua predicazione che per la salvezza universale degli uomini avrebbe edificato la sua chiesa: Edificabo ecelesiam meam, e parlando di essa l’aveva paragonata ad un gregge e ad un ovile, in cui le agnelle si raccolgono sotto la guida di uno stesso pastore; ad un campo, in cui spuntano le buone e le cattive sementi; ad un banchetto, a cui sono chiamate persone di ogni stato; ad una rete gettata nel gran mare dell’umanità e che piglia ogni specie di pesci; ad un granellino di senapa che si converte poscia in un albero immenso, nel quale vanno a ripararsi ogni sorta di uccelli; ad un regno di Dio aperto a tutti i popoli della terra. Inoltre parlando ancora di quest’opera, ch’ei voleva stabilire, dichiarò l’autorità e la missione che intendeva di affidarle, giacché diceva: « Se il tuo fratello ha commesso qualche mancamento contro di te…. dillo alla Chiesa. E se non ascolta la Chiesa, abbilo in conto di gentile o di pubblicano. » E poscia aggiungeva: «Tutto quello che voi legherete sulla terra, sarà legato in cielo, e ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. » E in conformità a queste sue divine promesse ed asserzioni che cosa fa egli! Raccoglie d’intorno a sé alcuni Apostoli, li istruisce, comunica ai medesimi la sua autorità e la sua potenza; dapprima li manda nelle città della Giudea; domanda conto della loro missione, sceglie e stabilisce il loro capo, aggiunge loro alcuni cooperatori, con tenera sollecitudine forma il gruppo tipo e modello della immensa società, nella quale si espanderà, gruppo che chiama al suo principio: pusillus grex, piccolo gregge. Ed ecco la fondazione della Chiesa di Gesù Cristo, Chiesa che, come ognuno facilmente comprende, non è già di ordine interiore ed invisibile, come volle il vecchio protestantesimo, ma di ordine esterno, visibile, visibilissimo. Visibile nei suoi capi e nelle sue membra, cioè nel successore di S. Pietro e degli altri Apostoli e nei’ fedeli che ad essa appartengono, non altrimenti che siano visibili i superiori e gl’inferiori di ogni altra terrena società; visibile nella predicazione e nella professione della dottrina di Gesù Cristo, essendo che secondo il suo comando, la lieta novella della salute deve annunziarsi e sempre si annunzia con la predicazione a tutte le creature di tutti i luoghi e, di tutti i tempi che abbracciandola la professano non solo nell’interno del loro cuore, ma eziandio con le loro parole ed opere esteriori; visibile nel sacrifizio che Gesù Cisto volle perpetuare in questa sua Chiesa e che si celebra con un culto e con riti esteriori; visibile nei Sacramenti che C. Cristo le affidò da amministrare e che sempre si amministrano in modo al tutto sensibile. Porre in dubbio pertanto la visibilità della Chiesa è lo stesso che contraddire non solo alle parole esplicite di Gesù Cristo, ma eziandio alla testimonianza irrefragabile dei sensi e della sana ragione. Per certo sotto altro aspetto la Chiesa è pur invisibile. Come l’uomo è visibile nel suo corpo ed è invisibile nella sua anima, così la Chiesa è invisibile al presente nel suo capo supremo G. Cristo, che è in cielo; invisibile nella verità che illumina le menti; invisibile nella grazia che santifica le anime; invisibile nella vita divina che circola nel gran corpo degli eletti; ma per tutto il resto, torno a dire, visibile, visibilissima. E come potrebbe essere diversamente? Se G. Cristo, capo, al presente invisibile, della Chiesa, venuto su questa terra per la redenzione nostra, l’ha operata tutta in modo visibile del suo corpo; ecco lo Spirito Santo che mandato da G. Cristo, perfeziona l’opera sua; ecco la Chiesa ripiena di vita e di forza. O Chiesa di Gesù Cristo! creazione ammirabile del suo Cuore divino! Benché così piccola come oggi apparisci dentro di quel cenacolo, esci fuori ardimentosa, getta lo sguardo sopra il mondo, e riconoscendo che a te è destinato sfidando i pericoli vola alla sua conquista. Se Cesare nella tempesta diceva al nocchiero che tremava: « Che temi? Porti Cesare! » con più santa alterigia e maggior sicurezza di fronte ad ogni ostacolo tu potrai dire a te stessa sino alla fine del mondo: « IO non temo, perché porto con me lo Spirito Santo, l’anima della mia vita. » No, non meravigliamoci che Gesù Cristo abbia fondata e perfezionata l’opera sua con quella piccola schiera di Apostoli e di discepoli, che stavano raccolti nel cenacolo il dì della Pentecoste! Gesù Cristo senza dubbio nella sua potenza infinita, avrebbe potuto dare fin da principio all’opera sua delle proporzioni più vaste, immensamente più vaste. Ma Gesù Cristo voleva che non ostante gli sforzi che uomini funesti avrebbero fatto per mettere in dubbio l’opera sua, ciò non potesse mai realmente accadere a chi seriamente si fosse fatto a considerare da una parte gli umili suoi inizi e dall’altra gli sfolgoreggianti suoi successi; da una parte dodici uomini rozzi, poveri, senza dottrina e senza umane aderenze, e dall’altra il mondo intero, dall’oriente all’occidente, da bòrea a mezzodì da loro conquistato nel nome di Gesù Cristo. Perciocché, o miei cari, dai tempi nostri calando giù passo passo per mezzo della storia sino ai tempi apostolici noi veniamo a riconoscere che la grande società dei credenti, che ricopre ora la faccia della terra, non è altro che lo svolgimento di quella piccola schiera radunata un dì nel cenacolo già costituente la Chiesa di Gesù Cristo ed avvivata dallo Spirito Santo. Così adunque Gesù Cristo per ottenere la salvezza degli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi ha fondata e perfezionata la sua Chiesa, quella Chiesa che oggi come al suo principio, è la società di tutti i fedeli i quali professano tutti la stessa fede di Gesù Cristo, partecipano tutti agli stessi Sacramenti e sono posti tutti sotto l’obbedienza dei Vescovi successori degli Apostoli e specialmente del Romano Pontefice successore di S. Pietro e vicario visibile di G. Cristo invisibile

II. — Se non che, o miei cari, qual è la Chiesa di Gesù Cristo? Ecco la dimanda che siamo costretti di farci, perciocché, nessuno di voi lo ignora, vi sono molte società religiose che pretendono di essere nate dal Cuore del divin Crocifisso e di continuare nel mondo l’opera della sua redenzione. Ma viva Dio! anche qui il Divin Redentore non ci ha lasciati nel pericolo dell’errore, anche qui ci ha manifestata la sua carità. Di quella guisa che Iddio nella creazione del mondo vi ha scolpito per tal modo le sue perfezioni, che per quanto si faccia, non torna possibile disconoscere che il mondo è opera sua, così Gesù Cristo fondando la sua Chiesa l’ha segnata di tali note caratteristiche, per mezzo delle quali non è possibile disconoscere quale sia l’unica e vera Chiesa da Lui fondata. Queste note sono quattro: l’unità, la santità, la cattolicità, l’apostolicità. – Ed anzi tutto Gesù Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse una. Nella sublime e commovente preghiera, che rivolgeva al suo Padre celeste prima di separarsi da’ suoi cari, gli diceva: « Padre Santo, Io ti raccomando coloro che mi hai affidato, conservali affinché siano una cosa sola come lo siamo noi. Io non ti prego per essi soltanto, ma per tutti coloro che devono credere in me sulla loro parola… affinché tutti siano una cosa sola in noi… e tutti siano consumati nell’unità. » (Io. XVII, 11, 20, 21, 23) Né Gesù Cristo si è contentato di domandare al suo Padre quest’unità per la sua Chiesa, ma la volle propriamente stabilire, giacché Egli diceva ancora: « Io ho altre pecorelle che non sono di questo ovile, fa di mestieri che quelle pure raccolga. Esse udranno la mia voce e non vi sarà più che un solo ovile ed un solo pastore. » (Io. X, 16) La Chiesa adunque di G. Cristo deve primieramente essere una, vale a dire una nella fede e nell’osservanza di tutta la dottrina, che Gesù Cristo ha insegnato; una nella partecipazione di tutti i Sacramenti che Gesù Cristo ha istituiti; una nella unione e obbedienza a quel Capo supremo che in essa Gesù Cristo ha stabilito, conforme ha dichiarato in quella sua formola, così acconcia e così eloquente, l’Apostolo Paolo: « Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio padre di tutti. » (Eph. IV, 5, 6). – In secondo luogo Gesù Cristo ha voluto che la sua Chiesa portasse l’impronta della sua santità; perciocché dice l’Apostolo: « Gesù Cristo nell’amor suo per la Chiesa si è dato per lei affine di renderla gloriosa, senza macchia e senza ruga, santa ed immacolata. » (Eph. V, 25, 27) Sì, la vera Chiesa deve essere santa come santo è il suo Capo invisibile, santa nella dottrina che guida alla santità, santa nei mezzi capaci di operare la santificazione, santa in molti dei membri che le appartengono. – In terzo luogo Gesù Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse Cattolica, cioè universale, abbracciando i fedeli di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le condizioni e di tutte le età. Ed è ciò che avevano predetto i profeti, quando cantarono di Gesù Cristo « che avrebbe avuto in eredità tutte le genti, che tutti i re della terra lo avrebbero adorato, che tutte le genti lo avrebbero servito, che egli avrebbe dominato da un mare ad un altro, da un fiume sino agli estremi confini della terra. » È ciò ancora che Egli espresse chiaramente ai suoi Apostoli, quando disse loro: « Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura. » E finalmente Gesù Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse apostolica, vale a dire credesse ed insegnasse tutto ciò che gli Apostoli hanno creduto ed insegnato e fosse guidata e governata dai loro successori. Perciocché dopo di aver eletto gli Apostoli e dopo aver insegnato loro la sua dottrina, è a loro stessi che impose il precetto di annunziarla dicendo: « Come il Padre ha mandato me, così Io mando voi: chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. » E perché inoltre s’intendesse come il mandato, che loro affidava, doveva passare ai loro successori aggiunse: « Ecco che Io sono con voi sino alla consumazione dei secoli. » (MATT. XXVIII, 21) Unità, santità, cattolicità, apostolicità, ecco adunque le quattro note caratteristiche, di cui Gesù Cristo volle segnata la sua unica e vera Chiesa. Ed ora sarà egli difficile il riconoscerla, non ostante la molteplicità delle società religiose che vi hanno nel mondo, e non ostante ancora che non poche tra di esse si arroghino l’onore di essere proprio quella? No, ciò non è difficile, è anzi facilissimo. L’unità non si trova presso i popoli idolatri, che per quanto siano affini nell’adorare le creature in onta al Creatore, sono tuttavia fra loro divisi in una infima varietà di culti turpissimi, crudeli, superstiziosi ed assurdi. L’unità non si trova presso gli Ebrei, che per quanto sembrino uniti nel credere tutti a Mosè e alla sua legge, sono tuttavia divisi in tante scuole, quante sono le sinagoghe, e ciascuno intende e pratica quella legge a suo modo. L’unità non si trova presso i Maomettani, che per quanto dicano di seguir tutti Maometto ed il suo Corano, sono tuttavia scissi ancor essi in tante sette, quanti sono i capi politici cui obbediscono. L’unità non si trova neppure presso gli Scismatici e gli Eretici, che per quanto si vantino di credere tutti a Gesù Cristo e al suo Vangelo, discordano tuttavia tra di loro nella fede, quante sono nazioni, quanti sono paesi, quante sono famiglie, quanti sono individui, e più ancora quante sono le voglie di uno stesso individuo, che oggi gli piace di credere ad una cosa e domani ad un’altra. Che dire poi della santità? Ed è possibile che vi sia la santità in quelle società religiose, le cui dottrine spingono la vita pratica a conseguenze immorali? Che vi sia la santità, dove il vizio è Dio? dove il furore dei carnali diletti è il premio promesso alla propria credenza? dove s’insegna che basta credere e che poi nulla importa di peccare, e che quanto più si è scellerati ed infami, tanto più Dio largisce la sua grazia? O poveri protestanti, voi soprattutto, che pretendete di essere nella Chiesa di Gesù Cristo, dove avete la santità della dottrina voi, che nella vostra togliendo il libero arbitrio fate dell’uomo una bestia, e rendete Iddio autore dei peccati, che l’uomo commette? Dove avete la santità dei mezzi capaci ad operare la santificazione voi, che avete ripudiato la massima parte dei Sacramenti istituiti da Gesù Cristo, e conservandone qualcuno l’avete ridotto ad una ridicola cena? Dove avete la santità dei membri che vi appartengono? Sono forse i vostri santi un Lutero, monaco apostata, vanitoso, ghiottone, libidinoso? un Calvino prete abortito, pieno di orgoglio e di crudeltà? un Arrigo VIII, re dissoluto e sanguinario? una Elisabetta d’Inghilterra mostro di libidine e di barbarie? E se son questi i Santi della vostra setta, quali sono le opere, che manifestano la loro santità? quali i miracoli che la provano? Ah! che in fatto di miracoli essi non riuscirono neppure, secondo la frase caustica e sprezzante di Erasmo, a guarire un cavallo zoppo! E poiché a queste società religiose manca l’unità e la santità, si può dire forse che siano cattoliche, universali? Senza parlare delle società degli infedeli, le quali troppo chiaro apparisce non essere universali, le società eretiche e scismatiche non sono che ristrette a pochi paesi, dove gli czar pontefici e i patriarchi, avviliti sotto il giogo dei sultani e dei pascià, lavorano di mani e piedi per ritardare l’inevitabile sfacelo, a cui l’errore è destinato. E i protestanti che pur vorrebbero riuscire a questo di ottenere una specie di universalità, inviano perciò i loro ministri carichi di bibbie nei lontani paesi, ma questi ministri, che accompagnati dalla moglie nel loro apostolato non mirano che a far la loro fortuna, a che sono essi riusciti? Essi medesimi lo dovettero confessare: i loro sforzi per diffondere il pane della vita (come essi chiamano la parola della Bibbia da loro falsificata) non ostante alcuni successi ottenuti qua e là, riuscirono perfettamente inutili. E la ragione è chiara: né le sette dei protestanti, né le altre sette eretiche e scismatiche sono apostoliche. Dal momento che con l’eresia e con lo scisma rifiutarono la dottrina degli apostoli e si staccarono dalla catena dei loro legittimi successori, cessarono affatto di possedere l’apostolicità: e se pure vanno pel mondo a predicare una dottrina, oltreché non predicano la dottrina creduta ed insegnata dagli Apostoli, non vi vanno perché mandati da Gesù Cristo, ma perché essi medesimi si sono arrogata questa missione. Qual è adunque, o miei cari, la vera ed unica Chiesa di Gesù Cristo, la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, se non la Chiesa nostra, alla quale abbiamo il singolar bene di appartenere, quella Chiesa che chiamasi anche Romana, perché il suo capo visibile è il Vescovo di Roma, e Roma perciò è il centro della medesima? Sì, è in questa Chiesa che risplende anzi tutto il carattere dell’unità. Per quanto siano diversi per origine, per costumi, per colore, per linguaggio, i popoli che vi appartengono, essi professano tutti lo stesso Credo; essi ricevono tutti e da per tutto gli stessi Sacramenti; essi obbediscono tutti allo stesso governo e si tengono in unione con lo stesso Capo, giacché i fedeli obbediscono ai loro pastori, i pastori ai vescovi, i vescovi al Papa, e tutti col Papa, Pater Patrum, padre dei padri, padre comune di tutti i credenti, si tengono uniti, formando un solo ovile, sotto la scorta di un solo pastore. È in questa Chiesa che risplende in secondo luogo il carattere della santità, giacché è in questa Chiesa, il cui Capo invisibile è tre volte Santo, che vi ha una dottrina che invita, anima e guida non solo a salvarsi, ma a rendersi santi e perfetti nella pratica eroica di ogni più eletta virtù. È in questa Chiesa che abbondano i mezzi per operare la propria santificazione, giacché è in essa che vi hanno i Sacramenti adatti ad ogni età e ad ogni condizione dell’uomo, per mezzo dei quali la grazia di Gesù Cristo discende copiosa sulle anime a sanare le loro infermità e a comunicar loro la forza e il vigore della vita spirituale, e soprattutto il Sacramento del Corpo e del Sangue istesso del Redentore, che viene a trasfondere nei fedeli la sua stessa vita e per conseguenza la sua stessa santità. È in questa Chiesa che si contano a centinaia, a migliaia, a milioni i santi: i santi apostoli, che sfidando ogni pericolo ed ogni disagio, andarono nei paesi più lontani e più selvaggi per illuminare coloro che giacevano nelle tenebre e nelle ombre di morte; i santi martiri, che sacrificarono generosamente la loro vita, fra i più atroci tormenti per professare sino all’ultimo respiro la fede di Gesù Cristo; i santi Pontefici che portarono sul più alto trono del mondo l’umiltà più profonda e governarono la Chiesa con mano salda e sapiente; i santi re e le sante regine, che tra gli splendori della reggia seppero vivere della vita più mortificata, e recare il vero bene ai loro popoli; i santi anacoreti, che popolarono i deserti e vi menarono la vita più penitente; i santi confessori, che anche in mezzo al mondo rinnegando se stessi e prendendo la croce tennero dietro fedelissimamente a Gesù Cristo; i santi e le sante vergini, che rinunziarono alle nozze terrene per unirsi indissolubilmente allo sposo Celeste e per ispandere sulle umane miserie le tenerezze di una casta maternità; i santi di ogni età, di ogni sesso, di ogni condizione che non cessarono e non cesseranno mai sino alla fine del mondo. È in questa Chiesa, che in terzo luogo risplende il carattere della Cattolicità, giacché è essa sola che ha ricevuto da Gesù Cristo il diritto di espandersi da per tutto, essa sola che ne ha l’attitudine e la forza, essa sola che realmente si espande sino ai confini del mondo. Da quel momento che Gesù Cristo ebbe intimato agli Apostoli : « Andate per tutto il mondo e predicate il Vangelo a tutte le creature; » e gli Apostoli rivestiti di una virtù dall’alto si lanciarono come folgori a portare da per tutto la buona novella, da quel momento l’apostolato non è ristato più mai nelle sue conquiste, immensamente più grandi che non quelle di Cesare e di Alessandro Magno. Per suo mezzo si rende cristiano dapprima il romano impero, e dappoi si rendono tali i barbari. E quando a Vasco di Gama e a Cristoforo Colombo si dischiudono dei nuovi mondi, sono legioni di missionari che si precipitano sulle loro tracce, e l’India, la Cina, il Giappone sono evangelizzati. L’America non ostante i suoi immensi laghi, i suoi immensi fiumi, le sue immense foreste, i suoi immensi pampas è percorsa dalla parola di Dio, sino alla Patagonia ed alla Terra del Fuoco. L’Oceania, questo mondo di isolette sparpagliate nel mare, riceve essa pure la dottrina che ha convertito le più grandi terre. E così sarà sino alla fine del mondo, fino a che non v i sarà più che una tribù di selvaggi da convertire. O secolo del progresso! non pago più del vapore sostituisci l’elettrico, e per suo mezzo fa strisciare i carri sulle vie ferrate e fa volare le navi sul liquido elemento pronte e leggere come il lampo; le tue nuove invenzioni, come le grandi strade per cui erano passate le legioni romane, non serviranno a miglior uso che a rendere sempre più universale la Chiesa di Gesù Cristo. – E finalmente è in questa Chiesa che risplende il carattere della apostolicità, perché è in questa Chiesa che si crede e si insegna, si crederà e si insegnerà mai sempre quello che hanno creduto ed insegnato gli Apostoli; è in questa Chiesa che con una catena non mai interrotta dal Pontefice gloriosamente regnante si va sino a B. Pietro, dai Vescovi che la governano si arriva sino agli altri Apostoli, sicché il Pontefice e i Vescovi, che in essa vi sono e vi saranno sino alla fine del mondo, degli Apostoli sono e saranno sempre i veri e soli successori. Noi fortunati pertanto, che apparteniamo a questa Chiesa, la sola vera che vi sia nel mondo, perché la sola contrassegnata di quelle note caratteristiche, che Gesù Cristo vi ha voluto imprimere, nel suo amore infinito per noi, per far conoscere l’opera sua. Ma infine Gesù Cristo, volendo davvero che il frutto della sua Redenzione potesse essere applicato sino alle ultime generazioni, diede alla sua Chiesa tale una stabilità nell’esistenza e nella dottrina che non avesse a venir meno, né a mutar per poco giammai. Egli disse chiaro: « Edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa giammai: starò con lei sino alla consumazione dei secoli. » Ed egli che ha così parlato fa ben onore alla sua parola. Ed in vero il tempo che tutto distrugge, anche le più potenti istituzioni, anche gl’imperi più giganteschi, anche le monarchie più salde, non ha prodotto né vecchiezza, né infermità, né decadenza nella Chiesa: la sua giovinezza assai meglio che quella dell’aquila, si rinnovella ogni giorno. Più rabbiose che il tempo si sono scagliate contro di lei le potenze della terra congiurate a’ suoi danni. Tutto ciò che di più crudele, di più vile, di più malizioso si poté inventare dagli uomini, tutto fu messo alla prova per batterle i fianchi e farla smuovere dalla sua fermezza: seduzioni, insulti, calunnie, tradimenti, persecuzioni, prigionie, esili, mannaie, roghi, belve feroci… Ma essa ah! come lo scoglio, che in mezzo all’oceano, sicuro di sua stabilità par che miri con occhio di compassione le onde furenti, che nella loro insensatezza lanciandosi contro di esso si credono di sopraffarlo, e poi disfatte dalla sua durezza gli cadono morte ai piedi; così la Chiesa affidata alla parola di Gesù Cristo stette mai sempre sicura di Sua esistenza, e mirò invece con sentimento di compassione caderle ai fianchi l’un dopo l’altro i suoi mortali nemici. Quando Giuliano l’apostata tribolava la Chiesa con quella persecuzione atroce e volpina che porta il suo nome, uno de’ suoi famigliari, il retore Libanio, imbattutosi in un Cristiano con tutto il sarcasmo, di chi vede atterrato il suo nemico gli domandava : « Che cosa fa il vostro Galileo, il figlio del falegname? » E il Cristiano a lui: « Il figlio del falegname fa una bara. » E non andò molto che la Chiesa vide cader in quella bara il suo persecutore. Quello che vedeva allora è quello che già aveva visto per tre secoli, è quello che vede e vedrà sino alla fine del mondo: Gesù Cristo far delle bare e chiudervi dentro l’an dopo l’altro i nemici di lei. No, la Chiesa non si muove nella stabilità di sua esistenza. Gesù Cristo l’ha giurato, e lì è il gran segreto. – E come non si muove nella stabilità di sua esistenza, così non si muove, né si muoverà mai nella stabilità di sua dottrina. In tutti i secoli i suoi figli snaturati si sono recati da lei per domandarle mutazioni. Hanno bussato alla sua porta, ed ella si è affacciata: Che volete da me? — Che tu ti muti. — Io non muto mai. — Muta almeno il tuo Cristo. — Impossibile. — Muta la sua persona. — Impossibile. — Muta le sue nature. — Impossibile. — Muta la sua carne. — Impossibile. — Muta le sue volontà. — Impossibile. — Muta la sua grazia. — Impossibile. — Muta qualche suo Sacramento. — Impossibile. — Muta l’autorità del suo Vicario. — Impossibile. — Muta l’unità del Matrimonio. —- Impossibile. — Muta… — No, io non muto. — Ma pure, tutto muta, tutto è mutato nel mondo: son mutati i tempi, son mutati i governi, son mutate le scienze, è mutata la filosofia, mutata la storia, mutata la medicina. Ma io non muto. — Ebbene, peggio per te. Noi ci distaccheremo dal tuo fianco. E noi… sai chi siamo noi? Noi siamo l’Oriente. Noi siamo la Russia, Noi siamo la Germania. Noi siamo l’Inghilterra. Noi siamo la Svizzera. — Non importa foste ben anche la metà del mondo, staccatevi pure. Ma intendetelo bene: più che voi vi distacchiate da me, sono Io che vi recido come rami secchi ad essere gettati nel fuoco. Così, o miei cari, la Chiesa Cattolica per la perpetua assistenza che Gesù Cristo le ha promesso e che realmente le usa, non ha mutato mai di un ette il suo Credo, neppure allora che le si domandava questo solo ette, e sebbene madre tenerissima dei suoi figli e sposa la più affezionata a quello sposo, che non le chiede altro che figli, col cuore insanguinato ha patito piuttosto l’inesprimibile dolore di rigettare ella medesima dal suo seno dei popoli interi, anziché patire la rottura dell’integrità della fede. E Gesù Cristo ha consolato allora la sua sposa additandole altri popoli, a cui avrebbe dato la vita. – Ma io so bene che qui i nemici della Chiesa intenti sempre, ma indarno, al tentativo di coglierla in contraddizione, si levano su e gridano: « Come? Immutabile la dottrina della Chiesa? Non è vero! E i nuovi dogmi che ella introduce a credere non sono essi una mutazione? Miei cari, che cosa s’intende per nuovo dogma? forse una verità nuova non mai creduta prima? una verità che contrarii o indebolisca le verità già prima esistenti? Niente affatto: ciò non è possibile. Quelle verità che talora la Chiesa, in apparenza di nuovi dogmi, solennemente definisce doversi credere di fede, non sono che verità antiche come tutte le altre, come tutte le altre contenute nelle Sacre Scritture e nella Tradizione apostolica, come tutte le altre rivelate da Dio, come tutte le altre già credute ed insegnate almeno implicitamente, come tutte le altre appartenenti all’integro corpo della dottrina cristiana; ma verità che furono per così dire lasciate giacere nell’ombra fino a che non essendo dubitate o contraddette non corsero il pericolo di non essere credute dai fedeli, e che allora che corsero questo pericolo, dalla Chiesa sommamente sollecita della salute de’ suoi figli, furono tostamente tratte fuori alla luce e col suo solenne definire essere ancor esse verità rivelate da Dio, epperò da doversi credere come tutte le altre, fatte risplendere come il sole in pien meriggio. La Chiesa adunque, per quanto possa parere a taluno che faccia talora dei mutamenti con l’introdurre nuovi dogmi a credere, non muta nulla giammai; essa non fa altro che svolgere sempre meglio il tesoro preziosissimo di quella verità immutabile che Gesù Cristo le ha affidato, non fa altro che mettere in più bella mostra quelle gemme fulgidissime ed infrangibili che circondano la sua fronte. O Chiesa di Gesù Cristo! come esalti per ogni lato il tuo sposo, il tuo sovrano, il tuo fattore! Come canti per ogni verso la sua gloria divina e il suo amore infinito per noi! Fortunato colui che a te appartiene, che in te si affida, che te ama, che te ascolta, che da te si nutre, che in te vive. Egli vive tra le braccia di una madre, che solo alla morte lo staccherà dal suo seno per gettarlo con gaudio tra le braccia di Dio.

III. — Ma dopo tutto ciò è facile di comprendere da qualsiasi uomo che non abbia perduto il senno, come non possa assolutamente essere libero e indifferente l’entrare o no in questa Chiesa, l’appartenervi o il non appartenervi. Ed è perciò appunto che lo stesso Gesù Cristo ha detto: « Se alcuno non ascolta la Chiesa, abbilo per gentile e pubblicano, » vale a dire chi non istà sotto la mia Chiesa, è un infedele che non potrà salvarsi. È perciò che disse ancora agli Apostoli: Chi non crederà a voi ed ai vostri legittimi successori sarà condannato. È perciò che l’apostolo S. Paolo insegnandoci che Gesù Cristo è il capo invisibile della Chiesa: Christus caput ecclesiæ, e che noi siamo le membra del suo corpo: Membra sumus corporis eius, aggiunge che chi si separa dalla Chiesa per seguire l’errore per suo proprio giudizio è condannato. È perciò che S. Cipriano facendo eco alla voce di Cristo e degli Apostoli asserisce che come non sfuggirono al diluvio quelli che non ripararono nell’arca di Noè, così non sfuggiranno all’eterna perdizione coloro che sono fuori della Chiesa; (De unit. Eccl, VI) che S. Agostino dice chiaro che non può pervenire alla vita chi non ha per capo Gesù Cristo e che nessuno può avere per capo Gesù Cristo se non si trova nel suo corpo, ch’è la Chiesa; (De. unit. Eccl, XIX) che S. Gregorio Magno dichiara che la Santa Chiesa crede e proclama che nessuno può essere salvo fuori del suo grembo, che chi è fuori del suo grembo non può ottenere salute. (Moral. XIV, 2) Egli è certo adunque che la salute eterna è nella Chiesa di Gesù Cristo soltanto e che fuori di essa, non vi può essere. Ma se allora è così come si potrà ancora esaltare cotanto la bontà del Cuore di Gesù, perocché se è vero che durante venti secoli di Cristianesimo la Chiesa di Gesù Cristo ha portato e dilatato mirabilmente le sue tende da una parte all’altra del mondo, non è vero altresì che vi sono stati e vi sono tuttora un numero immenso di uomini, i quali non appartennero e non appartengono a lei? Non vi sono in numero immenso degli eretici, dei protestanti, dei scismatici che si sono staccati da lei e da lei vivono separati? Non vi sono in numero immenso dei pagani, dei feticisti, degli uomini ancor selvaggi che ne sono del tutto lontani? Non vi sono insomma in numero immenso infedeli d’ogni maniera? E dunque tutti costoro per non appartenere alla Chiesa andranno tutti perduti? Certamente si può e si deve ammettere che tra di costoro vi saranno non pochi, i quali avranno potuto e potranno conoscere questa Chiesa, e pur conoscendola avranno ed hanno di loro deliberata volontà rifiutato di entrarvi e di farne parte; costoro ben si comprende che siano colpevoli e meritino di essere dannati; ma gli altri? tutti gli altri, i quali non le appartennero, non vi appartengono per nessuna loro colpa? Dovranno anch’essi inesorabilmente perire? Miei cari, non spaventiamoci e non cadiamo troppo facilmente nell’errore, in cui cadono coloro i quali udendo questa sentenza che fuori della Chiesa non v’è salute, pigliano ben anche argomento per negare la carità di Gesù Cristo, la bontà di Dio. Questa sentenza senza alcun dubbio è esatta, esattissima, né deve essere per nulla modificata. Tuttavia fa d’uopo di ben intendere di qual maniera si sia propriamente fuori della Chiesa. E per ben intender ciò non bisogna ignorare che nella Chiesa non vi è soltanto il corpo, ma vi ha altresì l’anima: il corpo è la società esterna, costituita dall’insieme di tutti i fedeli che sono visibilmente uniti nella professione della fede cristiana cattolica, nella partecipazione dei santi sacramenti che nella Chiesa cattolica si amministrano e nella sommissione alla gerarchia nella stessa Chiesa esistente. L’anima invece è la società invisibile di tutti i giusti che vi sono su tutta la faccia della terra, ai quali Gesù Cristo applicò e va applicando gli effetti della sua redenzione, non solo di quelli a cui li applicò e li applica per i mezzi ordinarli della parola divina e dei Sacramenti, la cui dispensazione affidò alla sua Chiesa, ma eziando di coloro a cui li applicò e li va applicando per mezzi straordinarii, a cui Egli nella sua piena libertà e potenza ricorre. Giacché è verissimo che Dio vuol salvi tutti gli uomini e che tutti vengano al conoscimento della verità: Deus vult omnes homines salvos fieri et ad agnitionem veritatis venire; (I Tim, II, 4) è verissimo che Gesù Cristo ha offerto se stesso per il riscatto di tutti gli uomini: dedit redemptionem semetipsum prò omnibus; (I Tim. II, 6) è verissimo che tutti sono morti per il peccato, ma che Gesù Cristo è morto per tutti: Omnes mortui sunt et prò omnibus mortuus est Christus. (II Cor. v, 14, 15). Epperò è verissimo altresì che Gesù Cristo volendo di volontà vera, e non già platonica soltanto, applicare a tutti gli uomini gli effetti salutari della sua redenzione non lasciò, non lascia e non lascerà mai di fare non solo con i mezzi ordinarli posti nella sua Chiesa, ma eziando con mezzi straordinarii tutto ciò a cui lo induce la sua bontà infinita, perché tutti gli uomini per quanto è da lui realmente si salvino. Tanto più poi perché la perdizione degli uomini importa una pena eterna. Perciocché se tale è la pena a cui andranno soggetti coloro che non si salvano, sarà possibile che Gesù Cristo, Egli Salvatore di tutti gli uomini, Bedemptor omnium, vi condanni qualcuno, anche un solo che non l’abbia interamente meritata? Ah! ciò è impossibile. Bisogna che nell’inferno ogni dannato, assolutamente ogni dannato, debba dire: Se mi trovo qui per tutta un’eternità è mia colpa, interamente mia colpa. Se non fosse così, se il dannato potesse in qualche modo anche per la menoma ragione attribuire a Dio la sua dannazione, l’inferno sarebbe un’ingiustizia e Dio non sarebbe più Dio, vale a dire l’Essere perfettamente giusto e buono. Se adunque Dio, Gesù Cristo Uomo-Dio, condanna taluni fra gli uomini all’eterna dannazione, ciò avviene propriamente, perché Egli non ne può fare a meno, ma vi è indotto assolutamente dalla sua stessa perfezione. Ciò vuol dire altresì che Gesù Cristo prima di condannare taluno all’inferno lo giudica e solo allora che lo trova assolutamente meritevole di condanna, solo allora ne pronuncia contro la sentenza. Ed in vero, se negli stessi tribunali di questo mondo i giudici quando si tratta di condannare taluno alla pena di morte od all’ergastolo in vita vanno così a rilento, affine di non condannare a pena sì grave chi non ne fosse del tutto meritevole, che cosa non farà Gesù Cristo? Ma appunto perciò, perché Gesù Cristo possa giustamente condannare taluno alla pena eterna dell’inferno è assolutamente necessario che Egli possa dire a costui: Io ho fatto di tutto per salvarti, e se invece ora sei. meritevole di dannazione eterna ed io te la infliggo, è proprio perché tu, propriamente tu, interamente tu, l’hai meritata ed Io per non venir meno a me stesso debbo infliggertela. Insomma il concetto della dannazione eterna e della giustizia di Dio esigono che Gesù Cristo, Uomo-Dio, non solo sia giusto, ma sia buono, anzi sia talmente amante dell’uomo da avere con lui esaurito tutti i mezzi per salvarlo. Ed ecco perché taluni tra gli stessi Cristiani Cattolici, pur appartenendo al corpo della Chiesa morendo senza appartenere all’anima sua, se ne vanno eternamente dannati. Che cosa non ha fatto, che cosa non va facendo Gesù Cristo per ciascuno di costoro? Non parliamo di quei Cristiani, ai qualiGesù fa sentire ancora tante volte la sua divina parola, di quei Cristiani che tante volte invita alle sue chiese ed a’ suoi Sacramenti, di quei Cristiani, cui mantiene in fondo al cuore la fede, di quei Cristiani che circonda sempre di un ambiente al tutto religioso e che nondimeno datisi in preda a qualche rea passione si abbandonano del continuo alla colpa. Ma parlando anche solo di quegli uomini che hanno interamente rigettata la fede del loro battesimo e si sono dati ad una vita la più empia e libertina, forsechè Iddio di tratto in tratto non li scuote, non li turba, non li commuove? E che cosa sono quelle lagrime della madre, quei gemiti della sposa, quei dolci lamenti d’una cara figliola, quei, crudi rimorsi, quelle improvvise tristezze, quegli amari disinganni, quelle smanie insoffrìbili, che li assalgono, se non colpi di grazia di quel Gesù che vuole salvarli? E quasi ciò non bastasse, non si fa ancora vicino a loro, come dice S. Caterina da Siena, in quell’estremo momento dell’agonia in cui sospesi tra la vita e la morte non sembrano più appartenere alla terra, per tentare una prova estrema, contentandosi anche di un solo sospiro di pentimento, di amore per guadagnarli a sé? Ah! per certo costoro nell’eterna dannazione non potranno giammai incolpare Gesù Cristo e non riconoscere che usò verso di essi un’estrema misericordia. Ma se è vero perciò che vanno dannati taluni tra gli stessi Cristiani Cattolici, non è men vero che Gesù Cristo per chiamare tutti gli uomini a far parte del numero dei suoi redenti, anche quelli che non sono Cristiani Cattolici, adoperi eziandio dei mezzi straordinari, oltre a quelli ordinarli della parola di Dio e dei SS. Sacramenti che ha posto nella sua Chiesa cattolica: non è men vero che senza appartenere al corpo della Chiesa Cattolica v i sono altresì di coloro, i quali appartengono all’anima sua; non è men vero che anche fuori del corpo della Chiesa vi sono, in numero stragrande, di coloro che si salvano, numero, le cui vere proporzioni sono un mistero che Dio solo conosce, ma del quale tuttavia noi possiamo sollevare alquanto il lembo per ammirare sempre più la bontà infinita del Cuore .di Gesù Cristo, E anzi tutto è bensì vero che vi sono in gran numero non solo tra gli acattolici, ma tra gli stessi cattolici dei bambini morti senza battesimo. Costoro senza dubbio non sono ammessi a vedere mai Iddio a faccia a faccia e a godere la felicità di questa contemplazione. Ma ignorando essi il gran bene che hanno perduto, non soffrono per questa privazione e Iddio lascia loro godere in pace di tutti i beni della natura. È adunque solo in questo senso che questi bambini si dicono dannati, in quanto che restano privi per sempre della visione beatifica, alla quale Iddio ha destinato l’uomo sollevandolo allo stato soprannaturale. Ma i bambini, figli degli stessi eretici e scismatici, i quali sono fuori del corpo della Chiesa, rigenerati nel Battesimo e colti dalla morte prima di avere potuto aderire alla ribellione ed all’errore dei loro padri, essi sono certamente salvi, perché furono colti allora che essi appartenevano realmente all’anima della Chiesa. Oltre a questi bambini quanti e quanti altri adulti tra gli eretici e i scismatici vivono con rettitudine e semplicità alla loro credenza, ritenendo in modo invincibile di trovarsi nella verità e nella via del cielo? Costoro, credendo e facendo tutto ciò che la loro buona fede insegna, santificati per mezzo di quei sacramenti che l’errore ha conservato e per le grazie che Dio si compiace di largir loro, non si salveranno essi ancora? E fra gli stessi infedeli, che non hanno conosciuto, che non conoscono per nulla Gesù Cristo, non vi sono di coloro che obbedendo alla legge di giustizia e di rettitudine impressa nella coscienza umana, facendo il bene e fuggendo il male, camminano per la strada della salute? E poiché per salvarsi è sempre necessario il battesimo, avendo detto Gesù Cristo che nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu Sancto non potest introire in regnum Dei, che se alcuno non sarà rinato dall’acqua e dallo Spirito Santo non potrà entrare nel regno di Dio, forsechè Iddio, dice S. Tommaso, non penserà a mandar loro chi li battezzi, come già mandò un giorno l’apostolo Pietro al centurione Cornelio? E quando pure non mandasse loro questo apostolo, affine di salvarli, non li battezzerebbe per mezzo del battesimo di desiderio, che è pure sufficiente alla salute, o per lo meno non lo farebbe loro desiderare implicitamente nel desiderio di tutto ciò che è necessario alla salute istessa? Certamente noi non sappiamo di qual maniera Gesù Cristo vada effettuando queste misteriose giustificazioni,, ma egli è certo, secondo l’insegnamento della teologia cattolica, che esse esistono, e che forse sono in numero immensamente più grande di quello che noi immaginiamo. Vi sono degli uomini, dice S. Agostino, che giacciono nell’eresia e nella superstizione dei gentili, ma anche là il Signore conosce i suoi; poiché nell’ineffabile prescienza di Dio, molti che sembrano fuori della Chiesa, vi sono entro, e quelli che sembrano dentro, ne sono fuori. Egli è di queste anime le quali appartengono alla Chiesa in modo invisibile ed occulto che si forma il giardino chiuso, la fonte suggellata, la sorgente di acqua viva, il paradiso pieno di frutti, di cui parlano le sacre scritture. Ecco perché l’Apostolo S. Giovanni, nelle sue estasi profetiche, vide salva in cielo una turba immensa, che nessuno poteva contare, d’ogni nazione, d’ogni tribù, d’ogni popolo, d’ogni lingua, e intese milioni e milioni di voci che cantavano le lodi di Gesù Cristo, Agnello divino stato immolato per la salute del mondo. È adunque verissimo che come tra coloro istessi che appartengono al corpo della Chiesa vi sono pur troppo di quelli che si dannano e interamente per loro colpa, avendo fatto Gesù Cristo per ciascuno di essi quanto era da sé per salvarli, così è verissimo che molti e molti vi sono che, anche fuori del corpo della Chiesa, ma appartenenti all’anima sua si salvano; è verissimo che anche a loro Gesù Cristo nella sua carità infinita per tutti gli uomini apporta i frutti salutari della sua redenzione. [Il Carmagnola, con questo lungo giro di parole, presenta confusamente un aspetto dottrinale che la Chiesa Cattolica ha precisato con chiarezza nel suo Magistero, fino all’esplicita e chiara lettera Enciclica di S. S.  Pio XII, la Mistyci corporis, e nella risposta che il Santo Ufficio ha dato all’Arcivescovo di Boston (D. S. n. 3868-72) nel 1949, ove è definito in modo infallibile la differenza tra: – 1) coloro che appartengono al Corpo mistico di Cristo (cioè la Chiesa Cattolica) e perciò sono sulla via della salvezza – tra questi coloro che pur volendolo e desiderandolo, purché battezzati almeno di desiderio, conoscenti e praticanti la dottrina cattolica, non lo possono materialmente – e: 2) tra coloro che non appartenendole, come gli eretici, gli scismatici e gli apostati, per i quali non sia possibile invocare l’ignoranza invincibile, sono perciò avviati all’eterna dannazione – n. d. r.]. – Ma intanto, o miei cari, noi che pubblicamente apparteniamo alla società religiosa esterna e visibile fondata da Gesù Cristo, ringraziamolo d’averci dato la parte migliore; perciocché praticamente i beni che vi sono nel Corpo della Chiesa mercé la predicazione della divina parola, la grazia dei Sacramenti e il governo della gerarchia divinamente istituita, sono così grandi che l’essere stati ammessi, senza alcun nostro merito speciale, a farne parte è un beneficio inestimabile, essendoché per tal guisa noi possiamo più facilmente essere certi di appartenere all’anima che ravviva questo corpo. Ma non accontentiamoci, no, di ringraziare di sì gran favore il Cuore di Gesù Cristo, corrispondiamovi ancora debitamente col menare una vita che ci conceda di essere realmente uniti all’anima della Chiesa, e se alcuno di noi per sventura a cagione del peccato privato della divina grazia conoscesse così di non appartenervi, più si affretti quanto è possibile a riacquistare il gran bene che ha perduto, per poter dire con tutta verità: Io appartengo a Gesù Cristo, io sono una pecorella del suo ovile, un abitatore della sua città, un cittadino del suo regno. E voi intanto, o Cuore Sacratissimo di Gesù, fate che noi siamo sempre della Chiesa amorosissimi figli. Ma deh! o Pastore divino, rivolgete altresì uno sguardo di compassione a quelle tante altre pecorelle che sono lontane ancora dal vostro ovile. Con la vostra voce divina chiamatele efficacemente; coll’abbondanza delle vostre grazie fortemente pungetele e spronatele a voler entrar ancor esse a far parte del vostro gregge; sicché si adempia la vostra parola, e non vi sia più che un solo ovile sotto la guida di un solo pastore.