L’APPARIZIONE A LA SALETTE 1846 (I)

Oggi Iniziamo la pubblicazione di un opuscolo che riguarda l’Apparizione della Vergine Maria a La Salette. Vogliamo però innanzitutto tranquillizzare i nostri lettori e smascherare le vergognose contestazioni di parte dei modernisti e pseudo tradizionalisti non-preti lefebvriani (è di questi giorni il raglio di una bestia-asino della fraternità non-sacerdotale di Sion, di uno degli eredi del cavaliere kadosh Lienart e del suo degno “compariello” LEFEBVRE, sul loro bestiario: la tradizione (anti) cattolica), circa il riconoscimento canonico della apparizione stessa. Questi ultimi faziosi [non possiamo infatti ritenerli semplicemente degli ignoranti non informati dei fatti, ma dobbiamo indicarli obbligatoriamente come servi di satana], citano un decreto del Santo Uffizio del 1923 – Pio XI  regnante – che renderebbe falsa l’apparizione stessa, approvata da numerosissimi Vescovi e dalla stessa Autorità massima, nella persona di Pio IX. Il decreto della Congregazione del Santo Uffizio, poneva all’indice un opuscolo edito in Francia che riportava un presunto segreto di Melania, senza imprimatur imposto a garanzia. Riportiamo il testo del decreto, che ognuno può leggere consultando gli Atti della Sede Apostolica, vol. 15 del 1923, p. 287 e seg.:

DAMNATUR OPUSCULUM: « L’APPARITION DE LA TRÈS SAINTE VIERGE DE LA SALETTE ».

DECRETUM

Feria IV, die 9 maii 1923

In generali consessu Supremæ Sacræ Congregationis S. Officii Emi. ac R.mi Domini Cardinales fidei et moribus tutandis præpositi proscripserunt atque damnaverunt opusculum: L’apparition de la très Sainte Vierge sur la sainte montagne de la Salette le samedi 19 septembre 1845. – Simple réimpression du texte intégral publié par Melanie, etc. Société Saint-Augustin, Paris-Rome-Bruges, 1922; mandantes ad quo spectat ut exemplaria damnati opusculi e manibus fidelium retrahere curent.

Et eadem feria ac die Sanctissimus D. ST. D. Pius divina providentia

Papa XI, in solita audientia R. P. D. Assessori S. Officii impertita, relatam sibi Emorum Patrum resolutionem approbavit.

Datum Romæ, ex ædibus S. Officii, die 10 maii 1923.

Aloisius Castellano,

Supremæ S. C. S. Officii Notarius.

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Da questa banale costatazione, si evince che ad essere condannato è semplicemente questo opuscolo francese del 1922, che riportava evidentemente notizie e commenti non autorizzati da un’Autorità competente, e non  – come amano ripetere gli adoratori modernisti del demonio – la veridicità dell’apparizione con relativo segreto direttamente consegnato peraltro nelle mani di S. S. PIO IX . Tanto, per smontare le assurde faziosità ed imbecillità riportate da satanisti che spargono la zizzania della condanna da parte della Chiesa dell’apparizione della Vergine a La Salette, apparizione che evidentemente vogliono contrastare perché da essa vergognosamente smascherati. Noi consigliamo loro di pentirsi sinceramente, lasciare i falsi culti da essi praticati [modernismo della chiesa dell’uomo, sedevacantismi vari, fraternità paramassoniche non autorizzate prive di giurisdizioni e missione, tesisti, etc. etc. ] e tornare alla vera Religione Cattolica, che solo può loro assicurare la salvezza. Chiediamo allo Spirito Santo il dono della Pietà per potere impetrare il perdono per essi per le falsità che seminano.  

Il libricino che ci accingiamo a pubblicare, dall’originale inglese del 1853, è fornito di tutte le autorizzazioni richieste con la testimonianza del Vescovo di Grenoble e la personale costatazione, all’epoca dei fatti, di Mgr. Dupanloup, notissimo prelato francese, poi Vescovo di Orleans.

LA SALETTE (I)

[Some account of the

APPARITION OF THE BLESSED VIRGIN Of LA SALETTE

London 1853]

Le pagine seguenti sono intese come una nuova edizione di un piccolo libro che è stato pubblicato qualche tempo fa, contenente un breve resoconto dell’Apparizione della Beata Vergine riportata da due pastorelli a La Salette in Francia. La precedente edizione è andata esaurite; e, in conseguenza della crescente importanza attribuita all’evento miracoloso in questione, è sembrato bene preparare per la stampa un’altra narrazione più completa. La sostanza della presente pubblicazione è stata tratta dai “Rapporti” sull’argomento di M. Rousselot, Canonico di Grenoble e Vicario generale onorario della diocesi, che fu redatto e presentato al Vescovo di Grenoble, a seguito delle indagini della Commissione ecclesiastica che era stata nominata per esaminare la questione dell’Apparizione. Coloro che sono interessati a notizie più esaurienti di quelle che si troveranno qui, sono pregati di consultare le due opere di M. Rousselot, in cui viene prodotto ogni tipo di documento che l’incredulità possa richiedere per cui tutte le ragionevoli obiezioni vengono respinte; mentre è esposta con chiarezza e semplicità l’unanime adesione che è stata data alla veridicità della storia da tutta la popolazione religiosa della Francia. Nel corso dello scorso anno, i bambini hanno confidato i loro segreti al Papa e il Santo Padre non ha esitato ad esprimere la sua convinzione privata sulla veridicità del loro racconto; e così è stata generale la devozione dei Fedeli a Nostra Signora di La Salette, al punto tale che il Vescovo della diocesi, dopo aver meditato a lungo sul suo dovere di scoraggiarlo, ha concesso poi la sua autorevole autorizzazione; e il 25 maggio di quest’anno, nonostante la sua veneranda età, si fece condurre sulle altezze alpine dove l’evento si era verificato, posando la prima pietra di una chiesa e di un grande edificio destinato all’accoglienza di una comunità di sacerdoti, colà stabiliti per servire l’altare e per fornire assistenza spirituale ai pellegrini che arrivando ogni giorno la richiedano. Di seguito verranno fornite alcune spiegazioni di queste circostanze, come anche una parte delle prove che sono state prodotte a sostegno della verità dell’Apparizione. – Prima di dare un resoconto dell’Apparizione stessa, sarà bene descrivere in poche parole la località in cui si dice sia avvenuta, e dire anche qualcosa sul carattere generale e le abitudini dei due bambini sulla cui autorità si basa il tutto.

Il villaggio di La Salette è situato tra le montagne, a circa quattro miglia dalla cittadina di Corps, che si trova in basso sulla strada alta tra Grenoble e Gap. La scena dell’Apparizione è ancora più in alto, e a circa quattro miglia dalla chiesa di La Salette. Situata in mezzo ad una cerchia di montagne, questa contrada non è praticabile dalle carrozze; la salita deve essere fatta a piedi o a cavallo attraverso un sentiero, che è facile fino a quando si estende il terreno coltivato, ma dopo questo punto diventa sempre più ripido e difficile, anche se non pericoloso, fino ad arrivare sull’ampio pianoro della montagna chiamata Sous les Baisses. Questo spazio pianeggiante, formato da tre montagne che si innalzano dalla stessa base, e che non si separano subito in eminenze separate, ma si elevano insieme, per così dire, per un lungo tratto in salita, si estende da nord a sud, ed è ricoperto di vegetazione; come lo sono anche le tre montagne stesse, che, dopo la loro separazione e fino alle loro cime, non offrono alla vista altro che un’estensione di rada erba verde. Non si vede un sasso, né il più piccolo albero o cespuglio, tutto intorno. In questa ampia pianura tra le colline c’è un piccolo dirupo, formato da due strisce di terreno in salita che passano da nord e da sud, in fondo al quale scorre il piccolo ruscello chiamato Sézia. È nella cavità di questo burrone, sulla riva destra del ruscello, e nel punto in cui ora sgorga la celebre fontana, che la “bella Signora” è stata vista, secondo il racconto. È a circa due o tre gradoni più in basso, sullo stesso lato, che Ella parlava ai bambini; ma è dopo aver attraversato il ruscello, e aver fatto venticinque o trenta gradini in salita all’opposto, che è scomparsa, a poco a poco, dagli occhi dei bambini che l’avevano seguita, e che erano a meno di tre passi da Lei quando si è levata in aria. Nel corso del tempo, quando l’evento aveva cominciato ad attrarre l’attenzione, attirando ogni giorno folle di visitatori sul luogo, sono state erette quattordici croci lungo il percorso che “la Signora” ha attraversato, come indicato dai bambini. Davanti a queste croci è sorta tra i visitatori l’usanza di fare “la via crucis”; e su alcune di esse sono stati di volta in volta sospesi diversi oggetti, come fiori, ghirlande, stampelle, catene d’oro, gioielli, anelli, orecchini, etc., “ex voto” doni di devozione o di gratitudine per i favori ricevuti. I due lati del piccolo burrone erano, prima dell’evento, ricoperti di erba verde come il resto del terreno circostante. Tutta quest’erba, però, è stata da tempo consumata, perché non solo il luogo è stato calpestato dai piedi di innumerevoli pellegrini, ma viene continuamente raschiato e l’erba strappata da coloro che sono ansiosi di portare via come reliquie i fili dell’erba stessa, una zolla di terreno, o qualche pezzo di pietra. Le croci stesse non sono state risparmiate, e vengono quotidianamente tagliuzzate e sgretolate da coloro che vogliono portarne via alcuni pezzi. La fontana, che prima era intermittente e, qualche tempo prima dell’Apparizione abbastanza asciutta, da quel giorno non ha più smesso di presentare continuamente il suo flusso. I pellegrini ritengono che la sua acqua gelida, anche se bevuta in grande quantità e da coloro che sudano più abbondantemente, non produca mai effetti negativi; ed è stata cercata con avidità, portata via e distribuita in quasi tutti i paesi d’Europa. Quanto al mucchio di pietre su cui i bambini hanno visto per la prima volta “la Signora” seduta, esso è letteralmente sparito. La gente della zona ed i pellegrini ne hanno portati via i sassi come monumenti commemorativi: quella pietra, però, sulla quale, secondo la testimonianza, “Ella” si è posata direttamente, è entrata in possesso del curato di La Salette, che la conserva con rispetto. Dagli stessi bambini, è stato pubblicato nell’anno 1848 il seguente resoconto, nel “Rapporto” di M. Rousselot. –

Peter Maximin Giraud è nato a Corps, il 27 agosto 1835, da genitori poveri, che si guadagnano da vivere col sudore della fronte. Suo padre è un carrettiere. Maximin è di piccola statura, con un viso paffuto e giocondo; la sua espressione è dolce, e guarda senza paura e senza arrossire i volti di chi lo interroga. Non può rimanere un istante senza muovere le braccia e le mani. Gesticola quando parla, e a volte è così animoso che colpisce con la mano qualsiasi oggetto si trovi vicino a lui, soprattutto quando il suo interlocutore non sembra essere d’accordo con ciò che dice. Non si arrabbia mai, anche quando viene considerato un bugiardo, come nei lunghi esami che ha dovuto subire. A volte però, esausto dalla stanchezza e stanco di vedere che ogni parola che dice è inutile, si mostra impaziente; … almeno alcuni dicono di averlo osservato così. – Ma, in verità, in queste occasioni i poveri bambini erano stati molestati da una moltitudine di minuscole e cavillose obiezioni, che avrebbero messo in imbarazzo e persino provocato le persone più ragionevoli. Inoltre, quando Maximin ha raccontato la sua storia, e ha risposto alle principali difficoltà che gli erano state contestate, naturalmente desiderava andarsene, e tornare ai suoi giochi.  Prima dell’evento non era mai andato a scuola; non sapeva né leggere né scrivere, e non aveva alcuna educazione. Quando veniva portato in chiesa, spesso se ne scappava per andare a giocare con i suoi piccoli compagni; così, privo di ogni insegnamento religioso, non poteva essere ammesso tra i bambini che il curato stava preparando per la prima Comunione. Suo padre dice di aver avuto grandi difficoltà ad insegnargli a dire il “Pater Noster” e l’ “Ave Maria”, e che ci sono voluti tre o quattro anni prima che li imparasse. Fu solo nell’anno 1848, il 7 maggio, più di un anno e mezzo dopo l’evento, che lui e Mélanie furono ammessi a fare la prima Comunione con gli altri bambini della parrocchia di Corps. Anche se Maximin ha i difetti propri della sua età, sembra essere sempre stato sincero e aperto. Peter Selme, il suo padrone di lavoro a La Salette, alla domanda di M. Rousselot e della commissione episcopale, quando gli chiesero cosa avesse notato nel ragazzo durante i pochi giorni in cui era stato al suo servizio, rispose: « Maximin era un bambino innocente, senza malizia e senza alcun pregiudizio. Prima che partisse per condurre le nostre mucche sulla montagna gli facemmo mangiare un po’ di zuppa; poi gli mettemmo nella sua camiciola e nel sacchetto una scorta di cibo per la giornata. Ebbene, lo abbiamo sorpreso quando ancora in viaggio, aveva già mangiato tutte le sue provviste, avendole condivise in gran parte con il cane; e quando gli abbiamo detto: « Ma cosa mangerai durante il giorno? », ha risposto: « Ma io non ho fame! » Il ragazzo sembra essere semplice e sincero. Riconosce con grande ingenuità la miseria della sua condizione precedente e la mancanza delle sue occupazioni. Quando gli è stato chiesto: « Dove vivevi e cosa facevi prima di andare a servizio da Peter Selme? », ha risposto: « Vivevo con i miei genitori, e andavo a raccogliere letame sulla strada principale ». Si spinge ancora più in là; dichiara i suoi difetti e le sue cattive inclinazioni; così quando M. Rousselot gli disse: « Maximin, mi è stato detto che prima dell’apparizione a La Salette eri un po’ un fanfarone », il ragazzo, con un sorriso e con aria di candore, rispose: « Quello che ti hanno detto è vero; ho detto delle bugie, ed imprecavo mentre lanciavo sassi alle mie mucche quando si allontanavano dal sentiero ». Dall’evento del 19 settembre, Maximin va a scuola nel convento delle Suore della Provvidenza. Passa la giornata qui e vi prende i suoi pasti. La Superiora delle Suore, persona di forte senso, si è fatta carico, con il consenso del Vescovo, della sua educazione. Alla domanda della Commissione su ciò che aveva osservato negli ultimi dieci mesi nel bambino, ha risposto: « Maximin sembra avere solo capacità ordinarie. Gli insegniamo a leggere e scrivere e ad imparare il Catechismo. È tollerante ed obbediente, ma instabile, ama il gioco, è sempre in movimento. Non ci parla mai della vicenda di La Salette; e noi abbiamo evitato di menzionarla per paura di dargli un’idea della sua importanza. Mai, dopo i frequenti e lunghi interrogatori a cui ha dovuto sottoporsi, non ha mai detto a nessuno, né a noi né ai suoi compagni di scuola, come fossero gli esaminatori e quali domande gli  avessero poste. Dopo le sue numerose passeggiate a La Salette con i visitatori, torna a casa in modo semplice e naturale, come se non avesse alcun interesse per la vicenda. Non ha voluto ricevere il denaro che alcuni pellegrini gli hanno offerto; ma quando, in alcune occasioni, è stato costretto ad accettarlo, me l’ha dato fedelmente e non ha chiesto se fosse stato speso per sé o per i suoi genitori. Quanto agli oggetti di pietà, come libri, croci, rosari, medaglie, quadri, che gli vengono regalati, non ne tiene conto: a volte li regala ai primi dei suoi piccoli compagni che incontra; spesso li perde o li smarrisce per la sua naturale incostanza caratteriale. Non è pio per natura; tuttavia va volentieri a Messa, e fa le sue preghiere con buon sentimento quando gli venga ricordato questo dovere. In una parola, il bambino non sembra per nulla impressionato dall’essere stato per dieci mesi oggetto della curiosità e dell’attenzione di una moltitudine così grande di persone; non lo colpisce il fatto che sia la causa primaria del prodigioso movimento di gente estranea a La Salette ». Qualche tempo dopo la Superiora ha detto, davanti alla Commissione nel palazzo vescovile di Grenoble: « Maximin, anche se nell’ultimo anno è stata impiegato quasi tutti i giorni per servir Messa, non ha ancora imparato a farlo bene; né Mélanie può dire perfettamente a memoria gli atti di fede, di speranza e di carità, anche se glieli ho fatti ripetere ad entrambi due volte al giorno ». –

Anche la ragazzina, Francoise Mélanie Matthieu, è nata a Corps, il 7 novembre 1831, da genitori molto poveri. Da giovanissima è stata messa a servizio per guadagnarsi da vivere occupandosi delle mucche. Raramente andava in chiesa, perché i suoi padroni la tenevano occupata nei giorni di domenica e nei giorni di festa come negli altri giorni della settimana. Non aveva quasi nessuna conoscenza della Religione, e la sua debole memoria non riusciva a farle ricordare due righe di Catechismo, tanto che non era stata ammessa alla prima Comunione. Al momento dell’apparizione aveva quasi quindici anni, ma non era ben nutrita, non era forte e non si era sviluppata in proporzione alla sua età. La sua espressione è dolce e gradevole. C’è una grande aria di modestia nel suo portamento e nell’aspetto. Anche se piuttosto timida, non è angosciata o imbarazzata in presenza di estranei. Nove mesi prima del 19 settembre, era al servizio di Baptiste Pra, proprietario di un piccolo terreno in una delle frazioni in cui è divisa La Salette. Questa persona, interrogata sul carattere di Mélanie, la descriveva come di una timidezza eccessiva, e così incurante, che quando dalla montagna tornava a casa di sera, bagnata dalla pioggia, non chiedeva nemmeno di cambiarsi i vestiti. A volte, per la disattenzione del suo carattere, dormiva nella stalla, altre volte, se non fosse stata vista, avrebbe passato la notte all’aria aperta. » Baptiste Pra ha anche deposto che prima del giorno dell’apparizione riportata, Mélanie fosse oziosa, disobbediente e imbronciata, per cui non sempre rispondeva a chi le parlava; ma che da quell’evento era poi diventata attiva e obbediente, e più attenta alle sue preghiere. Erano questi i due bambini che si ritiene che la Santa Vergine abbia scelto per essere portatori di un messaggio di avvertimento al “suo popolo”, ed essere depositari di alcuni misteriosi segreti. Mélanie era già residente, come abbiamo detto, da nove mesi nella parrocchia di La Salette, in qualità di custode delle mucche di Baptiste Pra. Maximin era lì solo da quattro giorni e mezzo prima del sabato 19 settembre. Era venuto per una settimana solo per sostituire il ragazzo che faceva l’allevatore di Peter Selme, e che in quel momento era malato. Peter Selme era stato a Corps per implorarne il padre perché facesse quel servizio, e il giorno di lunedì era andato lui stesso a prenderlo. Anche se nati nella stessa città di Corps, non sembra che i bambini si conoscessero tra loro; o perché i loro genitori vivevano a due estremità opposte di essa, o perché Mélanie, prima di andare al servizio di Baptiste Pra, aveva vissuto due anni come serva a Quet, e altri due a Saint-Luc. Durante i quattro giorni e mezzo che Maximin aveva trascorso a La Salette, sembra che non si sia incontrato con Mélanie fino al venerdì, il giorno precedente l’apparizione. Il suo datore di lavoro ne dà conto in questi giorni, in una dichiarazione redatta, su sua dettatura, da M. Dumanoir, dottore in giurisprudenza, e giudice del Tribunale di Montelimart, che ha fatto molti viaggi a La Salette, vi ha passato un po’ di tempo, e ha preso sul posto informazioni più precise su tutte le questioni relative all’argomento. Peter Selme dice: « Sono andato a prendere Maximin lunedì, e l’ho portato a casa con me; lui è venuto e nei giorni successivi si è preso cura delle mie quattro mucche nel campo che ho sul declivio meridionale del monte Aux Baisses. Questo declivio è suddiviso in proprietà private; il comune di La Salette ha il diritto di pascolo sull’ampio pianoro che si trova nel declivio nord, e sul quale si sono svolti gli eventi di cui parlano Mélanie e Maximin. Temendo che il ragazzino non fosse attento alle mucche, che potevano facilmente cadere in alcuni dei numerosi burroni della montagna, mi sono recato al lavoro in questo campo il lunedì, il martedì, mercoledì e venerdì della stessa settimana. Dichiaro che in questi giorni non l’ho perso d’occhio neanche per un istante, mi è stato facile vederlo in qualsiasi parte del campo si trovasse, perché non c’è un’elevazione che possa nasconderlo. Aggiungo solo che il lunedì l’ho portato al largo di cui ho parlato, per indicargli una piccola sorgente in un piccolo burrone a cui doveva portare le mucche a bere. Le portava lì ogni giorno a mezzogiorno, e tornava subito a mettersi sotto il mio sguardo. Il venerdì l’ho visto giocare con Mélanie, che guardava le mucche di Baptiste Pra, il cui campo è accanto al mio. Non li ho mai viste insieme al villaggio. Sabato 19 settembre sono andato come al solito nel mio campo con il piccolo Maximin. Verso le undici e mezza gli ho detto di portare le mucche alla fontana. Il bambino ha detto: « Vado a chiamare Melanie e ci andiamo insieme ». Quel giorno non è tornato come al solito dopo aver portato le mie mucche a bere: non l’ho visto fino a sera, quando è tornato a casa. – Gli ho detto allora, « Perché – Maximin – come mai non sei tornato nel mio campo questo pomeriggio ». « Oh – mi ha detto lui – ma non sai cosa è successo! ». « Che cosa è successo? » – dissi io – e lui rispose: « Abbiamo trovato vicino al ruscello una bella Signora, che ci ha intrattenuto a lungo, ed ha parlato con Melanie e me. All’inizio avevo paura e non osavo andare a prendere il mio pane, che era vicino a Lei; ma Lei mi ha detto: « Non abbiate paura, figli miei, avvicinatevi; sono qui per darvi una grande notizia », … e poi mi fu ripetuta la storia esattamente come la racconta attualmente ». La dichiarazione continua dicendo: « Durante i quattro giorni e mezzo in cui il ragazzino ha tenuto le mie mucche, non l’ho mai perso di vista, e non ho visto nessuno, prete o laico, avvicinarsi a lui. Mélanie è andata più volte a tenere le sue mucche nel campo del suo padrone mentre Maximin era con me. L’ho vista in piedi da sola; e se qualcuno fosse venuto a parlarle, io l’avrei visto, perché il mio campo e quello di Baptiste Pra sono uno accanto all’altro, sullo stesso versante della montagna, e presentano una superficie piana, in modo che chiunque sia in piedi possa vederli entrambi ». – La conoscenza, quindi, tra i due bambini, non essendo niente di più di quanto abbiamo descritto, è stato semplicemente dovuta al caso della loro similitudine di occupazione che, la mattina del 19 settembre 1846, li ha portati insieme sulla montagna, sul cui ampio crinale si trovava il pascolo del loro bestiame. Avevano sotto la loro responsabilità quattro mucche a testa, oltre ad una capra appartenente al padre di Massimino: la giornata era perfetta, il cielo era limpido e il sole autunnale, chiaro e limpido. Verso mezzogiorno, che i pastori conoscevano grazie al tintinnio dell’Angelus, presero la loro piccola scorta di cibarie e andarono a bere alla fontana che sgorga nella cavità del burrone. Terminato il pasto, scesero al ruscello che scorre lungo il fondo e, dopo averlo attraversato, depositarono i loro sacchetti di provviste vicino alla bocca di un’altra sorgente intermittente, che all’epoca era asciutta; e dopo aver fatto qualche passo, si sdraiarono, contrariamente alla loro usanza, a pochi passi l’uno dall’altro, e si addormentarono. – La storia continua con le parole di Mélanie. « Mi svegliai la prima volta e non riuscii a vedere le mucche. Svegliai Maximin, e gli dissi: “Vieni presto, Maximin, andiamo dietro alle nostre mucche”. Abbiamo attraversato il ruscello, percorso la piccola salita davanti a noi, e abbiamo visto le nostre mucche sdraiate sull’erba dall’altra parte: non erano lontane. Ci siamo girati e siamo scesi a prendere i sacchetti che avevamo lasciato vicino al ruscello. Io vi giunsi per prima; e quando ero a circa cinque o sei passi dal ruscello, ho visto una luce splendente, come il sole, e ancora più luminosa, ma non dello stesso colore; e dissi a Maximin: « Vieni presto, guarda quella luminosità laggiù »; e Maximin scese, dicendomi: « Dov’è? » Indicai con il mio dito la piccola fontana; e quando la vide, egli si fermò. Poi vedemmo una Signora nella luminosità: era seduta e aveva la testa tra le mani. Avevamo paura. Lasciai cadere il mio bastone. Allora Maximin mi disse: « Tieni il tuo bastone; se ci fa qualcosa, gli darò un bel colpo ». Allora questa Signora si alzò volgendosi a destra, incrociò le braccia e ci disse: « Venite, figli miei, non abbiate paura; sono qui per annunciarvi una grande notizia ». Poi abbiamo superato il ruscello, e Lei si è fatta avanti nel punto in cui avevamo dormito. Era in mezzo a noi. Piangeva per tutto il tempo in cui ha parlato: Ho visto chiaramente le lacrime scorrere sul suo viso. Diceva: « Se il mio popolo non si sottomette, sarò costretta a lasciare cadere la mano di mio Figlio. Essa è così forte e così pesante che non riesco più a trattenerla ». Quanto tempo sono stata in pena  per voi? Se desidero che mio Figlio non vi abbandoni, devo pregarlo incessantemente. E voi, voi non rendete conto di questo. « Potete pregare e fare tutto quello che volete, mai potrete ricompensarmi per quello che ho fatto per voi. Vi ho dato sei giorni per il lavoro; il settimo l’ho riservato a me stesso; e voi non lo osservate affatto. » [Fin dalla prima volta che è stata fatta ai bambini l’osservazione che questo cambiamento nella prima persona non era in accordo grammaticale con il resto delle parole della Signora, essi si accontentarono di rispondere che lo dicevano come lo avevano sentito. In verità, questo cambiamento nella prima persona è tanto più impressionante, e ricorda l’ « Io, il Signore » nella bocca di Mosè.] Questo è ciò che tanto pesa sulla mano di mio Figlio. Gli uomini bestemmiano mentre guidano i loro carri, e mettono il Nome di mio Figlio nei loro giuramenti. Queste sono le due cose che appesantiscono il braccio di mio Figlio. Se il raccolto fallisce, è a causa dei vostri peccati: ve l’ho fatto vedere l’anno scorso per le patate; non ci avete badato; al contrario, quando avete trovato le patate rovinate, avete bestemmiato e avete messo il Nome di mio Figlio nei vostri giuramenti: la malattia continuerà, e quest’anno a Natale non ci saranno più “patate”. Io non capivo cosa significasse “pommes de terre”; “Stavo per chiedere a Maximin cosa significasse appunto “pommes de terre”, e la Signora ha detto: “Ah, figli miei, non capite; parlerò in modo diverso”; e poi ha continuato nel “patois”, [dialetto locale]: « Se le patate sono viziate, è colpa vostra: ve l’ho fatto vedere l’anno scorso, e non avete voluto occuparvene; al contrario, quando avete trovato le “patate” … [A Corps, e in molte parti del Dauphiny, le patate sono chiamate “truffes”] viziate, avete bestemmiato, e avete messo il Nome di mio Figlio nei vostri giuramenti. La malattia durerà, cosicché quest’anno a Natale non ci saranno patate. Se avrete del mais, non è detto che lo vediate: tutto ciò che seminerete sarà divorato dagli animali, o, se crescerà, cadrà in polvere quando lo trebbierete. Ci sarà una grande carestia. Prima della carestia, i bambini sotto i sette anni avranno convulsioni e moriranno tra le braccia di chi li tiene; gli altri faranno penitenza con la fame. Le noci diventeranno cattive, l’uva marcirà. Se gli uomini si convertiranno, le pietre e i sassi saranno trasformati in cumuli di grano e le patate saranno seminate su tutto il terreno. Siete regolari nel dire le vostre preghiere, figli miei? » Rispondemmo, tutti e due: « Non molto, signora ». Dovete essere molto assidui, sia al mattino che alla sera: quando non potete fare di più, dite solo un Pater e un Ave; ma quando avete tempo, dite di più. Nessuno va a Messa se non qualche anziana signora: il resto lavora la domenica per tutta l’estate, e d’inverno, quando non sanno cos’altro fare, i ragazzi ci vanno, ma solo per prendere in giro la Religione. Durante la Quaresima vanno come i cani ai negozi dei macellai. Non hai visto il mais viziato, figlia mia? Maximin rispose: « Oh no, signora ». Non sapevo a chi di noi due avesse fatto questa domanda, e ho risposto molto gentilmente: « No, signora; non ne ho visto mai ». « Tu devi averne visto un po’, tu figlio mio – (e si è rivolta a Maximin), una volta al campo chiamato “l’angolo”, con tuo padre. Il proprietario del terreno ha detto a tuo padre di andare a vedere il suo mais guasto. Tu sei andato a vederlo. Hai preso in mano due o tre spighe, le hai strofinate e tutte sono cadute in polvere; poi sei tornato a casa. Quando eri a circa mezz’ora di distanza da Corps, tuo padre ti diede un pezzo di pane e ti disse: “Prendi questo, figlio mio, quest’anno hai ancora del pane da mangiare”. Non so chi ne avrà da mangiare l’anno prossimo, se il grano continua così”, rispose Maximin: « Oh sì, signora, ora mi ricordo, ma prima non me lo ricordavo ». Dopo di che la Signora ci disse in francese: « Bene, figli miei, lo farete sapere a tutto il mio popolo ». Attraversò il ruscello e ci disse una seconda volta: « Bene, figli miei, lo farete sapere a tutto il mio popolo! ». Poi è salita nel punto in cui eravamo andati a cercare le nostre mucche. I suoi piedi non toccavano terra: scivolò lungo le punte dei fili d’erba. L’abbiamo seguita. Io andavo davanti alla signora, e Maximin un po’ di lato, a due o tre passi distante da Lei. E poi questa bella Signora si alzò un po’ in aria (Mélanie qui indicava con la mano l’altezza da terra che voleva esprimere, – circa due o tre piedi) – Quando Maximin raccontò a casa, a Corps, quello che gli era successo sulla collina, la sua famiglia non gli credette; ma quando menzionò l’incidente raccontato sopra, suo padre scoppiò in lacrime, e si convinse che qualche essere soprannaturale aveva parlato a suo figlio. – Poi Ella guardò in alto verso il cielo, poi in basso verso la terra; poi non si vedeva più la sua testa, poi non si vedevano più le sue braccia e poi non si vedevano più i suoi piedi. Non vedevamo altro che una luminosità nell’aria; e presto anche la luminosità sparì. E io dissi a Maximin: « Forse è una grande Santa »; e Maximin mi disse: « Se avessimo saputo che era una grande Santa, le avremmo detto di portarci con lei »; e io gli dissi: « Oh, vorrei che fosse ancora qui! » Poi Maximin ha tirato fuori la mano per catturare un po’ di luminosità; ma non ne è rimasto nulla. E abbiamo guardato a lungo per vedere se potevamo vederla ancora; ed io ho detto: « Non si lascerà vedere, … così non vedremo dove va ». Dopo di che siamo andati ad occuparci delle nostre mucche. – D. C’è un segreto? R. Sì, signore. Ma ci ha detto di non dirlo. D. Di cosa ha parlato? R. Se vi dico di cosa si tratta, scoprirete di cosa si tratta. D. Quando vi ha detto questo segreto? R. Dopo aver parlato delle noci e dell’uva; ma prima che me lo dicesse, mi sembrava che avesse parlato con Maximin; e non ho sentito nulla di quello che gli ha detto. D. Ti ha detto il tuo segreto in francese? R. No, signore; in patois. D. Com’era vestita? R. Aveva delle scarpe bianche, con vicino delle rose ».  [Maximin nel suo racconto aggiunge, « … e per prendere i fiori che erano vicino ai suoi piedi » ]. Le rose erano di tutti i colori. I suoi calzini erano gialli; il suo grembiule giallo; e il suo vestito bianco, con perle dappertutto. Aveva un fazzoletto bianco con rose intorno; un cappello alto, un po’ piegato davanti; una corona intorno al cappello con delle rose. Aveva una catena molto piccola, alla quale era attaccato un crocifisso; a destra c’erano delle pinzette, a sinistra un martello; alle estremità della croce c’era un’altra grande catena, che cadeva come le rose intorno al suo fazzoletto. Il suo viso era bianco e lungo. Non potei guardarla per molto tempo, perché ci abbagliò ». Il resoconto che abbiamo dato sopra è più esatto di quello che è apparso finora, esso dà, parola per parola, ciò che i bambini hanno detto il primo giorno dopo l’evento, e ciò che hanno poi ripetuto tanto spesso. Lo dicono ora come una lezione a loro familiare; ma i padroni di lavoro dei due bambini, i loro genitori, il sindaco di La Salette, gli abitanti di Corps e di La Salette, così come un gran numero di ecclesiastici e di persone illustri, estranei al paese, che hanno visitato il luogo subito dopo l’evento, dopo che i bambini hanno dato fin dall’inizio esattamente la stessa versione dei fatti, se non con la stessa volubilità e facilità, almeno senza la minima variazione nella sostanza, o anche nelle espressioni, sia che siano stati interrogati separatamente o insieme. Nell’opuscolo di M. Rousselot la narrazione di Maximin è data anche così come è stata tratta da lui stesso al suo esame davanti alla Commissione episcopale. Ci sono alcune differenze verbali tra essa e quella di Mélanie; ma tutto il racconto è talmente simile nella sostanza, e anche nella fraseologia, che non è sembrato necessario aggiungerlo all’altro. Rispetto ai segreti che sono stati loro conferiti, essi hanno mantenuto dal primo giorno ad oggi un silenzio impenetrabile, tranne che nel caso del Papa, al quale hanno spontaneamente svelato il loro mistero. Quando “la Signora” ha dato il segreto all’uno, l’altro non ha sentito e ha visto solo le sue labbra muoversi. Il segreto fu dato prima a Maximin, poi a Mélanie; ma l’una non sapeva che l’altro avesse ricevuto un segreto. Solo dopo la fine della visione, Maximin aveva detto a Mélanie: « Si è fermata a lungo senza parlare; ho visto solo le sue labbra muoversi; cosa diceva? Mélanie risponde: « Mi ha detto una cosa, ma non posso dirtela, perché mi ha detto di non farlo ». Maximin rispose subito: « Oh, sono così contenta, Mélanie; anche a me ha detto qualcosa, ma non devo dirla neanche a te ». Fu così che compresero che ognuno di loro era in possesso di un segreto. Questo è forse il luogo per affermare ciò che si sa sulla trasmissione dei loro segreti al Papa. ~ Nell’ultimo anno 1851 i bambini, alla presenza di alcune persone nominate dal Vescovo di Grenoble, scrissero ciascuno su un foglio di carta, che fu piegato e sigillato dallo scrivente, i segreti loro affidati. Il Vescovo diede poi ordine a M. Rousselot e ad un altro sacerdote di portare questi pacchetti sigillati a Roma, e di consegnarli nelle mani del Santo Padre. Questo fu fatto. Sua Santità ruppe per primo il sigillo dell’uno e lo lesse senza fare commenti. Dopo averlo letto, disse: « Non è solo la Francia che ha peccato, ma anche la Germania, l’Italia, tutta l’Europa”. Quando M. Rousselot andò a congedarsi dal Cardinale Lambruschini, il Cardinale disse: « Conosco il segreto; il Santo Padre me lo ha confessato ». Per continuare la narrazione: i bambini rimasero sulla collina fino al momento di condurre le loro mucche a casa, cosa che fecero come al solito; e, dopo averle sistemate nelle loro stalle, cominciarono, secondo le istruzioni che avevano ricevuto dalla “Signora”, per annunciare nel villaggio gli eventi del giorno. « Sabato – dice Baptiste Pra, nella sua dichiarazione – sono venuti entrambi insieme per dirmi cosa avevano visto e sentito sulla collina. Durante questo e i primi giorni non ho dato credito alla storia, e spesso ho esortato Mélanie ad accettare il denaro che le era stato offerto a condizione che mantenesse il silenzio sull’argomento. Lei insisteva nel rifiutarsi di farlo, ed era altrettanto insensibile alle minacce e alle promesse di ricompensa. – Il sindaco di La Salette, tra gli altri, impiegò invano ogni sorta di mezzo per far contraddire la bambina. Non ci riuscì. Le offrì allora del denaro; lei lo rifiutò, e in risposta alle sue minacce disse che avrebbe sempre ripetuto ovunque ciò che la Vergine le aveva detto. Il sindaco l’ha interrogata per un’ora intera durante la domenica 20 settembre. La domenica i bambini sono stati portati al curato, al quale hanno raccontato la loro storia. Era un brav’uomo anziano, di grande semplicità, che sembra aver loro creduto subito, e aver pianto con tenerezza alla loro recita. Si spinse fino a menzionarlo dal pulpito lo stesso giorno, anche se dalla commozione dei suoi sentimenti fu con grande difficoltà che riuscì a parlare dell’argomento. Dieci giorni dopo fu trasferito dal Vescovo ad un’altra parrocchia, e al suo posto fu nominato un sacerdote più giovane. Durante la Domenica tutta la parrocchia era in movimento sul posto. Naturalmente non avevano modo di giudicare se la storia dei bambini fosse vera o falsa; ma una cosa colpì subito tutti coloro che conoscevano la località, cioè che la fontana, che il giorno prima e per qualche tempo era stata asciutta, ora mandava un getto pieno di acqua purissima, non avendo nulla del sapore salmastro del ruscello che ivi scorreva. Questa sorgente continua da allora a zampillare; ed è grazie all’uso dell’acqua che ne scorre, che tanti miracoli meravigliosi sono stati fatti per il miracolo dell’Apparizione. Fu nel corso di questo stesso giorno che il sindaco di La Salette, il cui compito era quello di reprimere un tale scandalo se la storia fosse stata un inganno, sottopose Mélanie ad un’ora di interrogatorio. Le offrì una grossa somma di denaro, la minacciò con il giudizio di Dio, e in definitiva con la prigione, a meno che non dicesse chi fosse stato a spingerla a questo, e non tenesse la lingua a freno. Qualche giorno dopo l’invio a Corps di Maximin, li fece passare entrambi attraverso lo stesso controinterrogatorio, utilizzando gli stessi mezzi, duri o persuasivi, per indurli a scoprire la frode. Egli stesso ha redatto una dichiarazione in tal senso, e dice che i bambini gli rispondevano sempre: « Non possiamo fare a meno di raccontare ciò che abbiamo visto e ciò che abbiamo sentito; ci è stato ordinato di raccontarlo ». Si aggiunga che il resoconto che hanno dato allora era lo stesso in ogni particolare di quello che danno attualmente ». Maximin era stato portato a casa da suo padre a Corps dal suo datore, Peter Selme, durante questa domenica mattina, poiché la settimana per la quale era stato ingaggiato era scaduta. Mélanie è rimasta al servizio del suo datore di lavoro fino a quasi Natale. Nel frattempo la fama di questo evento si stava estendendo in tutte le direzioni e veniva rafforzata dalla notizia che vari miracoli erano stati fatti sul posto, e anche a distanza, grazie all’uso dell’acqua della sorgente; si stava portando sulla scena dell’Apparizione un numero di visitatori, che ogni giorno aumentava. Infine, l’autorità civile, per conto del figlio del magistrato del distretto, ritenne necessario prendere conoscenza della vicenda; e il 22 maggio 1847, otto mesi dopo l’evento, i bambini furono convocati separatamente, e poi insieme, perché essendo ora davanti a un tribunale di giustizia, dicessero l’esatta verità. Furono poi interrogati a parte, uno dopo l’altro, e poi insieme, e minacciati seriamente di punizione in caso di contraddizioni nelle loro dichiarazioni. Il loro resoconto non variava in alcun modo da quello che avevano redatto la prima sera, e che hanno poi dato ad ogni interrogante. Un rapporto di questo esame è stato redatto sul posto, trasmesso all’avvocato del re a Grenoble, e presentato formalmente all’ufficio della corte d’appello di quella città. Il magistrato di Corps, nella sua lettera all’avvocato del re, dice: « Questo resoconto non differisce in alcun modo da quello che hanno dato ai loro padroni la sera del 19 settembre, dopo il loro ritorno dalla collina. Se c’è una differenza, è nelle parole; ma la sostanza è la stessa ».

[1 – Continua]

https://www.exsurgatdeus.org/2020/03/24/lapparizione-a-la-salette-1846-ii/

SALMI BIBLICI: “IN EXITU ISRAEL DE ÆGYPTO” (CXIII)

SALMO 113: “IN EXITU ISRAEL DE ÆGYPTO”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 113

Alleluja.

[1] In exitu Israel de Ægypto,

domus Jacob de populo barbaro,

[2] facta est Judœa sanctificatio ejus, Israel potestas ejus.

[3] Mare vidit, et fugit; Jordanis conversus est retrorsum.

[4] Montes exsultaverunt ut arietes, et colles sicut agni ovium.

[5] Quid est tibi, mare, quod fugisti? et tu, Jordanis, quia conversus es retrorsum?

[6] montes, exsultastis sicut arietes? et colles sicut agni ovium?

[7] A facie Domini mota est terra, a facie Dei Jacob;

[8] qui convertit petram in stagna aquarum, et rupem in fontes aquarum.

[9]  Non nobis, Domine, non nobis; sed nomini tuo da gloriam,

[10] super misericordia tua et veritate tua; nequando dicant gentes: Ubi est Deus eorum?

[11] Deus autem noster in cœlo; omnia quaecumque voluit fecit.

[12] Simulacra gentium argentum et aurum, opera manuum hominum.

[13] Os habent, et non loquentur; oculos habent, et non videbunt.

[14] Aures habent, et non audient; nares habent, et non odorabunt.

[15] Manus habent, et non palpabunt; pedes habent, et non ambulabunt; non clamabunt in gutture suo.

[16] Similes illis fiant qui faciunt ea, et omnes qui confidunt in eis.

[17] Domus Israel speravit in Domino; adjutor eorum et protector eorum est.

[18] Domus Aaron speravit in Domino; adjutor eorum et protector eorum est.

[19] Qui timent Dominum speraverunt in Domino; adjutor eorum et protector eorum est.

[20] Dominus memor fuit nostri, et benedixit nobis. Benedixit domui Israel; benedixit domui Aaron.

[21] Benedixit omnibus qui timent Dominum, pusillis cum majoribus.

[22] Adjiciat Dominus super vos, super vos et super filios vestros.

[23] Benedicti vos a Domino, qui fecit caelum et terram.

[24] Cælum cæli Domino; terram autem dedit filiis hominum.

[25] Non mortui laudabunt te, Domine; neque omnes qui descendunt in infernum.

[26] Sed nos qui vivimus, benedicimus Domino, ex hoc nunc et usque in sæculum.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXIII.

Il profeta celebra le opere mirabili di Dio, quando trasse i figli di Israele dall’Egitto in Palestina; e questo col fine di muovere il popolo a rimanersi nel culto del vero Dio, ed a sperar sempre la sua protezione.

Alleluja: Lodate il Signore.

1. Allorché dall’Egitto usci Israele, e la casa di Giacobbe (si partì) da un popolo barbaro; (1)

2. La nazione Giudea venne consacrata a Dio; e dominio di lui venne ad essere Israele.

3. Il mare vide, e fuggi; il Giordano si rivolse indietro.

4. I monti saltellarono come aridi, e i colli come gli agnelli delle pecore.

5. Che hai tu, o mare, che se’ fuggito, e tu, o Giordano, che indietro ti se’ rivolto?

6. E voi, monti, che saltaste come gli arieti, e voi, colli, come gli agnelli delle pecore?

7. All’apparir del Signore si scosse la terra, all’apparir del Dio di Giacobbe,

8. Il quale in istagni di acque cangia la pietra, e la rupe in sorgenti di acque.

9. Non a noi, o Signore, non a noi; ma al nome tuo dà gloria. (2)

[Gli Ebrei cominciano qui un altro Salmo; ma i LXX e S. Gerolamo ne fanno uno solo.]

10. Per la tua misericordia e per la tua verità; affinché non dican giammai le nazioni: Il Dio loro dov’è?

11. Or il nostro Dio è nel cielo: egli ha fatto tutto quello che ha voluto.

12. I simulacri delle nazioni argento e oro, lavoro delle mani degli uomini.

13. Hanno bocca, né mai parleranno; hanno occhi e mai non vedranno.

14. Hanno orecchie, ma non udiranno; hanno narici, e son senza odorato.

15. Hanno mani, e non palperanno; hanno piedi e non si muoveranno, e non darà uno strido la loro gola.

16. Sien simili ad essi quei che li fanno, e chiunque in essi confida.

17. Nel Signore ha sperato la casa d’Israele egli è loro aiuto e lor protettore.

18. Nel Signore ha sperato la casa di Aronne: egli e loro aiuto e lor proiettore.

19. Nel Signore hanno sperato quelli che il temono: egli è loro aiuto e lor protettore.

20. Il Signore si e ricordato di noi, e ci ha benedetti. Ha benedetta la casa d’Israele, ha benedetta la casa di Aronne.

21. Ha benedetti tutti quelli che temono il Signore, i piccoli coi più grandi.

22. Aggiunga benedizione il Signore sopra di voi; sopra di voi e sopra de’ vostri figliuoli.

23. Siate benedetti voi dal Signore, che ha fatto il cielo e la terra.

24. L’altissimo cielo è pel Signore; la terra poi egli l’ha data a’ figliuoli degli uomini.

25. Non i morti daran lode a te, o Signore, né tutti quei che scendono nel sepolcro. (3)

26. Ma noi che viviamo, benediciamo il Signore da questo punto per fino a tutti i secoli.

(1) I Giudei davano il nome di barbaro a tutti coloro che parlavano una lingua a loro sconosciuta.

(2) Se non è questa, dice La Harpe, poesia lirica, e di primo ordine, vuol dire che di essa non ce ne fa mai; e se volessi dare un modello della maniera in cui l’ode debba procedere nei grandi soggetti, non ne sceglierei un altro: non ce n’è di più compiuti. – Qui comincia un atro salmo in ebraico così come è oggi diviso. È ciò che fa Rabbi Kimchi, sulla fede degli antichi e buoni esemplari. San Gerolamo non lo ammette.

(3) “Nell’inferno”, nello scheol, dimorano le anime dopo la morte; queste anime sono la escluse dal culto esteriore e pubblico; è soprattutto ciò che vuol dire il salmista; la cattiva fede vi vede la negazione dell’immortalità dell’anima. La traduzione letterale sarebbe: Omnes descendentes silentii coloro che vanno nello scheol, nel luogo del silenzio (La Hir.). 

Sommario analitico

Il salmista considera l’uscita trionfante degli Ebrei dall’Egitto e, in questo fatto miracoloso, i trionfi altrettanto straordinari operati in favore della Chiesa. (1)

(1) Questo salmo sembrerebbe essere della stessa epoca dei precedenti, e l’oggetto è quasi il medesimo, cioè il ricordare le meraviglie della potenza di Dio in favore del suo popolo, potenza che fa uscire dal contrasto della vanità degli idoli. –  È facile rimarcarlo, leggendo questo salmo, in forma di dialogo, ma non è facile assegnare il numero di interlocutori e la parte di ognuno di loro. Questo salmo sarebbe ben tradotto nella Vulgata, se molti verbi non fossero al passato, invece del futuro e dell’ottativo, cosa che svia notevolmente il senso di molti tratti (Le Hir.). – Il salmista considera uscita trionfante degli Ebrei dall’Egitto: 

I. – Egli proclama la potenza di Dio.

1° Nell’uscita vittoriosa di una sì grande moltitudine dal mezzo di un popolo barbaro. (1)

2° Nella riunione di questo popolo, del quale Dio si fa un popolo che gli è consacrato in modo speciale (2).

3° Nel passaggio miracoloso del mar Rosso e del Giordano (3);

4° Nel fremito delle montagne e delle colline (4-7);

5° Nell’acqua che scaturisce miracolosamente dalla roccia (8).

II. – Esalta la gloria di Dio:

1° essa non appartiene a Lui solo, – a) che ha liberato il popolo di Israele, come aveva promesso, imposto con il silenzio alle blasfemie dei gentili (10); – b) che fa brillare la sua maestà nei cieli e la sua potenza sulla terra (11);

2° L’esclusione dei falsi dèi della gentilità: a) mostra il loro niente e la loro impotenza (12-15); b) i loro adoratori diventeranno simili a loro (16).

III. – Ammira la bontà di Dio:

1° Che soccorre e protegge – a) tutti i Giudei che sperano in Lui (17); – b) la casa di Aronne in particolare (18); tutti coloro che lo temono (19);

2° Che si sovviene di loro e benedice: – a) tutti i Giudei (20); – b) la casa di Aronne in particolare (20); – c) tutti coloro che lo temono, piccoli e grandi (21); – d) tutta la loro posterità, perché è il Dio di tutti, e da loro in uso la terra, riservandosi il cielo (22-24)

IV. – Promette la riconoscenza del popolo:

1° Non sono coloro che sono morti, o che scendono negli inferi, come gli Egiziani inghiottiti nel mar Rosso, che rendono lodi a Dio (25);

2° Ma il popolo fedele, a cui Dio ha conservato la vita, benedirà Dio per tutta l’eternità (26).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-8.

ff. 1, 2. – Non crediate che lo Spirito Santo non abbia in vista di rammentarci il ricordo dei fatti passati, senza eccitarci a ricercarvi fatti simili ancora da venire … Questi fatti sono per noi delle figure, e queste parole ci costringono a riconoscerci in queste figure. Se in effetti noi guardiamo dentro di noi, con cuore fermo, la grazia di Dio che ci è stata data, noi siamo Israele secondo lo spirito; … i figli della promessa, … la posterità di Abramo; è a noi che l’Apostolo dice: « Voi siete dunque razza di Abramo. » (Gal. III, 29). – Ciò che è successo ai Giudei non era dunque che la figura e l’ombra di ciò che Dio ha fatto per noi. Davide raccontava non meno il passato come l’avvenire, e la storia era pure una profezia (S. Agost.) – Il Re-Profeta offre qui una prova della grande bontà e della dolcezza infinita di Dio. E qual è? Egli comincia con il manifestare la sua potenza; chiede in seguito agli uomini di adorarlo; tale è il senso di queste parole: « Quando Israele uscì dall’Egitto, il popolo giudeo fu consacrato al suo servizio …» Gli uomini non sognano di fare del bene se non dopo aver stabilito il loro dominio; ma Dio invece, comincia Egli ad espandere i suoi benefici. (S. Chrys.). – Il mondo figurato dall’Egitto e da questo popolo barbaro di cui parla il Profeta: 1° il suolo dell’Egitto, quasi per intero, composto da limo; il mondo con i suoi molteplici vizi, composto da fango e melma. – 2° Le acque del Nilo sempre torbide (Gerem. II, 18), simbolo delle acque fangose ove vanno ad abbeverarsi i partigiani del mondo. – 3° L’Egitto non è quasi mai irrorato dalle piogge del cielo: così ne è del mondo, esso è come le montagne maledette del Gelboë, e non è mai bagnato né dalla rugiada, né dalle piogge del cielo. – 4° Il popolo dell’Egitto si è dichiarato il persecutore del popolo di Dio: il mondo nemico di Dio è il persecutore irriducibile dei Cristiani. – 5° Il popolo dell’Egitto fu barbaro e crudele: il mondo non è da meno per la crudeltà, dominato com’è dalle tre furie di cui nulla ne sorpassa la crudeltà: l’orgoglio, l’avarizia, la voluttà. – È a partire da questa liberazione che il popolo giudeo diventa soprattutto il popolo di Dio. È il suo unico santuario, è là che viene glorificato, è là che benedice e rende i suoi oracoli. La Giudea era una volta una contrada impura ed abominevole, ma quando il popolo giudeo né prese possesso, divenne il santuario di Dio; esso fu santificato e consacrato al suo servizio dalle osservanze legali, dai sacrifici, dall’insieme del culto e delle cerimonie che prescriveva la legge. Questo fu anche il trono della sua potenza e come il suo carro di trionfo attraverso i popoli (S. Chrys.) – « Il popolo giudeo gli fu consacrato, ed Israele divenne il suo impero. » Due dono i caratteri della Chiesa: Essa è l’eredità di Dio, la sua porzione scelta; fuori di Essa, né perfezione, né salvezza … La Chiesa è anche come l’incarnazione della potenza di Dio, … e le porte dell’inferno non prevarranno mai contro di Essa; sempre attaccata, sarà sempre vittoriosa (Mgr. Pichenot. Ps du D.). – « Israele diventa il suo impero. » Coloro che sono liberati dalla tirannia del mondo, devono sottomettersi interamente alla potenza di Dio. La gloria perfetta di Dio, è che noi siamo sottomessi alla sua potenza, che vogliamo ciò che Egli vuole, e che tutte le facoltà, i nostri sensi, le nostre opere, siano sotto la sua dipendenza assoluta.

ff. 3-8. – « Il mare lo vide e fuggì, il Giordano risalì alla sua sorgente. » Questi due grandi prodigi, benché separati nella storia da un intervallo di oltre quaranta anni, sono riuniti nello stesso versetto. Senza dubbio perché sono operati sullo stesso elemento, e sono come l’alfa e l’omega del più grande dramma di sempre. Il primo ha introdotto i figli di Giacobbe nel deserto e completato la loro liberazione; il secondo terminò il loro esilio e li mise in possesso della terra promessa (Mgr. Pich.). – Il passaggio del mar Rosso, in cui gli Israeliti furono tutti battezzati sotto la guida di Mosè nella nube e nel mare, (I Cor. X, 1), è la figura del Battesimo dei Cristiani battezzati nella morte di Gesù-Cristo, che ha annegato i loro peccati nel suo sangue. Il passaggio del Giordano, attraverso il quale Giosuè mise il popolo di Dio in possesso della terra promessa: è un’altra figura di ciò che Gesù-Cristo ha fatto lavando il suo popolo dai suoi peccati, per metterli in possesso del cielo, che è la vera terra promessa. – Ciascuno di voi si sovvenga ora di ciò che ha provato quando ha voluto dare il suo cuore a Dio e sottomettere pietosamente il suo spirito a questo giogo pieno di dolcezza, affrancandosi dalle antiche cupidigie della sua ignoranza, quando ha voluto portare il fardello leggero del Cristo, abbandonando e rigettando lontano da sé le azioni carnali di questo mondo in mezzo alle quali soffriva senza frutto, fabbricando mattoni, per così dire, come in Egitto, sotto la rude dominazione del demonio,. Ognuno di voi si ricordi come tutti gli ostacoli di questo mondo si sono dissipati; come tutti coloro che avrebbero voluto dissuaderlo da questo cambiamento non abbiano osato alzare la voce e si sono tutti dileguati vedendo il nome del Cristo esaltato e glorificato su tutta la terra. « Il mare lo ha dunque visto ed è fuggito, » affinché la via che conduce alla libertà spirituale si aprisse davanti a voi senza ostacoli (S. Agost.). – Quando il Creatore comanda alle creature anche insensibili, esse ascoltano la sua voce per l’assoggettamento in cui sono sotto la potenza di Colui che le ha create dal nulla. – Il Profeta in una sublime ampollosità, indirizza la parola alla natura stessa: da dove viene che intorno a me tutto si cancella e si distrugge? Rispondete, fiumi e mare, e anche voi, terra, parlate. « La terra è stata scossa alla presenza del Signore, alla presenza del Dio di Giacobbe. » È Dio che ha fatto tutto, è la sua presenza spaventosa che ha gettato così agitazione e costernazione sulla terra e sulle acque; la verga di Mosè, l’arca santa, non sono che strumenti della potenza adorata. – E quando tutti questi prodigi si rinnovano nell’ordine della redenzione, quale ne è la causa? La grazia risponde: « La terra è stata scossa alla presenza del Signore, alla presenza del Dio di Giacobbe. » – Gettate gli occhi sulla terra, voi che sapete ammirare le sue meraviglie, gioirete nell’indirizzare dei cantici al Signore vostro Dio; vedete compiersi tra tutte le nazioni questi prodigi che sono stati operati in figura e predetti tanto tempo prima dell’avverarsi. Interrogate il mare ed il Giordano e dite loro: « O mare, perché siete fuggito, e voi, Giordano, perché siete tornato indietro? Monti, perché siete saltati come arieti? » O mondo come dunque sono spariti gli ostacoli che vi si opponevano? O milioni innumerevoli di fedeli, come dunque avete rinunciato a questo mondo per convertirvi al vostro Dio? Donde viene la vostra gioia a voi che, infine, intenderete questa parola: « Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il regno che vi è stato preparato fin dalle origini del mondo? » (Matth. XXV, 34). Tutte le cose vi risponderanno, e voi risponderete a voi stessi: « La terra è stata scossa davanti al volto del Signore, davanti al volto del Dio di Giacobbe. » In effetti la terra è stata scossa, ma perché era rimasta nell’inerzia, ed essa è stata scossa per essere più solidamente affermata davanti alla faccia del Signore. (S. Agost.). – Cambiare una pietra dura in un torrente, una roccia in una sorgente d’acqua viva per dar da bere al suo popolo che mancava dell’acqua nel deserto, è un miracolo della potenza di Dio che ci ha resi più credibili nel corso dei secoli, per più di un fatto analogo. – Ma fare uscire le acque della grazia, le lacrime di compunzione da cuori fin là più duri come la pietra della roccia, dissetare e consolare coloro che sospirano i beni celesti nel deserto di questa vita, è un miracolo non meno grande per la potenza, ma ancor più per la bontà di Dio (Duguet). – I sei prodigi che qui ricorda il Profeta si sono rinnovati in senso più elevato, durante la conversione del mondo alla fede di Gesù-Cristo, e si riproducono nel ritorno particolare di ogni peccatore a Dio.

II. – 9-16.

ff. 9-11. – Tutti questi prodigi non avevano avuto come causa i meriti di coloro che ne erano l’oggetto, ma la bontà di Dio e la gloria del suo Nome, come Egli dichiara espressamente: « …  perché il mio Nome non sia disonorato » (Ezech. XX, 9); anche il salmista lo dichiara espressamente: « Non a noi, Signore, non a noi, ma al vostro Nome bisogna dare gloria. » No, il nostro interesse non è quello di avere per noi più considerazione e celebrità, ma far brillare dappertutto gli effetti della vostra potenza (S. Chrys.). – L’Eterno ha fatto tutto per sé medesimo, dice il Saggio; così in tutto ciò che intraprende, è sempre la santificazione del suo Nome e lo stabilirsi del suo regno che Egli ha in vista. Il primo Principio vuole e deve essere anche l’ultimo fine del mondo intero; tutto viene da Lui, tutto deve ritornare a Lui; Egli acconsente a dividere con noi tutti gli altri beni; Egli ci comunica volentieri il suo Essere, la sua potenza, i suoi lumi, la sua libertà, il suo amore, ma non dà la sua gloria; è l’unica cosa che si riserva nelle nostre buone opere, e ce ne lascia tutto il profitto: « Io non darò ad altri la mia gloria. » (Isai. XLVIII, 11). Senza dubbio la vostra luce deve brillare davanti agli uomini, affinché essi vedano le nostre opere buone (Matth. VI, 16); ma ascoltiamo il seguito: « … che essi glorifichino il Padre vostro che è nei cieli. » (S, Chrys.). – « Al Re dei secoli, al Re immortale ed invisibile, a Dio solo, onore e gloria nei secoli dei secoli (I Tim. I, 17), « Non a noi, Signore, non a noi, ma al vostro Nome bisogna dar gloria. » Dateci il perdono, dateci la grazia, cose che abbisognano a dei miserabili; ma per Voi, fonte del perdono, della grazia e dei meriti, riservate la gloria (S. Bern. Serm. in Synod. N° 2 e 3). Tre sono le ragioni che obbligano Dio a procurare la gloria del suo Nome nel conservare il suo popolo: 1° la sua misericordia; è la ragione che Davide mette prima delle altre; Egli non fa appello alla giustizia, non parla di potenza, non invoca le grandezze, non si indirizza alla santità, si rifugia tra le braccia della misericordia. – 2° La sua verità, la fedeltà alla sua parola, alle sue promesse. Il Signore non deve niente a nessuno; ma Egli si è impegnato con noi liberamente, ci ha fatto delle promesse che deve necessariamente realizzare. – 3° Per non dare occasione agli empi di blasfemare il suo Nome, dicendo che Dio o non è potente per compiere le promesse che ha fatto, o che non ha tanta equità né tanta benevolenza per volerlo fare (Dug.). – Questa è la preghiera che noi dobbiamo indirizzare a Dio per la Francia nelle circostanze difficili che ci attraversano. La perpetuità non è assicurata che alla Chiesa in generale ed alla Santa Sede in particolare; ma noi possiamo ottenere che Dio salvi e conservi liberamente ciò che minaccia di perire, che Egli ripari almeno le nostre perdite, ed agitando il candeliere non lo spenga. Quante volte gli empi hanno gridato: « Dov’è il loro Dio? – Che il Dio in cui essi hanno creduto, venga a liberarli dalle loro prigioni, li sottragga alla spada ed ai denti delle bestie. » Questi erano i loro discorsi, ma essi non potevano distruggere coloro che erano appoggiati sulla pietra. Essi scatenavano contro di essi tutto il loro furore, ma i santi Martiri erano senza timore; essi sapevano dove lasciavano i loro carnefici e dove essi andavano. I martiri erano coronati per aver confessato Gesù-Cristo, ed i giudici restavano ciò che essi erano per averlo rinnegato (S. Agost. Serm. III, XXVI, n.° 2). – « Il nostro Dio è nel cielo. » I Santi dicono agli infedeli che adorano gli idoli: voi toccate i vostri dei con le vostre mani, li considerate con gli occhi del corpo, ma il nostro Dio è nel cielo ben al di sopra di noi. Egli ha fatto ciò che ha voluto nel cielo e sulla terra, e continua a compiere le sue volontà in coloro che, benché imprigionati in una carne terrestre, conducono tuttavia una vita celeste. (S. Gerol.). – Risposta alla domanda che precede: « Dov’è il vostro Dio? » Dio è dappertutto, riempie l’universo con la sua immensità, ma risiede e fa principalmente splendere nel cielo, la sua gloria, il suo splendore, le sue magnificenze. E da dove viene che Egli lascia talvolta per lungo tempo i suoi nell’oppressione? È per il fatto che Egli fa tutto ciò che vuole, e che la sua volontà è non solo misura della sua potenza, ma ancora santa come la regola della sua condotta (Dug.). – Gli uomini creati liberi, possono disobbedire momentaneamente alle sue leggi ed ergersi contro di Lui, ma ciò che resiste al suo amore, cadrà sotto il peso del suo braccio terribile; la sua Provvidenza non è meno infallibile, essa giunge sempre alla fine (Mgr, Pich.).

ff. 12-16. – Dopo aver risposto, il Profeta interroga a sua volta; dopo essersi difeso, attacca. Egli ci ha detto in due parole qual sia il suo Dio: Egli è in cielo ed onnipotente; ora, nazioni, ascoltate, ecco i vostri dei: è la bassezza e l’infermità; sono gli dei materiali, gli dei d’oro e d’argento, opere delle mani dell’uomo (Id.). – Perché lo Spirito-Santo prende tanta cura, in mille passaggi delle sante Scritture, nell’insinuarci queste verità, come se le ignorassimo, ed incolparci come se esse non fossero le più chiare del mondo e le più conosciute da tutti, se non perché queste forme corporee, delle quali abbiamo nozione, secondo le leggi della natura, di veder vivere negli animali e sentir vivere in noi stessi, benché plasmate come semplici emblemi, producono tuttavia in ciascuno, non appena la moltitudine comincia ad adorarle, questo grosso errore di credere che se il movimento vitale non è in questi simulacri, non si trova non di meno in una divinità nascosta (S. Agost.). – È facile far condannare l’errore degli idolatri, ma non è facile difendersene. Nessun Cristiano c’è che non condanni questa empietà, ma ben pochi sono i Cristiani che non la imitino, « gli idoli delle nazioni non erano che oro ed argento; » non sono ora le divinità dei Cristiani? (Dug.). –  Non è che le nazioni non abbiano egualmente scolpito degli idoli con il legno e la pietra; ma, nominando una materia preziosa e che è più cara agli uomini, ha voluto far più sicuramente arrossire del culto che essi vi rendono. (S. Agost.). – Ahinoi se, con questo metallo che è l’opera e la proprietà di Dio, noi ci forgiamo da soli una falsa divinità. L’oro è la più comune divinità degli uomini, esercita su di essi un formidabile impero, e l’autore dell’Ecclesiaste ci esorta a non metterci al suo seguito: « Felice, dice, l’uomo che non corre dietro all’oro (Eccl. XXXI, 8). – Camminare alla ricerca dell’oro, è divenirne schiavi. Non siate schiavi del vostro oro, riprende S. Agostino, ma i padroni; possedete l’oro, ma non vi possegga esso. È Dio che ha fatto l’oro per servire voi, e voi per servire Dio. – In vano la croce ha abbattuto gli idoli per tutta la terra, se noi facciamo tutti i giorni degli idoli nuovi con le nostre passioni sregolate; sacrificando non a Bacco, ma all’ubriachezza; non a Venere, ma all’impudicizia; non a Plutone, ma all’avarizia; non a Marte, ma alla vendetta; immolando loro non degli animali sgozzati, ma i nostri spiriti pieni dello Spirito di Dio, e « i nostri corpi che sono i templi del Dio vivente, e le nostre membra che sono divenute membra di Gesù-Cristo, (I Cor. VI, 19) – (BOSSUET, Vertu de la Croix) – « Coloro che li fanno, mettendo in loro la loro fiducia, divengano simili. » È una gloria il somigliare a Dio, ma qui è una maledizione. Pensate a cosa sono questi dei, poiché la più grande disgrazia che si possa subire, è assomigliare a loro. (S. Chrys.). – Questa terribile parola  si compie  di sovente. In generale, ci si assimila, per l’amore, all’oggetto amato, e S. Agostino ha potuto dire in tutta verità: « Amate la terra, allora siete terra. » Tali sono al presente molti Cristiani, dice Sacy, idolatri delle ricchezze, dei piaceri del mondo e di essi stessi, che illuminati ed attivi per tutto ciò che possa soddisfare le loro differenti passioni, sembrano essere senza luce e senza movimento per tutte le cose della Religione e della salvezza. La grazia di un Dio incarnato è stata da sola capace di ristabilire negli uomini l’uso della loro bocca, per render pubblica lode e confessare la loro miseria; dei loro occhi, per vedere la verità e la loro follia; delle loro orecchie, per ascoltare la voce di Dio; delle loro mani e dei loro piedi, per agire e camminare conformemente alla sua volontà; della loro gola, per innalzare grida salutari verso Colui che è sempre pronto ad esaudirli. »

III.— 17-26.

ff. 17-19. – « La casa di Israele ha riposto la sua speranza nel Signore. » La speranza che si vede, non è speranza; perché ciò che uno vede, come lo spera? E se speriamo ciò che non vediamo ancora, lo attendiamo con l’aiuto della pazienza (Rom. VIII, 24, 25); ma perché la pazienza perseveri fino alla fine, « … il Signore è il suo appoggio ed il suo protettore. » Quanto agli uomini spirituali che istruiscono gli uomini carnali in uno spirito di mansuetudine, perché essendo essi superiori, pregano per coloro che sono inferiori ad essi, e ciò che essi vedono già, possiedono già ciò che fa ancora l’oggetto della speranza dell’uomo carnale? Non è così, perché la casa di Aronne ha messo la sua speranza nel Signore. » Dunque, è affinché tendano anche con perseveranza verso ciò che è davanti a loro, perché corrano con perseveranza fino a conquistare Colui dal quale essi stessi sono conquistati (Filip. III, 12, 14), e conoscano Colui come essi stessi sono conosciuti (I Cor. XIII, 12),  « Dio è loro appoggio e loro protettore. » (S. Agost.). – I veri Cristiani, che sono la vera casa di Israele, l’Israele di Dio, mettono la loro speranza nel Signore che li sostiene e li circonda con la sua protezione. – I ministri degli altari, i Sacerdoti del Signore, che sono la vera casa di Aronne, sono ancor più obbligati dei comuni fedeli, a mettere la loro speranza in Dio. Essi cercano dappertutto degli appoggi, moltiplicano le forze del potere umano per non mancare mai di soccorso, di protezioni di difesa. Cosa succede prima o poi? Tutta questa macchina della potenza mondana si inceppa, si sgretola, e non resta a coloro che l’hanno impiegata, se non confusione, invidia, disperazione. Ma perché dunque la fiducia in Dio è così rara? È perché la fede, la vera fede è di estrema rarità sulla terra. Non si conosce né Dio, né Gesù-Cristo, né il Vangelo, né gli esempi dei Santi; ci si comporta da pagani, e senza rapporto alle verità in cui ci si lusinga di credere. Questa credenza è come una teoria pura o una reminiscenza vaga che non influisce sulla condotta come le speculazioni geometriche. Si cammina così fino all’ultimo giorno, ed allora tutto manca, la fede non dice nulla, o essa non dice nulla se non per allarmare, turbare, disperare, e si muore senza poter dire con il Profeta: « … Io spero nel Signore, Egli sarà mio appoggio e mio protettore. » (Berthier).    

ff. 20-24. – Dio si è ricordato di noi anche nel tempi in cui lo abbiamo obliato. Cosa vuo dire: « Egli li ha benedetti? » Egli li ha colmati di innumerevoli beni. L’uomo può anche benedire Dio, quando dice con il salmista: « La mia anima benedice il Signore (Ps. CII, 1). Ma le sue benedizioni non hanno utilità che per lui; egli aumenta la propria gloria, senza aggiungere nulla a quella di Dio; al contrario, quando Dio ci benedice, è la nostra gloria che se ne accresce, senza che Egli guadagni nulla per se stesso. Dio, in effetti, non ha bisogno di nulla, e in queste due ipotesi, tutto il vantaggio è per noi soli. (S. Chrys.). – Le benedizioni di Dio si sono diffuse dapprima sulla casa di Israele e di Aronne, che per primi ricevettero la grazia del Vangelo, ma non c’è stata nazione esclusa da queste benedizioni; esse si sono diffuse poi su tutti senza eccezione. (S. Chrys.). – Nessuna differenza davanti a Dio tra coloro che sono grandi e considerati nel mondo, e coloro che sono di nascita oscura o di modesta condizione, tra coloro che sono avanzati in età e coloro che sono ancora nell’infanzia; nessun’altra distinzione che quella che la sua grazia mette tra essi. Colui che lo serve con più amore e fedeltà, è il più grande davanti a Lui. (Duguet). –  « Che il Signore dia crescita a voi ed ai vostri figli. » E così fu, perché il numero dei figli di Abramo si è accresciuto, essendo le pietre stesse servite a suscitarne dei figli. (Matth. II, 9). L’ovile si è accresciuto di pecore che all’inizio erano estranee, affinché non ci sia che un solo Pastore. La fede si è sviluppata tra le nazioni, si è visto crescere il numero e di saggi Pontefici, e di popoli sottomessi, il Signore aveva moltiplicato i suoi doni, non solo sui Padri che si sono avanzati verso di Lui alla testa degli imitatori del Cristo, ma ancora sui loro figli che hanno piamente seguito le tracce paterne (S. Agost.). – Le benedizioni dell’antica legge erano temporali, ma le benedizioni della nuova legge sono tutte spirituali e molto più sante: le prime consistevano principalmente nella moltiplicazione dei figli e delle greggi, queste consistono soprattutto nell’accrescimento delle grazie e delle virtù (Dug.). – Benedizione efficace ed onnipotente è l’essere benedetto da Colui la cui parola ha creato i cieli. – Un errore grossolano è immaginare che il Profeta, dicendo : « il Cielo è al Signore, e la terra agli uomini, » divida in qualche modo l’impero dell’universo tra Dio, che ha per sé il cielo, e gli uomini che hanno per essi la terra, di modo tale che questi siano dispensati da tutti i doveri verso Dio. Poiché Dio ha fatto il cielo e la terra, queste due parti dell’universo sono entrambe sue, e tutto ciò che vi si trova, deve obbedirgli. Se ha dato la terra agli uomini, è per usarne, e non per gioirne come di un bene indipendente da Lui. (Berthier). 

ff. 25, 26. – « I morti non vi loderanno, né coloro che scendono nella tomba. » Si apra questa tomba, sostenuta da sì magnifiche colonne, si sgretoli questa pietra di marmo; si troverà un cadavere che fa orrore, delle ossa esalanti un odore fetido, delle ceneri, dei vermi! La tomba ha dell’apparenza, ma ricopre un morto il cui aspetto ispira orrore e spavento. Ora, voi pensate che questo morto possa dire: io benedirò il Signore? No, perché sulla testimonianza della Scrittura: « i morti non vi loderanno, Signore né tutti coloro che discendono nella tomba. Aprite il Vangelo, vedrete il Signore che indirizza queste severe parole al demonio: « Taci. » (Marc. I, 25). Perché? « Perché i morti non vi loderanno, né tutti coloro che scendono nella tomba » Nessuno può lodare colui che non ama, e se la lode esce dalla bocca di un nemico, essa ha per oggetto la virtù che ama fin nel suo nemico. Colui che pecca diviene il nemico di Dio, e non può dunque né lodare Dio, né lodare la virtù di Dio, perché la lode è un bene del quale il peccatore non può essere l’oggetto. La lode che è negata dai sentimenti del cuore, è un insulto, una derisione piuttosto che una lode; vorreste che la menzogna diventi l’apologista della verità, e che la lode di Dio esca dalla stessa fonte che la bestemmi e l’oltraggi? (S. Agost. Serm. III, LXV, n° 1). – I morti di cui parla qui il salmista non sono coloro che hanno lasciato questa vita, ma coloro che erano morti nelle loro empietà o che avevano guazzato nel crimine. Per colui che non ha in prospettiva che una morte immortale, già da questa vita cessa di essere vivente, egli è già morto. Anche il Profeta non dice in generale coloro che vivono, ma : « noi che viviamo. » Egli si esprime qui allo stesso modo di San Paolo in queste parole: « noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono nel sonno della morte (I Tess. IV, 16). L’Apostolo dicendo « noi che viviamo, » non permette di applicare queste parole a tutti i fedeli, ma li restringe a coloro la cui vita è simile alla sua; ed anche con queste parole: « … noi che viviamo », devono intendersi di coloro che, come Davide, passano la loro vita nella pratica della virtù. « Ora e nei secoli dei secoli. » Nuova prova che il Salmista vuole apportare di coloro la cui vita è stata una sequela di buone opere; perché nessuno quaggiù vive nei secoli dei secoli, ma è un privilegio esclusivo di coloro che meritano la vita gloriosa ed eterna. (S. Chrys.).

PREDICHE QUARESIMALI (III 2020)

[P. P. Segneri S. J.: QUARESIMALE – Ivrea, 1844, dalla stamp. Degli Eredi Franco – tipgr. Vescov.]

-XIX-

NEL MERCOLEDÌ DOPO LA TERZA DOMENICA.

« Quare Discipuli tui transgrediuntur tradiziones saniorum? non enim manus lavat” antequam panem manducent. ».

[Matth. XV, 2]

I. Se fa mai vero che da que’ medesimi fiori, da cui le pecchie trarrebbono un dolce nettare, traggano veleno i ragni, eveleno putrido, e veleno pestilenziale, ben apparve oggi chiarissimo nelle azioni dei santi Apostoli. S’erano dati i meschini a seguitar Cristo; e però vivendo in somma derelizione, in sommo dispregio, nessun pensiero prendevano di sé stessi, né della loro acconcezza, né de’ lor agi. Chi crederebbe però che ancor in ciò si trovasse di che accusarli? Fu in loro notato (mirate che gran delitto!), non dirò già che gustassero cibi immondi, non dirò già che toccasser cadaveri inverminiti, ma solo che talvolta lasciassero di lavarsi scrupolosamente le mani innanzi al cibarsi, quantunque, a tutto rigore, di solo pane: non manus lavant antequam panem manducent. E laddove ciò si sarebbe in poveri pescatori potuto ascrivere a santa semplicità, fu censurato qual vilipendio di riti, qual dispregio di tradizioni: tanto è ver che l’umana malignità sa d’ogn’erba salubre stillar veleno. – Eppur qual è, Cristiani miei, se non questa, quella malignità, eh? oggi tanto fra noi trionfa, e che qual peste appiccatasi ad ogni lato della città, va per le piazze serpendo, va per le case, va per le Corti, e piaccia a Dio che talor non entri ne’ chiostri anche più murati? Se uno è umile, e però tollera pazientemente ogni offesa, si dice ch’egli è un codardo; se astinente, si dice ch’egli è un avaro; se devoto, si dice ch’egli è un ipocrita; se pudico, si dice ch’egli è un melenso; e così da tutto si trae feconda materia di maldicenza, quasi che ciò ridondi a grande onor nostro, né più confidi verun di noi d’innalzarsi, se non con l’altrui depressione; né di risplendere, se non che dell’altrui discoloramento. E non è cotesta, uditori, una gran viltà? Dobbiamo mirare a divenir noi perfetti, non a far che gli altri appariscano difettosi. – E però contentatevi ch’io stamane tutto m’adoperi a mortificar queste lingue sì libere e sì loquaci, che tra noi sono, e ad impetrare qualche modesto silenzio da’ maldicenti, con esortarli a far quel degno proposito che stabilì dentro suo cuore il buon Davide quando disse: non loquatur os meum opera hominum(Ps. XVIII. 4). Le opere proprie degli uomini quali sono? Le virtù loro? Non già: sono i lor vizi, perché le virtù si han da Dio. Questi dunque, che amano di parlare continuamente de’ fatti altrui, procedano in simil forma: dicano ciò che gli uomini hanno da Dio: tacciano ciò che sol hanno da sé medesimi: e così avverrà che di maldicenti si cambino in lodatori. Temo bensì che in sentirsi costoro da me sferzare, si adireranno, e ne faranno a me misero facilmente portar le pene, con dire tutto il mal che sapranno d’una tal predica, loro odiosa. Contuttociò non voglio io mancare al mio debito; e purché questi non abbiano a mormorare più di alcun altro, io mi contento che a piacer loro si sfoghino contro me, che son degno d’ogni improperio.

II. E prima, bella gloria in vero è la vostra, o mormoratori, mentre così francamente ve la sapete voi prendere contro d’uno, il quale è lontano; né però udendo ciò che da voi viengli apposto, come non può giustificar la sua causa, così né anche può ribatter la vostra garrulità. Fece anticamente Dio nel Levitico un suo divieto, di cui voi forse non terrete gran conto; ma io per me, perché vi ho qualche interesse, lo stimo assai rilevante, assai riguardevole; e questo fu, che niun del popolo osasse dir male alcuno ad un uomo sordo : non maledices surdo (Lev. X. 14). Ma perché ciò? Han dunque i sordi per avventura a godere fra tutti i miseri un privilegio speciale, sicché si possa dir villanìa, quanto piace, ai loschi, ai monchi, ai malfatti, agli scilinguati, ed unicamente non possasi dire a’ sordi? No certamente, perché già per altro si sa la carità voler essere universale: universa delicta operit charitas (Prov. X. 12). Contuttociò, se noi diam fede agl’interpreti, mostrar Dio volle de’ sordi maggior la cura, perciocché sembra una crudeltà troppo strana voler pigliarsela contro a chi non udendo le accuse dategli, nè anche può per conseguente difendersi o discolparsi. Ma dite a me: non è fors’egli, o mormoratore, un medesimo il caso vostro? Surdo maledicere est (così moralizza il pontefice san Gregorio) absenti et non audienti derogare(3 p. Past. adm. 36) . – Voi vi ponete entro quel vostro ridotto a censurare liberamente le azioni di chi non v’ode; e non vi accorgete che ciò non solo è mostrare un’audacia somma, ma è commettere un’ingiustizia spietata? Credete voi che se colui, contra il quale arrotate i denti, vi fosse innanzi, osereste voi favellarne in sì ria maniera? Voi perdonatemi (s’io già comincio a valermi di formole un poco austere), voi dico, chiaramente la fate da’ traditori, perché assalite l’avversario alle spalle: cum ab eis recessissem, diceva Giob. (XIX. 18), cum ab eis recessissem, detrahebant mihi. S’egli ha difetti, che a voi dispiacciano tanto, andate dunque animosamente, investitelo a faccia a faccia, come fe’ Natano a Davide (2 Reg. XII. 1), Aia a Geroboamo (3 Reg. XIV. 7), Michea ad Acabbo (lbid. XXII. 17): rappresentategli la iniquità dei suoi fatti, ammonitelo, riprendetelo, rampognatelo; che in cotal guisa acquisterete gran merito presso Dio. Ma mentre solo il vituperate in assenza, qual segno è ciò, se non che voi, come codardi mastini, gridate al lupo quand’egli già con la pecorella partitosi infra le zanne, già rinselvato nel bosco, già ascososi nella buca, più non può udirvi? – Benché piacesse a Dio che imitaste quel ch’or dicea. Conciossiachè, se mirate a sì fatti cani, vedrete ch’eglino tacciono, è vero, quando il lupo è presente; canes muti, come li chiama Isaia (LVI. 10), canes muti, non valentes latrare; ma non però punto gli approvano que’ suoi furti, nol lisciano, nol lusingano, e molto meno gli tengono quasi mano a sbranar la greggia. Ma quante volte voi, che lontani mormorate con tanta animosità di quel personaggio, o privato o pubblico, perch’egli ha pratiche allato di mal affare, perché giuoca, perché getta, perché non si applica punto alle cure impostegli; quando poi gli siete presenti, voi lo adulate per questi eccessi medesimi di cui prima il mordeste tanto; gli commendate le sensualità, come sfogo di una spiritosa natura; il giuocare, come sollievo; il gettare, come splendidezza; né dubitate di esortarlo a distrarsi alquanto più spesso da quei negozi, a cui voi dite maledici che non bada! E non è questo usare al prossimo vostro un torto evidente? – lo so che veramente grand’anirno si richiede per ammonire uno in faccia de’ suoi difetti, massimamente quand’egli sia collocato in fortuna eccelsa. Converrebbe essere, com’era appunto un Elia, sprezzator di tutto; e che, contento di una ruvida pelle d’intorno a’ lombi (4 Reg. 1. 8), faceva lieto ad un torrente i suoi pasti con quel pan duro di cui lo regalavano i corvi (3 Reg. XVII. 5). Ma se non vi dà cuore a tanto, lasciate almeno di lacerare in assenza chi neppure ardite in presenza di stuzzicare. Conciossiachè, come san Girolamo disse (ep. 4ad Rust.), la verità non ama star ne’ cantoni; veritas non amat angulis; ed il far così non è altro che imitar le talpe, imitare i topi, i quali mordono sì, ma sol di nascosto; o è piuttosto fare, come l’Ecclesiaste affermò di alcune serpette, le quali maliziosamente appiattatesi in fra l’arene, quivi se ne stanno, senza sibilo e senza striscio, a spiar chi passi, per poter incauto addentarlo nelle calcagna. Si mordeat serpens m silentio, nihil eo minus habet, qui occulte detrahit(Eccl. X, 11). – E vi darà di poi l’animo di restituire ad altrui con facilità quella buona fama che a sorte gli avrete tolta? Voglioche v’impieghiate ogni vostro studio, ogni vostro sforzo: oh quanto tuttavia sarà duro che vi riesca! Mosè volea far conoscere a Faraone ch’egli era vero ministro del suo Signore. Però che fece? Aveva in mano una verga; la gettò in terra, e subito la fece trasformare in orribil serpe. Ma che? Non sì tosto poi la ritolse in mano, che la fece di serpe ritornar verga. Gl’incantatori di Faraone vollero far anch’essi una prova eguale; ma non poterono: perché giunsero bensì presto a cambiare le verghe in serpi ma quelle serpi si rimasero serpi, nè mai di serpi ritornarono verghe (Exod. VII. 10 et seq.). Or avete notato? dice qui tosto Origene acutamente (Hom. 13 in c. 22 Num.): ecco fin dove arrivò la virtù diabolica: poté fare del bene male; ma non poté poi rifare del male bene. Non petuit virtus dæmoniaca malum, quod ex bono fecerat, restituere in bonum: potuit ex virga serpentem facere, virgam autem reddere ex serpente non potuit. Or figuratevi che cosi debba succedere ancora a voi. Potrete voi di leggieri far apparire quell’uom dabbene qual orrido serpentaccio; ma come farete a rendergli di poi giusta l’antica forma sarà agevole a fare ch’uno di casto sembri un impuro; ma come a far dipoi che d’impuro si ritorni di nuovo ad apparir casto? Vi sarà agevole a fare ch’un di devoto sembri un ipocrita; ma come a far dipoi che da  ipocrita si ritorni di nuovo a parer devoto? I mali uditi dì altrui, son creduti subii; pronis auribus excipiuntur; ma le ritrattazioni, oh quanto sempre faticano a trovar fede, almeno perfetta! Calumniare dìcea quell’infame politico, calumniare che sarà finita per sempre. Semper aliquid remanet. La serpe resterà serpe. E poi chi non vede che non mai del tutto potrete al prossimo vostro rifare i danni? Restituzioni di fama! restituzioni di fama! Oh  quanto sono difficili a farsi giuste! Non può qui dirsi, come si fa quando trattasi di danaro: si quid aliquem defraudavi, reddo quadruplum(S. Luc. XIX. 8). Quale adunque, qual è la regola vera a fuggir gli scrupoli? Non è tacciare; è tacere: non loquatur os meum opera hominum.

III. – Ma io fin qui solo ho detto il minor de’ mali, ch’è l’aggravio fatto a colui di cui mormorate; aggravio finalmente non d’anima, ma soltanto di riputazione caduca, benché stimabile: maggior mal è, che a color, con cui mormorate, voi ponete fra’ pie’ così grave intoppo, che potrìa fargli agevolmente trascorrere in perdizione. Conciossiachè state a udire. O color, con cui mormorate, son uomini empj, o pur son uomini pii. Che mi rispondete ? Son uomini empj? Oh quanta festa verran pertanto a far essi in udir da voi che loro nel male non mancano de’ compagni! oh quanto conforto prenderanno! oh quanto animo! oh quanto ardire! e, quel ch’è forse anche peggio, oh quanto, per le cadute da voi narrate, oh quanto dico, faranno ad altrui d’insulto! Udito ch’ebbe il re Davide il fier successo dello sventurato Saule’, rimaso estinto su le montagne di Gelboe con tutti e tre i suoi figliuoli, guerrieri sì valorosi, pregò coloro, i quali ciò gli fér noto, che per pietà non ne lasciassero giungere le novelle agli abitatori di Geth ed a’ popoli di Ascalone, per non dar maggiore occasione agli incirconcisi d’imbaldanzire nelle calamità d’Israele. « Nolite annunciare in Geth, neque annuncietis in compitis Ascalonis, ne forte lætentur filiæ Philisthiim, ne exultent filiæ incircumcisorum » (2 Reg. I. 20). – Ma voi che fate, o mormoratori, che fate, quando in quella vostra combriccola vi ponete sì bellamente a raccontare le malvagità di quel personaggio ecclesiastico, le fragilità di quel cherico, il fasto di quel claustrale, se non che dare a gl’incirconcisi occasione di un giubilo più perverso? Gioito avrebbero gli abitatori di Geth, gioito avrebbero i popoli di Ascalone, questo è verissimo; ma di che? Di un mero infortunio; quei ch’odon voi, si rallegrano d’un peccato. Ed oh quante volte avvien però che per li mali portamenti di un solo, da voi descritti, si pongon subito a dire infamie di tutto un Órdine intero! e chi afferma ch’è necessario mortificarlo, o chi replica che dovrebbe scacciarsi, e chi ripiglia che si dovrebbe spiantare, e chi non teme di por sacrilego ancora la bocca in Cielo, e di riprovarne le leggi. Pur troppo avrete con l’esperienza osservato che non così un’importuna cicala, col garrir ch’ella faccia da un arboscello su l’ore estive, solleva ogni altra ad emulare lo strepito ed a moltiplicare lo stordimento, come un sol empio, che mormori, sveglia in tutti un egual talento insoffribile di mal dire. Cora’esser può che voi pertanto non dubitiate addossarvi un fascio così pesante d’iniquità, a cui somministrate occasione?

IV. – Che se pur coloro, co’ quali voi ragionate, sien tutti pii, e come tali abbondano le bruttezze da voi contate, non ne trionfino, vi date creder però che non poniate agevolmente ancor essi in un grave rischio di prevaricar quanto gli empj? V’ingannate assai, v’ingannate: perciocché non solo può avvenir ch’essi imparino molti mali, che loro fin allora non erano sorti in mente! ma oltre a ciò, è facilissimo che, sentendo biasimar altri per quei difetti, di cui sé conoscono esenti, comincino interiormente a vanagloriarsi; e che, ad imitazione del Fariseo, concepiscano anche eglino stolti sensi di compiacimento, di albagia, di alterezza, di presunzione, quasi che non sien uomini come gli altri: non sint sicut cæteri hominum (Luc. XVIII. 11). – È facile che dispregino le persone da voi riprese; è facile che se ne alienino, s’erano loro accette; è facile che se n’adombrino, se sieno lor confidenti; e, se non altro, è facile che, con danno sempre notabile della carità cristiana, diano precipitosa credenza alle accuse altrui, senza aver prima ascoltate ambedue le parti. – E questo è quello che volle intendere il santo profeta Davide, quando disse: sedens adversus fratrem tuum loquebaris, et adversus filium matris tuæ ponebas scandalum(Ps. XLIX. 20). Tu, dicevaegli, sedens; ch’è quanto dire, non alla sfuggita, non leggermente, non brevemente, ma molto posatamente ti ponevi a sparlare contro il tuo prossimo: sedens nell’anticamera di quel principe a cui servivi; sedens sopra de’ marini della tal piazza;  sedens dinanzi all’uscio di tal bottega, sedens sopra le panche di quella chiesa, mentre si aspettava la predica; sedens a quella mensa; sedens a quella veglia; sedens d’intorno a quel fuoco; sedens in somma, come in un’opera di singolar godimento e di sommo gaudio: sedens adversus fratrem tuum loquebaris. Ma che? Ti pensi che qui però terminasse tutto il tuo male? Non è così, sventurato, non è così; perché nello stesso tempo adversus filium matris tuæ ponebas seandalum. Non ti ricordi tu di quei che ti udivano? Quei, come uomini deboli ed imperfetti, filii matris (che così spiega appunto santo Agostino), quei, dico, per te inciamparono, per te caddero, per te vennero tutti, chi più, chi meno, a peccare anch’essi. Etenim cum detrahitur bonis ab his, qui videntur alicujus esse momenti, in scandalum caduta infirmi, qui adhuc nesciunt judicare (in hunc locum). – E tu non temi? e tu non tremi? e tu com’acqua ti bei le malvagità? Né solamente le proprie, ma ancor le altrui? Fa’ a mio modo, fa il proposito ch’io ti dissi: non loquatur os meum opera hominum.

V. – Eppur v’è di più. Perciocché dovete sapere ch’una lingua mormoratrice è lingua di vipera; ch’è quanto dire, triplicata, trisulca, mercecchè fa, come parlò san Bernardo (de consid.), tre ferite ad un colpo: tres lethaliter infìcit ictu uno. Inficit colui di cui mormora, mentre a lui fa, conforme abbiamo primieramente veduto, un solenne torto; inficit color con cui mormora, mentre lor pone, conforme abbiamo secondariamente provato, un sicuro scandalo; ed inficit finalmente colui che mormora, mentre ad esso reca que’ danni che or a me restano, ma alquanto più estesamente, da dimostrare. Benché chi mi darà mai facondia sì luttuosa, ch’io possa abbastanza esprimere questi danni, e così darvi, o maledici, a di vedere di quanto pregiudizio voi siate anche a voi medesimi con la libertà del dir vostro? – E prima è certo, benché ciò sia forse il meno, che laddove voi così credete di rendervi assai giocondi ed assai graditi (mercé quell’avidità con cui comunemente si ascoltano le altrui tacce), voi vi rendete odiosissimi non si potendo non avverare, quanto a voi pure, quel detto di Salomone, il quale affermò che il maledico è l’abominio del genere umano: abominatio hominum detractor( Prov. XXI. 9). Imperciocché un poco: tenete voi per sì semplici quei con cui ragionate, che tra sé stessi non giungano molto bene a considerai che come voi con esso loro venite a censurar altri, così con altri verrete a censurar loro? Lo veggon essi, lo veggono; e benché paja che col sembiante vi facciano grato applauso, contuttociò nell’interno: or andate (dicono) a capitar sotto il rostro a questo sparviere, e poi salvatevi, se potete le penne. Oh come trincia! oh come taglia! o come, dov’egli efferra, fa tosto piaga! Generatio, cruda formola de’ Proverbj (XXXIX, 14) generatio quæ prò dentibus gladius habet. – Né val che voi con simulato artifizio orpelliate la vostra mormorazione, mischiando que’ vituperj, che di altrui dite, con qualche encomio, che tanto più vi dia credito di sinceri, e biasimando in molti, lodando in poco. È questo già un artificio tritissimo, trivialissimo; e gran cosa vuol essere, se vi è alcuno, il quale non sappia che, quantunque il tirso sia cinto di verdi pampani, non però fa men nocevoli le ferite. Quegl’Israeliti che, ritornati dal riconoscer la Terra di promissione, la vollero porre a fondo presso quel popolò che colà gli aveva inviati, qual modo tennero? Cominciarono in prima dall’esaltarla; e però, tratto fuori un grappolo d’uva sì smisurato, che vi volevan due uomini per portarlo appeso al suo tralcio, e scoperte alcune bellissime melagrane, e dimostrati alcun fichi pinguissimi: ecco (pigliarono a dire) ecco qual sia la fertilità del paese, cui Dio ne mena. Per verità che a guisa d’acqua ivi scorrono il latte e ‘l mele: revera fluit lacte et Melle (Num. XIII. 28). Oh che verdura di pascoli! oh che amenità di colline! oh che chiarezza di fonti! Non si può al mondo vedere terren più lieto. Ma che? Su queste quasi stille di dolce, da lor premesso, versarono poco appresso tanto di assenzio, rappresentando gli abitatori di un tal paese come uomini giganteschi, le città come inespugnabili, il cielo come infettato, che amareggiato però tutto quel popolo, il quale udigli, si sollevò, si scompigliò, mosse tosto contro Mosè, contra Aronne, anzi contra Dio stesso il più fier tumulto che fino allor sorto fosse fra tende ebree. Sicché vedete che cotesto vostro artifizio di biasimare in molto, e lodare in poco, non è artifizio sì nuovo, come a voi sembra, ma rancidissimo; e però qual dubbio che nulla può concorrere a rendervi meno odiosi? Si sa, si sa che non è zelo ciò che vi muove a tacciare sì crudelmente le azioni altrui; ma ch’è acerbità, ch’è rabbia, ma ch’è rancore travestito alquanto da zelo: e però è forza che chi v’ode vi tema come molossi terribili di macello, che in ogni sangue godono ad egual modo lor darle labbra; e che temendovi, per conseguente vi abborra: abominatio hominum detractor.

VI. – Ma su figuriamo (ciò che non può mai succedere) che questo detto del Savio in voi sia fallace, sicché non solo non vi rendiate agli uomini punto odiosi col mormorare, ma che anzi siate loro ameni ed accetti: non sapete voi però bene che vi rendete, se non altro, odiosissimi innanzi a Dio? Detractores Deo odibiles (ad Rom. 1. 30); così l’Apostolo favellando ai Romani. Né è meraviglia, perché un tal vizio par totalmente opposto al genio di Dio. E qual è il genio di Dio? dice san Tommaso (in Gen. c. XVIII, n. 17). Civilissimo, cortesissimo. Oh quanto egli è ritroso a scoprire, finché viviamo, i difetti nostri! valde difficilis est ad publicanda occulta crimina nostra; non volendo egli che noi siam punto di peggior condizione di quel che sieno i pittori, a cui si fa grave incarico se loro vassi ad alzar di dietro la tela, infintantochè rimossa non hanno la man dall’opera, ed ancora vi possono, se lor piace, dar su di spugna liberamente, e mostrare che la disapprovano. – Si vide egli una volta venire innanzi quel figliuolo scialacquatore, che, tutto a un tempo intirizzito di freddo e smunto di fame, a gran fatica potea più regger lo spirito in su le labbra. Contuttociò qual fu il primo pensier che di lui si prese? Fu riscaldarlo? fu ristorarlo? Non già, uditori: fu ricoprirlo: cito offerte stolàm prima (Luc. XV. 22). E finché questa non venne, egli talmente sel tenne abbracciato a sé, che niun de’ servi, come notò Pier Grisologo (Serm. 2 de fil. prod.), che niun de’ servi veder ignudo il potesse, niuno deridere: ante vestiri voluit, quam videri. – Così coperse la nudità dell’adultera, a lui condotta nel tempio, quando non prima dir parola le volle di correzione, che dileguato si fosse ogni accusatore (Jo. VIII). Così coperse la nudità della Samaritana, a lui sopraggiunta presso una fonte, quando non prima rimproverare la volle di disonesta, che ritirato si fosse ciascun Apostolo (Jo. IV). Così coperse la nudità fin di quel Giuda medesimo, il qual tradillo; mentre, per quanto interrogato ne fosse importunamente anche da Giovanni, ch’è quanto dir dal diletto, dal favorito, dal segretario di tutti i suoi grandi arcani; contuttociò né anche il volle a Giovanni far manifesto, se non in gergo (Joan. XIII 26): tanto è vero sempre, che Dio valde diffìcilis est ad publicanda occulta crimina nostra. – Come dunque volete, o mormoratori, che Dio non vi odii, mentre a rovescio di lui non altro fate giammai che andar discoprendo le magagne più internate, più intime, più riposte del vostro prossimo, e, sfacciati ancor più dell’antico Cam (Gen. IX. 21), non dubitate per beffa nudar chi dorme, non che soltanto invitare di molti a mirarne la nudità? Sì che v’odia, sì; non è cosa da dubitarne. Conciossiachè vi addimando: credete forse voi che sia virtù vostra, se voi non siete sì peccatori, com’è quel vostro fratello? Tutt’è grazia di Dio, tutt’è sua mercede, tutt’è suo merito. E voi per ciò inalberarvi sopra degli altri? e voi per ciò morderli? e voi per ciò maltrattarli? Ch’altro potete da tal superbia aspettare, se non che Dio sottragga ad ora ad ora il suo braccio dal sostenervi, e che per giusto giudizio cader vi lasci in quegli eccessi medesimi, benché enormi, benché  brutali, per cui sì acerbamente venite a tacciare altrui? Sentite ciò ch’egli affermaci ne’ Proverbj (XIII. 5): impius confundit et confundetur; il peccatore confonde, e sarà confuso. Sì, miei signori, il peccatore confonde, e sarà confuso. – Ed oh così mi potess’io qui distendere a piacer mio, come io vi mostrerei ciò sempre avverato in ogni età, in ogni popolo, in ogni affare! Ma questa volta mi sia per tutti bastevole un Assalonne, il cui successo, se non fosse di fede, non potrìa credersi. Questi, udita che egli ebbe la brutta forza che un suo fratello maggiore, chiamato Aminone, usata avea verso Tamar, del cui amore era divenuto frenetico, se ne sdegnò, se ne stomacò, n’arse in modo, che non credette potersi cancellar tal obbrobrio dalla sorella, se non col sangue dell’empio violatore. E così che fece? Dissimulò tal notizia per lungo tempo; finche venutagli, come siam soliti dire, la palla al balzo, convitò Ammone con tutti i regi fratelli ad un lauto banchetto; e quivi fattolo a tradimento assaltare da’ suoi famigli, nol trucidò propriamente lo macellò (2 Reg. XIII). Or chi, presupposto ciò, non sarebbesi persuaso che un Assalonne star dovesse dipoi molto circospetto a non apparir egli lordo di quella macchia che in altri avea detestata con tanto orrore? Qui detrahit alicui rei, come dice il Savio, ipse se se in futurum obligate (Prov. XIII. 13). E però non direste voi certamente, che da indi innanzi un zelatore sì tremendo dell’onestà viver dovesse più casto d’ogni agnelletto, e più intatto d’ogni armellino? Eppure udite ciò che vi farà senza dubbio arricciar le chiome. Fece egli poi tanto peggio di quel medesimo che aveva abbominato in Ammone; chequando il re suo padre, fuggitosi di palazzo, glielo cede tutto libero, tutto aperto, egli fece ergersi in una pubblica loggia un gran padiglione, e quivi alla presenza di popolo innumerabile tutte francamente oltraggiò le mogli paterne, che pur non erano in numero men di dieci; e con isfacciatezza neppure usata fra’ barbari, neppure universale fra’ bruti, ìngressus est (debbo dirlo ?), ingressus est ad concubinas patris sui coram universo Israel (2 Reg. XVI, 22). E questi dunque èquell’Assalon sì zelante, il quale tanto di romor fatto avea per un solo incesto che d’altri avea risaputo? Che mutazione èquesta mai? che stranezza? che novità? Finalmente Ammone peccò (non si può negare), ma chetamente, ma occultamente, ma in un gabinetto di casa il più solitario, dov’egli avea simulato, per verecondia maggiore, di giacere infermo. Laddove Assalonne non temé peccare in pubblico, a suon di trombe, a voce di banditore, e , quel che sembra del tutto orribile, in faccia allo stesso sole, il quale non so veder come a mezzo corso non rivoltasse di subito il cocchio indietro, per non assistere a sì mostruosa laidezza. Eppur è certo, uditori, che così fu: un Assalon, un Assalon venne a tanto d’iniquità. E perché vi venne? dica pur ciascuno ciò che vuole; io per me tengo, ch’Egli per questo medesimo vi venisse, perché per una iniquità somigliante fatto avea già tante strepito contro Ammone: Impius confundetur. Egli non avea compatito il proprio fratello, ma con solenne vendetta lo avea voluto pubblicamente confondere, e svergognare; e Dio permise ch’egli venisse quindi a poco a far peggio di quel medesimo ch’avea fatto il fratello. – Applichiamo a nostro proposito. Voi lacerate con lingua così spietata il prossimo vostro per una fragilità, nella quale è incorso, per uno slogamento di senso, per uno accendimento di bile, per una intemperanza di vitto, per una tal debolezza di vanità; e non temete che Dio vi lasci per suo giudizio cadere in più gravi colpe? Mi rimetto a voi: ma sol voglio con riverenza umilissima supplicarvi a non vi fidar ornai tanto di voi medesimi: Corripe amicum, corripe proximum: ciò va bene, ma fate insieme quello che l’Ecclesiastico dice appresso: et da locum timori Altissimi (Eccli. XIX, 13, 14, 18). Perché par quanto di presente a voi paja d’esser perfetti, non però potete sapere ciò che dovrà di voi essere in altro tempo. Chi avrebbe  detto che Jeù, quel re d’Israele, il quale con zelo sì fervoroso distrusse l’altare di Baal, e ne sterminò i sacerdoti, dovesse anch’egli piegare un dì le ginocchia dinante agl’idoli? (4 Reg. X). Chi avrebbe detto che Gioas, quel re di Giuda, il quale con  pietà sì magnifica ristorò le mura del tempio, e riempinne gli erarj, dovesse anch’egli  stendere un dì le mani a rapirne i doni? (ib. XII). Chi avrebbe detto che Salomone medesimo, Salomone, quello che nei Proverbj parlò sì bene contro l’amor delle donne, e ne svelò le doppiezze, e ne scorse i danni, dovesse poi dare maculuam in gloria sua, e cadere anch’ei bruttamente in quell’alta fossa, che agli altri avea dimostrata con tanto lume? (ìbid. 11) Non vogliate dunque sì presto far gl’impeccabili, perché, a mio credere, voi non siete finor raffermati in grazia; siete ancora labili, siete ancora caduchi, e piaccia a Dio (giacché conviene finalmente ch’io parli con libertà), e piaccia a Dio, che già non siate peggiori di que’ medesimi, de’ quali voi mormorate. Ah, così va, così va. Quei che sepolti perpetuamente si giacciono dentro il fango, come le rane, questi son quei che più gridano, che più gracidano, quasi che vogliano rimproverare a chi passa le sue lordure. I buoni, dice il Savio, i buoni sono agevolissimi a credere ben di tutti: innocens credit omni verbo(Prov. XIV. 15), come il credé Giosuè pei Gabaoniti (Jos. IX), Giacobbe di Labano (Gen. XXXI), Gionata di Trifone (1 Mac. 12). I più dissoluti, i più discoli, non contenti di quei difetti che in altrui veggono, vi veggono spesso ancor quei che non vi sono: tutto notano, tutto sbeffano, tutto sprezzano, e non sanno mai d’altrui persuadersi se non il peggio. Sed et in via stultus ambulans, udite belle parole dell’Ecclesiaste (X. 3), cum ipse insipiens sit, omnes stultos æstimat. – E sarà questa dinanzi a Dio presunzione da tollerarsi? Ah che pur troppo conviene ch’ei la gastighi! Posciachè s’egli neppur volea nella sua legge (Lev. XIII) che i sani condannassero alcuno mai per lebbroso, se non premessa per mezzo del sacerdote una lunga pruova, come potrà sopportare or che i lebbrosi lìberamente condannino ancora i sani?’ Non loquatur os meum opera hominum, non loquatur; perché questo è un voler esporsi a pericoli troppo atroci. E qui voi riputerete aver io già detto a terrore de’ maldicenti il più che può dirsi; ma riposiamoci, e poi vedrete che forse ho fin qui scherzato.

SECONDA PARTE.

VII. – Io non vorrei presso voi guadagnarmi fama di predicatore funesto; perciocché a che vale che, quasi vago di spaventarvi, io vi stia tutto giorno, a fare o predizioni infelici, o presagi infausti’, se voi, per non udirli, n’andrete a mettervi in fuga? Contuttociò convien pure, se punto v’amo, ch’io non v’inganni. Badate bene, perché gravissimo è il rischio, o mormoratori, che vi sovrasta, d’incorrere quanto prima una morte orrenda. Ma che so io di ciò? Mi è per sorte calato un Angelo a confidare dal cielo sì gran segreto? n’ho qualche rivelazione? n’ho alcun ragguaglio? L’ho, e l’ho maggiore anche di quello che voi non dite. Conciossiachè non è stato un Angelo, no, ma il Signor degli Angeli, quel che, parlandomi ne’ Proverbj, mi ha detto che propria pena dei detrattori è morire improvvisamente. Time Dominum, fili mi, et cum detractoribus ne commiscearis, quoniam repente consurget perditio eorum (Prov. XXIV. 2 1 et 22). Repented! Sì, sì, repente, repente (avete sentito!), repente consurget perditio eorum. Ah noi malavveduti! che facciam dunque, mentre sì poco ci riscotiamo a pericolo sì tremendo? Può mentire Iddio per ventura? può amplificare? può far bravate a credenza? Io, quanto a ciò, mi rimetto; ma dite a me: mi sapreste voi riferire qual fine sortisse quel linguacciuto di Alcimo, il quale avea sì liberamente pigliato a sparlar di Giuda, nobilissimo Maccabeo? (1 Macchab. IX, 55). Perde ad un tratto la parola su labbri, e così insieme ammutolito ed attonito si morì di goccia improvvisa. Qual fine fece un Datano, qual fine un Core, qual fine un Abiron, quei dispregiatori maledici di Mosè? (Num. XVI, 24 a 33). Non furon tutti e tre dalla terra, che di repente si aperse, ingojati vivi? E quei tanti altri, che contra Mosè medesimo mormorarono nelle campagne di Edom (Ibid. XVI. 35 et seq.), qual fine anch’essi sortirono? Dite un poco: vi è tra voi niuno ch’or lo ritenga a memoria? Si vider tutti venire addosso improvvisamente un esercito di ceraste, di aspidi, di saettoni, e d’altre mille pestilentissime serpi che, quasi vomitassero fuoco e vibrasser fiamme, ne fecer entro brev’ora una strage immensa. Sicché non credo far Dio bravate a credenza, quando Egli afferma che repentina succederà la lor morte a’ mormoratori; repente consurget perditio eorum; mentre ciò non solo è famoso per la sperienza, ma pare ancor conformissimo alla ragione. Imperocché se i detrattori son uomini, i quali assaltano, come da principio dicemmo, l’avversario alle spalle, né contro d’esso procedono alla scoperta, ma insidiosamente, ma ingannevolmente, ma quasi da traditori; qual meraviglia sarà, che quasi a tradimento si trovino anch’essi colti da quella morte che sola al mondo è bastevole a far tacere una mala lingua?

VIII. – Ma io (guardate quanto voglio sempre essere liberale con esso voi) voglio concedervi che in voi non debba una tal minaccia eseguirsi con tanta severità, ma che vi sia conceduto innanzi al morire qualche comodo spazio di ravvedervi, di riconoscervi, di chiedere perdonanza del mal commesso: con qual ardir, con qual animo, con qual fronte potrete a Cristo ricorrere in su gli estremi per ottenerla? Non siete voi stati quei così dispietati, che niuna colpa avete mai perdonata cortesemente al prossimo vostro, ma l’avete ognora avvilito con alterigia, accusato con arroganza, e, senza mai punto usargli misericordia, n’avete fatto in ogni conversazione un solenne scempio? E come dunque esser può che gran misericordia dobbiate sperar da Dio? Ahimè! credetemi che questo sopra d’ogn’altro sarà il pericolo che incorrerete morendo, perdere affatto ogni special confidenza nella divina bontà. Né ciò senza fondamento: conciossiachè, non so come, par che Dio contro a’ mormoratori dimostrisi tutto sdegno, tutto rigore, e che propriamente abbia preso, conforme disse nel salmo, a perseguitarli; detrahentem secreto proximo suo, hunc persequebar (Ps. 100, 5). Non è tra voi chi non sappia quanta già fosse l’autorità di Mosè per rendere Dio pietoso co’ delinquenti. Avea il suo popolo fabbricato già, com’è noto, un vitello d’oro, incensatolo, idolatratolo; sicché Dio, tosto montato in furore altissimo, determinò di venire contr’uomini sì perversi a ferro ed a fuoco, e di sterminarne la razza. Contuttociò, credereste? non prima si frappone Mosè con alcune acconce parole d’intercessione a pregar per essi, che senza una minima replica ottien l’indulto, e fa che Dio ritranquillisi assai più tosto che non fan l’onde di turbata peschiera al posar de’ venti. Placatusque est Dominus, ne faceret malum, quod locutus fiierat, adversus populum suum (Exod. XXXII. 14). Qual però di voi non sarebbesi immaginato che chi per gente sì perfida avea potuto ottener perdono sì pronto, non mai dovesse in futuro temer ripulsa? Eppur che succede? Vuol egli quindi a qualche tempo intercedere per Maria, sua propria sorella, percossa in volto da schifosissima lebbra (Num. XII): e tuttavia, benché supplichi, benché gridi non ottien nulla; e a tutti i patti conviene a lui di vederla esclusa dal pubblico, ritirata, ristretta, pagar più giorni ai contumacia obbrobriosa Ma perché ciò? Era costei per avventura trascorsa in qualche delitto peggior dell’idolatria? Che aveva mai fatto la misera? ch’avea detto? ch’avea trattato? Già v’è notissimo. Ella, abusandosi di certa loquacità naturale data alle donne, affinchè incitino i lor figlioletti a parlar con facilità, avea, non so come, tacciato assai suo fratello a cagion di certa Etiopessa, non saprei direse di sembiante o di stirpe, da lui sposata. Ma perché appunto quest’era mormorazione, ch’è quanto a dire, poca pietà verso le altrui debolezze, Iddio non volle (come osservò san Basilio) accettar per essa discolpe di sorta alcuna, non raccomandazioni, non suppliche, non clamori; e laddove fu facilissimo in rilassare, ad intercession di Mosè, tanti gravi oltraggi fatti alla propria Persona, benché divina, non volle rilassarne un piccolo succeduto contro la persona medesima’ di Mosè. Vedete dunque s’è vero ciò ch’io vi dissi? – Questo, uditori, queste è  il terribile effetto che la mormorazione produce nel cuor di Dio, renderlo quasi duro, implacabile, inesorabile: e però chi può dubitare che quando voi vorrete ad esso moribondi ricorrere, per pregarlo a pietà, non saprete farlo, e vi parrà che troppa audacia sia chiedere compassione di quelle colpe che altro non furono in verità che mancanza di compassione? Così rispose un certo Religioso infelice, rammemoratoci da gravissimi autori, (Jo. Mayor. Spec. esempl. etc.). Si trovava già egli vicino a morte, quando sentendosi con grand’affetto esortare da’ circostanti ad aver fiducia nella misericordia divina: che misericordia? (gridò) che misericordia? Non è questa per me, che sì poca n’ebbi. Indi tratta fuori la lingua, accennò loro col dito che la mirassero; e poi: questa lingua (soggiunse) mi ha condannato; questa, con la quale mi avete sì frequentemente sentito condannar altri, questa ora fa che disperato io precipiti in perdizione. Disse; e perché più manifesto apparisse aver lui per giusto giudizio così parlato, se gli enfiò tutta di repente la lingua per modo orribile, sicché più non potendo ritrarla a sé, cominciò a metter muggiti ed a mandar urli, non altrimenti d’un toro ch’è sotto il maglio; e così dopo un’agonia penosissima uscì di vita. Un altro mormoratore tutta, morendo, si lacerò dispettosamente la lingua co’ suoi medesimi denti; ad un altro s’istupidì; ad un altro s’inveranno: tanto fu lungi che la sapessero su quegli estremi impiegare in chieder a Dio pietà de’ commessi errori. Ma voi che dite? – Pare a voi spediente di mettervi a sì gran rischio per una mera sfrenatezza di labbra mal custodite? Non loquatur os meum opera hominum; ditelo, ditelo; non loquatur os meum opera hominum; perché importa troppo risolvere questo punto, e fermarlo bene. Che in considerazione è mai la nostra? che abbaglio? che cecità? Sarà possibile adunque che non vogliamo determinarci oggimai di badare a noi, giacché finalmente nel tribunale divino non ci verrà domandata d’altri ragione, che di noi stessi? Gran cosa in vero che ci vogliam noi prendere tanto affanno, tanta ansietà delle altrui coscienze; mentre ciò sol dee servire a gravar le nostre! Che vale al fiume, che, uscendo gonfio dal letto con la sua piena, lavi le ripe, e via ne porti mormorando ogni feccia, ogni fracidume, s’egli vien con tal atto a lordar se stesso, e a rimaner tutto sozzo, tutto schifoso? Non è già la vita sì lunga, se noi vogliamo spenderla saviamente, come dovremmo, per nostro prò, che debba tanto tempo avanzarci da perdere oziosamente ne’ fatti altrui. Una cosa sol è di necessità, se crediamo a Cristo: porro unum est necessarium (S. Luc.X, 42), né altro è questo, che assicurare il negozio della nostra eterna salute, negozio ahi quanto spinoso! ahi quanto difficile! E noi ci stiamo, come se ciò fosse nulla, ad addossar tante cure affatto superflue, né solamente superflue, ma ancor dannose? Lasciamo pureche gli Esaù vagabondi (Ge, XXV, 27) con la faretra al fianco, e con l’arco in mano non altro facciano tuttodì ch’ire a caccia degli altrui falli, come di prede lautissime ai lor palati: noi, a similitudine di Giacob, conteniamoci in essa, e con santa semplicità reputiam ciascuno in cuor nostro miglior di noi. Questo è da buon Cristiano, questo è da considerato, questo è da cauto: fare altrimenti è da uomo nulla sollecito di salvarsi.

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (15)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (15)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA INABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO VII

Ultimi effetti dell’inabitazione di Dio  in noi: I FRUTTI DELLO SPIRITO SANTO E LE BEATITUDINI.

Conosciamo ora, se non in dettaglio, almeno con una veduta d’insieme, i principi di attività conferiti ai giusti dallo Spirito Santo, un magnifico e complesso organismo di santità che, secondo la bella espressione di un Padre della Chiesa, fa dell’uomo uno strumento musicale mirabilmente disposto a cantare la gloria e la potenza divina: Instrumentent musicum a Spiritu pulsatum, divinamque gloriam et potentiam canens (S. Greg. Naz., Orat. Ad Popul. XLIII, 67). E quando ha così preparato tutto, lo Spirito Santo, l’Artista incomparabile, si mette alla tastiera e, se non incontra resistenza, trae da questo strumento spirituale, meravigliosi accordi che deliziano il cuore di Dio e non tralasciano di piacere al mondo stesso, affascinato, malgrado tutto, da questa santa armonia. È la dolce e casta Agnese che canta sulla terra, per continuare in cielo, il canto delle vergini: « Io amo Cristo, di cui presto diventerò la sposa; il Cristo, di cui la Madre è vergine ed il Padre celeste genera senza corruzione….. Io sono fidanzata con Colui che è servito dagli Angeli e la cui bellezza è ammirata dal sole e dalla luna » (ex Offic. S. Agnetis). – È il martire Ignazio, esposto nell’anfiteatro e che, sentendo il ruggito dei leoni, grida nella sua impazienza di soffrire: « Io sono il frumento di Cristo; sarò macinato dai denti delle bestie per diventare un pane veramente puro. » È il grande Apostolo Paolo, che lancia questa fiera sfida a tutte le potenze nemiche: « Chi mi separerà dall’amore di Cristo? La tribolazione? L’angoscia? La fame? La nudità? Il pericolo? La persecuzione? La spada?….. Sono sicuro che né la morte, né la vita, né gli angeli, né i principati, né le virtù, né qualsiasi altra creatura potrà mai separarmi dall’amore di Dio in Gesù Cristo, nostro Signore » (Rom. VIII, 35-39). – È l’innumerevole moltitudine dei Santi sparsi in tutto il mondo e che formano un immenso concerto, dove ognuno fa la sua parte e canta in modo speciale il trionfo della grazia sulla natura: una deliziosa sinfonia, dove tutte le voci si uniscono e si fondono in una meravigliosa armonia. Voci di bambini e di anziani, di vergini e di adolescenti, di uomini e di donne, che salgono dalla terra al cielo. Voci di innocenze preservate o faticosamente riconquistate. Voce di misericordiosa carità che richiama, per bocca di Vincenzo de’ Paoli, a tutte le miserie per alleviarle. Voce di fede trionfante nella persona di Pietro di Verona colpito a morte dall’eresia, e che ancora trova la forza di tracciare con la porpora del suo sangue questa parola sublime: Io credo. Voce di umiltà pronunciata dall’organo di Giovanni della Croce, una delle parole più belle ed eroiche mai pronunciate da una bocca umana, quando, alla domanda di Cristo di quale ricompensa chiedesse per tanto lavoro, rispondeva: « Signore, soffrire ed essere disprezzato per Voi. »  – Che mirabile fioritura di virtù il soffio dello Spirito Santo fiorisce in anime docili alla sua azione! O piuttosto che frutti deliziosi e variegati fa loro produrre! Questi sono quelli di cui Nostro Signore ha parlato quando ha detto ai suoi Apostoli: « Io vi ho scelto e vi ho costituito perché andiate avanti senza sosta, perché portiate frutti e questi frutti rimangano: Ego elegi vos, et posui vos ut eatis, et fructum afferatis, et fructus vester maneat. » (Giov. XV, 16). Il giusto, in effetti, è paragonato, nei nostri Libri sacri, ad un albero piantato sul bordo delle acque e che dà i suoi frutti nel suo tempo (Ps. I, 3). Cosa sono questi frutti? L’Apostolo san Paolo ce li fa conoscere in questa bella enumerazione che leggiamo nel capitolo V della Lettera ai Galati: « I frutti dello Spirito Santo, dice, sono la carità, la gioia, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la longanimità, la dolcezza, la fede, la modestia, la continenza e la castità . » (Gal. V, 22-23). – Cosa intendiamo con questi “frutti dello Spirito Santo”? Perché sono così chiamati? Come si differenziano dalle virtù e dai doni? Qual è il loro numero?

I.

E innanzitutto, cosa si intende per frutti dello Spirito Santo? Con questo intendiamo – dice san Tommaso – « tutti gli atti di virtù che hanno raggiunto una certa perfezione e in cui l’uomo si diletta: Sunt enim fructus quæcumque virtuosa opéra in quibus homo delectatur » (S. Th., Ia IIæ, q. LXX, a. 2). Si chiamano frutti – dice sant’Ambrogio – perché riempiono l’anima di pura e santa delizia. – In senso naturale, il frutto è il prodotto finale e gustoso di una pianta o di un albero che ha raggiunto la perfezione, adattato alla sua specie (Ibid. ad 1); è il termine regolare della vegetazione, il risultato definitivo di questo meraviglioso lavorio in cui è impegnata la vita della pianta. Diversi in quanto diversi sono gli alberi da cui sono stati raccolti, i frutti hanno in comune il fatto che sono l’ultimo prodotto della pianta e che, una volta giunti a maturazione, hanno tutti un certo sapore, diverso a seconda della specie. Fructus sensibilis est id quod ultimum ex arbore expectatur, et cum quadam suavitate percipitur (S. Th., Ia IIæ, q. XI, a. 1).  Quand’anche deliziassero la vista con la luminosità dei loro colori e deliziassero l’olfatto con la dolcezza e la finezza del loro profumo, né le foglie né i fiori meritano questo bel nome di frutto; perché non è da questi ciò che ci si aspetta definitivamente dall’albero: quod ultimum ex arbore expectatur.  – Il frutto non è solo l’ornamento e la perfezione dell’albero, è la sua ragion d’essere, il suo scopo, il suo fine; è il frutto che conferisce all’albero il suo pieno valore e compensa la cura dedicata alla sua coltivazione. Ecco perché, parlando nella parabola di un albero di fico che aveva smesso di dare frutti diversi anni prima, il Salvatore ha detto: « Tagliatelo; perché occupa inutilmente il posto? Succide ergo illam; ut quid etiam terram occupât ? » (S. Luc. XIII, 7). Una grande lezione per il Cristiano, che, sotto pena di essere tagliato come un ramo inutile e gettato nel fuoco, non deve lasciare inattive le energie divine che gli sono state conferite come germi destinati a fiorire sotto il soffio dello Spirito di Dio e a produrre quelle opere sante degne della vita eterna che la Scrittura chiama i frutti dello Spirito Santo. Infatti, per analogia, nell’ordine spirituale, questo nome di frutto è dato al prodotto finale della grazia nelle anime, cioè agli atti di virtù, se non a tutti indistintamente, almeno a quelli che possiedono un certo grado di perfezione e di sapore. I frutti dello Spirito Santo non sono dunque delle abitudini, delle qualità permanenti, ma degli atti; non possono quindi essere confusi con le virtù e con i doni, ma si distinguono da essi come l’effetto si distingue dalla sua causa, il torrente dalla sua sorgente. – E sebbene l’Apostolo san Paolo elenchi tra questi frutti la carità, la pazienza, la dolcezza, ecc., non è da intendere con queste espressioni le virtù stesse, ma le loro operazioni; poiché, per quanto perfette possano essere le virtù, esse non possono essere considerate come l’ultimo prodotto della grazia, essendo esse stesse ordinate, come principii, a dei prodotti successivi, cioè ai loro atti.  – Tuttavia per meritare il nome di frutto, gli atti di virtù devono essere accompagnati da una certa soavità. All’inizio, questi atti si compiono solo con difficoltà, richiedono fatica, alcuni sono addirittura amari per natura come un frutto non ancora maturo. « Ma – osserva un pio autore –  quando si è da tempo praticato con fervore nella pratica delle virtù, si acquisisce la possibilità di produrre i propri atti. Non proviamo più la ripugnanza che abbiamo provato all’inizio. Non dobbiamo più combattere o essere violenti. Siamo felici di fare quello che facevamo una volta con difficoltà. Poi succede alle virtù quello che succede agli alberi. Come questi frutti che, giunti a maturità, non hanno più l’acredine, ma sono dolci e di piacevole sapore; allo stesso modo, quando gli atti di virtù abbiano raggiunto una certa maturità, si fanno con piacere, e li si trova di un gusto delizioso » (Lallemant, Doctrine spirit.). Il mondo non capisce nulla di questo genere di delizie; perché – secondo l’osservazione di San Bernardo – vede la croce, ma non l’unzione: Crucem quidem vident, sed non etiam unctionem (Serm. 1 de Dedicat.); le afflizioni della carne, la mortificazione dei sensi, le fatiche della penitenza colpiscono il suo sguardo solo per il loro lato doloroso, e li ha in orrore, le consolazioni dello Spirito Santo sfuggono ad essa. Le anime sante, invece, dicono volentieri con la sposa del Cantico: « Mi sono seduto all’ombra di colui che avevo desiderato, e il suo frutto è dolce al mio palato » (Cant. II, 3). Sono numerosi i frutti dello Spirito Santo? San Paolo ne conta dodici, come abbiamo visto sopra. Perché questo numero di duodenario? Sembra che dovrebbero essere ammessi così tanti anche gli atti virtuosi. Questa è, infatti, la conclusione di san Tommaso: « I frutti – egli dice – sono tutti atti di virtù nei quali l’uomo trova piacere: Sunt fructus quæcumque virtuosa opera in quibus homo delectatur ». (S. Th., Ia IIæ, q. LXX, a. 2). – L’Apostolo avrebbe potuto includerne un numero maggiore o minore nella sua enumerazione, perché non pretendeva di elencarli tutti. Se si è fermato al numero di dodici, è stato prima perché questo numero, nello stile della Scrittura, si riferisce all’universalità; poi, perché tutti gli atti di virtù possono essere opportunamente ridotti a quelli nominati dall’Apostolo, poiché abbracciano l’intera vita cristiana. (Ibid. a 3, ad 4). – Noi parliamo di frutti; ma potremmo anche chiamarli fiori, se, invece di considerare le nostre buone opere come l’ultimo prodotto della grazia in questo mondo, le considerassimo in relazione alla vita eterna, di cui sono come l’annuncio e la promessa. Perché, così come si vede apparire il fiore, si concepisce la speranza di raccogliere un frutto, così  il darsi alla pratica delle opere sante e meritorie ci dà la speranza di raggiungere la vita e la beatitudine eterna.

II.

Al culmine della vita spirituale, quindi al di sopra degli atti di virtù ordinaria, al di sopra dei frutti dello Spirito Santo, vi sono le beatitudini, il coronamento dell’opera divina in noi, l’ultimo e più sublime effetto della presenza di Colui che il Padre si è degnato di inviarci per la nostra santificazione, l’anticipazione della felicità celeste.  Cosa intendiamo per beatitudini? Quante ce ne sono? Sono diversi da frutti, virtù e doni?  – Il nome “beatitudini” si riferisce ad alcuni atti della vita presente che, per la loro particolare perfezione, conducono direttamente e sicuramente alla beatitudine eterna. Sono chiamate così, beatitudini metonimiche, perché sono allo stesso tempo il pegno, la causa meritoria e, in una certa misura, i primi frutti della vera e perfetta beatitudine. La beatitudine propriamente detta, è essenzialmente una sola, e consiste nel possesso di Dio. È chiaro, infatti, che Dio, essendo il Bene sovrano, il Bene infinito, l’unico capace di soddisfare tutti i desideri, nessuno è felice se non nella misura in cui lo possiede. Da questo mondo, è vero, lo possediamo per grazia, ma imperfettamente; lo portiamo dentro di noi, ma nascosto alla vista; lo amiamo, lo godiamo, ma con il pericolo di perderlo. « Quindi, se parliamo di beatitudine qui sulla terra, possiamo solo intendere, naturalmente, una beatitudine imperfetta, una beatitudine desiderata e meritata, tutt’al più cominciata. » (Mgr. Gay: Sermons de l’Avent). – Le beatitudini menzionate nel Santo Vangelo e di cui ci stiamo occupando attualmente non significano, quindi, felicità assoluta, felicità vera e propria. Non è manifesto che la povertà, le lacrime, la fame e la sete, foss’anche di giustizia, le persecuzioni subite per la causa di Dio, non possono costituire una vera e perfetta beatitudine? Ma Nostro Signore afferma che questi sono mezzi, dei gradi, delle salite per raggiungere la beatitudine assoluta: mezzi così potenti, così efficaci, così sicuri, che chiunque li usi con perseveranza può ripetere seguendo l’Apostolo: « Sono salvato nella speranza » (Rom. VIII, 24). Non si dice di qualcuno che è giunto alla fine dei suoi voti, quando ha una fondata speranza di ottenerli? Ma come non concepire la speranza di ottenere un fine determinato, quando ci si muove verso di esso in modo costante e regolare, quando ci si avvicina, quando soprattutto si comincia già a gustare la dolcezza del bene atteso? (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 1.) Quando, dunque, un Cristiano, docile alle ispirazioni dello Spirito Santo, avanza quotidianamente nel cammino di bontà attraverso gli atti di virtù ed i doni, quando lo si vede realizzare gradualmente queste mirabili ascese di cui parla il Salmista (Ps LXXXIII, 6), ed avvicinarsi sempre di più al termine, come non sentire la fiducia che egli raggiungerà la perfezione del cammino e quella della patria, e non proclamarlo benedetto in anticipo? (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 2). Ma quali sono questi mezzi che conducono così sicuramente al termine della salvezza eterna, questi atti così pieni di soavità che possiamo considerarli come l’inizio della beatitudine? – Il Salvatore stesso ce li ha fatti conoscere in questo famoso sermone della montagna che apre il periodo della sua vita pubblica. « Beati – Egli dice – i poveri in spirito, perché il regno dei cieli è loro. Beati i miti, perché possederanno la terra. Beati coloro che piangono, perché saranno confortati….. Otto volte di fila ripete, con delle varianti, la stessa espressione « Beati », annunciando così al mondo stupito quelle che il linguaggio cristiano ha chiamato le otto beatitudini. Sono otto: la povertà di spirito, la mitezza, le lacrime, la fame e la sete di giustizia, la misericordia, la purezza di cuore, l’amore per la pace, le persecuzioni subite a causa di Dio; ma l’ottava è solo la conferma e la manifestazione delle altre (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 3 ad 5.). Infatti, dal momento in cui l’uomo è rafforzato nella povertà spirituale, dalla mitezza e dalle altre beatitudini, la persecuzione non è più in grado di staccarlo da questi beni. – Le beatitudini non sono né virtù né doni dello Spirito Santo, ma degli atti che queste abitudini ci portano a produrre (Ibid. a. 1). Tuttavia, per la loro eccellenza e perfezione, questi atti devono essere considerati più come un prodotto dei doni che come un’emanazione delle virtù. Infatti, la virtù della povertà può anche ispirare questo distacco che fa usare con moderazione dei beni terreni, ma è il dono del timore, che ne ispira il disprezzo. La virtù della mitezza dà all’uomo l’energia necessaria a superare l’impetuosità della rabbia e a stare entro i limiti della giusta ragione; ma è il dono della pietà che assicura la calma, la serenità dell’anima, il perfetto possesso di sé e la completa sottomissione alla volontà di Dio. La temperanza mette il freno alle passioni che tendono al piacere sensibile e le mantiene entro i limiti; il dono della scienza eleva l’anima più in alto, e illuminandola sulla fragilità, la vanità, la breve durata di questi piaceri, insegna a rifiutarli del tutto, se necessario, e ad abbracciare volontariamente il dolore e le lacrime. Le beatitudini si distinguono anche dai frutti dello Spirito Santo, perché, benché  dilettando come questi, abbiano anche il vantaggio di perfezionare chi le possiede: sono, se volete, dei frutti, ma i più eccellenti, i più belli, i più squisiti; frutti giunti, con gli ultimi tocchi del Sole divino, ad una perfetta maturità; anch’esse contengono una dolcezza e perfezione tale da farci sentire e gustare in anticipo qualcosa della felicità celeste. Così è coronata da opere perfette, segni precursori della beatitudine di Dio e del suo pieno possesso, questa serie di meraviglie che lo Spirito Santo compie nelle anime dove ha stabilito la sua dimora.

III.

Prima di concludere questo già lungo studio, diamo un ultimo, rapido sguardo alle verità che ne sono state oggetto, così come, prima di varcare la soglia di un edificio che è stato visitato ed esaminato nel dettaglio, diamo uno sguardo per comprenderne le linee principali e ammirarne la sapiente armonia. Dio è ovunque, in ogni essere e in ogni luogo, come causa immediata di tutto ciò che esiste fuori di Lui; ma abita solo nel giusto, al quale si unisce in modo singolare, come oggetto di conoscenza e di amore. E non è solo con la sua immagine, la sua memoria, o i suoi doni, che Egli è così presente in essi; Egli stesso viene personalmente, inaugurando fin da quaggiù questa vita di unione e di godimento che deve essere consumata in cielo. Non appena una creatura che, fino ad allora era stata peccaminosa, ritorna in grazia al suo Creatore, Colui che è in Dio l’Amore sussistente, lo Spirito Santo, gli viene inviato a suggellare in qualche modo con la sua presenza il patto di riconciliazione, a lavorare alla grande opera di santificazione e a diventare in lui il principio efficace di una nuova vita, incomparabilmente superiore a quella della natura. Non è dunque una visita temporanea, per quanto preziosa, che si degna di fare, ma Egli viene a stabilirsi nell’anima con il Padre e il Figlio e per fissarvi la sua dimora. Quando vi entra, si dà Egli stesso, e questo è il suo grande dono. Si tratta quindi di abbellire e decorare il tempio vivente dove gli piace risiedere. A tal fine, c’è questa Grazia, di un valore infinito, chiamata santificante, che ha l’effetto di purificare da ogni sozzura, di cancellare il peccato, di giustificare, trasformare, divinizzare chi la riceve, farne un figlio di Dio e l’oggetto dei suoi piaceri, con diritto all’eredità celeste. Ma non è tutto, perché la grazia non va mai da sola; essa è sempre accompagnata da una moltitudine di virtù e di qualità sovraeminenti, che sono sia un ornamento per le nostre potenze, sia una fonte di attività soprannaturale. Queste sono le virtù teologali, la fede, la speranza e la carità; le virtù morali infuse e i doni dello Spirito Santo: essi sono i semi fecondi dei frutti che Dio vuole raccogliere in noi; le energie divine, fonte di quegli atti eccellenti che portano il nome di beatitudini perché sono la causa meritoria ed una sorta di anticipazione della felicità che speriamo. – In questo modo possiamo andare avanti; e, per spostarci efficacemente e in sicurezza verso le sponde eterne, tutto ciò che dobbiamo fare è ricevere questo impulso dallo Spirito Santo che è la parte dei figli di Dio (Rom. VIII, 14). Essa non si farà attendere. Dal profondo dell’anima dove Esso risiede, questo Spirito divino illumina la nostra intelligenza, riscalda i nostri cuori, ci eccita e ci spinge al bene. Chi conterà tutti i santi pensieri che suscita, i buoni movimenti che provoca, le sane ispirazioni di cui è la fonte? Perché invece ci sono sventurate e troppo frequenti resistenze che vengono più o meno a paralizzare la sua azione benefica e ad ostacolarne gli effetti? Questo spiega perché tanti Cristiani, abitualmente in possesso della grazia e delle energie divine che la accompagnano, rimangono tuttavia così deboli e lassi al servizio di Dio, così poco zelanti per la loro perfezione, così inclini verso la terra, così dimentichi delle cose del cielo, così facili da portarsi al male. Pertanto, l’Apostolo ci esorta a « non contristare lo Spirito Santo » con la nostra infedeltà alla grazia: Nolite contristare Spiritum sanctum Dei (Ephes. IV, 30), e soprattutto “non spegnerlo nei nostri cuori: Spiritum nolite extinguere. » (1 Tessal. V, 19). C’è un’altra causa che cerca di spiegare perché una semenza di grazie così abbondante spesso produca solo un raccolto così scarso. Questo avviene perché, conoscendo solo molto imperfettamente il tesoro di cui sono custodi, molti hanno solo una bassa stima di Esso e si impegnano poco nel farlo fruttificare. Eppure, quale forza, quale generosità, rispetto di sé, quale vigilanza, ma anche quale consolazione e quale gioia non li ispirerebbero per questo pensiero costantemente nutrito e piamente meditato: lo Spirito Santo abita nel mio cuore. Esso è lì, potente protettore, sempre pronto a difendermi dai miei nemici, a sostenermi nelle mie battaglie, ad assicurarmene la vittoria. Amico fedele, è sempre pronto a darmi udienza, e, « lungi dall’essere fonte di amarezza e di noia, la sua conversazione porta allegria e gioia:  Non enim habet amaritudinem conversatio illius, nec tædium convictus illius, sed lætitiam et gaudium. » (Sap.. VIII, 16). – Egli è lì, veglia sempre sui miei sforzi e sacrifici, contando, per ricompensarli un giorno, ognuno dei miei passi, seguendo tutti i miei passi, senza dimenticare nulla di quello che faccio per il suo amore e la sua gloria. – Lo Spirito Santo abita nel mio cuore! Io sono il suo tempio, il tempio della santità per essenza; devo quindi diventare io stesso santo, perché il primo carattere della casa di Dio è la santità. Domum tuam, Domine, Domine, decet sanctitudo (Ps XCII, 5). Dirò dunque con il Salmista, con la mia condotta più che con le mie parole: « O Signore, ho amato la bellezza della tua casa e del luogo dove abita la tua gloria: Domine, dilexi decorem domus tuæ, et locum habitationis gloriæ tuæ. » Cosa c’è di più efficace di queste riflessioni per determinarci a vivere, secondo la parola di san Paolo, « in modo degno di Dio, sforzandoci di piacergli in ogni cosa e di portare ogni sorta di frutti di buone opere? Ut ambuletis digne Deo per omnia placentes, in omni opera bono fructificantes » (Col. X, 10). Lavoriamo dunque per crescere nella scienza di Dio, crescentes in scientia Dei, applicandoci ogni giorno per conoscere meglio, per apprezzarli di più, i doni divini. Amiamo, onoriamo, invochiamo spesso lo Spirito Santo, siamo docili alle sue ispirazioni; e se un giorno vogliamo occupare il trono di gloria che ci è stato preparato in cielo, iniziamo glorificando qui sulla terra e nella nostra anima e nel nostro corpo questa Santissima Trinità di cui siamo dimora e tempio. Glorificate et portate Deum in corpore vestro! (1 Cor. VI, 20).

SALMI BIBLICI: “LAUDATE, PUERI, DOMINUM” (CXII)

SALMO 112: “LAUDATE, PUERI, DOMINUM”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS -LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 112

Alleluja.

 [1]  Laudate, pueri, Dominum,

laudate nomen Domini.

[2] Sit nomen Domini benedictum ex hoc nunc et usque in sæculum.

[3] A solis ortu usque ad occasum laudabile nomen Domini.

[4] Excelsus super omnes gentes Dominus, et super cælos gloria ejus.

[5] Quis sicut Dominus Deus noster, qui in altis habitat,

[6] et humilia respicit in cœlo et in terra?

[7] Suscitans a terra inopem, et de stercore erigens pauperem:

[8] ut collocet eum cum principibus, cum principibus populi sui.

[9] Qui habitare facit sterilem in domo, matrem filiorum lœtantem.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXII.

Si lodi Dio, principalmente perché, essendo egli altissimo, non isdegna abbassare gli occhi fino a noi, ed arricchirci di beneficii.

Alleluja: Lodate Dio.

1. Fanciulli, lodale il Signore, lodate il nome del Signore.

2. Sia benedetto il nome del Signore, da questo punto fino nei secoli.

3. Dall’oriente fino all’occaso ha da lodarsi il nome del Signore.

4. Il Signore è eccelso presso tutte le genti; e la gloria di lui fin sopra de’ cieli.

5. Chi è come il Signore Dio nostro, che abita nell’alto,

6. e delle basse cose tien cura in cielo e in terra? (1)

7. Ei dalla terra solleva il mendico, e il povero alza dal fango,

8. Per metterlo a sedere tra’ principi, tra i principi del suo popolo.

9. Egli la donna sterile fa che abili nella casa, lieta madre di figli.

(1) « Nel cielo e sulla terra. » Queste due parole si riferiscono a parti della frase che precede e devono essere così intese: Chi è come il nostro Dio che si eleva per abitare nei cieli, e che abbassa gli occhi fino a riguardare la terra? (Le Hir.).

Sommario analitico

Questo salmo è un invito indirizzato a tutti i fedeli di lodare la grandezza, la potenza, la bontà di Dio Creatore e salvatore. (1).

I. – Questa lode deve essere resa pubblica:

1° Da tutti i fedeli (1); 2° in tutti i tempi (2); 3° In tutti i luoghi (3). 

II. – Motivo di questa lode – Essa è dovuta a Dio:

1° A causa della sua maestà, che infinitamente al di sopra dei cieli, degli Angeli e degli uomini (4);

2° A causa della sua bontà, che abbassa i suoi sguardi sui piccoli e li toglie dalla loro abiezione per farli sedere con i principi del suo popolo (5-8);

3° A causa della sua potenza, che dà la fecondità della fede e delle buone opere alla Chiesa delle nazioni, fino ad allora sterile (9).  

(1) Questo salmo si applica in un primo senso molto imperfetto, al ritorno da Babilonia, dopo il quale esso è stato composto, come lo prova lo stile, ed in un senso molto più perfetto, alla redenzione del genere umano, figurato da questo ritorno, e alla Chiesa divenuta madre di numerosi figli (Le Hir.).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-3

ff. 1-3. – Le Sacre Scritture, ed il Salmista in particolare, tornano sovente sul sacrificio di lode che si deve offrire a Dio … Questo non è la sola lezione che ci offre questo salmo, ma esso serve a condurci a formare un solo coro per non fare che un unico concerto. Così, esso non si indirizza ad una o due persone, ma al popolo intero … Così il Salvatore, che preghiamo da soli o con altri, ci ordina costantemente di entrare con i nostri fratelli in una vera comunione di preghiera (S. Chrys.) – Quando sentite cantare « Pueri, lodate il Signore, » non crediate che questa esortazione non vi riguardi, con il pretesto che avendo già oltrepassato fisicamente l’età dell’infanzia, siete nel verde vigore della giovinezza, o che la corona della vecchiaia imbianchi la vostra fronte; perché l’Apostolo dice a tutti: « non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi.» (I Cor. XIV, 20). Da quale malizia dobbiamo essere soprattutto esenti, se non dall’orgoglio? Perché l’orgoglio, per la presunzione che dà come vanagloria, impedisce all’uomo di camminare per la via stretta e di entrare. Ora, un bambino passa facilmente in una via stretta; ecco perché nessuno, se non è come un bambino piccolo, entrerà nel regno dei cieli. (S. Agost.). – Tutti gli uomini hanno dei motivi particolari per lodare Dio, ma nessuno deve, a più giusto titolo, celebrare le sue lodi e rendere pubbliche le sue grandezze, che la gioventù e la prima età: l’orizzonte della vita si svolge magnifico ai loro sguardi, il cuore deborda di sentimenti di speranza. – La lode dei bambini è gradita a Dio a causa della loro purezza, della loro semplicità. – Cerchiamo di essere noi stessi bambini per la semplicità, la docilità, l’umiltà e l’innocenza (I Cor. XIV, 20), e potremo, anche nel vigore dell’età matura, ed anche giunti al tempo della canizie, prendere per noi queste parole e metterle in pratica. (Mgr. Pichenot, Ps. du D.). – La semplicità cristiana ha la sua infanzia, molto superiore all’infanzia naturale. L’infanzia è l’emblema dell’umiltà, che contrasta con la vana e falsa grandezza dell’orgoglio; in questo senso la vostra vecchiaia sia un’infanzia e la vostra infanzia una vecchiaia, vale a dire: la vostra saggezza sia umile e la vostra umiltà saggia, affinché lodiate Dio nel presente e fino all’eternità.- Non bisogna stupirsi che il Profeta ci inviti così spesso a lodare il nome del Signore, la cui essenza adorabile sfugge ai nostri sensi ed al nostro spirito, mentre il suo Nome ci è manifestato dai suoi oracoli e dalle sue opere, ed è per questo che i libri santi gli danno tanti nomi. È dunque con il Nome, o se si vuole, con i nomi di Dio, che noi giungiamo fino a Lui, ed è questo il motivo per cui Gesù-Cristo ci indirizza al suo santo Nome ordinandoci di dire: « Sia santificato il tuo Nome. » (Berthier). – Per noi c’è l’obbligo tanto più grave di benedire, di lodare il Nome di Dio, che è bestemmiato e maledetto da un gran numero di persone che, nell’impero di Dio, tra le sue opere, tra i suoi benefici, proferiscono verso questo santo Nome delle esecrazioni che fanno fremere la natura. – « Dal sorgere del sole fino al suo tramonto, il Nome del Signore, sia degno di lode. » Ogni giorno, Dio ci accorda nuovi favori; in ogni ora del giorno ci colma di nuovi benefici. – Non c’è alcun giorno dell’anno che non fornisca all’uomo il soggetto di nuovi cantici. – Non c’è contrada nell’universo che non riceva i favori di Dio e le influenze del suo amore. – « Dal sorgere del sole fino al tramonto, il mio Nome è grande tra le nazioni, e si sacrifica e si offre in ogni luogo una oblazione pura al mio Nome, perché il mio Nome è grande tra le nazioni. » (Malach I, 11). – « Dal sorgere del sole fino al suo tramonto, » vale a dire dalla nostra nascita fino alla morte. (S. Girol.). La vita dei Santi è comparata giustamente al sole nel suo sorgere e nel suo tramonto, perché essi sono i bambini della luce e la luce del mondo. – « Che il nome del Signore sia benedetto da ora ed in tutti i secoli dei secoli. » Il Nome del Signore sia benedetto da voi « dal momento presente », cioè dal momento in cui lo fate. La vostra lode cominci in effetti, ma non finisca; lodate dunque il Signore dal presente fino all’eternità; « lodatelo senza mai fermarvi! » Guardatevi dal dire: oggi cominciamo a lodare Dio, perché noi siamo ancora piccoli bambini; ma quando avremo creduto e saremo diventati grandi, allora saremo noi a lodarci. Non fate nulla, bambini, non fate nulla; perché il Signore ha detto per bocca di Isaia: « Io sono, e quando voi vegliate, io sono, e mentre voi vegliate, Io sono. » (Isai. XLVI, 4) Colui che bisogna lodare ogni giorno, è Colui che è. Bambini, lodatelo fin dal presente; vegliardi, lodatelo per l’eternità. Perché allora la vostra vecchiaia si coronerà di bianchi capelli e di saggezza, ma non appassirà  con la caducità della carne (S. Agost.). – Io mi dedicherò a questo Oriente ed Occidente; dal mattino renderò a Dio i miei omaggi; terminando la giornata, lo adorerò e lo benedirò, si avrà nella mia vita un Oriente ed un Occidente, delle luci e delle tenebre, degli avvenimenti felici e delle avversità; io riceverò tutto dalla sua mano, e Gli renderò delle azioni di grazie. Dall’oriente dei miei giorni, dalla mia infanzia dovrò dedicarmi interamente al suo servizio; io sono stato infedele nell’adempiere a questo dovere; sono al termine della mia carriera, il termine si avvicina, almeno devo consacrargli questi pochi giorni che mi accorda affinché, quando la luce si spegnerà per noi, possiamo gioire in pieno giorno della gloria nell’eternità (Berthier). 

II. — 4 – 9

ff. 4. – « Il Signore è eccelso su tutte le genti. » La nazioni sono composte da uomini, cosa c’è di strano che Dio sia elevato sopra gli uomini? Questi adorano il sole, la luna e le stelle, che i loro occhi vedono brillare nel cielo sopra di essi, ed abbandonano il Creatore, al Quale obbediscono tutte le creature; ma il Signore non è eccelso solo sopra tutte le nazioni: la sua gloria è eccelsa anche sopra i cieli. « I cieli lo vedono al di sopra di essi, e gli umili, che la carne relega al di sotto del cielo, ma che non adorano il cielo al suo posto, lo possiedono in se stessi. » (S. Agost.). – Nell’ordine morale, come nell’ordine fisico, Dio è grande, Dio solo è grande, ed è questo nuovo motive per rendere pubbliche le sue lodi. Nell’ordine morale, il Re-Profeta dice tutto con una sola parola: « Il Signore è eccelso sopra le nazioni. » Egli tiene nelle sue mani le redini di tutti gli imperi, governa i popoli ed i re; Egli dirige, muta le volontà senza vincoli e dispiaceri al compimento delle sue volontà. Coloro che Gli resistono lo servono; coloro che hanno la pretesa di portare le armi contro di Lui, difendono la sua causa … nell’ordine fisico, qual gloria, qual magnificenza! … Nel cielo dei cieli, Egli vede ai suoi piedi milioni di spiriti puri, i nove cori degli Angeli formano la sua augusta milizia. (Mgr, Pichenot, Ibid.). 

ff. 5-8. – Quando I desideri dei beni o dei piaceri della terra ci pressano, il mezzo più sicuro per resistere e liberarcene, sarebbe chiedere a noi stessi: Quale oggetto può essere comparabile al Signore, mio Dio? Non possiede Egli tutte le perfezioni, tutti i beni, tutte le beltà? (Berthier). – Cosa di più sublime e nello stesso tempo, di più toccante del contrasto stabilito qui dal salmista tra la grandezza incomparabile di Dio, questo sovrano delle nazioni, il Dio che i cieli non possono contenere negli spazi incommensurabili, e questa bontà incomprensibile con la quale Egli si compiace di sollevare il povero dalla terra e l’indigente dal letame, per farlo sedere tra i principi, con la quale Egli si degna ancora di accondiscendere fino all’umile donna priva delle dolcezze della maternità, e di consolarne l’afflizione. – I re del mondo, i grandi della terra, crederebbero di disprezzare ed avvilirsi se si curvassero verso chi è al di sotto di loro … Così non è per il nostro Dio: Egli solo è grande e dalle profondità della sua eternità, contempla e benedice, perso nel tempo e nello spazio, ciò che ha di più umile e più povero. È sui piccoli ed i disgraziati che Egli di preferenza abbassa gli sguardi della sua misericordia. « Su chi getterò gli occhi se non sul povero che ha il cuore infranto, e che ascolta le mie parole con tremore? » (Isai., LXVI, 2). – « Chi è simile al Signore nostro Dio, che abita nei luoghi più elevati, » cioè nei Santi, Egli abita negli umili? Si, Egli li abita, perché abbassa i suoi sguardi verso gli umili, come è scritto: « Su chi abbasserò i miei sguardi, se non su colui che è umile, e che trema ascoltando le mie parole? » – Quando i Santi sono elevati? Quando contemplano le cose celesti. Essi sono umili sulla terra, quando si umiliano nelle opere della vita attiva, e si elevano nelle meditazioni della vita contemplativa. Essi sono umili sulla terra, ma sono elevati davanti a Dio. Perché il salmista non ha detto: Dio abita negli umili? Ma « Egli abbassa i suoi sguardi sugli umili. » Perché Dio getta i suoi sguardi là ove abita, ed Egli abita là dove getta i suoi sguardi (S. Gerolamo). – Nelle anime elevate ove abita, Egli guarda ciò che è umile. In effetti Egli eleva gli umili in modo da non renderli orgogliosi. Ecco perché Egli abita nelle altezze dei cieli che Egli stesso ha elevato; Egli fa di essi il suo cielo, cioè il suo trono; e tuttavia vedendoli sempre, non orgogliosi ma sottomessi, considera chi è umile come il cielo stesso, di cui abita la altezze. È ciò che ci insegna lo Spirito Santo per bocca di Isaia. «Ecco ciò che dice l’Altissimo, che abita il luoghi elevati ed il cui Nome è eterno, il Signore Altissimo che prende il suo riposo nei Santi. » (LVII, 15). Ma quali sono i Santi, se non gli umili che, facendosi bambini, glorificano il Signore? (S. Agost.). È il carattere di una potenza veramente grande ed ineffabile elevare ciò che è piccolo (S. Chrys.). – È una legge provvidenziale che Davide ha constatato da se medesimo, e che si può applicare agli uomini che Dio ha tratto dall’oscurità per elevarli al primo posto: Giuseppe, Mosè, Davide stesso e tanti altri. – Ma questa parola ha avuto il suo compimento in modo più sublime nella trasformazione della natura umana con l’Incarnazione del Verbo. Quale povertà più grande di quella della nostra natura? E tuttavia il Figlio di Dio è disceso dal cielo in terra per venire a cercare questa natura fin nella polvere ed il fango del vizio; Egli ti ha estratto da questo abisso di abiezione per elevarti fino a Lui; Egli ha trasportati nei cieli le primizie di questa natura e l’ha fatta sedere sul trono del Padre. Il letame figura qui l’abiezione della condizione, ed il cambiamento subìto, di cui è l’oggettiva prova che per Dio, tutte le cose sono semplici e facili (S. Chrys.). –  Il Profeta volendo insegnarci perché si trovano umili cose in cielo, quando il nome di cielo si applica a grandi Santi spirituali e degni di sedere come giudici sui dodici troni, il Profeta, aggiunge subito: « Egli eleva da terra ciò che è nell’indigenza, trae dal letame colui che è nella povertà, al fin di porlo con i principi del suo popolo. » Che le teste più elevate non disdegnino di essere umili sotto la mano del Signore, perché benché il fedele dispensatore delle ricchezze del Signore sia posto tra i principi del popolo di Dio, non di meno lo è l’indigente elevato da terra, e il povero estratto dal letame (S. Agost.). – Il Signore rinnova questo miracolo di potenza e di bontà per ogni peccatore in particolare nel Battesimo e nella Penitenza; egli tira via dal letame e dalla corruzione del suo peccato per porlo nel cielo e offrirgli un posto tra i principi del suo popolo, tra gli Angeli e gli altri abitanti della Gerusalemme celeste.

ff. 9. – Così come la più grande sventura degli uomini è lo stato di oscurità e di disprezzo, la sterilità è una delle pene più sensibili per le donne. (Bellarm.). – Ma non soltanto Dio può operare anche strabilianti cambiamenti, da far succedere la grandezza alla bassezza, ma Egli può dislocare i limiti della natura e dare la fecondità a colei che era sterile: cosa che è accaduta a Sara, Rebecca, Rachele e tante altre. In un senso più elevato, il salmo vuole qui parlare della Chiesa, formata da tutte le nazioni e che, dopo essere rimasta per lungo tempo sterile, ha prodotto nella sua vecchiaia una numerosa posterità, secondo queste parole di Isaia: « Rallegrati sterile, che non hai partorito; emettete grida di gioia, voi che non diventate madri, perché colei che era abbandonata ha più figli della maritata. » (Isai. LIV, Gal., V), – Chi ama la Chiesa come sua madre, non può vedere questa fecondità senza entrare nella gioia. – Questa donna sterile è pure la nostra anima che da se stessa non può concepire né il pensiero del bene, né germogliare la virtù; ma che diviene feconda o per una conversione totale, o per un rinnovo del fervore. Tutto fruttifica in quest’anima resa feconda dal divino Sposo, e la gioia spirituale è la prima ricompensa che Egli versa su questa sposa divenuta degna di Lui (Berthier).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI (ANCHE CON CAZZUOLA E GREMBIULINO) DI TORNO: S. S. PIO IX – “EXORTÆ IN ISTA”

Ancora e sempre il nemico infernale viene snidato dal Santo Padre, Pio IX, anche in questa parte del Nuovo Mondo, ove il serpente diabolico si era rifugiato ed annidato onde attaccare celato ai più, e portare colpi alla santa Chiesa di Cristo. In effetti la Massoneria ha trovato da subito ampi spazi nel continente americano, ove ha potuto sperimentare forme di azione lontano dalle società europee ove era già abbastanza nota, detestata ed in qualche modo combattuta. Non a caso è nelle Americhe che hanno potuto sferrare colpi mortali i personaggi più corrotti e malefici in assoluto della storia, mascherati da presidenti, reali, alti dignitari, ministri, “eroi nazionali”, etc. etc., aderenti alle logge di obbedienze varie, ma tutte guidate dai nemici del genere umano, i c. d. “superiori sconosciuti”, assoggettati a Lucifero, come – a mo’ di esempio – i nostri Garibaldi, Mazzini, e via discorrendo, fino agli attuali finti gesuiti dei Paesi caldi che hanno in tutta tranquillità potuto “generare” figure abominevoli, e così sferrare un colpo mortale alla già oltremodo saccheggiata Chiesa Cattolica. Il Santo Padre Pio IX ancora una volta ricorda le scomuniche riservate alla Sede Apostolica che sia i suoi predecessori, lui stessi ed i suoi successori hanno poi confermato e che tutta sono in vigore a dannazione di aderenti iscritti, sostenitori a qualunque titolo, in qualsiasi ambito, a qualunque livello, sia pure come votanti alle elezioni politiche ove si sostengono canditati di chiara estrazione massonica, ed oggi intrufolati pure nelle strutture ecclesiastiche di tutto l’orbe. Il loro vero obiettivo, nell’infiltrare tutta la società civile, politica, finanziaria ed ecclesiastica, è la distruzione della Chiesa Cattolica, in particolare nella persona del Vicario di Cristo, onde poggiare la “corona-lucifero” sul capo dell’anticristo e dei suoi adepti infernali, gli uomini che vogliono sottomettere le bestie-cristiane e portarle, per disposizione demoniaca, al fuoco dell’eterna perdizione. Ma come sempre, anche questa volta, benché il piano sia stato più scaltro ed articolato del solito, per la contraffazione della Chiesa di cui è rimasta una vuota conchiglia, e si è trasformata nell’apparenza in una vera e propria sinagoga satanica, guidata da mostri abominevoli e sacrileghi, il loro piano si incepperà e “Dio … irredebit eos” e la Vergine Immacolata … conteret capita eorum, .. aspettare per credere, oramai ci siamo!

S. S. PIO IX

EXORTÆ IN ISTA

– Epistola de massonica secta

Forte richiamo a vigilare contro le insidie delle sette e della massoneria inparticolare. Rinnova il divieto di aggregarsi a questa sotto pena di scomunica maggiore riservata al Romano Pontefice.

[Pii. IX, 29 aprilis 1876, P. M. Acta, I/7. Pp. 210-214; ASS 9(1876), PP. 338-342]

Venerabilibus fratribus Episcopis Brasilianæ regionibus

I disordini originati in questa giurisdizione negli anni scorsi da persone che, benché adepte della setta massonica, si introdussero nelle comunità dei pii cristiani, come condussero voi, venerabili fratelli, soprattutto nelle diocesi di Olinda e Belem do Para, a un grave tormento, così, come sapete, riuscirono molto moleste e dolorose al nostro animo. Infatti non potevamo considerare senza dolore il fatto che la peste letale, di quella setta si era diffusa fino a corrompere le predette comunità, e di conseguenza le istituzioni disposte per rinforzare lo spirito sincero della fede e della pietà, dopo che vi era stata sparsa sopra la funesta messe della zizzania, erano precipitate in una misera condizione. Noi perciò, richiamati dal Nostro dovere apostolico e sotto lo sprone della paterna carità, con la quale seguiamo questa parte del gregge di Dio, ritenemmo di dover affrontare senza esitazione questo male e con la lettera del 29 maggio 1873 facemmo giungere a te, venerabile fratello di Olinda, la nostra voce contro questo deplorevole pervertimento entrato dentro le comunità cristiane, osservando tuttavia un criterio di indulgenza e clemenza verso quanti erano diventati seguaci della setta massonica perché ingannati e illusi, quello cioè di sospendere per un tempo congruo la riserva delle censure nelle quali essi erano incorsi, volendo che essi approfittassero della nostra benignità per esecrare i loro errori e abbandonare, condannandole, le associazioni in cui erano entrati. Ti incaricammo inoltre, venerabile fratello di Olinda, di sopprimere e di dichiarare soppresse le predette comunità se, trascorso quel periodo di tempo, non si fossero ravvedute e di ricostituirle integralmente con le modalità che avevano all’origine, inserendo nuovi membri immuni da ogni contaminazione con la massoneria. Noi inoltre, desiderando mettere in guardia – come è nostro dovere – tutti i fedeli contro le astuzie e le insidie dei membri delle sette, nella lettera enciclica indirizzata ai vescovi di tutta la cattolicità il 21 novembre 1873, richiamammo con chiarezza in quella occasione alla memoria dei fedeli le disposizioni pontificie emanate contro le corrotte società degli aderenti alle sette e proclamammo che nelle costituzioni venivano colpite non solo le associazioni massoniche costituite in Europa, ma anche tutte quelle che si trovano in America e nelle altre regioni di tutto il mondo. Non potemmo quindi non stupirci vivamente del fatto che, essendo state tolte con la Nostra autorità e con decisioni miranti alla salvezza dei peccatori gli interdetti a cui in queste regioni erano state sottoposte alcune chiese e comunità composte in gran parte da seguaci della massoneria, fu tratta da ciò l’occasione per diffondere tra la gente la convinzione che la società massonica presente in queste regioni era esclusa dalle condanne delle regioni apostoliche e quindi che le stesse persone aderenti alla setta potevano tranquillamente fare parte delle comunità dei pii Cristiani. Ma quanto queste opinioni siano lontane dalla verità e dal nostro modo di sentire, è dimostrato con chiarezza sia dagli atti che abbiamo ricordato prima, sia dalla stessa lettera scritta al serenissimo imperatore di codeste regioni il 9 febbraio 1875 nella quale, mentre garantivamo che sarebbe stata revocata l’interdizione gravante su alcune chiese di codeste diocesi se voi, venerabili fratelli, tenuti ingiustamente in carcere a Para e a Olinda, foste stati rimessi in libertà, aggiungemmo tuttavia una riserva e una precisa condizione, cioè che i seguaci della massoneria fossero rimossi dagli incarichi che occupano nelle comunità. E questa condotta suggerita dalla Nostra prudenza non ebbe e non avrebbe potuto avere altro proposito se non che, esauditi da parte Nostra i desideri dell’imperatore e ripristinata la tranquillità degli animi, offrissimo al governo imperiale l’opportunità di restituire all’antica condizione le pie comunità togliendone l’inquinamento portato dalla massoneria e nello stesso tempo far sì che gli uomini della setta condannata, mossi dalla Nostra clemenza verso di loro, procurassero di sottrarsi alla via della perdizione. E affinché in una questione così grave non possa restare alcun dubbio né alcuna possibilità di inganno, non tralasciamo di dichiarare nuovamente in questa occasione che tutte le società massoniche, sia di queste regioni sia esistenti altrove, delle quali da parte di molti, o tratti in inganno o traenti essi in inganno, si dice che mirino soltanto all’utilità e al progresso sociale e alla pratica dell’aiuto reciproco, sono vietate e colpite dalle costituzioni e dalle condanne apostoliche, e che quanti malauguratamente si sono iscritti alle medesime sette incorrono per questo solo fatto nel più grave provvedimento della scomunica riservato al Romano Pontefice. Né con minore sollecitudine raccomandiamo al vostro zelo che in queste regioni la dottrina religiosa venga trasmessa diligentemente al popolo cristiano con la predicazione della parola di Dio e gli opportuni insegnamenti; sapete infatti quale utilità deriva al gregge di Cristo da questa parte del ministero se viene esercitata bene, quali danni gravissimi se viene trascurata. – Ma oltre agli argomenti trattati qui, siamo costretti a deplorare l’abuso di potere da parte di coloro che presiedono le già ricordate comunità, i quali, come appunto ci è stato riferito, revocando ogni cosa secondo il loro arbitrio, pretendono di attribuirsi una illegittima autorità sui beni e le persone sacre e sulle cose spirituali, in modo tale che gli ecclesiastici e gli stessi parroci sono completamente assoggettati al potere di quelli nel compimento dei doveri del loro ministero. Questo comportamento è affatto contrario non solo alle leggi ecclesiastiche, ma allo stesso ordine costituito da Cristo Signore nella sua Chiesa; infatti i laici non sono stati posti a capo del governo ecclesiastico, ma per loro utilità e per la loro salvezza devono essere sottoposti ai legittimi Pastori ed è loro compito offrirsi come aiutanti del clero per le singole situazioni, mentre non devono intromettersi in quelle cose che sono state affidate da Cristo ai sacri pastori. Perciò non conosciamo niente di più necessario del fatto che gli statuti delle predette comunità siano redatti secondo il retto ordine e quanto in essi è fuori dalla norma e incongruo per qualche aspetto venga reso perfettamente conforme alle regole della Chiesa e alla disciplina canonica. Per raggiungere questo fine, venerabili fratelli, Noi, considerate le relazioni che intercorrono tra le comunità stesse e il potere civile, in ciò che concerne la loro costituzione e il loro ordinamento nelle cose temporali abbiamo già dato al nostro Cardinale Segretario di Stato gli opportuni mandati per agire insieme col governo imperiale e concertare con lo stesso gli sforzi utili per ottenere i risultati desiderati. Confidiamo che l’autorità civile unirà al Nostro il suo sollecito interessamento per questo e preghiamo con ogni Nostra forza Dio, dal quale provengono tutte le cose buone, perché si degni di accompagnare e sostenere con la sua grazia quest’opera attinente alla tranquillità della Religione e della società civile. Anche voi, venerabili fratelli, unite le vostre preghiere alla Nostre, perché questi desideri si realizzino e in pegno del Nostro sincero amore ricevete l’apostolica benedizione, che a voi e al clero e ai fedeli affidati alla cura di ciascuno di voi, impartiamo di cuore nel Signore.

Roma, presso San Pietro, 29 aprile 1876, anno XXX del Nostro pontificato.

PIO PP. IX

DOMENICA III di QUARESIMA (2020)

DOMENICA III DI QUARESIMA (2020)

 (Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Lorenzo fuori le mura.

Semidoppio, Dom. privil. di I cl. • Paramenti violacei.

L’assemblea liturgica si tiene in questo giorno a S. Lorenzo fuori le mura che è una delle cinque basiliche patriarcali di Roma. In questa chiesa si trovano i corpi di due diaconi Lorenzo e Stefano. L’Orazione del primo (10 agosto) ci fa domandare di estinguere in noi l’ardore dei vizi come questo Santo superò le fiamme dei suoi tormenti; e quella del secondo (26 dicembre) ci esorta ad amare i nostri nemici come questo Santo che pregò per i suoi persecutori. Queste due virtù: la castità e la carità, furono praticate soprattutto dal patriarca Giuseppe, di cui la Chiesa ci fa la narrazione nel Breviario proprio in questa settimana. Giuseppe resistette alle cattive sollecitazioni della moglie di Putifarre e amò i fratelli fino a rendere loro bene per male. (Nel sacramentario Gallicano – Bobbio – , Giuseppe è chiamato il predicatore della misericordia; e la Chiesa, nella solennità di S. Giuseppe, proclama in modo speciale la sua verginità.) Quando Giuseppe raccontò ai fratelli i suoi sogni, presagio della sua futura gloria, essi concepirono contro di lui tanto odio, che presentatasi l’occasione, si sbarazzarono di lui gettandolo in una cisterna senza acqua. Di poi lo vendettero ad alcuni Ismaeliti che lo condussero in Egitto e lo rivendettero ad un nobile egiziano di nome Putifarre. Fu appunto lì che Giuseppe resistette energicamente alle sollecitudini della moglie di Putifarre e divenne per questo il modello della purezza (la Chiesa nel corso di questa settimana, – Epistola e Vangelo di sabato – legge ì brani della donna adultera e di Susanna. I Padri della Chiesa spesso hanno messo in rapporto quest’ultima con Giuseppe). – « Oggi, dice S. Ambrogio, vien offerta alla nostra considerazione la storia del pio Giuseppe. Se egli ebbe numerose virtù, la sua insigne castità risplende in modo del tutto speciale. È giusto quindi che questo santo Patriarca ci venga proposto come lo specchio della castità » (Mattutino). Giuseppe accusato ingiustamente dalla moglie di Putifarre, fu messo in prigione: egli si rivolse a Dio, lo pregò di liberarlo dalle sue catene. L’Introito usa espressioni analoghe a quelle della preghiera di Giuseppe: « 1 miei occhi sono rivolti senza tregua verso il Signore, poiché Egli mi libererà dagli inganni ». « Come gli occhi dei servi sono fissi verso i padroni, continua il Tratto, cosi io volgo il mio sguardo verso il Signore, mio Dio, fino a quando non avrà compassione di me ». Allora « Dio onnipotente riguarda i voti degli umili, e stendi la tua destra per proteggerli » (Orazione). Faraone difatti fece uscire Giuseppe dalla prigione, lo fece sedere alla sua destra e gli affidò il governo di tutto il suo regno. Giuseppe prevenne la carestia che durò sette anni; il Faraone allora lo chiamò « Salvatore del popolo ». (Il Vangelo dà una sola volta questo titolo a Gesù, quando parla alla Samaritana presso il pozzo di Giacobbe, Questo Vangelo è quello del Venerdì della stessa settimana, consacrato alla storia di Giuseppe). – In questa occasione i fratelli di Giuseppe vennero in Egitto ed egli disse loro: « Io sono Giuseppe che voi avete venduto. Non temete. Dio ha tutto disposto perché io vi salvi da morte ». La felicità di Giacobbe fu immensa allorché poté rivedere il figlio; egli abitò con i suoi figli nella terra di Gessen, che Giuseppe aveva loro data. « La gelosia dei fratelli di Giuseppe, dice S. Ambrogio, è il principio di tutta la storia di Giuseppe ed è ricordata nello stesso tempo per farci apprendere che un uomo perfetto non deve lasciarsi andare alla vendetta di un offesa o a rendere male per male » (Mattutino). È impossibile non riconoscere in tutto questo una figura di Cristo e della sua Chiesa. – Gesù, figlio della Vergine Maria (Vang.), è il modello per eccellenza della purità verginale. Il Vangelo lo mostra in lotta in modo speciale contro lo spirito impuro. Il demonio che egli scaccia col dito di Dio, cioè per virtù dello Spirito Santo, dal muto ossesso, era « un demonio impuro », dicono S. Matteo e San Luca. La Chiesa scaccia dalle anime dei battezzati il medesimo spirito immondo. Si sa che la Quaresima era un tempo di preparazione al Battesimo e in questo Sacramento il Sacerdote soffia per tre volte sul battezzato dicendo: « esci da lui, spirito impuro, e fa luogo allo Spirito Santo ». « Ciò che si fece allora in modo visibile, dice S. Beda nel commento del Vangelo, si compie invisibilmente ogni giorno nella conversione di quelli che divengono credenti, affinché dapprima scacciato il demonio esse scorgano poi il lume della fede, indi la loro bocca, prima muta, si apra per lodare Dio » (Mattutino). « Né gli adulteri, né gli impudichi, dice parimente S. Paolo nell’Epistola di questo giorno, avran parte nel regno di Cristo e di Dio. Non si nomini neppure fra voi la fornicazione ed ogni impurità. Specialmente in questo tempo di lotta contro satana, noi dobbiamo imitare Gesù Cristo di cui Giuseppe era la figura. Questo Patriarca ci dà ancora l’esempio della virtù della carità, come Gesù e la sua Chiesa. Gesù, odiato dai suoi, venduto da uno degli Apostoli, morendo sulla croce, pregò per i suoi nemici. Pregò Dio, ed Egli lo glorificò facendolo sedere alla sua destra nel suo regno. Nella festività di Pasqua, Gesù, per mezzo dei Sacerdoti, distribuirà il frumento eucaristico, come Giuseppe distribuì il frumento. Per ricevere la Santa Comunione, la Chiesa esige questa carità, della quale S. Stefano, le cui reliquie si conservano nella chiesa stazionale, ci diede l’esempio perdonando ai suoi nemici. Gesù esercitò questa carità in grado eroico « allorché offrì se stesso per noi » sulla croce (Ep.), di cui l’Eucaristia è il ricordo. — La figura di Giuseppe e la stazione di questo giorno illustrano in una maniera perfetta, il mistero pasquale al quale la liturgia ci prepara in questo tempo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV: 15-16.

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam unicus et pauper sum ego.[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

Ps XXIV: 1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam, [A Te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam únicus et pauper sum ego. [I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

 Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, vota humílium réspice: atque, ad defensiónem nostram, déxteram tuæ majestátis exténde. [Guarda, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, ai voti degli úmili, e stendi la potente tua destra in nostra difesa.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.

Ephes. V: 1-9

“Fratres: Estote imitatores Dei, sicut fílii caríssimi: et ambuláte in dilectióne, sicut et Christus dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis oblatiónem, et hostiam Deo in odorem suavitátis. Fornicatio autem et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, sicut decet sanctos: aut turpitudo aut stultiloquium aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet: sed magis gratiárum actio. Hoc enim scitóte intelligentes, quod omnis fornicator aut immundus aut avarus, quod est idolorum servitus, non habet hereditátem in regno Christi et Dei. Nemo vos sedúcat inanibus verbis: propter hæc enim venit ira Dei in filios diffidéntiæ. Nolíte ergo effici participes eórum. Erátis enim aliquando tenebrae: nunc autem lux in Dómino. Ut fílii lucis ambuláte: fructus enim lucis est in omni bonitate et justítia et veritáte.”

OMELIA I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli, Sc. Tip. Arciv. Artigianelli – Pavia, 1929]

L’IMPURITÀ’

“Fratelli: Siate imitatori di Dio, come figli carissimi, e camminate nell’amore, come anche Cristo ha amato noi, e si è dato per noi a Dio, quale oblazione e sacrificio di soave odore. Della fornicazione, di ogni impurità, dell’avarizia non si faccia neppur menzione tra voi, come si conviene a santi: nessun turpiloquio, nessun discorso sciocco, nessuna scurrilità, tutte cose che disdicono; ma piuttosto il rendimento di grazie. Poiché, sappiatelo bene: nessun fornicatore, nessun impudico, nessun avaro, cioè idolatra, ha eredità nel regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi seduca con dei discorsi vani; poiché per tali cose viene l’ira di Dio sopra i figli della disubbidienza. Non vogliate dunque avere comunanza con costoro. Un tempo, invero, eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signore. Camminate da figli della luce. E frutto della luce, poi, consiste in ogni sorta di bontà, di giustizia, di verità”. (Ef. V, 1-9).

Efeso, sul mare Egeo, era la capitale dell’Asia proconsolare. Era celebre pel commercio e più ancora per il tempio di Diana, ritenuto una delle meraviglie del mondo, e meta di frequenti pellegrinaggi. S. Paolo ne fece come il centro della sua attività apostolica nell’Asia minore. Lontano da Efeso, in prigionia. l’Apostolo non dimentica la Chiesa da lui fondata. Nella Chiesa di Efeso, come nelle altre dell’Asia minore, andavano infiltrandosi degli errori, che corrompevano la dottrina da lui predicata. L’Apostolo scrive una lettera, indirizzata agli Efesini, nella quale, a premonire i fedeli contro le sottigliezze dell’errore, espone il piano della Redenzione, trattando dei grandi benefìci comunicatici per mezzo di Gesù Cristo. Esorta inoltre gli Efesini a vivere secondo il Vangelo, e viene a parlare dei doveri generali e particolari dei cristiani. Dal capo V di questa lettera è tolta l’epistola odierna. Dio ha usato verso gli uomini una carità immensa, perdonando i loro debiti per i meriti di Gesù Cristo. Davanti a tanta dimostrazione di amore il Cristiano non può rimanere indifferente. Perciò San Paolo inculca agli Efesini che siano imitatori di Dio e di Gesù Cristo nella carità verso il prossimo e nel perdono delle offese ricevute. Fuggano, poi, l’avarizia e la disonestà, tanto nelle opere, quanto nelle parole, se non vogliono rimaner esclusi dal regno dei cieli. Non si lascino ingannare da chi insegna che questi peccati sono cosa da nulla. A ogni modo, essi sono figli della luce; pratichino, adunque, le opere della luce e non quelle delle tenebre. Tra le opere delle tenebre è certamente l’impurità, la quale:

1. È di una bruttezza tutta particolare.

2. Attira gravi castighi da parte di Dio.

3. È oltremodo sconveniente per un Cristiano.

1.

Della fornicazione, di ogni impurità, dell’avarizia non si faccia neppur menzione tra voi. Impurità e avarizia erano le due grandi piaghe della società pagana, dalla quale i novelli Cristiani provenivano. Era troppo forte, nelle circostanze in cui vivevano, la voce allettatrice al ritorno a questi vizi. E S. Paolo li mette in guardia.Se tra i pagani questi peccati sono detestevoli, tra i Cristiani, chiamati a una vita di santità, non si devono neppur nominare. Sull’impurità specialmente insiste l’Apostolo. Non solo si devono fuggire le azioni; ma se ne devono mantenere assolutamente puri la mente e il cuore. Perciò soggiunge: nessun turpiloquio, nessun discorso sciocco, nessuna scurrilità, tutte cose che disdicono.L’orrore che deve suscitare questo vizio si comprende benissimo se si considera la sua bruttezza. Dei peccati belli non ce n’è neppur uno, siam tutti d’accordo. Ma nell’uso generale, quando si dice peccato brutto, s’intende senz’altro il peccato impuro. È l’uso che si trova sulla bocca del popolo e dei letterati, nei libri sacri e nei profani. Voi nominate tutti gli altri vizi con il loro nome, senza sentir ripugnanza; ma il senso morale v’impedisce di parlar con disinvoltura di questo vizio. Voi sentite il bisogno, se costretti a parlarne, di essere riservati più che sia possibile.L’impuro teme che le sue azioni siano rivelate, anche se non c’è nulla da temere da parte delle leggi umane. « Odia la purità, e nondimeno vuol comparir puro ». (S. Zenone, L . 1, Tract. 4, 2). E così accade e non di rado che uomini, i quali ti sembrano santi e retti, anzi angioli che conversano sulla terra, sono imbrattati dal vizio dell’impurità. È troppo chiaro. Quando di uno si dice: «è un dissoluto», si pronuncia una di quelle condanne che scalzano la riputazione di un uomo. Anche il solo sospetto, che altri possano sapere qualche cosa della sua condotta, mette l’impuro in agitazione; poiché anche il semplice sospetto lo rende spregevole agli occhi stessi del mondo. – La ragione fa l’uomo re dell’universo. E l’uomo che è nato a dominare, se si lascia prendere dalla passione impura, è il più abbietto degli schiavi. In luogo della ragione comanda la passione: comanda sempre, e la volontà si piega e ubbidisce, ubbidisce sempre. E queste continue sconfitte non gli mettono in mente alcun sentimento di riscossa: col tempo finisce a non veder più lo stato in cui si trova. La sua anima offuscata dalle tenebre delle passioni non riconosce più se stessa, non sa più che sia dignità. Dal mal uso è vinta, la ragione; e si avvera l’osservazione del Profeta: « L’impudicizia, il vino e l’ubriachezza tolgono il bene dell’intelletto». (Os. IV, 11). Se alcuno cerca di illuminare l’impudico, di scuoterlo, quasi sempre farà opera vana, e alla fine si adatterà all’esortazione di Michea: «Non state a far tante parole: esse non cadranno sopra costoro, né vergogna li prenderà ». (II, 6). Chi ha buttato via una volta la vergogna, non la riprende più, dice il proverbio. E questo si avvera specialmente dell’impuro.

2.

I pretesti non mancano a coloro che vogliono scusare questo peccato. Si va dicendo che non è poi un gran male; che Dio non vorrà castigarlo. Ma l’Apostolo ci mette sull’avviso: Nessuno vi seduca con dei discorsi vani; poiché per tali cose viene l’ira di Dio sopra i figli della disubbidienza. L’ira di Dio si manifesterà specialmente nel giorno del giudizio. Ma coloro che non vogliono accettare la luce del Vangelo, che si ribellano alla dottrina della Chiesa e alle esortazioni dei suoi ministri, per esser liberi nella loro vita disordinata, proveranno l’ira di Dio anche su questa terra. Limitandoci, ora al peccato impuro, apriamo la Sacra Scrittura, e vediamo con quali tremendi castighi Dio l’ha punito. Ai tempi di Noè il mondo era immerso in opere e in pensieri di carne. «Non durerà per sempre il mio spirito nell’uomo, — dice Dio — perché egli è carne; ma i suoi giorni sono contati: 120 anni». (Gen VI, 3). E mantiene la parola. Passati i 120 anni, senza che gli uomini cessassero dalla loro depravata condotta, viene il diluvio. La fine degli uomini è decisa. Tutta la terra da essi abitata è coperta dalle onde. Le acque crescono continuamente; raggiungono e sorpassano la vetta dei monti più alti. Le risa, i motteggi, gli scherni che si rivolgevano a Noè, uomo giusto, retto, il quale, in mezzo a quella generazione perversa, viveva nel timor di Dio, ora si cangiano in lamenti, in pianti, in spasimi di morte. Noè con la famiglia e con gli animali introdotti nell’arca, è salvo, e tutti gli altri trovano la tomba nelle acque. La terra si era di nuovo popolata, e di nuovo dilagava il mal costume. Corrottissimi erano i costumi degli abitanti della Pentapoli, cinque città situate in luogo amenissimo. Dio manda i suoi Angioli a punirla. «Noi siamo per distruggere questo luogo, — dicono a Lot — perché grande è il loro grido al cospetto del Signore» (Gen. XIX, 13). Gli abitanti prendono per scherzo i castighi minacciati; ma, appena partito Lot con la famiglia, fuoco e zolfo, per voler di Dio, distruggono tutto quel distretto. Periscono gli uomini, la vegetazione scompare, le città sprofondano; e nel suolo abbassato entrano le acque, che formano il triste «Mar morto». Dio vuole che non resti più traccia né dei peccatori, né dei luoghi testimoni dei loro peccati.Quel Dio, che con questi ed altri tremendi castighi punì il peccato impuro allora, è ancora quello stesso che può punirlo e lo punisce anche adesso. Non siamo tanto folli da dire: «L’Altissimo non starà lì a ricordare i miei peccati». (Eccli. XXIII, 26). Anche nel tempo di Noè i viziosi dicevano così, e non facevano alcun conto dei castighi da parte del Signore. Ma i primi non poterono sfuggire alle onde; e i secondi dovettero subire la sorte delle loro città. Non sono già, del resto, un castigo l’affanno, l’agitazione, l’amarezza che riempiono l’animo di chi si dà a questi peccati?

3.

A dimostrare quanto sia disdicevole in un Cristiano l’impurità, l’Apostolo ricorda agli Efesini la diversità della loro condizione presente da quella d’una volta: Un tempo, invero, eravate tenebre, ma ora siete luce nel SignorePrima di ricevere il Battesimo gli Efesini era schiavi del demonio, principe delle tenebre: adesso, essendo uniti a Gesù Cristo, camminano nella pienezza della luce. Quale stoltezza allontanarsi da Gesù Cristo, luce del mondo, per assoggettarsi di nuovo al principe delle tenebre! È sempre disdicevole dimenticarsi della propria condizione per poter commettere azioni, che meritano biasimo. Ma la cosa è tanto più sconveniente, quanto più chi vien meno al proprio dovere è persona costituita in dignità. La medesima mancanza, commessa da una persona del volgo e commessa da un principe, assume unaspetto diverso. La condizione del Cristiano è una condizione veramente principesca, reale. Figlio adottivo di Dio, fratello di Gesù Cristo, erede del regno celeste, quando egli compie qualche cosa che non è conveniente è molto più riprovevole di un pagano, che non è illuminato dalla luce del Vangelo, che non vive la libertà dei figli di Dio; che rimane sotto la schiavitù di satana. Che conducano una vita impura i pagani, — dice il Crisostomo — è cosa detestabile, che in certo modo, però, si spiega; «ma che conducano ancora una vita impura i Cristiani fatti partecipi di tanti misteri, e in possesso di tanta gloria è cosa che sorpassa ogni sfacciataggine, e che non si può in nessun modo tollerare». (In Ep. ad Philipp. Hom. 7, 5). « Non sapete che siete tempio di Dio, e che lo Spirito di Dio dimora in voi?» ricorda S. Paolo ai Corinti (I Cor. III, 16). Poter essere il tempio di Dio e l’abitazione dello Spirito Santo, e preferire d’essere l’abitazione dello spirito immondo, è tale demenza, che non si riesce a comprendere. Si racconta di reclusi, che, usciti dopo trenta o più anni di detenzione, si sentono come fuori di posto. L’aria libera, la vita libera, l’abito che li accomuna coi cittadini onorati, non contano più nulla per loro, e vogliono ritornare alla vita di catene e di disonore del carcere. Alcuni, interrogati se vogliono usufruire della grazia sovrana, dopo trenta o quarant’anni di ergastolo, vi rinunciano. Poveri infelici, veramente degni di compassione! Ancor più degni di compassione sono gli impudichi. Possono vivere della libertà che porta la grazia di Gesù Cristo, ma essi «convertono in lussuria la grazia del nostro Dio, e negano il solo Dominatore e Signor nostro Gesù Cristo». (Giud. IV). Salomone, considerando il misero stato a cui è ridotto il campo dell’uomo pigro, esclama: «Vedendo ciò vi feci riflessione, e tale spettacolo fu per me una lezione! » (Orov. XXIV, 32). Il Beato Salomone, dei Fratelli delle Scuole Cristiane, si trova giovanetto a Boulogne a compiere gli studi commerciali. Considerando i gran pericoli per il corpo, e più per l’anima, ai quali si esponeva gran parte dei giovani della città col darsi alla vita marinaresca, pensa tra se: «Io non sarò marinaro… Esporsi a perdere il cielo per guadagnare in modo temerario le ricchezze è follia». E, nauseato della vita poco costumata di tanta gioventù, si decide a lasciare il mondo. (Comp. Della vita del Beato Salomone Martire. Valle di Pompei, 1927, p. 10-11). Se anche noi volessimo far riflessione sul misero stato a cui si riduce il Cristiano impudico, ne ricaveremmo una salutare lezione. Se riflettiamo che « la potenza del diavolo sul genere umano è cresciuta specialmente per la lussuria », (S. Greg. M.: Hom. 22, 9) dobbiam conchiudere, che è una vera follia esporsi a perdere il cielo per dei piaceri indegni. Se riflettiamo quanto sia abbietto lo stato di un Cristiano impudico, dobbiam sentir nausea del peccato d’impurità, e deciderci, con la grazia di Dio, di starcene sempre lontani, e di risorgere tosto, se ne siamo schiavi. Preghiera continua e fuga delle occasioni ci otterranno di riuscire nei nostri propositi.

 Graduale

Ps IX: 20; IX: 4

Exsúrge, Dómine, non præváleat homo: judicéntur gentes in conspéctu tuo. [Sorgi, o Signore, non trionfi l’uomo: siano giudicate le genti al tuo cospetto.

In converténdo inimícum meum retrórsum, infirmabúntur, et períbunt a facie tua. [Voltano le spalle i miei nemici: stramazzano e periscono di fronte a Te.]

Tractus

Ps. CXXII:1-3

Ad te levávi óculos meos, qui hábitas in cœlis.[Sollevai i miei occhi a Te, che hai sede in cielo.]

Ecce, sicut óculi servórum in mánibus dominórum suórum.[Ecco, come gli occhi dei servi sono rivolti verso le mani dei padroni.]

Et sicut óculi ancíllæ in mánibus dóminæ suæ: ita óculi nostri ad Dóminum, Deum nostrum, donec misereátur nostri, [E gli occhi dell’ancella verso le mani della padrona: così i nostri occhi sono rivolti a Te, Signore Dio nostro, fino a che Tu abbia pietà di noi].

Miserére nobis, Dómine, miserére nobis. [Abbi pietà di noi, o Signore, abbi pietà di noi.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam. [Luc XI: 14-28]

“In illo témpore: Erat Jesus ejíciens dæmónium, et illud erat mutum. Et cum ejecísset dæmónium, locútus est mutus, et admirátæ sunt turbæ. Quidam autem ex eis dixérunt: In Beélzebub, príncipe dæmoniórum, éjicit dæmónia. Et alii tentántes, signum de coelo quærébant ab eo. Ipse autem ut vidit cogitatiónes eórum, dixit eis: Omne regnum in seípsum divísum desolábitur, et domus supra domum cadet. Si autem et sátanas in seípsum divísus est, quómodo stabit regnum ejus? quia dícitis, in Beélzebub me ejícere dæmónia. Si autem ego in Beélzebub ejício dæmónia: fílii vestri in quo ejíciunt? Ideo ipsi júdices vestri erunt. Porro si in dígito Dei ejício dæmónia: profécto pervénit in vos regnum Dei. Cum fortis armátus custódit átrium suum, in pace sunt ea, quæ póssidet. Si autem fórtior eo supervéniens vícerit eum, univérsa arma ejus áuferet, in quibus confidébat, et spólia ejus distríbuet. Qui non est mecum, contra me est: et qui non cólligit mecum, dispérgit. Cum immúndus spíritus exíerit de hómine, ámbulat per loca inaquósa, quærens réquiem: et non invéniens, dicit: Revértar in domum meam, unde exivi. Et cum vénerit, invénit eam scopis mundátam, et ornátam. Tunc vadit, et assúmit septem alios spíritus secum nequióres se, et ingréssi hábitant ibi. Et fiunt novíssima hóminis illíus pejóra prióribus. Factum est autem, cum hæc díceret: extóllens vocem quædam múlier de turba, dixit illi: Beátus venter, qui te portávit, et úbera, quæ suxísti. At ille dixit: Quinímmo beáti, qui áudiunt verbum Dei, et custódiunt illud.”

Omelia II

 [Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la confessione che è il rimedio del peccato.

“Erat Jesus ejiciens dæmonium, et illud erat mutum”

“In quel tempo Gesù stava cacciando un demonio, il quale era mutolo. E cacciato che ebbe il demonio, il mutolo parlò, e le turbe ne restarono meravigliate. Ma certuni di loro dissero: Egli caccia i demoni per virtù di Beelzebub, principe dei demoni. E altri per tentarlo gli chiedevano un segno dal cielo. Ma Egli, avendo scorti i loro pensieri, disse loro: Qualunque regno, in contrari partiti diviso, va in perdizione, e una casa divisa in fazioni va in rovina. Che se anche satana è in discordia seco stesso, come sussisterà il suo regno? conciossiachè voi dite, che in virtù di Beelzebub Io caccio i demoni. Che se Io caccio i demoni per virtù di Beelzebub, per virtù di chi li cacciano i vostri figliuoli? Per questo saranno essi vostri giudici. Che se io col dito di Dio caccio i demoni, certamente è venuto a voi il regno di Dio. Quando il campione armato custodisce la sua casa, è in sicuro tutto quel che egli possiede. Ma se un altro più forte di lui gli va sopra e lo vince, si porta via tutte le sue armi, nelle quali egli poneva sua fidanza, e ne spartisce le spoglie. Chi non è meco, è contro di me; e chi meco non raccoglie, dissipa. Quando lo spirito immondo è uscito da un uomo, cammina per luoghi deserti cercando requie; e non trovandola, dice: Ritornerò alla casa mia, donde sono uscito. E andatovi, la trova spazzata e adorna. Allora va, e seco prende sette altri spiriti peggiori di lui, ed entrano ad abitarvi. E la fine di un tal uomo è peggiore del principio”

Quest’uomo che il demonio rendeva muto e che, secondo s. Matteo, era ancora cieco, ci presenta, fratelli miei. una trista, ma ben naturale figura di gran numero di peccatori, nella cui anima il demonio opera i medesimi effetti che quell’uomo provava nel suo corpo. Si tratta di commettere il peccato? Il demonio, sebbene sia spirato di tenebre rischiara, per cosi dire, il peccatore, insegnando loro i mezzi di contentare le loro passioni; allora loro toglie la vergogna e la confusione che dovrebbero essere inseparabili dal peccato. Ma bisogna farne penitenza? Convien dichiarare i peccati che ha loro ispirato di commettere? Li rende ciechi e muti, chiude loro gli occhi per non vedere i loro mancamenti e la bocca per non dichiararli. Sparge nelle loro menti dense tenebre, che l’impediscono di conoscerne la enormità e loro ispira una vergogna peccaminosa che impedisce ai medesimi di dirli. Con questo mezzo stabilisce sì bene il suo impero nelle loro anime che niente meno si ricerca che un miracolo della grazia per farlo uscire. – Or questo male è pur troppo comune tra i peccatori che s’accostano al sacro tribunale; gli uni sono ciechi che non vedono lo stato delle loro anime, che per difetto di un esame sufficiente non conoscono né il numero né l’enormità dei loro peccati, e per questo difetto di conoscenza non li accusano come debbono; gli altri sono muti cui la vergogna chiude la bocca per non dichiarare certi peccati di cui si sentono colpevoli. Quindi ne viene che quei peccatori, invece d’essere liberati, per la virtù del Sacramento, dal demonio che possiede le loro anime, gli danno su di essi un nuovo impero coi sacrilegi di cui si rendono colpevoli, e si riducono, per servirmi delle parole del nostro Vangelo, in uno stato peggiore di quello in cui erano per lo innanzi. Dio volesse che potessi io in quest’oggi fratelli miei, apportare qualche rimedio a si grandi mali ed illuminare questi ciechi, rendere la parola a questi muti, insegnando ai primi che per fare una confessione intera dei loro peccati, devono prima ben esaminarsi; e agli altri, che devono dichiarare tutti i peccati di cui si ricordano dopo un sufficiente esame. In due parole, il penitente deve esaminarsi con attenzione per nulla dimenticare nella confessione: primo punto. Egli deve accusarsi con sincerità per nulla occultare: secondo punto. A voi tocca, o Signore, che avete resa la vista e la parola a quell’uomo del nostro Vangelo, d’illuminare questi ciechi, di far parlare questi muti; questo è piuttosto l’opera della vostra grazia che dei nostri deboli sforzi.

I. Punto. Siccome l’esame di coscienza è una condizione necessaria per fare una buona confessione, le medesime ragioni che provano la necessità della confessione provano altresì quella dell’esame; convien dunque primieramente stabilir per principio che è un obbligo di diritto divino confessare i suoi peccati per ottenerne il perdono; ella è una verità di fede che Gesù Cristo ha dato agli Apostoli e ai Sacerdoti loro successori, la potestà di rimettere o di ritenere i peccati, di legare e sciogliere i peccatori nel cielo e sulla terra. A quelli, disse loro, cui rimetterete i peccati, saranno rimessi; e a quelli cui li riterrete, saranno ritenuti: Quorum remiseritis peccata, remittuntur eis; quorum retinueritis, retenta sunt (Joan. XX). Potestà ammirabile, fratelli miei, che rende i Sacerdoti depositari di quella di Dio medesimo, sulla sorte eterna degli uomini: poiché rimettendo ad essi i loro peccati, aprono loro il cielo, e lo chiudono ritenendoli. Or come potrebbero i Sacerdoti esercitare la potestà di rimettere i peccati, se non fossimo obbligati di loro dichiararli? L’uomo non ha tanta umiltà per sottomettersi da se stesso, senza esservi obbligato, ad un giogo sì incomodo al suo orgoglio. Se egli potesse ottenere il perdono del suo peccato con un altro mezzo, la potestà dei Sacerdoti gli darebbe inutile, perché non evvi alcun peccatore che non fosse contento di sottrarsi a questa giurisdizione sì incomoda all’amor proprio. – Invano, dunque, dice s. Agostino, Gesù Cristo avrebbe date ai Sacerdoti le chiavi della Chiesa per legare e sciogliere i peccatori: frustra claves Ecclesiæ datæ sunt. I sacerdoti avrebbero mai luogo di servirsi di queste chiavi per peccatori che potrebbero essi stessi liberarsi? Come d’altra parte i Sacerdoti riterrebbero dei peccati che altri non sarebbe obbligato di loro dichiarare? Come riterrebbero dei prigioni in legami che potrebbero essi stessi spezzare? Perciocché in virtù di questa potestà i Sacerdoti sono stabiliti da Gesù Cristo per fare, riguardo ai peccatori, l’uffizio di giudici e di medici: come giudici debbono giudicare la loro causa, come medici debbono guarirli dalle loro malattie. – Or un giudice può egli pronunziare su d’una causa senza averne conoscenza? Un medico può egli guarire un male che gli è sconosciuto: No, senza dubbio, fratelli miei; bisogna dunque, peccatori, se volete ottener il perdono dei vostri peccati, presentarvi ai tribunali di quel giudici per farvi conoscere quali voi siete: incaricati di vendicare la giustizia di Dio contro le vostre ribellioni, come potranno esse imporvi pene proporzionate al numero e alla qualità delle vostre offese, se non le conoscono per via d’una confessione intera che voi dovete fare? Questi Sacerdoti sono ancora medici cui Gesù Cristo ha confidata la cura di guarire le vostre ferite; bisogna adunque che, come i lebbrosi del Vangelo, voi vi facciate vedere a questi Sacerdoti, non per metà, ma in tutta la difformità cui il peccato vi ha ridotti, senza di che non riceverete giammai la guarigione. – Or, fratelli miei, per dare a questi giudici e a questi medici la conoscenza di cui hanno d’uopo, bisogna conoscervi voi medesimi, poiché voi soli potete istruirli; ma per conoscervi voi medesimi, bisogna esaminarvi, convien fare una ricerca diligente ed esatta di tutti i peccati che avete commessi, senza di che voi mancherete alla giusta dichiarazione che ne dovete fare. Qual deve dunque esserne la materia e qual la regola? Questo è cui dovete tutta la vostra attenzione. Giacché la confessione è fondata su l’esame, ne segue da ciò che l’esame deve aggirarsi su tutti i peccati che è d’uopo accusare in confessione. Ora, per rendere la confessione intera, come esige il santo concilio di Trento, bisogna dichiarare tutti i suoi peccati, il numero e le circostanze; bisogna accusare tutte le trasgressioni che avete fatte dei comandamenti di Dio e della Chiesa, tutti i peccati di pensiero, tutti i desideri del vostro cuore, tutte le parole scorrette uscite dalla vostra bocca, tutte le azioni, tutte le omissioni di cui siete colpevoli verso Dio, il prossimo e voi medesimi: bisogna ancora manifestare le cause, gli effetti dei vostri peccati, le occasioni in cui vi trovaste, gli abiti che avete contratti, i peccati del vostro stato e della vostra condizione. Bisogna dire non solamente i peccati che avete commessi, ma ancora quelli che avete fatto commettere o che non avete impediti; tutti gli scandali che avete dati, tutti i danni che avete cagionati al prossimo nei beni o nella reputazione. Voi dovete ancora per rendere la confessione intera, dichiarare le circostanze del peccato prese dal tempo, dal luogo, dalla quantità, dall’oggetto, dalla qualità delle persone, per le quali circostanze il peccato cangia di specie, cioè rinchiude in sé un altro o più peccati di diversa specie, o diventa più grave nella sua specie che non lo sarebbe stato senza questa circostanza. Or potete voi dichiarare tutto questo senza conoscerlo? E potete voi conoscerlo, senza esaminarvi, senza fare una ricerca diligente dei luoghi ove avete peccato, degli oggetti che avete ricercati, dei motivi che vi hanno fatto agire, delle inclinazioni che vi hanno predominati, delle infedeltà commesse contro i doveri dello stato in cui siete? Tutto questo deve entrare nella materia dell’esame che dovete fare prima della vostra confessione. Bisogna, per avere tutte le cognizioni che vi sono necessarie, investigare il fondo del vostro cuore; bisogna ricercare nei nascondigli più occulti della vostra coscienza per scoprirvi il veleno di cui siete infetti. Bisogna passare nell’amarezza del vostro cuore, ad esempio del re Ezechia, gli anni della vostra vita, per richiamare tutti i peccati che avete commessi ciascun giorno, ciascuna settimana, ciascun mese, e dichiararli tali quali li conoscete. Bisogna finalmente entrare nelle particolarità di tutti i vostri obblighi per riconoscere in che vi avete mancato ed accusarvene. – Donde viene, fratelli miei, che un gran numero di confessioni sono nulle e sacrileghe? Perché non vi accusate che per metà; e non vi accusate che per metà perché non vi esaminate come si conviene. Voi dichiarate alcuni peccati in generale che vi sono comuni col resto degli uomini; ma non dichiarate i peccati che vi sono particolari, non discendete con serio esame alle particolarità delle vostre obbligazioni. Voi, padri e madri, vi accusate di qualche imprecazione, di qualche moto di collera che vi avrà trasportati; ma voi nulla dite della vostra poca attenzione ad istruire, a correggere i vostri figliuoli, e voi, padroni e padrone, dichiarate bensì le vostre impazienze contro la negligenza dei vostri servi nel fare quanto loro comandate; ma nulla dite della negligenza che avete avuta voi medesimi nel farli servir Dio, il primo di tutti i padroni, né della vostra indolenza a soffrire i loro disordini. Voi che siete impegnati nei negozi o in un’altra professione, non mancate di confessarvi delle vostre distrazioni nelle preghiere; ma non accusate le vostre infedeltà, i vostri inganni, le vostre ingiustizie, i vostri ladronecci. – Voi che esercitate un impiego dichiarate alcuni cattivi discorsi che avete tenuti in conversazione, ma non accusate la trascuratezza usata nei vostri doveri, la vostra poca vigilanza e fermezza nel riformare gli abusi, nel rendere giustizia a chi è dovuta. Tutto questo proviene non solo da un difetto di esame che ciascheduno far deve su i doveri del proprio stato, ma ancora da una grassa ignoranza in cui vivono i più dei Cristiani sulle loro obbligazioni, perché non assistono alle istruzioni, dove si apprende la sua religione e i suoi doveri. Questi sono ciechi che chiudono gli occhi alla luce che li rischiara e non vogliono conoscere i loro doveri per adempierli: Noluit intelligere, ut bene ageret (Psal. LV). Ciechi infinitamente più a compiangere che quello dell’odierno vangelo, che non era punto colpevole del suo accecamento; laddove questi sono ciechi colpevoli che restano per loro colpa nei legami e nelle tenebre del peccato; e sono in uno stato tanto più deplorabile che, non conoscendosi da sé medesimi, non cercano i mezzi di uscirne. Schiavi delle più vergognose passioni, degli abiti più inveterati, non vedono la loro miseria; quindi ne viene che non scoprono le loro piaghe ai medici che potrebbero guarirle. Or quanti vi sono di questi peccatori abituati, accecati da una passione che in voi predomina, e scoprirla al medico della vostra anima; perché questa passione essendo la causa degli altri vostri peccati, facendola conoscere, voi farete vedere lo stato infelice della vostra anima e riceverete i rimedi convenevoli per la vostra guarigione: esaminate dunque seriamente avanti a Dio se è la superbia che vi predomina, o l’invidia che vi rode, l’avarizia che vi tiranneggia, la lussuria che v’incanta e vi seduce, l’ira che vi trasporta, e vedrete che si è da questa sorgente avvelenata che nascono tutti i vostri sregolamenti; voi la conoscerete questa passione per li pensieri che si rivolgono il più sovente nella vostra mente, pei vostri discorsi ordinari, per gli oggetti che ricercate con maggior premura. Voi amate di comparire, voi cercate la gloria gli onori, voi vi offendete di un legger disprezzo, vi disgustate di una parola detta senza riflessione, la vostra passione dominante è la superbia. Voi non vi occupate da mattina sino alla sera che dei mezzi di acquistar del bene, voi nulla lasciate indietro per fare un piccolo profitto; voi siete tanto sensibili alla minima perdita che vi accade, come insensibili alla miseria dei poveri, la vostra passione è un sordido attacco ai beni del mondo, e l’avarizia. Il vostro cuore è incessantemente occupato della rimembranza di un oggetto che lo accende, voi ne parlate con piacere, voi cercate di vedere quell’oggetto, voi concedete ogni sorta di libertà ai vostri sentimenti, voi vi dimostrate liberi nelle parole oscene, voi non vi vergognate di certe libertà contrarie all’onestà, la vostra passione è un amor profano che vi conduce a mille disordini. Quanto a voi, bestemmiatori, ubriaconi, vendicativi, non è bisogno di farvi il vostro ritratto, le vostre parole, le vostre azioni manifestano abbastanza ciò che voi siete. Quanti, oimè! se ne trovano che predominati sono da molte passioni e che per questo motivo han bisogno di fare assai più ricerche che gli altri? Fate dunque, fratelli miei, queste ricerche coll’ultima esattezza. Se voi impiegate a far questo esame tutto il tempo che domanda un affare sì importante, darete alle vostre confessioni l’integrità necessaria per ottenere il vostro perdono. – Ma qual regola convien osservare per far questo esame? E quanto tempo convien impiegarvi? La regola più infallibile ch’io possa prescrivervi si è, fratelli miei, l’esame che Dio farà Egli stesso al suo giudizio dei peccati degli uomini: perciocché se il peccator penitente deve tener le veci della giustizia di Dio per punir il peccato, bisogna che le tenga anche per esaminarlo. Or con qual esattezza Dio farà questo esame al suo giudizio? Allorché applicando i raggi della sua luce su tutta la vita dell’uomo peccatore ne scoprirà tutte le iniquità, ne manifesterà tutti i pensieri più segreti, sino alle intenzioni più occulte. Nulla vi sarà di sì nascosto che sfugga ai suoi occhi infinitamente penetranti, nulla di sì oscuro che non venga posto in pieno giorno. Gli è così che voi dovete in qualche guisa esaminare, ricercare, la profondità delle vostre piaghe. Imitate la donna del Vangelo, la quale avendo perduta una dramma, accende una fiaccola, volta sossopra ogni cosa, fruga tutti gli angoli della casa e non è tranquilla che quando ha ritrovato ciò che ricerca. E certamente è forse esiger troppo da voi? Quel che avete perduto è molto più prezioso che quella dramma; voi avete perduta la grazia né potete ricuperarla che con una confessione preceduta da un esame sufficiente; nulla dunque tralasciate per conoscere i vostri peccati, rianimate la vostra fede, e allo splendore di questa fiaccola vi sarà facile di conoscere le vostre trasgressioni. Sì, fratelli miei, discendete, per così dire, colla fiaccola in mano, sino nei ripostigli più nascosti delle vostre coscienze per  scoprirvi tutto ciò che v’ha di più segreto e manifestarlo in appresso con una sincera confessione. – Egli è vero che, qualunque cosa faccia il peccatore, non conoscerà giammai la bruttezza del suo peccato come la conosce Dio: egli è ancor vero che malgrado tutte le precauzioni che prenderanno certi peccatori, le cui iniquità sono moltiplicato più dei capelli dei loro capi, sarà loro molto difficile, per non dire impossibile, di conoscere il numero dei loro peccati e per conseguenza di dichiararli tutti. A Dio non piaccia, fratelli miei, che io voglia rappresentare la confessione come un giogo insopportabile per la difficoltà di ricordarsi e di dichiarare tutti i suoi peccati. Ciò che Gesù Cristo domanda, come si spiega il santo concilio di Trento, e che si dichiarino i peccati di cui uno si ricorda dopo un sufficiente esame, cioè un esame proporzionato ai deboli lumi dello spirito umano, di modo che se il peccatore, dopo essersi esaminato tanto tempo, quanto ne richiede la prudenza, tralasciasse alcuni peccati sfuggiti alle sue ricerche, non lascerebbe di ottonerne il perdono, come degli altri che avesse dichiarati, con l’obbligo nulladimeno di sottometterli alle chiavi della Chiesa allorché se ne ricorderà. – Ma qual tempo la prudenza umana può ella prescrivere per fare un esame? Questo è ciò che non si può egualmente determinare per ogni persona; il numero dei peccati che si sono commessi, il tempo che è passato dopo l’ultima confessione, possono servire di regola per fare questo esame. Chi mai dubita che un peccatore che offende Dio sovente e che si confessa di rado non debba impiegar più di tempo a far il suo esame che un altro che offende Dio raramente e che spesso si confessa? Un peccatore abituato che può appena ricordarsi dei peccati che commette in un giorno, non deve egli impiegare più di tempo nella ricerca dei suoi peccati di quello che non vi cade che qualche volta? Con tutto ciò questi peccatori abituati sono quelli che passano un lungo tempo senza accostarsi al tribunale della penitenza, che mettono il meno di tempo ad esaminarsi: la loro confessione è l’affare di un momento, appena han cominciato che finiscono: poiché non pensate già che si accusino né del numero né delle circostanze dei loro peccati: due o tre parole in aria e che non dicono quasi cosa alcuna fanno tutta la loro confessione. Donde viene questo? Viene che questi peccatori abituati, a forza di accumulare peccati su peccati, non si rammentano, per cosi dire, più che all’ingrosso che sono colpevoli, allontanandosi così lungo tempo dal sacramento della penitenza, si sono posti in una sorta d’impossibilità di ricordarsi dei loro peccati, su di che la loro ignoranza non li scuserà avanti a Dio: perché avrebbero potuto prevenirla con esami o confessioni più frequenti. Ciò che rende ancora più colpevoli questi carichi di scelleratezze e d’iniquità che richiederebbero un lungo e serio esame si è che, dopo essersi esaminati superficialmente, non vanno che sul fine a presentarsi al tribunale della confessione, prendono il tempo in cui i confessori sono più occupati, sulla speranza che verranno ben presto spediti, si credono molto sicuri su d’una assoluzione di un confessore che han procurato di sorprendere; vanno tranquillamente in questo stato a presentarsi alla sacra mensa ma indarno si rassicurano; le loro confessioni, le loro comunioni non sono che sacrilegi per non avervi apportate le convenienti disposizioni. – Ah! non così certamente vi diportate, o peccatori, negli affari temporali che v’interessano. Avete voi una lite a far giudicare? Quanto tempo non mettete a studiare i vostri diritti, ad esaminare le scritture che possono esservi favorevoli? Voi contate per nulla i giorni interi che passate a leggere e a scrivere, e quando si tratta di ritrovare qualche nuovo mezzo di difesa nulla si risparmia. Avete voi un conto a rendere? Quante riviste non fate per non ommettere alcun articolo? Qual applicazione non usate voi per far vedere l’impiego delle somme che vi sono state confidato? Ecco la regola che seguir dovete per la lite più importante che abbiate a fai giudicare, per l’affare più interessante che abbiate a finire, che è quello della vostra salute, il cui successo dipende da una buona confessione. Si tratta in questo affare di tutto perdere o di tutto guadagnare; si tratta della vostr’anima, e voi vi contentate di alcune riviste superficiali; appena impiegate una mezza ora, un quarto d’ora ad esaminare, a ricercare i fatti che produrre dovete al sacro tribunale. Appena siete entrati in chiesa che con la mente ancora occupata in affari stranieri, andate a presentarvi ad un confessore per dirgli l’ingrosso alcuni peccati che si presentano di primo tratto al vostro spirito, nel mentre che ne tralasciate un gran numero che non avete esaminati. Fa d’uopo stupirsi forse se le vostre confessioni sono nulle e sacrileghe, se son confessioni riprovate da Dio, perché non hanno esse la integrità che loro è necessaria? Invano direte voi che non occultate alcuno dei vostri peccati per vergogna né per malizia, che dichiarate tutti quelli di cui vi ricordate. Ne convengo; ma se voi aveste impiegato più di tempo ad esaminarvi, se aveste ricercati con più esattezza tutti i vostri mancamenti Passati, ne avreste dichiarati di più; voi non siete dunque scusabili avanti a Dio, poiché questa omissione dei vostri peccati viene dalla vostra negligenza nell’esaminarvi, nel prepararvi diligentemente alla dichiarazione che ne dovete fare. Volete voi, peccatori, riuscire in un affare di questa importanza? Osservato le pratiche che sono ora per darvi prima di finire questa prima parte.

Pratiche. Avanti di accostarvi al sacro tribunale, indirizzatevi primieramente al Padre dei lumi, alzate i vostri occhi verso il monte santo donde vi verrà ogni soccorso; richiamando dipoi la bontà di Gesù Cristo, come quel cieco del Vangelo, pregatelo con fervore che v’ illumini, che vi faccia conoscere lo stato della vostr’anima e la profondità delle vostre piaghe: Domine ut videam (Luc. XVIII). Scendete in appresso in voi medesimi, ricercate il fondo del vostro cuore, applicatevi soprattutto a conoscere la vostra passion dominante, i doveri del vostro stato per riconoscere le vostre infedeltà. Prendete un tempo sufficiente, avuto riguardo a quello che avete passato senza confessarvi; non aspettate il giorno della vostra confessione, ma preparatevi alcun tempo prima esaminando ogni giorno la vostra coscienza su qualcheduno dei comandamenti di Dio e della Chiesa , ed osservate in che li avete trasgrediti, se in pensieri, in desideri, in parole, in azioni ed in omissioni. Indirizzatevi ad un buon confessore e pregatelo di aiutarvi a fare una buona confessione. Se è qualche tempo che non vi siete confessati, pregate questo confessore di differirvi l’assoluzione per avere più tempo ad esaminare i peccati che potessero esservi sfuggiti di mente. Il mezzo d’agevolare il vostro esame è di farlo ogni sera e di confessarvi frequentemente, perché con più facilità ci ricordiamo dei peccati che da breve tempo abbiamo commessi. Se voi vi servite di queste pratiche, le vostre confessioni saranno per voi sorgenti di grazie e di salute, perché non dimenticherete, almeno per colpa vostra, alcun peccato. Voi dovete ancora essere sinceri per nulla occultare.

Credo

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus

Ps XVIII: 9, 10, 11, 12

Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulci ora super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea. [I comandamenti del Signore sono retti, rallégrano i cuori: i suoi giudizii sono più dolci del miele: perciò il tuo servo li adémpie.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [Ti preghiamo, o Signore, affinché questa offerta ci mondi dai peccati, e santífichi i corpi e le ànime dei tuoi servi, onde pòssano degnamente celebrare il sacrifício.]

Comunione spirituale:

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Communio

Ps LXXXIII: 4-5 – Passer invénit sibi domum, et turtur nidum, ubi repónat pullos suos: altária tua, Dómine virtútum, Rex meus, et Deus meus: beáti, qui hábitant in domo tua, in sæculum sæculi laudábunt te. [Il pàssero si è trovata una casa, e la tòrtora un nido, ove riporre i suoi nati: i tuoi altari, o Signore degli esérciti, o mio Re e mio Dio: beati coloro che àbitano nella tua casa, essi Ti loderanno nei sécoli dei sécoli.]

Postcommunio

Orémus.

A cunctis nos, quaesumus, Dómine, reátibus et perículis propitiátus absólve: quos tanti mystérii tríbuis esse partícipes. [Líberaci, o Signore, Te ne preghiamo, da tutti i peccati e i perícoli: Tu che ci rendesti partécipi di un così grande mistero.]

Ultimo Evangelio e preghiere leonine:

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ringraziamento dopo la Comunione:

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LO SCUDO DELLA FEDE (103)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XIII.

Testimonianza che rendono di Dio gli animali dalui addottrinati a combattere ed a curarsi.

I. Non v’è uomo intendente nella pittura, che non vergognisi se richiesto di quale mano sia qualche tavola insigne, non sappia subito dir se è di Raffaello, o del Caracci, o del Correggio, o di Guido. Eppure vi sarà chi non si vergogni, se ricercato di qual mano sieno tante belle opere di natura, non sappia subito dire: di man di Dio. Tal è qualunque ateista. Ben si può pertanto affermare, che egli dunque di opere di natura non è intendente. Se le intendesse, vedrebbe tosto, non potere, queste essere di altro artefice, che dell’Artefice sommo. Finalmente le mani tutte degli uomini, benché grandi, sono capaci di essere contraffatte, e più non sarebbe sì grave fallo non discernere bene l’una dall’altra. Ma la mano di Dio non è mano imitabile mai da niuno. E però non discernerla dalla mano del caso, o di qualunque altro, che non sia Dio, non solamente è fallo, ma iniquità. Noi questa mano sì unica abbiamo dianzi scoperta già quanto basta negli strumenti e negli istinti mirabili dati ai bruti per conservarsi cibandosi. Ora andiam oltre. Conciossiachè tutto ciò che fanno essi per conservarsi, a che gioverebbe, se non sapessero al tempo stesso guardarsi opportunamente da chi gli assale? Eppure anche a ciò fu pensato. I loro assalitori son due: estrinseci e intrinseci. Gl’intrinseci sono i morbi, gli estrinseci sono vari nemici, i quali s’incontrano, come frequenti tra gli uomini, così ancora continui fra gli animali, che a cagione o dell’abitazione, o del pascolo, o della prole o di altro interesse tra loro opposto, mantengono gare eterne.

I.

II. E per dire in prima di questi nemici estrinseci, certo è, che senza avere appresa giammai l’arte militare, sanno i bruti conoscere a meraviglia i vantaggi loro di posto, e li sanno prendere. I rosignuoli, per assicurarsi dagli sparvieri, soggiornano infra le macchie. L’airone, per assicurarsi da’ falchi, si aggira intorno all’acque da lor temute. E l’alce, bestia peraltro sì paurosa, che a qualunque ferita, nel mirar ch’ella faccia il sangue grondante, cade subito a terra di raccapriccio, tuttavia vince i lupi, scegliendo contro di essi per campo di battaglia i fiumi gelati , sopra de’ quali può tenersi ben ella ferma coll’unghia acuta e biforcata ch’ella ha, ma non possono tenervisi fermi i lupi (V. hæc et seq. apud Aldrov. in suis locis, et apud Gasp. Scottum in physica curiosa).

III. Oltre il vantaggio del posto, sanno i bruti conoscere quel delle armi. Quindi è, che l’aquila tiene una cura grandissima de’ suoi artigli: e se ella è ferma, par che sempre li miri, arrotandogli sulla pietra, quando hanno perduto il filo, e risparmiandoli, quando sono affilati, col non camminare tra i sassi. I cervi, i capri ed i tori arruotano anch’essi ai tronchi le loro corna, e le provano, e le riprovano prima di venire a duello cogli avversari. L’ardea si rivolta col becco all’insù tra l’ale, e riceve intrepidamente l’impeto de’ falconi, che calandole sopra furiosamente per farne preda, vi rimangono morti. E il pellicano, per non venire sorpreso dagli altri uccelli assàssinatori, in una simile positura ancor egli piglia i suoi sonni, addormentato ed armato.

IV. Dove manchi la forza, suppliscono coll’unione. Così fanno gli storni, volando sempre a schiere numerosissimo, o procurando in quelle il posto di mezzo per maggior cura di sè. Gli armenti si fanno forti dal lupo, adunandosi insieme in un cerchio fitto, colle teste rivolte contro il nimico: e i giumenti con somigliante ordinanza volgono al lupo, non le teste, ma i piedi, dove hanno il loro valore, e si difendono bravamente coi calci. Che se non è pronto il soccorso, sanno anche i bruti richiederlo colla voce. Così l’upupa, ravvisando la volpe ascosa tra l’erbe, con inusitate e con importune strida l’addita ai cani. Così i cigni, così le’ cicogne, così l’anitre sollecitano le compagne da loro assenti alla difesa comune contro dell’aquila; e così le bertucce, nelle lor selve, fanno contra i medesimi cacciatori, gridando forte, come se gridassero al ladro. Senonchè a schermirsi da questi, tanto gli animali più imbelli, quanto i più forti, son destri al pari. La lepre salta di lancio nella sua tana, per non lasciare quivi impresse vestigia che la rivelino a chi la cerca. L’orso v’entra a ritroso, per mostrare d’esserne uscito, quando v’entrò: ed il leone medesimo (a guisa di guerriero prode, non meno attento ad iscoprir gli andamenti dell’inimico, che a coprire i propri) stampa insieme l’orme, passando sopra l’arena, insieme le guasta, perché non diano sentore de’ suoi viaggi. In una parola tutti gli animali hanno qualche dote lor propria per la difesa: quali con la destrezza, come le scimmie pur anzi dette, che giungono ad afferrare con la mano per l’aria quella saetta che loro voli alla vita: quali con la generosità, come il leone, che mai non fugge, senonchè mostrando la faccia, per dar terrore: quali con la timidità, come i cervi, a cui la paura medesima è sicurezza, tanto sono ratti alla fuga: quali col divenire quasi invisibili, come rendono le seppie nella lor tinta: quali coll’apparir quasi trasformati, come fa il polpo, che piglia tosto il colore di quello scoglio cui sta aggrappato, e così delude ogni guardo: senza che fra lo stuolo sì numeroso degli animali, o terrestri o acquatici, o aerei, pur un si trovi, che o con la forza datagli, o con l’ingegno, non sia bastantemente armato a suo schermo.

V. Né minore hanno l’arte per assaltare, di quella che posseggano a ripararsi. La donnola, quando si vuole cimentar co’ serpenti, vi si apparecchia col mangiare innanzi la ruta, erba a questi di odor troppo intollerabile. E l’icneumone, quando vuol pugnare cogli aspidi, si rivolge tutto nel fango, e se ne fa come una corazza, con assodarlo prima ai raggi sol solari, perché non tema alcun morso. La tigre, per assicurare le altre fiere a cibarsi delle sue carni, si finge morta, e di poi subito è loro sopra a man salva, e ne fa macello. La volpe è stata veduta rivoltarsi dentro la creta rossa, fintanto ch’ella apparisca quasi un cadavere senza pelle, per invitare i volatili meno accorti a un solenne pasto, che poi di loro fa ella, non di lei essi. E la torpedine, con un miracolo più insueto, sa fin rendere stupido chi la tocca e privarlo di moto, non che di audacia. Ma che sciocchezza è la mia? Presumo io forse raccogliere in pochi fogli ciò che altri non arrivarono a compilare in molti volumi? Anzi non altro ho inteso mai, che additarvi quella miniera da cui si possono scavare ogni giorno più nuove meraviglie, tanto è inesausta. Eppure ditemi: a questo piccolo saggio che ve ne porto, non vi accorgete abbastanza che il suo metallo non è metallo nostrale? Chi può dar tanta molteplicità d’invenzioni, di stratagemmi, di scherme ad un solo fine di guerra difensiva e offensiva tra gli animali, salvo l’intelletto divino? Senzachè, discorro così: la natura particolar della lepre, a cagion di esempio, non può amare, che i cani, appena miratala, si mettano ad incalzarla, con tanto pregiudizio della infelice, se sia raggiunta: la natura particolare de’ cani non può amare che la lepre da loro fugga. Chi dunque fu, che diede a un’ora medesima quello istinto, alla lepre di fuggir dai cani, ai cani di seguitarla, se non una natura più alta, la qual mirò a quel sollazzo continovo che poteva fra noi risultare da tale fuga affannosa e la tale caccia? E questa natura più alta è quella appunto che con più degno vocabolo è detta Dio.

II.

VI. Rimane ora a dare un’occhiata ai nemici intrinseci, da cui si sanno tanto bene i bruti salvare col medicarsi. Pochi di verità sono i loro malori al pari de’ nostri: o sia perché gli animali vivono con maggior temperanza, di quella con cui vivono i più degli uomini; o sia perché il loro temperamento, più materiale e più massiccio del nostro, sia men soggetto a ricevere le impressioni de’ suoi contrari; in quella guisa, che un oriuolo da torre è molto più difficile a sconcertarsi di quel che siasi una mostra da tavolino. Qualunque sia la ragione, certo è, che i bruti, guidati da un interno indirizzo della natura, sanno mirabilmente trovar rimedi proporzionati a’ lor mali, e rimedi facili, innocenti e infallibili più dei nostri, perché tanto più chiaro apparisca, che, come il caso non fu mai il loro artefice, così né anche egli è il loro conservatore. Se non che ciò che più riesce ammirabile in tali affari, è, che non solo ogni animale ha la sua medicina propria, che non ha l’altro; ma che, prima ancor di ogni prova, la conosce, la cerca e sa applicarla giustamente al bisogno. La prima volta che si acciechi la rondinella, sa ritrovare la celidonia: la prima volta che si accieca la vipera, sa ritrovare il finocchio; la prima volta che il daino riman ferito, sa far ricorso al suo dittamo. Non ha veleno, contra cui le testuggini non abbiano tosto pronta la loro triaca; e tal è l’origano: siccome il lauro è quella gran panacea che alle colombelle e che a’ corvi suffraga parimente in qualunque morbo. Or vada Ippocrate a logorar negli studi la vita propria, per allungare l’altrui: e poi diffidato di poter giungere a tanto, confessi pure, che l’arte è lunga, che il tempo è breve, e che l’esperimento è fallibile: Ars longa, vita brevis, experimentum fallax. Dica, che a molti mali non si è trovato governo finor che vaglia. I bruti, senza accademie e senza aforismi, sanno ad ogni languore trovare il suo medicamento adattato.E poi non mancherà chi per maestro assegni oro, non l’arte di una intelligenza sovrana,ma la cecità balorda di atomi vagabondi più che birboni?

VII. Poco poi parrebbe, se i bruti più non sapessero che curare il mal sopraggiunto. Sarebbe ciò scacciare il ladro di casa, ma scacciarlo dappoi che la svaligiò. Il più è, che sanno farsi incontro anche al male, serrandogli prontamente le porte in viso (Àrist. hist. anim1. 8. c. 120). A questo fine scelgono i luoghi più atti, senza timore di pellegrinare in paesi anche lontanissimi, come le gru della Scizia settentrionale, che, a fuggir que’ verni sì crudi, sen passano di là sino all’Etiopia, senza rischio che fallino mai la strada. I pesci, ora vanno dai lidi all’alto, ora vanno dall’alto ai lidi, mutando stanza, come fanno i grandi, al mutarsi della stagione. E tra loro molti anco sono, che da’ mari caldi tragittansi al ponto Eussino, e che dal ponto Eussino tragittansi a’ mari caldi. E perché i più deboli sentono prima la intemperie dell’aria che i più gagliardi, quindi è, che quelli fanno il loro passaggio prima di questi, come i rombi all’agosto, i tonni al settembre. Le rondinelle passano in Africa a schivare i ghiacci nostrali: e le quaglie, i tordi e le tortore, hanno anch’essi le loro piagge piacevoli ad isvernarvi. Gli avvoltoi medesimi, benché infami per le carogne di cui si pascono, sono tuttavia sì inimici dell’aria guasta, che il fare essi dimora in qualche paese, più che in un altro, si piglia per indizio di piena salubrità. Che più? Convien che l’uomo superbo si umìli in sì fatte scienze a pigliar lezione dagli animaluzzi più vili. Scrive Aristotile (L. 9. hist. anim.) di non so quale in Bizanzo, che presso il volgo si era acquistata fama grande di astrologo, perché avendo egli allevato in casa da piccolo uno spinoso, osservava, che questo, quando era vicino a muoversi vento opposto, mutava stanza, secondo il talento in nato ch’egli ha di fare alla sua tana di campagna due bocche, una all’austro, una all’aquilone, e dipoi chiudere ora l’una, ora l’altra, secondo che quegli soffiano. Né questa è dote singolare del riccio, mentre pochissimi sono quegli animali i quali nella loro fantasia non portino un tale istinto di presentire le mutazioni di tempo loro nocevoli: tanto che i più meschini paiono in questa parte i più addottrinati. Quinci, non pure il leone, che è sì ingegnoso, sa antivedere la siccità che sovrasti, e la sa scansare, con ritirarsi per tempo in luoghi più acquosi; ma i coccodrilli stessi pare che abbiano misurata già la piena del Nilo prima che egli esca dal letto, mentre san collocare le uova in tal sito, dove non arrivi mai quell’anno per l’inondazione. I corvi indovinano le tempeste, i merghi, l’anatre, le api presagiscono i venti più impetuosi: e le formiche la sterilità della futura stagione, con empir più del solito i lor granai prima che la messe scarseggi. Ora in quale scuola hanno appreso questi animali tanto di astrologia, che mostrino di saperne anche più dell’uomo, il quale nel predire le piogge piglia ne’ suoi lunari più gravi abbagli di quei che pigli una rana? Chi spedisce loro le nuove del futuro, prima che giunga? Qual maestro hanno essi trovato, che gli addottrini, e gli addottrini sì bene, che niuno scolaro mai resti addietro per poco ingegno, su le lezioni a lui date nella sua classe? Sarà credibile da veruno, che il caso, il qual non sa nulla di ciò che egli faccia, sappia formar tali allievi? Se così fosse, sarebbero dunque assai maggiori i discepoli, che il maestro. Violentate pure quanto a voi piace il vostro intelletto, perché s’induca a dirvi, che Dio non v’è: non potrà egli non conoscere l’onta che voi gli fate, e non si dibattere.

SALMI BIBLICI: “BEATUS VIR QUI TIMET DOMINUM” (CXI)

SALMO 111: “BEATUS VIR QUI TIMET DOMINUM”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 111

Alleluja, reversionis Aggæi et Zachariæ.

 [1]  Beatus vir qui timet Dominum,

in mandatis ejus volet nimis.

[2] Potens in terra erit semen ejus; generatio rectorum benedicetur.

[3] Gloria et divitiæ in domo ejus, et justitia ejus manet in sæculum sæculi.

[4] Exortum est in tenebris lumen rectis, misericors, et miserator, et justus.

[5] Jucundus homo qui miseretur et commodat, disponet sermones suos in judicio;

[6] quia in æternum non commovebitur.

[7] In memoria æterna erit justus; ab auditione mala non timebit. Paratum cor ejus sperare in Domino,

[8] confirmatum est cor ejus; non commovebitur donec despiciat inimicos suos.

[9] Dispersit, dedit pauperibus; justitia ejus manet in sæculum sæculi; cornu ejus exaltabitur in gloria.

[10] Peccator videbit, et irascetur, dentibus suis fremet et tabescet; desiderium peccatorum peribit.

 [Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXI.

Lode dell’uomo giusto. I latini aggiunsero del ritornodi Aggeo e Zaccaria, che esortarono, dopo la cattività, il popolo alla probità, forse per esortare gli altri alla probità, onde non ricadere nella schiavitù.

Alleluja: Del ritorno dì Aggeo e di Zaccaria (1)

1. Beato l’uomo che teme il Signore: egli avrà cari oltremodo i suoi comandamenti.

2. La sua posterità sarà potente sopra la terra; il secolo dei giusti sarà benedetto.

3. Gloria e ricchezze nella casa di lui; e la sua giustizia dura perpetuamente.

4. È nata tra le tenebre la luce per gli uomini di retto cuore: il misericordioso, il benigno, il giusto.

5. Fortunato l’uomo che è compassionevole, e dà in prestito, e con sapienza dispensa le sue parole; perocché egli non sarà mai vacillante.

6. Il giusto sarà in memoria eternamente: non temerà di udire sinistre parole.

7. Il suo cuore è disposto a sperare nel Signore, il suo cuore è costante;

8. ei non vacillerà, e neppur farà caso de’ suoi nemici.

9. A mani piene ha dato ai poveri; la giustizia di lui dura in perpetuo; la sua robusta virtù sarà esaltata nella gloria.

10. Vedrallo il peccatore, e avranne sdegno, digrignerà i denti e si consumerà: il desiderio dei peccatori andrà in fumo.

(1) Il titolo di Aggeo e di Zaccaria non si trova che nella versione in latino e deve verosimilmente la sua origine alla pia tradizione dei Profeti Aggeo e Zaccaria, che tornando presso i Giudei dalla cattività di Babilonia, si servirono di questo salmo. Questo salmo è alfabetico come il precedente.

Sommario analitico

Questo salmo contiene l’elogio dell’uomo virtuoso, o che teme Dio. I vantaggi che enumera il salmista non si verificano pienamente che nel senso spirituale (1):

(1) N.B. Nulla impedisce si attribuire a Davide questi due salmi CX e CXI, dei quali del resto nulla ce ne indica l’autore. Essi sono alfabetici e perfettamente simili metricamente; hanno ugualmente ventidue versi di sei sillabe ciascuno, riunite in dieci versetti, otto distici e tre trittici (Le Hir.).

I. Vantaggio. – Per il bene dell’anima, la conformità più perfetta della sua volontà ai Comandamenti di Dio (1).

II Vantaggio. – Per i beni esteriori, la moltiplicazione, la potenza e la gloria della sua posterità (2).

III Vantaggio – L’abbondanza degli onori, delle ricchezze (3).

IV Vantaggio – La luce celeste che Dio spande nei cuori retti (4).

V Vantaggio – La stabilità dell’uomo del bene, di cui descrive tre caratteri: egli ha pietà dei derelitti, presta volentieri, regola i suoi discorsi secondo la prudenza (5, 6).

VI Vantaggio – Una memoria eterna, al riparo di tutti i colpi della calunnia (7).

VII Vantaggio – La sicurezza della protezione divina contro i nemici non gli farà difetto (8)

VIII Vantaggio – L’accrescersi delle sue ricchezze e della sua potenza, proporzionato all’estensione ed alla grandezza delle sue liberalità e delle sue elemosine (9).

IX Vantaggio – La sua felicità sarà ancora aumentata dal contrasto del furore impotente dell’empio contro di lui, che il salmista oppone alla tranquillità ed alla gloria del giusto (10).

Spiegazioni e Considerazioni

 I.

ff. 1. – L’inizio di questo salmo si ricollega strettamente alla fine del precedente, e non forma di questi due salmi che un unico corpo, le cui parti sono perfettamente unite tra loro. Il Re-Profeta ha detto nel salmo che precede: il timor di Dio è l’inizio della Sapienza. Per far seguito a questo pensiero sì profondo e sì bello, aggiunge ora che è ancora un principio di felicità, una sorgente di vita. L’uno è la conseguenza dell’altra. (S. Crys.). – « Felice l’uomo che teme il Signore. » Ora, colui che teme il Signore, che fa? Ascolta attentamente la parola di Dio, cerca di rendersi sapiente nella legge? No, non è ciò che dice il salmista: egli desidera compiere ardentemente i suoi Comandamenti. (S. Girol.). – Il timore del Signore è dunque la vera felicità; ma anche i demoni stessi hanno timore del Signore e tremano davanti a Lui; il Re-Profeta ci avverte che vuol parlare di questo timore odioso che, non portando a nulla con questo tremore freddo e sterile, si ritrova fin negli inferi, e che non è sufficiente a salvarci; ma questo timore attivo e fecondo che porta al compimento della legge, dopo aver detto, nel salmo precedente, che « il timor di Dio è l’inizio della Sapienza, » aveva aggiunto: « Tutti coloro che la praticano sono pieni di intelligenza salvifica. »

Inoltre qui, dopo aver proclamato la felicità di questo timore, egli lo distingue da quello che ha per principio la conoscenza e che esiste negli stessi demoni, aggiungendo. « … chi ha una volontà ardente di compiere i suoi precetti »; egli non dice: « egli osserverà i suoi comandamenti, » ma « … egli avrà una volontà ardente di compierli, » ciò che è una disposizione molto più perfetta. Ora, in cosa consiste questa disposizione? Nell’osservare i comandamenti di Dio con una santa alacrità, ad amarli passionalmente, e perseguirne l’esatta osservazione; nell’amarli, non per la ricompensa promessa, ma per Colui che li ha stabiliti, a farne le proprie delizie per la pratica della virtù, senza essere portato al timore dell’inferno, con la minaccia dei supplizi eterni, ma per amore di Colui che ci ha dato queste leggi (S. Gerol.. – S. Crys.).

II.

ff. 2. – La felicità del giusto, sotto l’antica legge, era una numerosa posterità sulla terra; questa è la benedizione per l’antico popolo, e non vuole forse Dio che non sia essa, il più sovente, quella del popolo nuovo? « Il giusto che cammina nella sua semplicità, lascia dopo di lui dei figli felici. » (Prov. XX, 7). Questi sono uomini di misericordia, e la loro pietà non è mai venuta meno. I loro beni restano alla loro razza; i loro nipoti sono una santa eredità, e la loro razza si conserva nell’alleanza eterna, ed i loro figli, a causa loro, restano eternamente, e la loro razza si perpetua come la loro gloria. (Eccli. XLIV, 10-13). – Se l’uomo giusto, talvolta, non ha parte di questa benedizione, essa si compirà almeno nel senso morale e spirituale, perché con il nome di “razza”, la Scrittura designa spesso, non i figli che nascono per via di generazione, ma la filiazione che viene in conformità della virtù (S. Chrys.). – La vera posterità dei Santi sono i figli ed i discepoli della loro pietà. – Le loro buone opere sono ancora, al loro sguardo, tanti figli che attirano su di loro la benedizione di Dio. (Dug.). –  « La sua semenza, la sua razza, sarà forte sulla terra. » La semenza della messe da venire, sono le opere di misericordia. L’Apostolo lo dichiara quando dice: « Facciamo il bene senza sosta, perché noi raccoglieremo nel tempo convenevole. » (Gal. VI, 9). – Ora, cosa c’è di più forte che l’acquisto del regno dei cieli, non solo per Zaccheo, al prezzo della metà dei suoi beni, ma ancora per una povera vedova, al prezzo di due oboli? E tuttavia entrambi lo possiedono. Cosa di più forte del bicchiere di acqua fredda del povero, che gli dà il regno dei cieli, come i tesori al ricco? Ma ci sono di coloro che in queste opere di misericordia, cercano dei beni terrestri, sia perché sperano che Dio li ricompenserà quaggiù, sia perché essi desiderano piacere agli uomini; ma « … la razza degli uomini dal cuore retto, sarà benedetta, » (Ps. CXI, 2); vale a dire le opere di coloro per i quali il Dio di Israele è buono perché hanno il cuore retto (S. Agost.). – Questi uomini dal cuore retto gettano in questo mondo con la grazia una semenza preziosa di opere sante che prepara loro, per l’avvenire, tutta una messe di meriti e di gloria. Aspettando, il loro secolo profitta delle virtù che essi hanno praticato. In questo senso, la verginità stessa è feconda, ed il celibato cristiano è una fonte di prosperità e di grandezza. I Santi fanno maggior bene che sapienti e re (Mgr. Pichenot, Ps. du D.).

III.

ff. 3. – « La gloria e la ricchezza sono nella sua casa. » Pensiamo forse che il profeta voglia qui parlare della gloria e della ricchezza del secolo? Ma che! Che il giusto faccia la volontà di Dio i compia i suoi comandamenti per ottenere le ricchezze di questo mondo? Ma questi comandamenti egli non può attuarli proprio se non perché disprezza le ricchezze della terra. Queste ricchezze sono quelle delle quali l’Apostolo diceva: « io rendo per voi al mio Dio le azioni di grazie … per tutte le ricchezze di cui siete state ricolmi in Lui dalla sua parola e dalla sua scienza (S. Girol.). – Nei secoli più perversi, l’uomo di fede è spesso onorato, la sua reputazione è intatta, gli si rende giustizia, è rispettato dagli altri, perché si è rispettato da se stesso; egli riesce nelle imprese che Dio benedice e la prudenza illumina; egli non manca né di stima né di ricchezze, e sa condurre degnamente l’una e le altre … Pur tuttavia, qui ancora ci sono, come ognuno sa, delle nobili e frequenti eccezioni, soprattutto dopo il Vangelo, e la Provvidenza, che cerca di staccarci dalla terra e trasportare più in alto le nostre affezioni ed i nostri voti, lascia talvolta dei giusti cadere nell’indigenza e nelle umiliazioni … Le vere ricchezze sono i meriti ed i tesori che essi ammassano per l’eternità, tesori che i ladri non possono rubare, che la ruggine e la corruzione non alterano mai, e che sussistono in eterno (Mgr. Pichenot, Ibid.). – Dopo tutto è per l’anima, per il cuore soprattutto che si tratta di accumulare ed arricchirsi. Che significa questa espressione: « Nella casa? » Cioè con lui. Le ricchezze materiali non sono in vero con colui che le possiede; che dico? I loro possessi, lungi dall’essere assicurati, sono tra le mani dei delatori, degli adulatori, nelle mani dei magistrati, nelle mani dei servitori. Il padrone di queste ricchezze le dissemina da ogni parte, perché non osa conservarle tutte presso di sé; ed ancora le circonda di guardie, di precauzioni inutili, che non possono impedire alle ricchezze di sfuggirgli. (S. Chrys.). –  L’uomo che teme il Signore e che, per la rettitudine del suo cuore, frutto del suo ritorno a Dio, si dispone a diventare una delle pietre del santo Tempio di Dio, non cerca la gloria umana e non ambisce alle ricchezze terrestri; e tuttavia: « … la gloria e le ricchezze abbondano nella sua casa; » perché la sua casa è il suo cuore, ove abita più ricco per la lode che Dio gli dona, con la speranza della vita eterna, ed egli non abiterà in palazzi di marmo, in mezzo alle adulazioni degli uomini, con il timore della morte eterna. In effetti « la sua giustizia resta nei secoli dei secoli; » esso fa la sua gloria e fa la sua ricchezza. Al contrario la porpora del ricco cattivo, i suoi abiti di lino fino ed i suo splendidi festini, passano già nel momento in cui ne gioisce e, quando tutto sarà finito, la sua lingua infuocata getterà delle crida di disperazione, reclamando invano una goccia di acqua caduta dalla punta del dito (S. Luc. XVI, 19, 24) – (S. Agost.). 

IV.

ff. 4. – Anche in mezzo alla più profonda oscurità, Dio farà brillare la sua luce agli occhi di coloro che hanno il cuore retto. Alla posterità, alla prosperità, il Profeta aggiunge il bene supremo dello spirito, la verità. « Felici coloro che hanno il cuore puro, perché essi vedranno Dio. » Quelli, al contrario che non sono puri, che non hanno il cuore retto, restano tristemente seduti nelle tenebre e nell’ombra della morte e grideranno un giorno – ma troppo tardi – davanti all’universo: « Noi abbiamo errato lontano dalla verità, ed il sole dell’intelligenza non si è levato sulle nostre teste. » (Sap. V, 6). – Questo sole dell’intelligenza, questa luce benefica e pura che si è levata per i cuori retti, è lo splendore del Padre, è il brillare ed lo splendore della sua faccia adorabile, è il Verbo fatto carne che illumina ogni uomo che viene in questo mondo, di cui il Verbo ha detto: « Io sono la luce del mondo, » (Giov. VIII, 12); e che per bontà, per misericordia, per giustizia, è apparso nel mezzo della notte che avvolgeva il mondo e versato su di esso fasci di luce (S. Chrys.). – Queste tenebre, in mezzo alle quali il giusto deve camminare e raggiungere il suo fine, sono molteplici e di ogni genere: « Tenebre fuori di lui e nel suo interno; tenebre di paura e tenebre di eccessiva confidenza; tenebre di ignoranza e tenebre del desiderio di sapere, tenebre nell’orazione e tenebre nell’azione; tenebre del dubbio e tenebre di afflizione; tenebre sui pensieri dei nostri simili, e tenebre sui nostri consigli; tenebre riguardo ai peccati della nostra giovinezza e tenebre riguardo alla nostra penitenza; tenebre nelle tentazioni, e tenebre nella calma pretesa dell’anima » (Berthier). – Queste tenebre così spaventose non sono tuttavia così spesse da non essere trapassate da alcuna luce; ma è richiesta una condizione per gioire di questo beneficio: la rettitudine del cuore. Altrimenti questa luce, benché pura e viva, brillerà nelle tenebre, e le tenebre non la comprenderanno. Invano essa produrrà miracoli di giustizia e di bontà; se questo cuore non è retto, resterà nella sua cecità. È degno di nota che tra tutte le qualità che caratterizzano l’uomo giusto, il santo Profeta distingua e nomini questa semplice virtù: la rettitudine del cuore. (Rendu).

V.

ff. 5. – « Felice l’uomo che ha compassione e che dà in prestito. » Si crede forse che si tratti qui solo di questione di oro e di denaro? Spesso i giusti sono stati così lontani dall’aver di che donare, che erano obbligati a ricevere essi stessi dagli altri il nutrimento loro necessario. Dunque, se io non ho cosa dare, non sarò nel numero dei giusti? Quanti santi hanno fatto abbondanti elemosine e sono in seguito caduti dalla loro santità? Al contrario, uomini di perfezione eminente non hanno fatte elemosine, perché non avevano di che farne. Non fare l’elemosina è un crimine per chi possiede, per chi è ricco. Colui che nulla possiede è libero: egli dà pertanto ciò che desidera dare, la sua volontà è agli occhi di Dio una elemosina perfetta. Tuttavia i Santi non tralasciano di avere di che dare in elemosina. Ascoltiamo San Pietro: « Io non ho né oro né argento, ma ciò che io ho te lo do. Nel nome di Gesù, alzati e cammina. » (Act. III, 6). Cosa è meglio, cosa è più perfetto, dare un pezzo d’argento o rendere la salute e la forza ad un infermo? (S. Gerol.). – « E regolerà tutte le sue parole con prudenza e giudizio. » Il Profeta non dice: egli regalerà il suo oro, il suo argento secondo questo giudizio, ma regalerà le sue parole. Ecco la vera misericordia, quando un Santo insegna agli altri che non lo sono, ad addivenirlo. Noi comprendiamo dunque quali sono le ricchezze che egli presta agli altri. Regolare le sue parole secondo prudenza e giudizio, è praticare ciò che raccomanda Nostro Signore, per non gettare le perle davanti ai porci, cioè che ciascuno sappia bene a chi dona ciò che può ricevere, ciò che è incapace di comprendere … A che mi serve parlare se le mie parole non sono comprese, né recepite? A che pro versare del buon vino negli otri che lo lasciano subito sfuggire e spargersi? (S Gerol.). – Dopo aver parlato del bene dello spirito, il santo Profeta parla di quello del cuore, la carità. È la gioia spirituale, di cui le buone opere che la carità di Dio partorisce sono il principio, e la felicità di fare intorno a sé dei felici … L’uomo giusto è necessariamente buono, misericordioso e compassionevole, la sua compassione non si prosciuga mai, e regola tutti i suoi discorsi con una saggezza squisita, e non gli sfugge niente che abbia a rimpiangerne, che non possa ferire nessuno. –  Si può essere compassionevole, si può essere liberale e tuttavia non saper trattare con gli uomini, secondo ciò che la prudenza esige. Ugualmente, si può essere saggi nei discorsi, ed aver il cuore chiuso agli infelici. Infine si può avere un’anima compassionevole, saper parlare con saggezza, senza volersi spogliare di parte di ciò che si possiede per aiutare il prossimo prestando nel bisogno. Si è talvolta molto timorosi sugli avvenimenti futuri; si suppone con troppa diffidenza dei bisogni personali; ed invece di interessarsi allo stato degli altri, si preferisce il proprio benessere alla carità che reclama in loro favore. L’uomo dabbene che voglia stabilirsi nella pace e nelle gioia che dà la buona coscienza, unisce le tre condizioni che il Profeta segnala: egli è colpito dalla miseria degli altri, li aiuta nelle difficoltà in cui si trovano, e parla loro come conviene, sia per consolarli, sia per incoraggiarli, sia per dare loro dei consigli salutari. Se si intende il testo del regolamento degli affari, anche questa sarà una delle qualità dell’uomo dabbene: l’essere attento a tutto ciò che concerne la sua condotta, sia nei riguardi del temporale, che dello spirituale. Egli è sistemato in tutto ciò che fa, prudente in tutto ciò che intraprende, economo in tutto ciò che governa; ma, ciò che qui deve essere considerato come il punto essenziale, è che tutte queste eccellenti qualità hanno la loro fonte nel timore del Signore (Berthier). 

VI.

ff. 6. – Ma, forse tu non hai visto degli uomini misericordiosi che ondeggiavano sotto il peso dell’avversità? No, mai. Li si è visti diventare poveri, ridotti all’estrema indigenza, precipitati in ogni sorta di infortuni, ma queste prove non li hanno abbattuti, perché essi attirano su di loro la bontà e la protezione di Dio, e la testimonianza di una buona coscienza era per essi un’ancora ferma e sicura. Il Re-Profeta non dice dell’uomo misericordioso che egli non sarà attaccato, come Gesù-Cristo non dice di colui che ha costruito sulla pietra che sarà esente da inondazioni e da tempeste, ma che egli sarà in condizione di resistervi. Non è certo una cosa mirabile essere esente da tentazioni, rispetto al restare immobile in mezzo alle tentazioni. Il Profeta non dice anche che il giusto non sarà abbattuto, ma che non sarà abbattuto per sempre; e quest’ultimo senso è abbastanza in rapporto con la condizione dell’uomo su questa terra di prove. I più giusti vi sono fiaccati, come confessava Davide (Ps. LXXII, 2). Ma Davide abbattuto, Davide pur caduto, non è restato in questo stato di abbattimento o di caduta: la misericordia divina lo ha risollevato e raffermato. È lo stesso per tutti i Santi: Dio li prova, li purifica e li fortifica con le stesse prove: Non commovebitur in æternum (S. Chrys.). – « La memoria del giusto sarà eterna. » È l’ambizione dei mondani a fare un po’ di rumore intorno a sé e passare alla posterità; ma la gloria, non essendo che l’ombra della virtù, fugge, come l’ombra, colui che corre dietro ad essa, mentre segue colui che cerca di evitarla, e segue malgrado lui, i suoi passi; è ciò che succede ai Santi. C’è pure per essi quaggiù una gloria postuma, una vita oltre la tomba che fa loro elogio e che incoraggia. Essi possono essere anche talvolta coinvolti nei discorsi calunniosi degli empi; si troverà forse qualche anima vile che, vedendosi condannato dalla loro vita pura, cercherà di stigmatizzarli; ma essi non avranno nulla da temere, e come si è ben detto: che importa dopo tutto, che questi rettili impuri vengano a mescolare un po’ di bava e di veleno ai torrenti di gloria che conducono i loro nomi all’immortalità? (Mgr. Pichenot, Ps, du D.). – « La memoria dei giusti è eterna, soprattutto perché i loro nomi saranno scritti nel libro della vita, da dove non saranno mai cancellati, e saranno letti con onore dagli Angeli e dai Santi e, nell’ultimo giorno, non temeranno di ascoltare la parola cattiva, la terribile sentenza che sarà pronunciata contro i peccatori ed i riprovati. (S. Agost.).   

VII.

ff. 7, 8. – Ci sono di coloro che sono sempre pronti ad inquietarsi senza motivo, lo scoraggiamento per essi è come naturale, disperano ad ogni proposito; il primo movimento del giusto, è confidare il Dio, egli è sempre pronto a sperare nel Signore, per il suo cuore è un bisogno, come un dovere. (Mgr, Pichenot). – Ecco perché, in mezzo alle prove più terribili, non si abbandona mai alla paura. Egli ha deposto in anticipo le sue ricchezze in un forziere inviolabile e, lungi dal temere l’avvicinarsi della morte, si appresta a partire per queste regioni dove deve ritrovare tutta la sua fortuna. Che potrà temere in effetti colui che, spogliatosi di tutto, non è circondato da nulla, e non offre la presa a nessuno su di lui? Che potrebbe temere colui che è assicurato dalla bontà e dalla protezione di Dio? La sicurezza di cui gode ha dunque una doppia causa: la protezione del cielo e la felice disposizione dell’anima. Così niente è capace di abbatterlo, né i capovolgimento della fortuna, né gli oltraggi, né la calunnie; egli è invulnerabile a tutti questi colpi, perché abita in una regione inaccessibile al crimine ed ai complotti dei malvagi; egli resterà buono fino alla fine, il suo coraggio non si smentirà mai finché non vedrà il suo nemico stramazzato dinanzi a lui. (S. Chrys.).   

VIII.

ff. 9. – Il Re-Profeta ha fin qui ricordato il dovere dell’elemosina e parlato di un prestito caritatevole e di misericordia. Ora ci sono diversi gradi nell’elemosina: l’uno dà meno, l’altro con più liberalità. Qual è dunque questo uomo misericordioso di cui egli parla? È colui che dà del suo superfluo, o colui che distribuisce i suoi beni senza riserva? È evidente che è colui che dissipa tutte le sue risorse, che spande i suoi beni con una pia profusione, e del quale S. Paolo parla in questi termini: « Colui che semina nelle benedizioni, raccoglierà anche le benedizioni. » (II Cor. IX, 6). C’è la profusione ridicola del lusso e della vanità, perché non quella della misericordia? (S. Chrys.). – Il ricco liberale deve spandere le sue ricchezze come il sole spande i suoi raggi. « Il giorno rischiara egualmente tutti gli uomini, il sole dissemina dappertutto i suoi raggi, la pioggia versa su tutte le parti della terra le sue acque fecondanti, il vento soffia su tutti i punti del pianeta, la luce delle stelle e della luna è comune a tutti gli uomini. L’uomo liberale, spandendo con profusione su tutti le larghezze della carità, è imitatore di Dio, suo Padre. » (S. Cypriano, De opere et clem.). – Egli è ancora come il lavoratore che spande la sua semenza su tutta la superficie del suo campo: « Seminate per voi nella giustizia, e raccogliete nella misericordia. » (Osea, X, 12). Siate un lavoratore spirituale, seminate ciò che deve essere produttivo. È una buona semenza quella che si getta nel cuore delle vedove. Se la terra vi rende al centuplo la semenza che ha ricevuto, quali frutti ben più abbondanti renderà la misericordia a colui che ne pratica le opere?  (S. Ambr. De Nab. 7). – Il ricco liberale che spande le sue ricchezze con liberalità, come il Signore raccomanda per bocca del Profeta, le conserva; colui che invece le ritiene, senza darle, le vede passare nelle mani di altri. Se voi le conservate, cesserete di possederle, se le spandete con liberalità, le conserverete, (S. Bas. Homil. in div.). – Considerate la giustezza delle espressioni del Profeta. Egli non dice: … egli ha dato, ha distribuito, ma: « Egli ha largheggiato, » per esprimere la liberalità di colui che dona, liberalità che compare nell’azione del seminare. Che fanno coloro che seminano? Essi spandono la loro semenza che tengono in riserva, sacrificano un bene certo nella speranza di un bene futuro. In questo essi fanno meglio che non ammassare, accumulare: meglio è spandere in tal modo, che accumulare incessantemente. Voi seminate il vostro denaro, ma raccoglierete la giustizia, voi spandete delle ricchezze passeggere per acquisire dei beni immortali. (S. Chrys.). – Questa espressione sembra racchiudere ancora un esempio ed un consiglio. Come regola generale, è meglio dare poco a molti che dare molto a pochi; perché è questo il mezzo di provvedere alle varie necessità di un gran numero ed impedirne l’abuso; è meglio variare le proprie opere, estendere la propria commiserazione, far progredire i propri benefici, piuttosto che concentrarli sempre. Questa saggia liberalità ci è profittevole perché, se la fortuna diminuisce per le elemosine, la giustizia, che ne è il frutto, aumenta e non è una giustizia passeggera, ma una giustizia che resta in tutti i secoli. (Mgr. Pichenot Ps. di D.). – Di qual valore sono questi beni invisibili, che ognuno può acquistare a prezzo di ciò che possiede? « È perché il giusto ha diffuso i suoi doni ai poveri. » Egli non vedeva ciò che comprava e non lasciava ricomprare; ma Colui che aveva fame e sete sulla terra, nella persona dei poveri, gli conservava un tesoro nel cielo. Non è dunque da meravigliarsi che « che la sua giustizia resta nei secoli dei secoli, » poiché essa è sotto la custodia del Creatore dei secoli. « La sua forza sarà elevata in gloria, (Ps. CXI, 9), dopo che la sua umiltà sarà disprezzata dai superbi » (S. Agost.).

IX.

ff. 10. – La virtù è uno spettacolo triste ed importuno per gli uomini viziosi, perché essa è un rimprovero ed una condanna della loro malvagità. Ma vedete come il peccatore, tutto roso dall’invidia, non osa formulare accusa contro l’uomo giusto, né sostenere lo sguardo puro e limpido della virtù. Il dolore che lo rode interiormente si manifesta con il digrignar dei denti, ma non osa pronunciare una parola, e richiude dentro di sé il dolore che lo affligge (S. Chrys.). – « Il peccatore lo vedrà e si irriterà, » ma con un pentimento tardivo ed infruttuoso, perché contro chi si irriterà più di sé quando, vedendo elevato in gloria la forza di colui che avrà elargito doni ai poveri, dirà: « A cosa ci è servito il nostro orgoglio?  A cosa ci sono valse le nostre ricchezze da cui traevamo tanta vanità? (Sap. V, 8). « Egli digrignerà i denti e si consumerà per il furore, » perché nell’inferno dove sarà piombato, ci sarà pianto e stridor di denti; perché non cresceranno né foglie, né rami per come ha fatto, se si fosse pentito in tempo opportuno; ma egli non si pentirà che « … quando il desiderio dei peccatori perirà, » senza che alcuna consolazione possa seguire a questo pentimento. Il desiderio dei peccatori perirà quando tutte le cose passeranno come un’ombra, quando il fieno sarà disseccato, il fiore del fieno cadrà (Isai. XI, 8); ma la parola del Signore, che resta per sempre, dopo aver subito le orgogliose provocazioni dei falsi felici, sarà una provocazione contro di loro, vera maledizione, quando saranno perduti per sempre (S. Agost.). 

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (14)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (14)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR – 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA INABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO VI

Effetti dell’abitazione dello Spirito-Santo.

(Seguito)

I DONI DELLO SPIRITO-SANTO

I.

Con la grazia e le virtù cristiane, lo Spirito Santo porta ancora nell’anima, dove viene a fissare la sua dimora, i vari doni che portano il suo nome, il « sacro septenario » la, come si esprime la Chiesa, sacrum septenarium. Cosa significano questi doni? Qual è il loro ruolo, la funzione, lo scopo, nella vita soprannaturale? Sono davvero distinti dalle virtù infuse, e bisogna considerarli necessari alla salvezza? Queste sono le domande a cui occorre rispondere.  – E in primo luogo, qual è esattamente la natura dei doni dello Spirito Santo? Essi sono, essenzialmente, benefici gratuiti, come indica il nome di “doni”: un nome che è comune agli altri beni della grazia. Ma questo termine generico ha ricevuto nel linguaggio cristiano un significato preciso, un senso perfettamente determinato e limitato ad alcune perfezioni specifiche che Dio comunica liberamente all’anima retta per renderla flessibile e docile alle sue ispirazioni (S. Th. Ia-IIæ, q. LXVIII, a 1).  Come la grazia santificante, come le virtù infuse, con cui presentano molte analogie, i doni sono abitudini, disposizioni al bene che esistono in noi nello stato di qualità fisse e permanenti. Non sono quindi atti, ma principi di operazione; non sono mozioni, attuali, dei soccorsi passeggeri della grazia destinati a mettere in gioco le nostre facoltà, ma piuttosto delle qualità, delle forze conferite all’anima in vista di certe operazioni soprannaturali.  – La Scrittura stessa, parlando di questi doni, ce li rappresenta come esistenti in modo stabile, come riposanti nel giusto. Isaia dice del Verbo incarnato: « Lo Spirito del Signore riposerà su di Lui: lo Spirito di saggezza e di comprensione, lo Spirito di consiglio e di forza, lo Spirito di conoscenza e di pietà; e lo Spirito di timore del Signore lo riempirà. » (Isai. XI, 2-3). E i dottori applicarono queste parole ai membri viventi del Corpo Mistico di Nostro Signore, che devono partecipare ai privilegi del loro Capo. – San Gregorio Magno ci dice ugualmente che « … con i doni, senza i quali la vita non può essere raggiunta, lo Spirito Santo risiede in modo stabile negli eletti, mentre con la profezia, il dono dei miracoli e delle altre grazie gratuite, Esso non si stabilisce stabilmente in coloro ai quali li comunica: in his igitur donis, sine quibus ad vitam perveniri non potest, Spiritus Sanctus in electis omnibus semper manet; sed in aliis non semper manet. » – Potremmo, con l’angelico Dottore, definire i doni dello Spirito Santo: “… delle abitudini o qualità permanenti che sono essenzialmente soprannaturali, che perfezionano l’uomo e lo dispongono ad obbedire con prontezza alle mozioni dello Spirito Santo: Dona Spiritus Sancti sunt quidam habitus quibus homo perficitur ad prompte obediendum Spiritui Sancto. » (S. Th. Ia-IIæ, q. LXX, a. 2). – Da queste parole non si deve concludere che i doni siano delle disposizioni puramente passive, una sorta di unzione spirituale che abbia lo scopo esclusivo di ammorbidire le nostre facoltà perché esse non oppongano resistenza all’azione del celeste motore. « Essi sono nel contempo  delle morbidezze e delle energie, delle docilità e delle forze che rendono l’anima più docile sotto la mano di Dio e nello stesso tempo più attiva nel servirlo e nel compiere le sue opere. » (Mgr. GAY, De la Vie et des Vertus chrétiennes, I. Traité). Come le virtù morali, che mirano a sottomettere e assoggettare le nostre facoltà appetitive all’impero della ragione, a renderle docili alle sue prescrizioni, e che sono non di meno delle fonti di attività, i doni sono anch’essi delle energie soprannaturali, dei principi di operazione. Testimone di queste eccellenti opere, note come Beatitudini, che, per la loro stessa perfezione, devono essere attribuite ai doni piuttosto che alle virtù e che da essi emanano come l’operazione procede dall’abitudine ». (S. Th. Sent. III, d. XXXIV, q. 1, ad 4). In caso affermativo, in che modo i doni differiscono dalle virtù? Alcuni teologi credono di non siano molto diversi da loro, e che doni e virtù significhino, con nomi diversi, la stessa cosa. Se consideriamo le abitudini soprannaturali – essi dicono – come  dei benefici gratuiti che ci vengono dalla bontà divina, li chiamiamo doni; se li consideriamo principi di operazione, li chiamiamo virtù. Questa spiegazione apparentemente molto semplice ha il grave svantaggio di essere difficile da conciliare con  verità indiscutibili. E infatti, se i doni si identificano con le virtù, come mai il Signore, che  certamente possedeva tutti i doni, come ci dice chiaramente Isaia, non aveva avuto tutte le virtù infuse allo stesso modo? Non la fede, incompatibile con la visione immediata dell’Essenza divina, di cui la santa umanità del Salvatore non ha mai cessato di godere; né la speranza, che è stata esclusa dal suo stato e dalla sua perfezione di Persona comprendente; né la penitenza, che non va con l’impeccabilità? Inoltre, se doni e virtù non sono cose separate, rimarrebbe da spiegare perché alcuni doni, come il timore, non siano tra le virtù e perché certe virtù non vengano enumerate tra i doni. Pertanto, la grande maggioranza dei teologi ritiene, insieme a san Tommaso, che ci sia una vera distinzione tra doni e virtù, una distinzione basata sulla diversità dei motori ai quali l’uomo obbedisce nella pratica del bene. Se si vuole – dice l’angelico Dottore – distinguere chiaramente i doni dalle virtù, è necessario attenersi al linguaggio della Scrittura, che designa i primi non come doni, ma come spiriti – Spirito di saggezza e intelligenza, Spirito di consiglio e forza, ecc. – dandoci modo di comprendere che, venuti dall’esterno ed infusi nella nostra anima con la grazia, il loro scopo e il loro effetto è quello di rendere più flessibili le nostre potenze e di disporle a seguire docilmente l’ispirazione divina. Ora, chi dice ispirazione, dice mozione veniente dall’esterno, in contrapposizione al movimento del motore interno, che è la ragione. Ci sono infatti in noi due principi guida sotto il cui impulso si compiono gli atti che devono condurci alla salvezza: uno interiore, che è la ragione, l’altro esteriore, che è Dio. Per consentire all’uomo di ricevere correttamente questo doppio impulso, si ha bisogno di due tipi di perfezioni: le prime, più umili, che lo dispongono a seguire senza resistenza, in tutte le sue azioni interiori ed esteriori, il movimento e la direzione della ragione: questo è il ruolo delle virtù; le seconde, più elevate e conseguentemente distinte dalle precedenti, mirano a renderlo flessibile e docile alle ispirazioni dello Spirito Santo: questo è la funzione dei doni. (S. Th., Ia-IIæ, q. LXVIII, a. 1). Mettiamo queste verità nella giusta luce. Ed innanzitutto, che l’uomo possieda in se stesso, nella sua ragione, lasciata alle proprie luci o illuminata dalla fede, un principio di attività con cui si muove, decida di fare questo o quello, è ovvio. Non appena diventa un essere intelligente e libero, e quindi padrone delle sue azioni, può, nella sua sfera, come agente secondario e prossimo – in suo ordine, scilicet sicut agens proximum, – compiere questa o quella operazione a sua scelta. Ma, poiché le facoltà umane suscettibili di compiere un atto morale siano inclini abitualmente al bene e disposte a compierlo con facilità, prontezza e costanza, hanno bisogno di essere perfezionate da certe qualità o abitudini, aventi l’effetto di renderle docili alla direzione e all’impero della ragione. Nell’ordine naturale, questo ruolo appartiene alle virtù umane o acquisite; nell’ordine soprannaturale, questa funzione appartiene alle virtù cristiane. Così dotato, l’uomo è in grado di agire, di fare del bene, di fare opere salutari e meritorie, quelle almeno che non superano il livello ordinario e comune.  – Ma la ragione non è l’unico motore, né l’unico principio determinante delle nostre azioni; è anche solo un motore subordinato e secondario. Il  primo e principale motore è fuori di noi e non è altri che Dio. Ora  è una verità confermata dall’esperienza quotidiana che più elevato sia il motore, più perfette debbano essere le disposizioni che preparano il mobile a ricevere la sua azione (S. Th., Ia-IIæ, q. LXVIII, a. 1). Così, mentre un bambino è in grado di comprendere e seguire le lezioni di un insegnante di grammatica elementare, per consentire ad un adulto, anche colto, di seguire il corso di un insegnante di istruzione superiore, è necessaria una lunga preparazione, che non è nemmeno alla portata di tutte le intelligenze. – Se, allora, per disporre dei nostri poteri appetitivi onde obbedire prontamente alle ingiunzioni della ragione illuminata dalla nostra luce o da quella della fede, abbiamo bisogno di tutta una serie di abitudini, acquisite o infuse, a seconda che il bene di cui si tratti sia naturale o soprannaturale; come non concludere, con san Tommaso, che per poter ricevere fruttuosamente e seguire con docilità le ispirazioni e la guida dello Spirito Santo, un Motore così alto al di sopra della ragione stessa illuminata dalla fede, siano qui veramente necessarie altre perfezioni, ed altre abitudini superiori alle virtù morali, acquisite o infuse? Abbiamo nominato i doni che sono all’uomo nei suoi rapporti con lo Spirito Santo, ciò che sono le virtù morali alla volontà rispetto alla ragione. Queste dispongono le potenze appetitive ad obbedire prontamente alla ragione; quelli preparano l’uomo ad essere docile agli istinti dello Spirito Santo. (Ibid. a. 3).

II.

L’argomento che abbiamo appena sviluppato dimostra bene, è vero, che i doni e le virtù sono abitudini davvero distinte; ma non indica, almeno in modo esplicito, in cosa consista questa differenza. Così, quando San Tommaso propone solo di stabilire – come in Ia-IIæ, q. LXVIII, a. 1, – che i doni sono perfezioni diverse dalle virtù, la ragione che egli propone è la dualità dei motori a cui l’uomo obbedisce nella pratica del bene: ottima ragione, perché motori formalmente diversi presuppongono, richiedono disposizioni diverse da parte del mobile, in modo che egli sia in grado di ricevere connaturalmente impulsi di cui gli uni possano essere tanto elevati al di sopra degli altri: Manifestum est quod ad altiorem motorem oportet majori perfectione mobile esse dispositum (S. Th. Ia-IIæq. LXVIII, a. 8). Ma quando il santo Dottore vuole mostrare in cosa i doni e le virtù differiscano, tutt’altra è la sua risposta; si richiama alla divergenza nel modo di agire che caratterizza questi due tipi di abitudini, e alla diversità della regola che serve come misura dei loro atti: Dona a virtutibus distinguuntur in hoc quod virtutes perjiciunt ad actus MODO HUMANO, sed dona. ULTRA UMANO. (S. Th. Sent., III, dist. XXXVI, q. 1, a. 1.).Il primo elemento caratteristico dei doni, quello per cui essi si distinguono chiaramente dalle virtù, è il loro modo di agire. Infatti, le virtù, qualunque esse siano, naturali o soprannaturali, acquisite o infuse, dispongono l’uomo ad un’azione di forma razionale e umana: virtutes perjiciunt ad actus MODO HUMANO; i doni, al contrario, lo mettono in grado di operare in modo sovrumano e in qualche modo divino: sed dona ULTRA HUMANUM MODUM. Questa è la loro ragione: Donorum propria est ratio, ut per ea quis super humanum modum operetur (S. Th., m, Sent., III, dist., xxxv, q. II, a. 3): questo è ciò che costituisce la loro superiorità sulle virtù: Donum in hoc transcendit virtutem quod supra humanum modum operetur (S. Th., Sent., III, dist. XXXVI, q. 1, a. 3.). Lasciate che lo stesso san Tommaso ci spieghi, con la sua ordinaria lucidità, che cosa debba intendersi del modo umano di agire specifico delle virtù e in cosa consista il processo superiore che caratterizza i doni. A tal fine, egli confronta la virtù della fede con il dono dell’intelletto che gli corrisponde, e mostra con un esempio, che egli stesso dichiara evidente, la divergenza dei loro processi.  Il nostro modo naturale di conoscere le cose spirituali e divine – dice – è quello di salire da questo mondo materiale e visibile al mondo invisibile attraverso lo specchio della creatura e l’enigma delle analogie, cioè attraverso concetti inappropriati presi in prestito all’ordine sensibile e pertanto necessariamente imperfetti. Connaturalis enim modus humanæ naturæ est ut divina non nisi per speculum creaturarum et ænigmate similitudinum percipiat (Ibid. dist. XXXIV, q. 1, ad I). Così, per la fede, che è una virtù, usa queste stesse nozioni per introdurci alle verità soprannaturali. Et ad sic percipienda divina perjicit fides, quæ virtus dicitur (S. Th., III, Sent., dist., XXXIV, q. I, a. 1). – Senza dubbio essa allarga il cerchio della nostra conoscenza, ci conduce nel santuario della Divinità e ci rivela misteri di cui la contemplazione dell’universo non ci avrebbe mai manifestata l’esistenza; ma in luogo del nostro semplice assentimento ai dogmi rivelati che implica la fede, ci comunica una certa percezione della verità, ci fa cogliere, per così dire, le cose divine, ci eleva al di sopra del nostro modo naturale di conoscere e, senza togliere tutti i veli, ci dà di questa vita, come un’anticipazione delle manifestazioni e delle chiarezze future. (S.Th. III Sent.. dist. XXXIV, a I a. I). – Che senso profondo delle verità di fede possiamo trovare di tanto in tanto in certi uomini senza cultura e senza lettere, ma docili alle ispirazioni dello Spirito Santo, a volte anche nei bambini semplici! Quali intuizioni per scoprire il veleno dell’errore! Forse non saranno in grado di confutare, secondo le regole della dialettica, i sofismi dell’eresia o dell’incredulità; ma poiché sono impregnati delle verità dell’insegnamento cattolico, capiscono che non devono discostarsene in nulla! Da dove viene in loro una tale certezza sulle cose della fede? Dai mezzi naturali della conoscenza per l’uomo: lo studio, la riflessione? No, ma dal dono dell’intelletto. – Leggiamo nella vita di Santa Giovanna Chantal che un giorno, all’età di cinque anni, giocava nell’ufficio del padre, quando scoppiò una discussione tra il presidente Frémiot e un gentiluomo protestante venuto a trovarlo. Si discuteva della Santa Eucaristia. Il signore protestante diceva che quello che gli piaceva di più della religione riformata era che negava la presenza reale di Nostro Signore nel Santissimo Sacramento. A queste parole, la santa bambina non poté trattenersi: ella si avvicina vivacemente al protestante e si mette a fissarlo con uno sguardo accigliato: « Monsignore – gli disse – dovete credere che Gesù Cristo è nel Santissimo Sacramento perché Egli lo ha detto; se non lo credete, lo ritenete un bugiardo ». Il tono con cui parla stupisce il protestante, che inizia a discutere con lei; ma ella lo ferma subito con la saggezza delle sue risposte, e nello stesso tempo, con l’ardore della sua fede, ed incanta tutti i presenti. Imbarazzato dalle sue vivaci rimostranze, il signore protestante volle porre fine alla discussione come si conclude con i bambini: gli presenta dei dolcetti. Ma la piccola subito li prende dal grembiule e, senza toccarli, li getta nel fuoco, dicendo: « Guardate, monsignore, è così che tutti gli eretici bruceranno nelle profondità dell’inferno, perché non credono a ciò che il Signore ha detto. »

III.

Se ora, passando all’ordine pratico, chiediamo all’angelico Dottore in cosa consista il modo umano di agire proprio delle virtù, per esempio della prudenza, ed in cosa si distingua dal processo sovrumano che caratterizza il dono corrispondente, quì il dono del Consiglio, la sua risposta non sarà meno netta né meno precisa. Che si tratti della scelta di uno stato di vita o di ogni altra determinazione importante da prendere, ecco come procede la prudenza. Essa si occupa delle vie e dei mezzi convenienti per ottenere il fine prefissato, e giudica quali siano i migliori e ne prescrive l’applicazione. A mo’ di indagine, il modo umano consiste nell’esaminare tutto alla luce della ragione o della fede, soppesare i pro e i contro, studiarne le attitudini, le attrattive, le disposizioni, prevedere il futuro secondo quanto accade abitualmente in situazioni simili, consultare persone prudenti, pregare.  In Inventione, MODUS HUMANUS est quod procedatur inquirendo et conjecturando ex his quæ sient accidere (S. Th., III Sent., dist. XXXIV, q. 1, a. 2). Poi arriva il turno del giudizio, e infine quello del comandamento, che è il principale atto di prudenza. Ma non è raro che la prudenza umana, a causa di circostanze eccezionali o particolarmente difficili, si trovi in difficoltà. Si ha un bel riflettere, consultare, studiare la questione da tutte le parti, non possiamo andare fino in fondo, né possiamo formulare una risoluzione ferma e precisa. Che cosa dobbiamo fare in queste circostanze, quando la prudenza è muta, e la ragione è disperata? Ciò che fece Re Josaphat quando, in una situazione simile, di fronte a una moltitudine di Moabiti, Ammoniti e Siriani che erano uniti contro di lui, e non sapendo da che parte stare, si voltò verso il cielo e pregò: “Signore, non sapendo quello che dobbiamo fare, tutto quello che dobbiamo fare è guardare a te: Cum ignorremus quid agere debeamus, hoc solum habemus residui ut oculos nostros dirigamus ad te (II Paralip. XX, 12). Ed ecco, lo Spirito del Signore si posò improvvisamente su di un profeta, che venne a dire al re e al suo popolo da parte di Jeowah: « Non temete, non vi spaventi questa moltitudine; la battaglia non è affar vostro, ma di Dio…. Domani camminerete contro di loro e il Signore sarà con voi: Nolite timere, ne paveatis hanc multitudinem; non est enim vestra pugna, sed Dei…. Cras egrediemini contra eos, e Dominus erit vobiscum (II Paralip. XX, 15-17). “Ora, se allo stesso modo, in una simile occasione, un Cristiano ricorre, con fiducia, a Colui che non rifiuta mai il suo aiuto nelle cose necessarie o utili alla salvezza, e se ne riceve ispirazione che pone fine alle sue perplessità e gli insegna con una sorta di certezza ciò che deve fare, questo è al di sopra del modo umano e l’effetto del dono del Consiglio. Sed quod homo accipiat hoc quod agendum est, quasi per certitudinem a Spiritu Sancto edoctus, SUPRA HUMANUM MODUM EST; et ad hoc perficit donum consilii (S. Th., III Sent., dist. XXXIV, q. 1, a. 2). Così, nelle cose che non vanno oltre la portata della ragione, è alla prudenza acquisita o infusa che spetta guidare l’uomo nella scelta e nell’uso dei mezzi (S. Th., Ia-IIæ, q. LII, a. 1, ad. 1).. Trascurare poi di esaminare da soli ciò che sia opportuno dire o fare, con il pretesto dell’abbandono alla Provvidenza, sarebbe tentare Dio (S. Th., IIa-IIæ, q. LIII, a. 4, ad 1). Ma poiché la ragione umana è incapace di comprendere tutti i casi particolari e contingenti che possano sorgere, – dal che deriva che « i pensieri dei mortali sono timidi e le loro previsioni incerte » – per non essere privati di consiglio in materia di salvezza, dove la prudenza non è più sufficiente, l’uomo deve essere guidato e diretto da Colui che sa tutto; così come nelle cose umane, quando non si ha abbastanza luce per trattare un caso, si ricorre ai consigli di persone più illuminate. (S. Th., Ia-IIæ q. LXVIII, a. 3, ad 2). – Questa direzione superiore nell’ordine della salvezza si realizza attraverso il dono del Consiglio, da cui le parole del Salmista: « Il Signore è la mia guida, nulla mi mancherà: Dominus regit me,  et nihil mihi deerit » (Ps. XXII-1). Ma in questo caso, l’uomo non deve esaminare e giudicare da solo ciò che sia opportuno fare, lo Spirito Santo si incarica di questa cura, e l’uomo deve solo prestarsi obbedientemente alle sue ispirazioni; perché – secondo l’osservazione di san Tommaso – è il motore, non lo strumento, che deve giudicare e comandare. Tuttavia, in materia di doni, è lo Spirito Santo, non la ragione umana, che è la forza motrice, essendo l’uomo più passivo che attivo, strumento e non causa principale: strumento, però, che non può essere considerato inerte, perché attivo e libero, attivo in quanto libero, collaborando liberamente con la mozione divina. (S. Th., Ia IIæ q. LXVIII, a. 3, ad a. 1). – La differenza nel modo di agire che abbiamo appena visto tra la prudenza e il dono del Consiglio, si trova allo stesso modo tra le altre virtù e i doni che le perfezionano; ad ogni virtù corrisponde infatti un dono particolare che la aiuta e la fa operare a volte in modo sovrumano. Ciò è particolarmente vero per la fortezza ed il dono che porta lo stesso nome. – La caratteristica della virtù della fortezza è quella di rafforzare l’anima e farle superare tutti gli ostacoli che si incontrano nella pratica del bene, nonostante i pericoli e persino la morte stessa. Se mi chiedete qual sia il suo modo naturale per agire, vi risponderò con San Tommaso che esso consiste nell’affrontare le difficoltà fino all’estensione delle forze umane, pensatis viribus propriis et secundum earum mensuram (S. Th. III Sent., dist. XXXIV, q. 1 a.2); andare oltre, intraprendere con il proprio movimento un’opera che superi le proprie forze, non sarebbe più virtù, ma incoscienza, così come rimanerne al di sotto, per difetto il coraggio, sarebbe un segno di pusillanimità. Ma che, in un incontro particolare, spinto da un istinto superiore, l’uomo prenda come misura delle sue azioni, non più le proprie forze, ma la potenza divina, elevandosi a cose manifestamente superiori alle sue energie native, ed affronti pericoli che non è in grado di superare, affidandosi all’aiuto divino, è al di sopra del modo umano ed effetto del dono della fortezza. -Sarebbe facile continuare questo parallelo e mostrare nel dettaglio quale sia il modo umano di agire specifico delle diverse virtù, e come si differenzi dal modo speciale di operare mediante i doni; ma forse sarebbe meglio limitarsi ad indicare in caratteri generali ciò che costituisce la divergenza di processo tra gli uni e le altre. Negli atti che emanano da virtù, acquisite o infuse, l’uomo agisce in modo conforme alla sua condizione umana, cioè con il proprio movimento, in virtù della propria iniziativa personale. Dopo aver riflettuto, deliberato e, se necessario, preso consiglio, egli si porta al bene per libera scelta, per propria determinazione, senza escludere, naturalmente, la mozione ordinaria di Dio che opera internamente in qualsiasi agente libero o naturale come causa prima: non tamen exclusa operatione Dei, qui in omni natura et voluntate intérius operatur1. (S. Th. Ia IIæ, q.  LXVIII, a. 2). Al contrario, egli agisce, sotto l’influenza dei doni, ma non è più da se stesso che opera, ma un impulso interiore onnipotente, al quale egli si presta tuttavia volontariamente, lo spinge a fare questa o altra cosa il cui pensiero gli sia stato improvvisamente ispirato. Qui l’uomo è più passivo che attivo, anche se non manca la sua attività personale, sotto forma di consenso e di libera collaborazione, perché Dio muove ogni essere in modo conforme alla sua natura (S. Th. IIa IIæ, q. LII, a. 2 ad 1). -Sant’Agostino ha descritto molto bene questa seconda modalità d’azione quando, a proposito delle parole dell’Apostolo: « Tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio, questi sono i figli di Dio: Quicumque Spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei » (Rom. VIII, 14), egli sottolinea che lo Spirito Santo « li muove per farli agire, non perché rimangano inerti e puramente,  passivi: Aguntur enim ut agant, non ut ipsi nihil agant » (S. Aug. De gest, Pelag. C. III, n. 5). Agiscono dunque, ma per far emergere il particolare istinto che li fa agire, l’Apostolo san Paolo dice che sono mossi e azionati dallo Spirito di Dio. Ora, « essere mossi o azionati è più che essere semplicemente guidati o diretti; perché colui che è guidato fa pure qualcosa; egli è precisamente diretto in modo che agisca correttamente. Ma chi è mosso o attivato sembra a malapena fare qualcosa da se stesso; eppure la grazia del Salvatore agisce così efficacemente sulla nostra volontà che l’Apostolo non ha paura di dire: Tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio, questi sono i figli di Dio » (Rom., VIII, 14). E la nostra volontà non saprebbe fare un uso migliore della propria libertà, che abbandonandola all’impulso di Colui che non può fare il male …. » (Rom. VIII, 14 – S. Aug. De Gestius Pel. C. III, n. 5). La Scrittura e la vita dei Santi contengono un gran numero di fatti in cui questo impulso divino è visto in esercizio. Così si dice in Luca che « Gesù è stato spinto nel deserto dallo Spirito Santo: Agebatur a Spiritu in desertum » (Luc. IV, 1). Allo stesso modo il vecchio Simeone, che aveva ricevuto dallo Spirito Santo la promessa che non sarebbe morto senza aver visto prima il Cristo del Signore, si sentiva ispirato a venire al Tempio, venit in Spiritu in templum, (Luc. II, 25) nel momento in cui Maria e Giuseppe si sono presentati lì per adempiere le prescrizioni della legge nella persona del Bambino Gesù.  – Un fatto ci mostrerà in modo impressionante la differenza nel modo di agire che distingue le virtù dai doni. Sotto la persecuzione di Settimio-Severo, una giovane schiava di nome Felicita era appena stata condannata alle bestie feroci con altri Cristiani. Ella era prossima a partorire, e poiché si avvicinava il giorno del supplizio, Félicita era desolata al pensiero che la sua gravidanza avesse potuto ritardare il suo supplizio, perché la legge vietava l’esecuzione di una donna incinta. Anche gli altri martiri si affliggevano di lasciarla indietro.Tre giorni prima della data fissata per il combattimento, tutti pregavano per la sua pronta liberazione. Non appena finito, la colsero i dolori. Mentre si lamentava, una delle carceriere le disse: « Se in questo momento non puoi sopportare le sofferenze, come sarà quando sarai straziata dalle bestie? Sarebbe quindi molto meglio sacrificare agli dei. » Al che, questa donna generosa diede questa bella risposta: « Oggi sono io che soffro; ma allora sarà un Altro in me che soffrirà per me, perché anch’io soffrirò per Lui. »

IV.

Distinti dalle virtù per il loro modo di agire, i doni lo sono ancora per una regola che serve da misura dei loro atti. La regola delle virtù acquisite è la ragione umana perfezionata dalla prudenza naturale; quella delle virtù infuse, la ragione illuminata dalla fede e diretta dalla prudenza soprannaturale; per questo si definisce la virtù: un’abitudine che ci inclina a vivere con rettitudine secondo la regola della ragione: qua recte vivitur secundum regulam rationis (S. Th., Ia IIæ, q. LXVII, a. 1, ad 3). Quanto ai doni dello Spirito Santo, queste perfezioni superiori, alliores perfectiones (Ibid. in corp. art.) che Dio ci dà in vista della sua mozione, in ordine ad motionem ipsius (Ibid. ad. 3), i loro atti non hanno altra regola che l’ispirazione divina e la saggezza di Colui che è lo Spirito di verità.  (S. Th. III Sent. Dist. XXXIV, q. 1 a. 3) – Non è quindi raro che « l’ispirazione divina spinga l’uomo a delle opere che vanno oltre i limiti ordinari della ragione, quando è illuminato dalla fede. Queste opere sono buone di una bontà superiore; non sono temerarie perché hanno Dio stesso come consigliere e sostegno; esse sono giustificate da questa ragione superiore per cui Dio, quando agisce in questo modo, non è obbligato a restare entro i limiti che l’imperfezione naturale dell’uomo lo costringe a rispettare. Per tutte queste ragioni esse soddisfano più del necessario i dati della prudenza. Tuttavia, la prudenza ordinaria, anche la cristiana, non permetterebbe loro di essere intraprese o consigliate. È soprattutto in queste opere che sono in gioco i doni dello Spirito Santo. » Così quando Santa Dorotea, condotta al supplizio e interrogata da un avvocato di nome Teofilo, che, avendola sentita parlare del paradiso del suo Sposo, le disse scherzosamente: « Vieni, sposa di Cristo, mandami dei fiori o delle rose dal Paradiso di tuo marito », rispose subito: « Certamente lo farò »: da dove ha ottenuto tale assicurazione? Avrebbe potuto parlare in questo modo, secondo le leggi della prudenza cristiana? Non si esponeva ella alla tentazione di Dio contando su di un miracolo che  Egli non era tenuto ad operare, o a screditare la Religione Cristiana, se la promessa che aveva appena fatto non fosse stata mantenuta? Eppure la giovane vergine risponde senza esitazione: « Certamente lo farò: Plane hoc faciam. » E l’evento gli diede subito ragione. Perché lo Spirito Santo le aveva suggerito la sua risposta e, senza esitazione, senza ulteriori riflessioni, aveva obbedito docilmente all’ispirazione divina, secondo questa parola del profeta: « Il Signore mi ha aperto l’orecchio per farmi sentire la sua voce; qualunque cosa mi dica, non resisto; qualunque difficoltà si presenti, non torno indietro. »  – Allo stesso modo, quando il Beato Enrico Suso, dell’Ordine di San Domenico, incise profondamente sul suo petto il nome di Gesù e compì macerazioni che rivoltano la nostra delicatezza; quando Santa Apollonia, minacciata dai pagani di essere bruciata viva se non rinunciava a Gesù Cristo, preveniva i suoi carnefici e si gettava nelle fiamme; quando gli stiliti e tanti altri Santi abbracciavano una vita che sembrava una sfida perpetua alla natura, si comportavano secondo le regole della prudenza cristiana? Certo che no! Eppure i miracoli compiuti a conferma della loro santità sono lì a dimostrarci che, agendo in questo modo, hanno obbedito ad un impulso divino. Tutti questi eroismi di fede, di dolcezza, di forza, di pazienza, di carità, di cui l’agiografia cristiana ci fornisce il commovente racconto; le straordinarie opere intraprese per la gloria di Dio o la salvezza del prossimo; le manifestazioni più alte ed eccellenti della vita spirituale, non sono altro che gli effetti dei doni dello Spirito Santo. Partendo da un principio superiore alle virtù, non sorprende che esse vadano oltre la misura delle virtù? Ecco perché alcuni teologi dicono che i doni sono delle perfezioni che dispongono l’uomo ad atti più elevati, più eccellenti di quanto non lo siano generalmente gli atti di virtù: et hoc est quod quidam dicunt quod dona perficiunt hominem ad altiores actus quam sint actus virtutum (S. Th., Ia IIae, q. LXVII1, a. 1). – E, lungi dall’impugnare questa opinione, san Tommaso dichiara, in un altro passaggio, che è quella che sembra più conforme alla verità: Et hæc opinio inter omnes vera videtur. (S. Th., III Sent., dist. xxxiv, q. I, a. 1). – Questo significa che i doni hanno un oggetto distinto da quello delle virtù, e che entrano in gioco solo quando si tratta di opere eroiche o straordinarie? Se così fosse, sarebbero adatte solo ai grandi Santi, agli Apostoli, ai martiri, alle anime generose pronte a fare ogni sacrificio per avanzare sulla via della perfezione, mentre sarebbero quasi inutili per la moltitudine immensa di Cristiani che vivono nella giustizia senza fare azioni eclatanti. Quanti in effetti sono salvati dalla semplice pratica dei comandamenti e dalle opere ordinarie della vita cristiana! A che serve dunque che gli habitus debbano praticarsi solo raramente, in casi eccezionali, e chi rimarrebbero più spesso nello stato di forze dormienti e inattive? Ora, è l’insegnamento unanime dei Dottori e dei maestri della vita spirituale che i doni dello Spirito Santo siano la sorte comune di tutti i giusti, senza escludere i più umili; e San Tommaso li dichiara necessari alla salvezza (S. Th., Ia-IIæ, q. LXVIII, a. 2). – Come non riconoscere, dunque, che gli atti eroici e le eminenti opere di perfetta santità, pur costituendo il dominio principale dei doni, non possano essere tuttavia considerati come oggetto adeguato e come il limite estremo della loro sfera di influenza? Così, pur ammettendo che « i doni superano la comune perfezione delle virtù >>, il santo Dottore sottolinea che questo non è quanto al genere delle opere, nel modo in cui i consigli prevalgono sui precetti, ma nel modo in cui operano, in quanto dispongono l’uomo a ricevere la mozione di un Agente superiore: Dona excédant communem perfectionem virtutum, non quantum ad gênas operum, eo modo quo consilia præcedunt præcepta, sed quantum ad modum opérandi secundum quod movetur homo ab altiori principio. » (S. Th., 1a IIae, q. LXVIII, a. 2, ad I). Non sarebbe quindi possibile, senza allontanarsi dal pensiero del principe della teologia, assegnare alle virtù e ai doni domini completamente separati, riservare loro una sorta di opera speciale che supererebbe in perfezione l’oggetto materiale di questi. Al contrario, non c’è alcuna virtù sulla quale l’uno o l’altro dono non possa essere chiamato ad esercitare in un dato momento il suo modo sovreminente di operare, così come non ci sono forze umane o facoltà suscettibili di essere il principio degli atti umani, che non possano essere attivati dallo Spirito Santo e perfezionati dai suoi doni (S. Th., Ia Ilæ, q. LXVIII, a. 4.). In breve, il campo d’azione dei doni si estende fino a quello delle virtù; ma se entrambi hanno la stessa materia, si differenziano, come abbiamo detto, sia nel loro modo d’azione che nella regola che serve come misura delle loro azioni; per questo il loro oggetto formale non è lo stesso. 

V.

Le considerazioni che precedono sulla natura e la distinzione dei doni e delle virtù hanno già chiarito i rispettivi ruoli nell’economia soprannaturale. Tuttavia, la questione non è stata affrontata direttamente fino ad ora; è giunto il momento di farlo e di indagare su quale sia questo ruolo. Secondo il giudizio dell’Angelico Dottore, questo consisterebbe, per le virtù, nel mettere le nostre potenze appetitive in uno stato di pronta obbedienza alla ragione, e per i doni nel disporre i giusti a seguire docilmente le ispirazioni dello Spirito Santo: Virtutes morales habitus quidam sunt, quibus vires appetitivæ disponuntur ad prompte obediendum rationi….. Dona Spiritus Sancti Sancti sunt quidam habitas quibus homo perficitur ad obediendum Spiritui Sancto (S. Th. Ia IIæq. XXXVI, ad. 3). – Ridotta in questi termini e considerata solo nella sue grandi linee, la dottrina relativa alle particolari funzioni delle virtù e dei doni ha facilmente raccolto tutti i suffragi; ma non appena si è trattato di chiarirla ulteriormente, l’accordo è scomparso e le opinioni si contrastarono. – Così alcuni teologi sostengono che le virtù dispongono « solo ad obbedire alla ragione, ad agire in conformità ad essa, e non a seguire l’ispirazione divina »; il ruolo dei doni sarebbe quello di perfezionare l’uomo « in tutto ciò che egli deve fare sotto l’impulso, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo ». E poiché non c’è alcuna azione della creatura in cui il moto divino non sia associato all’attività umana, essi concludono che le virtù e i doni entrano in esercizio tra i giusti in ogni atto della loro vita soprannaturale.  Essi ragionano così: « Le virtù dispongono l’uomo a seguire l’impulso della ragione giusta; i doni lo dispongono a seguire quello di Dio o dello Spirito Santo. Tuttavia, questo doppio impulso è necessario negli atti ordinari di virtù, dal più elevato al più infimo. » È quindi necessario riconoscere in ogni atto soprannaturale, anche il più semplice, l’esercizio delle virtù e dei doni.  – San Tommaso vede le cose in modo diverso. A suo avviso, pur avendo come ufficio quello di preparare l’anima a seguire il movimento e la direzione della ragione senza resistenza, le virtù la dispongono ancora, di conseguenza, a seguire l’impulso divino, almeno quell’impulso ordinario e comune che Dio non rifiuta a nessuna creatura desiderosa di usare ed attuare i principi di attività che in essa risiedono. Perché, secondo l’osservazione del Santo Dottore, per il fatto stesso che l’uomo sia ben disposto verso la propria ragione, è anche ben disposto verso Dio: Quia per hoc quod homo bene se habet circa rationem propriam, disponitur ad hoc quod se bene habeat in ordine ad Deum (S. Th., Ia IIæ, q. XXXIV, a. 8, ad 9). Per quanto riguarda i doni, la loro specifica funzione, il loro particolare ruolo è quello di preparare colui che li possieda a ricevere in modo connaturale non ogni specie di mozione divina, ma solo alcuni impulsi speciali designati come ispirazioni, distinti dello Spirito Santo, e di far compiere all’uomo atti fuori dal comune, se non per il loro oggetto materiale, almeno per il loro modo di produzione e dalla norma che serve come loro misura: Dona sunt quædam perfectiones hominis, quibus homo disponitur ad hoc quod bene sequatur INSTINCTUM Spiritus Sancti (S, Th., 1a IIæ, q. LXVIII, a. 3). Cum dona sint ad operandum SUPRA HUMANUM MODUM, oportet quod donorum operationes mensurentes ex altéra régula quam sit régula humanæ virtutis, quæ est ipsa Divinitas participata suo modo. (S. Th. III Sent. Dist. XXXIV, q. 1, a. 3). – Per mettere questa verità in tutta la sua luce, non sarà fuori luogo ricordarci che possiamo distinguere una triplice mozione divina: la prima, proporzionata alla natura, e data in vista delle operazioni naturali; è la mozione con cui Dio opera in qualsiasi agente naturale o libero, qua Deus operatur in omni operante, come prima causa, e di cui San Tommaso prova la necessità nella Summa Theologica (I p., q. 105, a. 5). La seconda, soprannaturale e proporzionata alla grazia, ci è concessa da Dio per farci compiere opere salutari; poiché, per quanto perfetta sia o si supponga essere una creatura, anche se possiede in grado eminente la grazia santificante e le virtù infuse, ella non è in grado di passare dalla potenza all’azione, se non in virtù della mozione divina, che qui non si distingue dalla grazia attuale: Nulla res creata potest in quemcumque ætum prodire, nisi virtute motionis divinæ (S. Th., Ia IIæ, q. CIX, a. 9). – La terza ed ultima è una mozione molto speciale sotto l’influenza della quale l’uomo è più passivo che attivo, magis agitator quam agat, secondo questa parola dell’Apostolo: « Tutti coloro che sono mossi e attuati dallo Spirito Santo, questi sono i figli di Dio: Quicumque Spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei (Rom. VIII, 14) ». Su questo san Tommaso sottolinea che « essere mossi o attivati è come essere messo in moto da una sorta di istinto superiore: Illa enim agi dicuntur, quæ quodam superiori instinctu moventur. Così si dice di animali, non che non agiscono da se stessi. Si dice quindi che gli animali agiscano, non come se agissero con il proprio movimento, ma spinti dall’istinto della natura: Unde de brutis dicimus quod non agunt, sed aguntur, quia a natura moventur, e non ex proprio motu, ad suas actiones agendas. Ora, qualcosa di simile accade nell’uomo spirituale che è inclinato a certi atti non dal movimento del suo libero arbitrio, ma principalmente dallo Spirito Santo: Similiter autem homo spiritualis non quasi ex motu propriæ voluntatis principaliter, sed ex instinctu Spiritus Sancii inclinatur ad aliquid. » (S. Th., in Rom. VIII, 14, lect. 3). E per non abusare del paragone che ha appena fatto, l’angelico Dottore si affretta ad aggiungere che questo impulso dello Spirito Santo non esclude in alcun modo la spontaneità, o addirittura la libertà delle loro azioni, nei giusti, ma è l’indicazione che il movimento stesso della loro volontà e del libero arbitrio è causato dallo Spirito Santo, seguendo questa parola dell’Apostolo: « è Dio che opera in noi il volere ed il compierlo. – Non tamen per hoc excluditur quin viri viri spirituales per voluntatem et liberum arbitrium operentur, quia ipsum motum voluntatis et liberi arbitrii Spiritus Sanctus in eis causat, secundum illud Philip, II, 13; Deus est qui operatur in nobis velle et perficere (Ibid.). Il primo tipo di moto divino attiva le nostre forze naturali, sia da sole, sia perfezionate dalle virtù acquisite, e con esse diventa il principio degli atti moralmente buoni. Il secondo mette in pratica le virtù infuse, e ci fa compiere atti soprannaturali, almeno quelli in cui è conservato il nostro modo naturale di agire. Quanto al terzo, è specifico dei doni, ed è sempre un impulso speciale avente come termine opere sovreminenti in qualche ambito, cum donum elevet ad operationem quæ est supra humanum modum (S. Th., m Sent., dîst. XXXIV, q. 1, a. 2), opere in cui l’anima umana opera come strumento dello Spirito Santo, ed è quindi più passiva che attiva: In donis Spiritus Sancti mens humana non se habet ut movens, sedmagis ut mota (S. Th., IIa IIæ, q. LII, a. 2, ad 1). – Nei primi due casi, il moto divino si nasconde dietro le nostre facoltà, che fa sì che vengano esercitate nel rispetto del loro normale gioco. Secondo la felice espressione di Papa Pio VI nella bolla Auctorem fidei, ci fa compiere gli atti ai quali ci siamo determinati liberamente: facit ut faciàmus (Bulla Auctorem fidei, Prop. 21). È il moto ordinario e comune sotto l’influenza del quale si compiono gli atti emanati dalle virtù.  – Molto diversa è la mozione specifica per i doni. Questa, infatti, impedisce le nostre deliberazioni, anticipa i nostri giudizi, e ci porta in un modo quasi istintivo ad opere che non avevamo pensato e che possiamo veramente chiamare sovrumane, sia perché superano le nostre forze, sia perché avvengono al di fuori del modo e dei processi ordinari della natura e della grazia. È l’impulso che viene da Dio come Agente superiore, sicut a quadam superiori potentia, (S. Th., I* II”, q. LXVIII, a. 4) e che, per essere ben accolto, richiede disposizioni molto particolari. Infatti, è comprensibile che, per preparare l’anima a seguire prontamente questi straordinari impulsi per mezzo dei quali lo Spirito Santo spinge le anime ad atti che sono principalmente sotto il suo controllo e che avvengono al di fuori delle regole comuni, sono qui necessarie particolari perfezioni, superiori alle virtù, altiores perfectiones (Idem a. 1), i doni, in una parola. Il mobile non dovrebbe essere in relazione armoniosa con il suo motore? Manifestum est quod ad altiorem motorem oportet majori perfectione mobile esse dispositum (Idem a. 8). Ma quando si tratta di opere ordinarie e comuni, alle quali l’uomo si dedica da se stesso, con il proprio movimento, come non ammettere con san Tommaso che la stessa abitudine che inclina la volontà a seguire l’impulso della retta ragione lo disponga ugualmente a ricevere il moto divino: ad esempio, che la stessa virtù della fortezza o della temperanza che ammorbidisce la nostra volontà al giogo e all’impero della ragione, la renda allo stesso tempo docile al moto divino, inclinandolo a compiere le sue azioni nelle circostanze ordinarie della vita? – Non è forse l’essenza stessa dell’habitus operativo ad avere il potere che esso perfeziona nell’atto, in modo che dipenda dalla volontà usarne a piacimento, secondo le parole di San Tommaso: Habitus est quo quo quis utitur cum valuerit? (S. Th., Ia IIæ, q. L, a. 5). Inoltre, chiunque abbia una buona abitudine, non solo il giusto in cui si trovano i doni dello Spirito Santo con le virtù infuse, ma lo stesso peccatore, o almeno quello  che abbia conservato la fede e la speranza, può compiere gli atti quando lo giudica opportuno, e in modo connaturale, anche in assenza dei doni. – Se fosse altrimenti, se dovesse preparasi l’anima giusta a ricevere fedelmente la mozione divina in tutto ciò che è soprannaturale e a cui i doni sono ordinati, non vediamo perché non ci dovrebbero essere, nell’ordine puramente naturale, delle perfezioni simili ai doni dello Spirito Santo, e destinate a renderci docili al moto divino, così come vi sono virtù acquisite che dispongono della facoltà di obbedire alla ragione; perché infine, nell’ordine della natura come in quello della grazia, obbediamo ad un doppio motore: la ragione e Dio. Tuttavia, per quanto ne sappiamo, nessuno ha mai parlato di questo tipo di perfezioni.  – Concludiamo quindi che: Dio ci muove sia con le virtù che con i doni, ma in modi diversi: in modo conforme alla nostra natura mediante le virtù, in un modo superiore attraverso i doni: Virtutes perficiunt ad actus modo humano, sed dona ultra humanum modum. (S. Th., III Sent, dist. XXXIV, q. 1, a. 1). Finché si tratta di operare il bene in modo umano, secondo le procedure ordinarie e le regole della natura e della grazia, non è richiesta l’azione dei doni e le virtù sono sufficienti: le virtù acquisite, se si tratta di un’opera moralmente buona nell’ordine naturale; le virtù cristiane o infuse, se si tratta di un atto salutare. È solo nei casi in cui l’uomo debba comportarsi in modo superiore al modo ordinario, praticare la virtù in misura eroica o in circostanze particolarmente difficili; o quando si tratti di corrispondere come strumento libero ma docile a qualcuno di quegli impulsi insoliti che vengono da Dio come agente superiore, secondum quod movetur homo ab altiori principio, (S. Th., Ia IIæ, q. LXVIII, a. 2, ad 1) che i doni diventano necessari ed entrano in esercizio.  Una comparazione  completerà il nostro pensiero. Se un Lacordaire o un Montalembert, diventando maestri di scuola, si abbassano al punto di insegnare ai bambini l’a, b, c, sarà necessario che abbiano ricevuto una preparazione speciale per poter seguire le loro lezioni? No, per niente. Non appena questi illustri maestri, molto al di sopra di un normale pedagogo, si limitano ad insegnare le basi della lingua, tutti possono capirle. Sarebbe diverso se, invece di dare al loro giovane pubblico un’istruzione elementare, questi grandi oratori pretendessero di far loro conoscere tutti i segreti dell’eloquenza!

VI.

Se questo è il ruolo dei doni, se il loro scopo proprio e speciale è quello di prepararci a seguire obbedientemente le ispirazioni divine, gli impulsi speciali e straordinari dello Spirito Santo nelle cose dove il moto della ragione è insufficiente, come possiamo affermare che sono necessari alla salvezza? Come possiamo dimostrare che i fedeli, la cui vita si muove nell’orbita di una virtù comune, abbiano davvero bisogno dei doni per raggiungere il loro ultimo fine? Sembra che, con le virtù teologali che le dispongono bene in relazione alle cose divine, con le virtù morali infuse che producono un effetto simile in relazione alle cose umane, possiedano già tutto ciò che è necessario per ottenere la salvezza. Conoscono il termine a cui indirizzare la loro vita, possiedono le forze soprannaturali per lottare per esso, di cosa hanno bisogno di più? Il moto speciale e la direzione di colui di cui il Salmista ha parlato quando ha detto: « Il tuo Spirito che è buono, o Signore, mi condurrà nella terra della vera giustizia » (Ps. CXLII, 10). Infatti, nessuno può raggiungere l’eredità della patria celeste se non sia diretto e guidato dallo Spirito Santo: Quia scilicet in hæreditatem illius terras beatorum nullus potest pervenire nisi moveatur et deducatur a Spiritu Sancto (S. Th., Ia. IIæ, q. XLVIII, a. 2). – Se l’uomo non avesse altro fine che quello che risponde alle esigenze della sua natura, potrebbe, con le sue energie nativee e l’aiuto ordinario che la Provvidenza non rifiuta mai di dare alle cause seconde per l’esercizio della loro attività, andrebbe da solo verso il termine del suo destino. Se, però, Dio si degna di venire ancora in suo aiuto con una mozione ed un impulso speciale, per especialem instinctum, sarebbe l’effetto di una bontà veramente sovrabbondante che va volentieri oltre il necessario, e non è il segno di un bisogno a cui sia indispensabile provvedere: Si tamen etiam in hoc homo adjuvetur a Deo per specialem instinctum, hoc erit superabundantis bonitatis (Idem). Ma perché è piaciuto a Dio chiamarci ad un fine che supera assolutamente le forze e le esigenze della natura, e poiché la ragione stessa, pur perfezionata dalla fede e dalle altre virtù teologali, non è in grado di condurci a questo felice termine, abbiamo bisogno della direzione di una guida più illuminata, dell’aiuto di un motore più potente, e di conseguenza dei doni divini che hanno precisamente come loro scopo il renderci flessibili e docili alle ispirazioni dall’alto: Sed in ordine ad finem ultimum supernaturalem….. non sufficit ipsa motio rathonis, nisi adsit instinctus et motio Spiritus Sancti….. E ideo ad illum finem consequendum necessariun est homini habere donum Spiritus Sancti (S. Th., Ia. IIæ, q. LXVIII, a. 2). Da dove viene questa impotenza della ragione? Il difettoso possesso delle virtù teologali che caratterizza lo stato del cammino, e l’insufficienza delle virtù morali per resistere in ogni caso agli attacchi talvolta così improvvisi e così vivaci del demone, del mondo e della carne.  – Chiunque, infatti – nota san Tommaso – possiede perfettamente una natura, una forma, una virtù, insomma un principio qualunque di operazione, può, con la mozione ordinaria di Dio che opera internamente in qualsiasi agente naturale o libero, agire da solo in questo ambito; ma chi possiede solo imperfettamente una fonte di attività non gli è bastante questa per agire, ma ha bisogno di aiuto estraneo, di una direzione, di una mozione speciale. (S. Th., Ia Iæ, q. LXVIII, a. 2). Così uno studente di medicina, un interno degli ospedali, non ancora pienamente istruito, non si avventura, se è prudente, ad intraprendere da solo e senza l’assistenza del suo maestro, un’operazione delicata che potrebbe portare a gravi conseguenze, mentre un medico o chirurgo incaricato, una volta che ha pienamente posseduto la sua arte, può operare da solo, anche, senza bisogno di direzione o assistenza (Ibid). Il capitano di una nave, che viaggia in ambienti sconosciuti, non si avventura nell’entrare da solo in un porto di difficile e pericoloso accesso, ma porta a bordo un pilota esperto che ha familiarità con i passi che conducono alla rada. Tuttavia, questa è proprio la condizione attuale dell’uomo in relazione al suo fine ultimo soprannaturale. Avendo solo allo stato imperfetto i principi delle operazioni soprannaturali, cioè le virtù cristiane, e in particolare le tre virtù teologali – perché è solo imperfettamente che conosciamo e amiamo Dio – è impossibile raggiungere il porto della salvezza senza un aiuto speciale, senza un particolare impulso ed un aiuto dello Spirito Santo.. In ordine ad finem ultimum supernaturalem…., non sufficit ipsa motio rationis, nisi desuper adsit istinctus et motio Spiritus Sancti…..; quia scilicet in hæreditatem illius terræ beatorum nullus potest pervenire nisi moveatur et deducatur a Spiritu Sancto.. E poiché è necessario questo speciale impulso divino, sono necessari di conseguenza i doni che dispongono a riceverlo. Et ideo ad illum finem consequendum necessarium est homini habere donum Spiritus Sancti (S. Th., Ia IIæ, q. LXVIII, a. 2) – Non è che, anche nell’ordine della  Grazia, l’uomo non sia in grado di agire da solo e con il proprio movimento in qualsiasi incontro. Essendo informato, anche se in modo difettoso, dalle virtù teologali, la sua ragione può benissimo, è vero, permettergli di compiere, con l’aiuto ordinario della grazia, più di un atto salutare; essa può cominciare a portarla sulle sponde eterne; ma perché non è in suo potere né il sapere tutto ciò che sia importante sapere, né di compiere tutto ciò che sarebbe utile o necessario fare (Ibid. ad 3); perché essa non possiede, nelle virtù acquisite o infuse, se non solo un insufficiente rimedio contro l’ignoranza, l’ottusità, la durezza del cuore e le altre miserie della nostra natura, non è in grado di superare efficacemente tutti gli ostacoli, di superare tutte le difficoltà che possano sorgere, e di condurci definitivamente in cielo senza una speciale assistenza, e quindi senza i doni dello Spirito Santo.  – Quante volte, nel corso della sua vita, un Cristiano si trova di fronte a certe gravi evenienze, ad importanti risoluzioni da prendere, ad una scelta di vita da fare, ai comportamenti da seguire in questo o in quel caso, senza poter sapere esattamente cosa sia opportuno per la sua eternità! È quindi necessario che Colui che sa tutto e può fare tutto si incarichi Egli stesso di guidarci e proteggerci (S. Th., Ia IIæ, q. CIX, a. 9). – Inoltre, la salvezza a volte richiede delle opere difficili. Sia un funzionario che non può compiere i suoi doveri religiosi senza essere visto male dai suoi capi e senza esporsi nell’incorrere in loro disgrazia. Se fosse solo, affronterebbe il pericolo con maggior coraggio; ma è sostegno di famiglia, e la sua funzione è la sua unica risorsa. Siano coniugi che, per non lasciarsi trascinare dalla corrente che ne trasporta tanti altri, hanno bisogno di un’energia insolita per essere fedeli fino alla fine dei gravi doveri che impone il matrimonio. Anche supponendo che questi Cristiani posseggano con la grazia, l’uno la virtù della fortezza, gli altri la castità coniugale, spesso la loro virtù è debole e la loro forza vacillante. Dove trovare l’aiuto speciale, l’energia extra, necessaria in tali circostanze critiche, se non nella preghiera incessante e nei doni dello Spirito Santo? Infatti, il dono della fortezza è lì per perfezionare la virtù che porta il suo nome; e quello del timore arriverà molto opportuno in aiuto della castità coniugale per facilitare il suo trionfo ispirando agli sposi un santo orrore del peccato. Per questo San Tommaso ci dice – seguendo le orme di San Gregorio Magno – che i doni sono conferiti per aiutare le virtù, in adjutorium virtutum (S. Th., in Is. XI, 2). Pur essendo inferiori per eccellenza alle virtù teologali che ci uniscono direttamente a Dio, i doni danno loro comunque un utile contributo: Sono soprattutto i preziosi ausiliari delle virtù morali, di cui perfezionano l’azione, supplendo anche al bisogno alla loro impotenza: Dona dantur in adjutorium virtutum contra defectus; e sic videtur quod perficiant illud quod virtutes perficere non possunt (S. Th., 1a IIæ, q. LXVIII, a. 8, arg. Sed contra). – La prudenza riceve dal dono del consiglio le luci che le mancano; la giustizia, che dà a ciascuno ciò che gli è dovuto, si perfeziona con il dono della pietà, che ci ispira sentimenti di tenerezza filiale per Dio e ci dona viscere di misericordia per i fratelli e le sorelle. Il dono della fortezza ci fa superare senza paura tutti gli ostacoli che potrebbero distoglierci dal bene, ci rafforza contro l’orrore delle difficoltà e ci ispira con il coraggio necessario per intraprendere i più difficili lavori. Infine, il dono del timore sostiene la virtù della temperanza contro i duri assalti della carne in rivolta. Un’azione più energica, degli sforzi più eroici nella pratica del bene, questi sono gli effetti dei doni dello Spirito Santo. Attraverso di loro, l’anima che le virtù infuse avevano già portata in possesso della comune santità e resa capace di compiere le opere ordinarie della vita cristiana, sale facilmente alle vette più elevate della perfezione. Da qui le parole dell’angelico Dottore: « I doni perfezionano le virtù elevandole al di sopra del modo umano: Dona perficiunt virtutes, elevando eas supra modum humanum (S. Th., De charit., q. unie., a. 2. ad 17). – Così i maestri della vita spirituale li hanno paragonati alle ali dell’uccello o alle vele della nave. L’uccello vola più veloce di quanto cammini; e mentre la nave, con semplici remi avanza solo con difficoltà e lentezza, quella per cui il vento gonfia le vele o il cui vapore fende i flutti, corre veloce sulle onde. – Quello che emerge dalle spiegazioni precedenti, e quello che ne consegue, ci sembra, con la chiarezza dell’evidenza, che i doni dello Spirito Santo siano veramente necessari laddove il moto stesso della ragione, perfezionato dalle virtù infuse, sia insufficiente, e serva uno speciale impulso divino. Ora, il fatto è che, anche con l’appoggio delle virtù cristiane, la ragione umana non è in grado di condurci efficacemente al nostro ultimo fine e di superare tutti gli ostacoli che si incontrano lungo il cammino, se non sia aiutata, salvata, assistita da una particolare ispirazione dall’alto, da una sorta di istinto superiore dello Spirito Santo, quodam superiori instinctu Spiritus Sancti (S. Th., Ia IIæ, q. LXVIII, a. 2, ad 2).Abbiamo quindi bisogno di questo speciale impulso divino, e conseguentemente dei doni, non costantemente, ma di tanto in tanto nel corso della nostra esistenza, più o meno spesso secondo le difficoltà che sorgono, gli atti eminenti che devono essere compiuti, il grado di perfezione a cui siamo chiamati, e anche secondo il buon piacere di Colui che, padrone dei suoi doni, li distribuisce a suo piacimento. Non c’è tempo nella vita, nessuno stato, nessuna condizione umana che possa fare a meno dei doni e della loro influenza divina. -Tuttavia, non sono necessari per tutti e per ogni atto soprannaturale, ma solo per le opere emanate dai giusti sotto la guida dello Spirito Santo, e nelle quali l’uomo è più passivo che attivo. In donis Spiritus Sancti mens humana non se habet ut movens, sed magis ut mota (S. Th., IIa IIæ, q. LII, a. 2, ad 1). È con questa restrizione che dobbiamo sempre comprendere la risposta di San Tommaso alla seguente obiezione contro la necessità dei doni: Sembra che con le virtù teologali e morali l’uomo sia sufficientemente preparato per raggiungere la salvezza, anche senza i doni. A cui il Santo Dottore risponde: « Le virtù teologali e morali non perfezionano l’uomo talmente tanto rispetto all’ultimo fine, che ancora non abbiano bisogno di essere mosse da un istinto superiore dello Spirito Santo: Per virtutes theologicas et morales non ita perficitur homo in ordine ad ultimum finem, quin SEMPER indigeat moveri quodam superiori istintu Spiritus Sancti, ratione jam dicta in corpore articuli (S. Th., Ia IIæq. LXVIII, a. 2 ad 2).

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