PREDICHE QUARESIMALI (III 2020)

[P. P. Segneri S. J.: QUARESIMALE – Ivrea, 1844, dalla stamp. Degli Eredi Franco – tipgr. Vescov.]

-XIX-

NEL MERCOLEDÌ DOPO LA TERZA DOMENICA.

« Quare Discipuli tui transgrediuntur tradiziones saniorum? non enim manus lavat” antequam panem manducent. ».

[Matth. XV, 2]

I. Se fa mai vero che da que’ medesimi fiori, da cui le pecchie trarrebbono un dolce nettare, traggano veleno i ragni, eveleno putrido, e veleno pestilenziale, ben apparve oggi chiarissimo nelle azioni dei santi Apostoli. S’erano dati i meschini a seguitar Cristo; e però vivendo in somma derelizione, in sommo dispregio, nessun pensiero prendevano di sé stessi, né della loro acconcezza, né de’ lor agi. Chi crederebbe però che ancor in ciò si trovasse di che accusarli? Fu in loro notato (mirate che gran delitto!), non dirò già che gustassero cibi immondi, non dirò già che toccasser cadaveri inverminiti, ma solo che talvolta lasciassero di lavarsi scrupolosamente le mani innanzi al cibarsi, quantunque, a tutto rigore, di solo pane: non manus lavant antequam panem manducent. E laddove ciò si sarebbe in poveri pescatori potuto ascrivere a santa semplicità, fu censurato qual vilipendio di riti, qual dispregio di tradizioni: tanto è ver che l’umana malignità sa d’ogn’erba salubre stillar veleno. – Eppur qual è, Cristiani miei, se non questa, quella malignità, eh? oggi tanto fra noi trionfa, e che qual peste appiccatasi ad ogni lato della città, va per le piazze serpendo, va per le case, va per le Corti, e piaccia a Dio che talor non entri ne’ chiostri anche più murati? Se uno è umile, e però tollera pazientemente ogni offesa, si dice ch’egli è un codardo; se astinente, si dice ch’egli è un avaro; se devoto, si dice ch’egli è un ipocrita; se pudico, si dice ch’egli è un melenso; e così da tutto si trae feconda materia di maldicenza, quasi che ciò ridondi a grande onor nostro, né più confidi verun di noi d’innalzarsi, se non con l’altrui depressione; né di risplendere, se non che dell’altrui discoloramento. E non è cotesta, uditori, una gran viltà? Dobbiamo mirare a divenir noi perfetti, non a far che gli altri appariscano difettosi. – E però contentatevi ch’io stamane tutto m’adoperi a mortificar queste lingue sì libere e sì loquaci, che tra noi sono, e ad impetrare qualche modesto silenzio da’ maldicenti, con esortarli a far quel degno proposito che stabilì dentro suo cuore il buon Davide quando disse: non loquatur os meum opera hominum(Ps. XVIII. 4). Le opere proprie degli uomini quali sono? Le virtù loro? Non già: sono i lor vizi, perché le virtù si han da Dio. Questi dunque, che amano di parlare continuamente de’ fatti altrui, procedano in simil forma: dicano ciò che gli uomini hanno da Dio: tacciano ciò che sol hanno da sé medesimi: e così avverrà che di maldicenti si cambino in lodatori. Temo bensì che in sentirsi costoro da me sferzare, si adireranno, e ne faranno a me misero facilmente portar le pene, con dire tutto il mal che sapranno d’una tal predica, loro odiosa. Contuttociò non voglio io mancare al mio debito; e purché questi non abbiano a mormorare più di alcun altro, io mi contento che a piacer loro si sfoghino contro me, che son degno d’ogni improperio.

II. E prima, bella gloria in vero è la vostra, o mormoratori, mentre così francamente ve la sapete voi prendere contro d’uno, il quale è lontano; né però udendo ciò che da voi viengli apposto, come non può giustificar la sua causa, così né anche può ribatter la vostra garrulità. Fece anticamente Dio nel Levitico un suo divieto, di cui voi forse non terrete gran conto; ma io per me, perché vi ho qualche interesse, lo stimo assai rilevante, assai riguardevole; e questo fu, che niun del popolo osasse dir male alcuno ad un uomo sordo : non maledices surdo (Lev. X. 14). Ma perché ciò? Han dunque i sordi per avventura a godere fra tutti i miseri un privilegio speciale, sicché si possa dir villanìa, quanto piace, ai loschi, ai monchi, ai malfatti, agli scilinguati, ed unicamente non possasi dire a’ sordi? No certamente, perché già per altro si sa la carità voler essere universale: universa delicta operit charitas (Prov. X. 12). Contuttociò, se noi diam fede agl’interpreti, mostrar Dio volle de’ sordi maggior la cura, perciocché sembra una crudeltà troppo strana voler pigliarsela contro a chi non udendo le accuse dategli, nè anche può per conseguente difendersi o discolparsi. Ma dite a me: non è fors’egli, o mormoratore, un medesimo il caso vostro? Surdo maledicere est (così moralizza il pontefice san Gregorio) absenti et non audienti derogare(3 p. Past. adm. 36) . – Voi vi ponete entro quel vostro ridotto a censurare liberamente le azioni di chi non v’ode; e non vi accorgete che ciò non solo è mostrare un’audacia somma, ma è commettere un’ingiustizia spietata? Credete voi che se colui, contra il quale arrotate i denti, vi fosse innanzi, osereste voi favellarne in sì ria maniera? Voi perdonatemi (s’io già comincio a valermi di formole un poco austere), voi dico, chiaramente la fate da’ traditori, perché assalite l’avversario alle spalle: cum ab eis recessissem, diceva Giob. (XIX. 18), cum ab eis recessissem, detrahebant mihi. S’egli ha difetti, che a voi dispiacciano tanto, andate dunque animosamente, investitelo a faccia a faccia, come fe’ Natano a Davide (2 Reg. XII. 1), Aia a Geroboamo (3 Reg. XIV. 7), Michea ad Acabbo (lbid. XXII. 17): rappresentategli la iniquità dei suoi fatti, ammonitelo, riprendetelo, rampognatelo; che in cotal guisa acquisterete gran merito presso Dio. Ma mentre solo il vituperate in assenza, qual segno è ciò, se non che voi, come codardi mastini, gridate al lupo quand’egli già con la pecorella partitosi infra le zanne, già rinselvato nel bosco, già ascososi nella buca, più non può udirvi? – Benché piacesse a Dio che imitaste quel ch’or dicea. Conciossiachè, se mirate a sì fatti cani, vedrete ch’eglino tacciono, è vero, quando il lupo è presente; canes muti, come li chiama Isaia (LVI. 10), canes muti, non valentes latrare; ma non però punto gli approvano que’ suoi furti, nol lisciano, nol lusingano, e molto meno gli tengono quasi mano a sbranar la greggia. Ma quante volte voi, che lontani mormorate con tanta animosità di quel personaggio, o privato o pubblico, perch’egli ha pratiche allato di mal affare, perché giuoca, perché getta, perché non si applica punto alle cure impostegli; quando poi gli siete presenti, voi lo adulate per questi eccessi medesimi di cui prima il mordeste tanto; gli commendate le sensualità, come sfogo di una spiritosa natura; il giuocare, come sollievo; il gettare, come splendidezza; né dubitate di esortarlo a distrarsi alquanto più spesso da quei negozi, a cui voi dite maledici che non bada! E non è questo usare al prossimo vostro un torto evidente? – lo so che veramente grand’anirno si richiede per ammonire uno in faccia de’ suoi difetti, massimamente quand’egli sia collocato in fortuna eccelsa. Converrebbe essere, com’era appunto un Elia, sprezzator di tutto; e che, contento di una ruvida pelle d’intorno a’ lombi (4 Reg. 1. 8), faceva lieto ad un torrente i suoi pasti con quel pan duro di cui lo regalavano i corvi (3 Reg. XVII. 5). Ma se non vi dà cuore a tanto, lasciate almeno di lacerare in assenza chi neppure ardite in presenza di stuzzicare. Conciossiachè, come san Girolamo disse (ep. 4ad Rust.), la verità non ama star ne’ cantoni; veritas non amat angulis; ed il far così non è altro che imitar le talpe, imitare i topi, i quali mordono sì, ma sol di nascosto; o è piuttosto fare, come l’Ecclesiaste affermò di alcune serpette, le quali maliziosamente appiattatesi in fra l’arene, quivi se ne stanno, senza sibilo e senza striscio, a spiar chi passi, per poter incauto addentarlo nelle calcagna. Si mordeat serpens m silentio, nihil eo minus habet, qui occulte detrahit(Eccl. X, 11). – E vi darà di poi l’animo di restituire ad altrui con facilità quella buona fama che a sorte gli avrete tolta? Voglioche v’impieghiate ogni vostro studio, ogni vostro sforzo: oh quanto tuttavia sarà duro che vi riesca! Mosè volea far conoscere a Faraone ch’egli era vero ministro del suo Signore. Però che fece? Aveva in mano una verga; la gettò in terra, e subito la fece trasformare in orribil serpe. Ma che? Non sì tosto poi la ritolse in mano, che la fece di serpe ritornar verga. Gl’incantatori di Faraone vollero far anch’essi una prova eguale; ma non poterono: perché giunsero bensì presto a cambiare le verghe in serpi ma quelle serpi si rimasero serpi, nè mai di serpi ritornarono verghe (Exod. VII. 10 et seq.). Or avete notato? dice qui tosto Origene acutamente (Hom. 13 in c. 22 Num.): ecco fin dove arrivò la virtù diabolica: poté fare del bene male; ma non poté poi rifare del male bene. Non petuit virtus dæmoniaca malum, quod ex bono fecerat, restituere in bonum: potuit ex virga serpentem facere, virgam autem reddere ex serpente non potuit. Or figuratevi che cosi debba succedere ancora a voi. Potrete voi di leggieri far apparire quell’uom dabbene qual orrido serpentaccio; ma come farete a rendergli di poi giusta l’antica forma sarà agevole a fare ch’uno di casto sembri un impuro; ma come a far dipoi che d’impuro si ritorni di nuovo ad apparir casto? Vi sarà agevole a fare ch’un di devoto sembri un ipocrita; ma come a far dipoi che da  ipocrita si ritorni di nuovo a parer devoto? I mali uditi dì altrui, son creduti subii; pronis auribus excipiuntur; ma le ritrattazioni, oh quanto sempre faticano a trovar fede, almeno perfetta! Calumniare dìcea quell’infame politico, calumniare che sarà finita per sempre. Semper aliquid remanet. La serpe resterà serpe. E poi chi non vede che non mai del tutto potrete al prossimo vostro rifare i danni? Restituzioni di fama! restituzioni di fama! Oh  quanto sono difficili a farsi giuste! Non può qui dirsi, come si fa quando trattasi di danaro: si quid aliquem defraudavi, reddo quadruplum(S. Luc. XIX. 8). Quale adunque, qual è la regola vera a fuggir gli scrupoli? Non è tacciare; è tacere: non loquatur os meum opera hominum.

III. – Ma io fin qui solo ho detto il minor de’ mali, ch’è l’aggravio fatto a colui di cui mormorate; aggravio finalmente non d’anima, ma soltanto di riputazione caduca, benché stimabile: maggior mal è, che a color, con cui mormorate, voi ponete fra’ pie’ così grave intoppo, che potrìa fargli agevolmente trascorrere in perdizione. Conciossiachè state a udire. O color, con cui mormorate, son uomini empj, o pur son uomini pii. Che mi rispondete ? Son uomini empj? Oh quanta festa verran pertanto a far essi in udir da voi che loro nel male non mancano de’ compagni! oh quanto conforto prenderanno! oh quanto animo! oh quanto ardire! e, quel ch’è forse anche peggio, oh quanto, per le cadute da voi narrate, oh quanto dico, faranno ad altrui d’insulto! Udito ch’ebbe il re Davide il fier successo dello sventurato Saule’, rimaso estinto su le montagne di Gelboe con tutti e tre i suoi figliuoli, guerrieri sì valorosi, pregò coloro, i quali ciò gli fér noto, che per pietà non ne lasciassero giungere le novelle agli abitatori di Geth ed a’ popoli di Ascalone, per non dar maggiore occasione agli incirconcisi d’imbaldanzire nelle calamità d’Israele. « Nolite annunciare in Geth, neque annuncietis in compitis Ascalonis, ne forte lætentur filiæ Philisthiim, ne exultent filiæ incircumcisorum » (2 Reg. I. 20). – Ma voi che fate, o mormoratori, che fate, quando in quella vostra combriccola vi ponete sì bellamente a raccontare le malvagità di quel personaggio ecclesiastico, le fragilità di quel cherico, il fasto di quel claustrale, se non che dare a gl’incirconcisi occasione di un giubilo più perverso? Gioito avrebbero gli abitatori di Geth, gioito avrebbero i popoli di Ascalone, questo è verissimo; ma di che? Di un mero infortunio; quei ch’odon voi, si rallegrano d’un peccato. Ed oh quante volte avvien però che per li mali portamenti di un solo, da voi descritti, si pongon subito a dire infamie di tutto un Órdine intero! e chi afferma ch’è necessario mortificarlo, o chi replica che dovrebbe scacciarsi, e chi ripiglia che si dovrebbe spiantare, e chi non teme di por sacrilego ancora la bocca in Cielo, e di riprovarne le leggi. Pur troppo avrete con l’esperienza osservato che non così un’importuna cicala, col garrir ch’ella faccia da un arboscello su l’ore estive, solleva ogni altra ad emulare lo strepito ed a moltiplicare lo stordimento, come un sol empio, che mormori, sveglia in tutti un egual talento insoffribile di mal dire. Cora’esser può che voi pertanto non dubitiate addossarvi un fascio così pesante d’iniquità, a cui somministrate occasione?

IV. – Che se pur coloro, co’ quali voi ragionate, sien tutti pii, e come tali abbondano le bruttezze da voi contate, non ne trionfino, vi date creder però che non poniate agevolmente ancor essi in un grave rischio di prevaricar quanto gli empj? V’ingannate assai, v’ingannate: perciocché non solo può avvenir ch’essi imparino molti mali, che loro fin allora non erano sorti in mente! ma oltre a ciò, è facilissimo che, sentendo biasimar altri per quei difetti, di cui sé conoscono esenti, comincino interiormente a vanagloriarsi; e che, ad imitazione del Fariseo, concepiscano anche eglino stolti sensi di compiacimento, di albagia, di alterezza, di presunzione, quasi che non sien uomini come gli altri: non sint sicut cæteri hominum (Luc. XVIII. 11). – È facile che dispregino le persone da voi riprese; è facile che se ne alienino, s’erano loro accette; è facile che se n’adombrino, se sieno lor confidenti; e, se non altro, è facile che, con danno sempre notabile della carità cristiana, diano precipitosa credenza alle accuse altrui, senza aver prima ascoltate ambedue le parti. – E questo è quello che volle intendere il santo profeta Davide, quando disse: sedens adversus fratrem tuum loquebaris, et adversus filium matris tuæ ponebas scandalum(Ps. XLIX. 20). Tu, dicevaegli, sedens; ch’è quanto dire, non alla sfuggita, non leggermente, non brevemente, ma molto posatamente ti ponevi a sparlare contro il tuo prossimo: sedens nell’anticamera di quel principe a cui servivi; sedens sopra de’ marini della tal piazza;  sedens dinanzi all’uscio di tal bottega, sedens sopra le panche di quella chiesa, mentre si aspettava la predica; sedens a quella mensa; sedens a quella veglia; sedens d’intorno a quel fuoco; sedens in somma, come in un’opera di singolar godimento e di sommo gaudio: sedens adversus fratrem tuum loquebaris. Ma che? Ti pensi che qui però terminasse tutto il tuo male? Non è così, sventurato, non è così; perché nello stesso tempo adversus filium matris tuæ ponebas seandalum. Non ti ricordi tu di quei che ti udivano? Quei, come uomini deboli ed imperfetti, filii matris (che così spiega appunto santo Agostino), quei, dico, per te inciamparono, per te caddero, per te vennero tutti, chi più, chi meno, a peccare anch’essi. Etenim cum detrahitur bonis ab his, qui videntur alicujus esse momenti, in scandalum caduta infirmi, qui adhuc nesciunt judicare (in hunc locum). – E tu non temi? e tu non tremi? e tu com’acqua ti bei le malvagità? Né solamente le proprie, ma ancor le altrui? Fa’ a mio modo, fa il proposito ch’io ti dissi: non loquatur os meum opera hominum.

V. – Eppur v’è di più. Perciocché dovete sapere ch’una lingua mormoratrice è lingua di vipera; ch’è quanto dire, triplicata, trisulca, mercecchè fa, come parlò san Bernardo (de consid.), tre ferite ad un colpo: tres lethaliter infìcit ictu uno. Inficit colui di cui mormora, mentre a lui fa, conforme abbiamo primieramente veduto, un solenne torto; inficit color con cui mormora, mentre lor pone, conforme abbiamo secondariamente provato, un sicuro scandalo; ed inficit finalmente colui che mormora, mentre ad esso reca que’ danni che or a me restano, ma alquanto più estesamente, da dimostrare. Benché chi mi darà mai facondia sì luttuosa, ch’io possa abbastanza esprimere questi danni, e così darvi, o maledici, a di vedere di quanto pregiudizio voi siate anche a voi medesimi con la libertà del dir vostro? – E prima è certo, benché ciò sia forse il meno, che laddove voi così credete di rendervi assai giocondi ed assai graditi (mercé quell’avidità con cui comunemente si ascoltano le altrui tacce), voi vi rendete odiosissimi non si potendo non avverare, quanto a voi pure, quel detto di Salomone, il quale affermò che il maledico è l’abominio del genere umano: abominatio hominum detractor( Prov. XXI. 9). Imperciocché un poco: tenete voi per sì semplici quei con cui ragionate, che tra sé stessi non giungano molto bene a considerai che come voi con esso loro venite a censurar altri, così con altri verrete a censurar loro? Lo veggon essi, lo veggono; e benché paja che col sembiante vi facciano grato applauso, contuttociò nell’interno: or andate (dicono) a capitar sotto il rostro a questo sparviere, e poi salvatevi, se potete le penne. Oh come trincia! oh come taglia! o come, dov’egli efferra, fa tosto piaga! Generatio, cruda formola de’ Proverbj (XXXIX, 14) generatio quæ prò dentibus gladius habet. – Né val che voi con simulato artifizio orpelliate la vostra mormorazione, mischiando que’ vituperj, che di altrui dite, con qualche encomio, che tanto più vi dia credito di sinceri, e biasimando in molti, lodando in poco. È questo già un artificio tritissimo, trivialissimo; e gran cosa vuol essere, se vi è alcuno, il quale non sappia che, quantunque il tirso sia cinto di verdi pampani, non però fa men nocevoli le ferite. Quegl’Israeliti che, ritornati dal riconoscer la Terra di promissione, la vollero porre a fondo presso quel popolò che colà gli aveva inviati, qual modo tennero? Cominciarono in prima dall’esaltarla; e però, tratto fuori un grappolo d’uva sì smisurato, che vi volevan due uomini per portarlo appeso al suo tralcio, e scoperte alcune bellissime melagrane, e dimostrati alcun fichi pinguissimi: ecco (pigliarono a dire) ecco qual sia la fertilità del paese, cui Dio ne mena. Per verità che a guisa d’acqua ivi scorrono il latte e ‘l mele: revera fluit lacte et Melle (Num. XIII. 28). Oh che verdura di pascoli! oh che amenità di colline! oh che chiarezza di fonti! Non si può al mondo vedere terren più lieto. Ma che? Su queste quasi stille di dolce, da lor premesso, versarono poco appresso tanto di assenzio, rappresentando gli abitatori di un tal paese come uomini giganteschi, le città come inespugnabili, il cielo come infettato, che amareggiato però tutto quel popolo, il quale udigli, si sollevò, si scompigliò, mosse tosto contro Mosè, contra Aronne, anzi contra Dio stesso il più fier tumulto che fino allor sorto fosse fra tende ebree. Sicché vedete che cotesto vostro artifizio di biasimare in molto, e lodare in poco, non è artifizio sì nuovo, come a voi sembra, ma rancidissimo; e però qual dubbio che nulla può concorrere a rendervi meno odiosi? Si sa, si sa che non è zelo ciò che vi muove a tacciare sì crudelmente le azioni altrui; ma ch’è acerbità, ch’è rabbia, ma ch’è rancore travestito alquanto da zelo: e però è forza che chi v’ode vi tema come molossi terribili di macello, che in ogni sangue godono ad egual modo lor darle labbra; e che temendovi, per conseguente vi abborra: abominatio hominum detractor.

VI. – Ma su figuriamo (ciò che non può mai succedere) che questo detto del Savio in voi sia fallace, sicché non solo non vi rendiate agli uomini punto odiosi col mormorare, ma che anzi siate loro ameni ed accetti: non sapete voi però bene che vi rendete, se non altro, odiosissimi innanzi a Dio? Detractores Deo odibiles (ad Rom. 1. 30); così l’Apostolo favellando ai Romani. Né è meraviglia, perché un tal vizio par totalmente opposto al genio di Dio. E qual è il genio di Dio? dice san Tommaso (in Gen. c. XVIII, n. 17). Civilissimo, cortesissimo. Oh quanto egli è ritroso a scoprire, finché viviamo, i difetti nostri! valde difficilis est ad publicanda occulta crimina nostra; non volendo egli che noi siam punto di peggior condizione di quel che sieno i pittori, a cui si fa grave incarico se loro vassi ad alzar di dietro la tela, infintantochè rimossa non hanno la man dall’opera, ed ancora vi possono, se lor piace, dar su di spugna liberamente, e mostrare che la disapprovano. – Si vide egli una volta venire innanzi quel figliuolo scialacquatore, che, tutto a un tempo intirizzito di freddo e smunto di fame, a gran fatica potea più regger lo spirito in su le labbra. Contuttociò qual fu il primo pensier che di lui si prese? Fu riscaldarlo? fu ristorarlo? Non già, uditori: fu ricoprirlo: cito offerte stolàm prima (Luc. XV. 22). E finché questa non venne, egli talmente sel tenne abbracciato a sé, che niun de’ servi, come notò Pier Grisologo (Serm. 2 de fil. prod.), che niun de’ servi veder ignudo il potesse, niuno deridere: ante vestiri voluit, quam videri. – Così coperse la nudità dell’adultera, a lui condotta nel tempio, quando non prima dir parola le volle di correzione, che dileguato si fosse ogni accusatore (Jo. VIII). Così coperse la nudità della Samaritana, a lui sopraggiunta presso una fonte, quando non prima rimproverare la volle di disonesta, che ritirato si fosse ciascun Apostolo (Jo. IV). Così coperse la nudità fin di quel Giuda medesimo, il qual tradillo; mentre, per quanto interrogato ne fosse importunamente anche da Giovanni, ch’è quanto dir dal diletto, dal favorito, dal segretario di tutti i suoi grandi arcani; contuttociò né anche il volle a Giovanni far manifesto, se non in gergo (Joan. XIII 26): tanto è vero sempre, che Dio valde diffìcilis est ad publicanda occulta crimina nostra. – Come dunque volete, o mormoratori, che Dio non vi odii, mentre a rovescio di lui non altro fate giammai che andar discoprendo le magagne più internate, più intime, più riposte del vostro prossimo, e, sfacciati ancor più dell’antico Cam (Gen. IX. 21), non dubitate per beffa nudar chi dorme, non che soltanto invitare di molti a mirarne la nudità? Sì che v’odia, sì; non è cosa da dubitarne. Conciossiachè vi addimando: credete forse voi che sia virtù vostra, se voi non siete sì peccatori, com’è quel vostro fratello? Tutt’è grazia di Dio, tutt’è sua mercede, tutt’è suo merito. E voi per ciò inalberarvi sopra degli altri? e voi per ciò morderli? e voi per ciò maltrattarli? Ch’altro potete da tal superbia aspettare, se non che Dio sottragga ad ora ad ora il suo braccio dal sostenervi, e che per giusto giudizio cader vi lasci in quegli eccessi medesimi, benché enormi, benché  brutali, per cui sì acerbamente venite a tacciare altrui? Sentite ciò ch’egli affermaci ne’ Proverbj (XIII. 5): impius confundit et confundetur; il peccatore confonde, e sarà confuso. Sì, miei signori, il peccatore confonde, e sarà confuso. – Ed oh così mi potess’io qui distendere a piacer mio, come io vi mostrerei ciò sempre avverato in ogni età, in ogni popolo, in ogni affare! Ma questa volta mi sia per tutti bastevole un Assalonne, il cui successo, se non fosse di fede, non potrìa credersi. Questi, udita che egli ebbe la brutta forza che un suo fratello maggiore, chiamato Aminone, usata avea verso Tamar, del cui amore era divenuto frenetico, se ne sdegnò, se ne stomacò, n’arse in modo, che non credette potersi cancellar tal obbrobrio dalla sorella, se non col sangue dell’empio violatore. E così che fece? Dissimulò tal notizia per lungo tempo; finche venutagli, come siam soliti dire, la palla al balzo, convitò Ammone con tutti i regi fratelli ad un lauto banchetto; e quivi fattolo a tradimento assaltare da’ suoi famigli, nol trucidò propriamente lo macellò (2 Reg. XIII). Or chi, presupposto ciò, non sarebbesi persuaso che un Assalonne star dovesse dipoi molto circospetto a non apparir egli lordo di quella macchia che in altri avea detestata con tanto orrore? Qui detrahit alicui rei, come dice il Savio, ipse se se in futurum obligate (Prov. XIII. 13). E però non direste voi certamente, che da indi innanzi un zelatore sì tremendo dell’onestà viver dovesse più casto d’ogni agnelletto, e più intatto d’ogni armellino? Eppure udite ciò che vi farà senza dubbio arricciar le chiome. Fece egli poi tanto peggio di quel medesimo che aveva abbominato in Ammone; chequando il re suo padre, fuggitosi di palazzo, glielo cede tutto libero, tutto aperto, egli fece ergersi in una pubblica loggia un gran padiglione, e quivi alla presenza di popolo innumerabile tutte francamente oltraggiò le mogli paterne, che pur non erano in numero men di dieci; e con isfacciatezza neppure usata fra’ barbari, neppure universale fra’ bruti, ìngressus est (debbo dirlo ?), ingressus est ad concubinas patris sui coram universo Israel (2 Reg. XVI, 22). E questi dunque èquell’Assalon sì zelante, il quale tanto di romor fatto avea per un solo incesto che d’altri avea risaputo? Che mutazione èquesta mai? che stranezza? che novità? Finalmente Ammone peccò (non si può negare), ma chetamente, ma occultamente, ma in un gabinetto di casa il più solitario, dov’egli avea simulato, per verecondia maggiore, di giacere infermo. Laddove Assalonne non temé peccare in pubblico, a suon di trombe, a voce di banditore, e , quel che sembra del tutto orribile, in faccia allo stesso sole, il quale non so veder come a mezzo corso non rivoltasse di subito il cocchio indietro, per non assistere a sì mostruosa laidezza. Eppur è certo, uditori, che così fu: un Assalon, un Assalon venne a tanto d’iniquità. E perché vi venne? dica pur ciascuno ciò che vuole; io per me tengo, ch’Egli per questo medesimo vi venisse, perché per una iniquità somigliante fatto avea già tante strepito contro Ammone: Impius confundetur. Egli non avea compatito il proprio fratello, ma con solenne vendetta lo avea voluto pubblicamente confondere, e svergognare; e Dio permise ch’egli venisse quindi a poco a far peggio di quel medesimo ch’avea fatto il fratello. – Applichiamo a nostro proposito. Voi lacerate con lingua così spietata il prossimo vostro per una fragilità, nella quale è incorso, per uno slogamento di senso, per uno accendimento di bile, per una intemperanza di vitto, per una tal debolezza di vanità; e non temete che Dio vi lasci per suo giudizio cadere in più gravi colpe? Mi rimetto a voi: ma sol voglio con riverenza umilissima supplicarvi a non vi fidar ornai tanto di voi medesimi: Corripe amicum, corripe proximum: ciò va bene, ma fate insieme quello che l’Ecclesiastico dice appresso: et da locum timori Altissimi (Eccli. XIX, 13, 14, 18). Perché par quanto di presente a voi paja d’esser perfetti, non però potete sapere ciò che dovrà di voi essere in altro tempo. Chi avrebbe  detto che Jeù, quel re d’Israele, il quale con zelo sì fervoroso distrusse l’altare di Baal, e ne sterminò i sacerdoti, dovesse anch’egli piegare un dì le ginocchia dinante agl’idoli? (4 Reg. X). Chi avrebbe detto che Gioas, quel re di Giuda, il quale con  pietà sì magnifica ristorò le mura del tempio, e riempinne gli erarj, dovesse anch’egli  stendere un dì le mani a rapirne i doni? (ib. XII). Chi avrebbe detto che Salomone medesimo, Salomone, quello che nei Proverbj parlò sì bene contro l’amor delle donne, e ne svelò le doppiezze, e ne scorse i danni, dovesse poi dare maculuam in gloria sua, e cadere anch’ei bruttamente in quell’alta fossa, che agli altri avea dimostrata con tanto lume? (ìbid. 11) Non vogliate dunque sì presto far gl’impeccabili, perché, a mio credere, voi non siete finor raffermati in grazia; siete ancora labili, siete ancora caduchi, e piaccia a Dio (giacché conviene finalmente ch’io parli con libertà), e piaccia a Dio, che già non siate peggiori di que’ medesimi, de’ quali voi mormorate. Ah, così va, così va. Quei che sepolti perpetuamente si giacciono dentro il fango, come le rane, questi son quei che più gridano, che più gracidano, quasi che vogliano rimproverare a chi passa le sue lordure. I buoni, dice il Savio, i buoni sono agevolissimi a credere ben di tutti: innocens credit omni verbo(Prov. XIV. 15), come il credé Giosuè pei Gabaoniti (Jos. IX), Giacobbe di Labano (Gen. XXXI), Gionata di Trifone (1 Mac. 12). I più dissoluti, i più discoli, non contenti di quei difetti che in altrui veggono, vi veggono spesso ancor quei che non vi sono: tutto notano, tutto sbeffano, tutto sprezzano, e non sanno mai d’altrui persuadersi se non il peggio. Sed et in via stultus ambulans, udite belle parole dell’Ecclesiaste (X. 3), cum ipse insipiens sit, omnes stultos æstimat. – E sarà questa dinanzi a Dio presunzione da tollerarsi? Ah che pur troppo conviene ch’ei la gastighi! Posciachè s’egli neppur volea nella sua legge (Lev. XIII) che i sani condannassero alcuno mai per lebbroso, se non premessa per mezzo del sacerdote una lunga pruova, come potrà sopportare or che i lebbrosi lìberamente condannino ancora i sani?’ Non loquatur os meum opera hominum, non loquatur; perché questo è un voler esporsi a pericoli troppo atroci. E qui voi riputerete aver io già detto a terrore de’ maldicenti il più che può dirsi; ma riposiamoci, e poi vedrete che forse ho fin qui scherzato.

SECONDA PARTE.

VII. – Io non vorrei presso voi guadagnarmi fama di predicatore funesto; perciocché a che vale che, quasi vago di spaventarvi, io vi stia tutto giorno, a fare o predizioni infelici, o presagi infausti’, se voi, per non udirli, n’andrete a mettervi in fuga? Contuttociò convien pure, se punto v’amo, ch’io non v’inganni. Badate bene, perché gravissimo è il rischio, o mormoratori, che vi sovrasta, d’incorrere quanto prima una morte orrenda. Ma che so io di ciò? Mi è per sorte calato un Angelo a confidare dal cielo sì gran segreto? n’ho qualche rivelazione? n’ho alcun ragguaglio? L’ho, e l’ho maggiore anche di quello che voi non dite. Conciossiachè non è stato un Angelo, no, ma il Signor degli Angeli, quel che, parlandomi ne’ Proverbj, mi ha detto che propria pena dei detrattori è morire improvvisamente. Time Dominum, fili mi, et cum detractoribus ne commiscearis, quoniam repente consurget perditio eorum (Prov. XXIV. 2 1 et 22). Repented! Sì, sì, repente, repente (avete sentito!), repente consurget perditio eorum. Ah noi malavveduti! che facciam dunque, mentre sì poco ci riscotiamo a pericolo sì tremendo? Può mentire Iddio per ventura? può amplificare? può far bravate a credenza? Io, quanto a ciò, mi rimetto; ma dite a me: mi sapreste voi riferire qual fine sortisse quel linguacciuto di Alcimo, il quale avea sì liberamente pigliato a sparlar di Giuda, nobilissimo Maccabeo? (1 Macchab. IX, 55). Perde ad un tratto la parola su labbri, e così insieme ammutolito ed attonito si morì di goccia improvvisa. Qual fine fece un Datano, qual fine un Core, qual fine un Abiron, quei dispregiatori maledici di Mosè? (Num. XVI, 24 a 33). Non furon tutti e tre dalla terra, che di repente si aperse, ingojati vivi? E quei tanti altri, che contra Mosè medesimo mormorarono nelle campagne di Edom (Ibid. XVI. 35 et seq.), qual fine anch’essi sortirono? Dite un poco: vi è tra voi niuno ch’or lo ritenga a memoria? Si vider tutti venire addosso improvvisamente un esercito di ceraste, di aspidi, di saettoni, e d’altre mille pestilentissime serpi che, quasi vomitassero fuoco e vibrasser fiamme, ne fecer entro brev’ora una strage immensa. Sicché non credo far Dio bravate a credenza, quando Egli afferma che repentina succederà la lor morte a’ mormoratori; repente consurget perditio eorum; mentre ciò non solo è famoso per la sperienza, ma pare ancor conformissimo alla ragione. Imperocché se i detrattori son uomini, i quali assaltano, come da principio dicemmo, l’avversario alle spalle, né contro d’esso procedono alla scoperta, ma insidiosamente, ma ingannevolmente, ma quasi da traditori; qual meraviglia sarà, che quasi a tradimento si trovino anch’essi colti da quella morte che sola al mondo è bastevole a far tacere una mala lingua?

VIII. – Ma io (guardate quanto voglio sempre essere liberale con esso voi) voglio concedervi che in voi non debba una tal minaccia eseguirsi con tanta severità, ma che vi sia conceduto innanzi al morire qualche comodo spazio di ravvedervi, di riconoscervi, di chiedere perdonanza del mal commesso: con qual ardir, con qual animo, con qual fronte potrete a Cristo ricorrere in su gli estremi per ottenerla? Non siete voi stati quei così dispietati, che niuna colpa avete mai perdonata cortesemente al prossimo vostro, ma l’avete ognora avvilito con alterigia, accusato con arroganza, e, senza mai punto usargli misericordia, n’avete fatto in ogni conversazione un solenne scempio? E come dunque esser può che gran misericordia dobbiate sperar da Dio? Ahimè! credetemi che questo sopra d’ogn’altro sarà il pericolo che incorrerete morendo, perdere affatto ogni special confidenza nella divina bontà. Né ciò senza fondamento: conciossiachè, non so come, par che Dio contro a’ mormoratori dimostrisi tutto sdegno, tutto rigore, e che propriamente abbia preso, conforme disse nel salmo, a perseguitarli; detrahentem secreto proximo suo, hunc persequebar (Ps. 100, 5). Non è tra voi chi non sappia quanta già fosse l’autorità di Mosè per rendere Dio pietoso co’ delinquenti. Avea il suo popolo fabbricato già, com’è noto, un vitello d’oro, incensatolo, idolatratolo; sicché Dio, tosto montato in furore altissimo, determinò di venire contr’uomini sì perversi a ferro ed a fuoco, e di sterminarne la razza. Contuttociò, credereste? non prima si frappone Mosè con alcune acconce parole d’intercessione a pregar per essi, che senza una minima replica ottien l’indulto, e fa che Dio ritranquillisi assai più tosto che non fan l’onde di turbata peschiera al posar de’ venti. Placatusque est Dominus, ne faceret malum, quod locutus fiierat, adversus populum suum (Exod. XXXII. 14). Qual però di voi non sarebbesi immaginato che chi per gente sì perfida avea potuto ottener perdono sì pronto, non mai dovesse in futuro temer ripulsa? Eppur che succede? Vuol egli quindi a qualche tempo intercedere per Maria, sua propria sorella, percossa in volto da schifosissima lebbra (Num. XII): e tuttavia, benché supplichi, benché gridi non ottien nulla; e a tutti i patti conviene a lui di vederla esclusa dal pubblico, ritirata, ristretta, pagar più giorni ai contumacia obbrobriosa Ma perché ciò? Era costei per avventura trascorsa in qualche delitto peggior dell’idolatria? Che aveva mai fatto la misera? ch’avea detto? ch’avea trattato? Già v’è notissimo. Ella, abusandosi di certa loquacità naturale data alle donne, affinchè incitino i lor figlioletti a parlar con facilità, avea, non so come, tacciato assai suo fratello a cagion di certa Etiopessa, non saprei direse di sembiante o di stirpe, da lui sposata. Ma perché appunto quest’era mormorazione, ch’è quanto a dire, poca pietà verso le altrui debolezze, Iddio non volle (come osservò san Basilio) accettar per essa discolpe di sorta alcuna, non raccomandazioni, non suppliche, non clamori; e laddove fu facilissimo in rilassare, ad intercession di Mosè, tanti gravi oltraggi fatti alla propria Persona, benché divina, non volle rilassarne un piccolo succeduto contro la persona medesima’ di Mosè. Vedete dunque s’è vero ciò ch’io vi dissi? – Questo, uditori, queste è  il terribile effetto che la mormorazione produce nel cuor di Dio, renderlo quasi duro, implacabile, inesorabile: e però chi può dubitare che quando voi vorrete ad esso moribondi ricorrere, per pregarlo a pietà, non saprete farlo, e vi parrà che troppa audacia sia chiedere compassione di quelle colpe che altro non furono in verità che mancanza di compassione? Così rispose un certo Religioso infelice, rammemoratoci da gravissimi autori, (Jo. Mayor. Spec. esempl. etc.). Si trovava già egli vicino a morte, quando sentendosi con grand’affetto esortare da’ circostanti ad aver fiducia nella misericordia divina: che misericordia? (gridò) che misericordia? Non è questa per me, che sì poca n’ebbi. Indi tratta fuori la lingua, accennò loro col dito che la mirassero; e poi: questa lingua (soggiunse) mi ha condannato; questa, con la quale mi avete sì frequentemente sentito condannar altri, questa ora fa che disperato io precipiti in perdizione. Disse; e perché più manifesto apparisse aver lui per giusto giudizio così parlato, se gli enfiò tutta di repente la lingua per modo orribile, sicché più non potendo ritrarla a sé, cominciò a metter muggiti ed a mandar urli, non altrimenti d’un toro ch’è sotto il maglio; e così dopo un’agonia penosissima uscì di vita. Un altro mormoratore tutta, morendo, si lacerò dispettosamente la lingua co’ suoi medesimi denti; ad un altro s’istupidì; ad un altro s’inveranno: tanto fu lungi che la sapessero su quegli estremi impiegare in chieder a Dio pietà de’ commessi errori. Ma voi che dite? – Pare a voi spediente di mettervi a sì gran rischio per una mera sfrenatezza di labbra mal custodite? Non loquatur os meum opera hominum; ditelo, ditelo; non loquatur os meum opera hominum; perché importa troppo risolvere questo punto, e fermarlo bene. Che in considerazione è mai la nostra? che abbaglio? che cecità? Sarà possibile adunque che non vogliamo determinarci oggimai di badare a noi, giacché finalmente nel tribunale divino non ci verrà domandata d’altri ragione, che di noi stessi? Gran cosa in vero che ci vogliam noi prendere tanto affanno, tanta ansietà delle altrui coscienze; mentre ciò sol dee servire a gravar le nostre! Che vale al fiume, che, uscendo gonfio dal letto con la sua piena, lavi le ripe, e via ne porti mormorando ogni feccia, ogni fracidume, s’egli vien con tal atto a lordar se stesso, e a rimaner tutto sozzo, tutto schifoso? Non è già la vita sì lunga, se noi vogliamo spenderla saviamente, come dovremmo, per nostro prò, che debba tanto tempo avanzarci da perdere oziosamente ne’ fatti altrui. Una cosa sol è di necessità, se crediamo a Cristo: porro unum est necessarium (S. Luc.X, 42), né altro è questo, che assicurare il negozio della nostra eterna salute, negozio ahi quanto spinoso! ahi quanto difficile! E noi ci stiamo, come se ciò fosse nulla, ad addossar tante cure affatto superflue, né solamente superflue, ma ancor dannose? Lasciamo pureche gli Esaù vagabondi (Ge, XXV, 27) con la faretra al fianco, e con l’arco in mano non altro facciano tuttodì ch’ire a caccia degli altrui falli, come di prede lautissime ai lor palati: noi, a similitudine di Giacob, conteniamoci in essa, e con santa semplicità reputiam ciascuno in cuor nostro miglior di noi. Questo è da buon Cristiano, questo è da considerato, questo è da cauto: fare altrimenti è da uomo nulla sollecito di salvarsi.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.