Paolo SEGNERI S. J.:
L’INCREDULO SENZA SCUSA – (12)
Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884
CAPO XII.
Testimonianza che rendono di Dio gli animali, da Lui provveduti a stupore.
I. Robusta senza dubbio fu la difesa che di sé fece Sofocle, accusato in giudizio da’ suoifigliuoli medesimi, come inetto a governare la casa in età decrepita per mancamento di senno volle egli, che a favor suo perorassero le opere, non le lingue. Che però subito pose in mano de’ giudici una tragedia che egli stava allor componendo. Mirassero dall’argomento di essa, dall’invenzione, dall’intreccio, dallo scioglimento del nodo, dal costume di tanti interlocutori, dalla proprietà dello stile, dal peso delle sentenze, se quello fosse lavoro di un uomo scemo. Ora gli ateisti, per quanto si aiutino a scancellare in sé le sembianze del loro padre, sono pur figliuoli di Dio, ma figliuoli sì sconoscenti, che gli contendono l’essere, non che il senno. Ecco però, che a terminare tanta lite egli cava fuori, non un solo volume, ma mille emille, di opere stupendissime che Egli ha fatte eche va tuttora facendo. Ardiranno eglino contuttociò di negare all’Autore di esse l’intendimento? Se quei figliuoli avessero opposto a Sofocle, che una tragedia sì bella non era in lui contrassegno infallibile di giudizio, mentre ella poteva così essergli scorsa a caso; credete voi, che quei giudici avrebbero punto ammessa sì sciocca replica? Piuttosto l’avrebbero ributtata da sé colle derisioni. Ne altrimenti avrebbero proceduto, se coloro avessero opposto, che la beltà di quell’opera poetica poteva venire dalla natura della tal pergamena, della tal penna, o del tale inchiostro adoperatosi in farla, non dalla virtù di colui che lo adoperò. E perché trattando di Dio volete dunque voi che si giudichi in altra forma? Via via, chi di Lui non confessa, l’opere sue tutte essere testimoni di mente altissima? Date un sol guardo alla considerazioni dei bruti. Questa è più che bastevole a farci dire: Chi li formò, chi li pasce, chi li provvede, oh di quanto accorgimento conviene che soprabbondi! Io mi ristringo a due pensieri, per dir così, che egli di loro sì prende. A quello di mantenerne gl’individui, ed a quello di mantenerne le spezie. Tratteremo prima dell’uno, dappoi dell’altro, al pari divini (A questi due pensieri dell’ autore pare a me doversene opportunamente e logicamente aggiungere un terzo, che ambedue gli altri contempera insieme, siccome quello, che abbraccia il vincolo necessario, il quale stringe gli individui con la specie, cui appartengono. L’essenza specifica è una ed identica in tutti gli individui della medesima classe; questi per contro sì differenziano all’infinito, tantoché non se ne danno due onninamente gli stessi. Ora, come mai la specie, pur rimanendo una, può moltiplicarsi in una pluralità di individui senza fine; e come conciliasi l’identità e l’unità delle specie con la diversità e moltiplicità degl’individui?Forsechè tutto questo non argomenta l’unità di una mente suprema ed infinita, che sia come la ragion d’essere e la cagione efficiente delle creature infinitamente varie e molteplici, che compongono l’universo?)
I.
II. E quanto al mantenimento degl’individui, abbiamo sempre dianzi agli occhi un miracolo sterminato, eppure lo passiamo senza avvertenza. Non è forse un grande stupore, che albergando nell’aria, nell’acqua, e sopra la terra, tanti animali di generi sì diversi, a nessuno mai, dentro uno stuolo sì folto, manchi da vivere; sicché la fame, la qual sì frequentemente scappa dagli abissi, qual furia per consumare le popolazioni degli uomini e le provincie, se la prenda si di rado co’ bruti nelle foreste: massimamente dovendo quivi la loro provvigione riuscire proporzionata non solo al numero, e però vasta, ma ancora alle inclinazioni, e però varissima? Da ciò si scorge, non essere altri Chi da principio li fece, altri Chi dipoi li conserva, mentre sa tanto per appunto conoscere i loro gusti, esa soddisfarli.
III. Quindi è,che a maggiore dimostrazione d’ingegno non si vuole egli diportare con tutti i bruti, come con leconchiglie, cui va stillando dalle nuvole il pascolo fino in gola. Vuole, che i più. s’industrino a procacciarselo da se stessi con mille modi. E però chi può esprimere gl’istrumentidi cui li guernì a tale effetto? I principalissimi sono i sensi esterni ed interni, che specialmente negli animali più piccoli accrescono a dismisura la meraviglia.
IV. Ora sugli esterni voi dovete osservare, come due sono gli ordini di animali. Alcuni sono atti ad andar vagando; e tali sono tutti quegli che vivono fuor dell’ acque: altri non danno mai passo, e tali dentro l’acque son le ostriche, le ortiche, le spugne marine, stimate insieme piante, insieme animali. Di questi può dubitarsi, se oltre al tatto, comune a tutti, ed al gusto, abbian altro senso, quasi non necessario, mentre il medesimo scoglio, sul quale nacquero, tiene loro all’intorno dispensa aperta. Ma quanto agli altri non se ne può dubitare. E però né di vista, né di udito, né di odorato èmancante qualsisia degli insetti, ancora tenuissimi. Or come dunque nel corpicino medesimo di una pulce trovò l’Artefice tanto spazio da collocare gli ordigni di cinque operazioni così diverse? Un oriuoletto formato dentro un anello parve già meritevole delle dita di Carlo V, tanto quanto era meritevole della sua destra lo scettro di un mondo intero. E noi distribuiremo gli affetti nostri sì iniquamente, che ammirando ad ogni poco i lavori dell’arte umana, che èla discepola, non ammireremo mai quelli della divina, che èla maestra? Eppure tali sono i lavori della natura, tra cui i soli peluzzi che spuntino dallo gambe di un vil meschino contengono più di artifizio, che tutte le invenzioni de’ nobili professori, nuovi ed antichi, famosi al mondo.
V. Che direm poi delle potenze interiori, per cui questi animaluzzi ed amano il loro bene veementemente, ed odiano chiunque loro vi si attraversi, e temono, e si adirano, e assaltano, e fuggono, e si pongono in tempo su le difese; ed ora sperano, or temono: ora sospettano, or godono al modo loro ? In un campo sì angusto battaglie di tanti affetti! O Dio meravigliosissimo! Voi ci chiudete di verità tutti i passi con opere da sé atte a tenerci stupidi gli anni sani! E v ‘è chi tuttavia si vorrebbe sottrar da voi, scotendo ogni ammirazione?
VI. In paragone però degli organi destinati alle sensazioni di questi sì minuti viventi, sembra che calino assai di pregio quei che sono destinati alla loro nutricazione. Eppure chi può dir quanto siano compiti anch’essi ? Trovatemi il più piccino tra simili animaluzzi, e sia pure un verme, mobile succidume dei letamai, ancora in quello convien che sieno le parti principali, di cuore, da cui si diffonda il calor vivifico ad ogni membro; di cerebro, in cui si formino gli spiriti necessari per ogni moto; di stomaco, ove concuocasi l’alimento; di condotti che lo distribuiscano per la vita; d’intestina ove si riceva il soverchio del già concotto: cui parimente forza è che si aggiungano denti a rodere, mascelline a tritare, morse a tenere, ed altri simili ordigni, infiniti a dirsi (Francesco Redi nelle osservazioni intorno ai viventi ne’ viventi pag. 64). Eppure ove sono? Appena si può credere che vi sieno, non che capirlo. Ma grazie a quel microscopio, veridico ingranditore di ciò che al tempo medesimo ecopre e scopre, mentre egli non solamente ci ha rivelato tanto più di natura a noi già mal noto, ma ci ha confermato altresì, che quivi ella veramente è più tutta, ove ha men di luogo: Nusquam magis quam in minimis, tota est(PI. 1. 46. c. 2).
II.
VII. Senonchè, quando noi vogliamo fermarci nell’artifizio di qualsisia corpo organico, non sarà facile il determinare cui si debba la palma, se alle minori opere, o alle maggiori. Certamente al sommergersi in questo abisso c’interverrà come ad un nuotatore, il quale, andando sott’acqua, da qualunque banda egli voltasi non vede altro che mar profondo. Per ora consideriamo solamente il di fuori. Con quali industrie si potevano adattar meglio negli animali tutte le parti al fine per esse inteso, o con quali invenzioni, che fossero insieme varie, insieme uniformi, che è ciò donde appare più, come già dicemmo, la verità di un intelletto operante? Mirate in prima i volatili. Voi scorgerete che la natura dà loro un piccolo capo, armato di rostro acuto per fender l’aria; dà piume lievi, per non gravarli di peso; e le dà parimente disposte in modo, che non si oppongano al vento ne’ loro voli, ma l’assecondino: dà l’ale provvedute di molti muscoli, perchè sieno con esse più presti al moto, ma le dà piegate per maggior comodo loro, e incavate modestamente per quando volino e per quando riposino; per quando volino, a radunare più d’aria che li sostenti; e per quando riposino, a ricoprirsi più dall’ambiente che li molesta.
VIII. Osservate poi la differenza tra essi pienissima di consiglio. Nel popolo degli uccelli, altri si cibano in terra, e però questi hanno tutti i lor piedi adunchi, da potersi tenere di ramo in ramo, cercando il loro alimento; chi dove è vermini, come fan le beccacce; chi dov’è spighe, come i colombi; chi dov’è spine, come i cardelli; chi dov’è tronchi, come le gazze, o le ghiandaie, che rodono fin le querce.
I X. Altri si cibano in acqua, dove fanno il maggior soggiorno; e tali sono i cigni, e più simili, cui miriamo dato però collo eccessivo, affine di pescare al fondo delle lagune quei vegetabili quivi ascosi; dati i piedi spaziosi in guisa di remi, a vogare, immersi nell’onde, ma non sommersi, e dato il rostro ‘ungo, largo e schiacciato, per aggrappare i pescetti, e per ingoiarseli.
X. Altri sen vivono di rapina per l’aria, come fa il nibbio, l’avvoltoio, l’aquila, lo sparviere: e questi hanno il rostro rinforzato e ritorto, per fare in pezzi la preda morta; e l’unghie sode e sottili, per arrestare la viva, sicché non fugga.
XI. Tutti con diversa voce da unirsi insieme se vanno a schiere, come le grue che conoscono ancora re: con diverse maniere di ricrearsi, con diverse malizie per rubacchiare, e con altre vivacità in corpiccioli sì brevi affatto stupende, se nelle opere della natura non procedessero i più degli uomini come quegli ignoranti che passeggiando per li portici di qualche rinomata accademia pascono gli occhi con la veduta di quelle scuole maestose, ma nulla intendono delle scienze ivi lette.
XII. Lasciamo noi frattanto i rimproveri benché giusti, e seguitando il discorso nostro, passiamo alla considerazion de’ quadrupedi. Alcuni dovevano sostentarsi di carni uccise: e questi troverete armati alla mischia. I muscoli delle lor tempie sono più validi, per la forza che dovevano trasmettere alle mascelle. I denti a foggia di sega, per dividere l’inimico: con quattro zampe da arrestarlo fuggente. Le unghie adunche ed acute a tenerlo saldo, ma riposte nelle guaine delle zampe medesime perché non perdano il filo nel camminare, e non si rintuzzino.
XIII. Diversa è l’architettura degli animali che dovean pascersi d’erbe. In loro i denti sono tutti alzati ad un piano: ma gli anteriori sono più stretti e taglienti, por recidere il pascolo, o di vermene, o di virgulti, o di fieno; e i posteriori sonò più larghi ed ottusi, per masticarlo. Le unghie, dovendo solamente servir di base alla mole de’ loro corpi, sono solidissime, senonché in alcuni sono intere, in altri son bifide, in altri son fatte a dita. Sono intere in quegli animali, che sprovveduti di corna, conviene che de’ piedi si vagliano ancor per arme, com’è ne’ muli. Sono bifide in quegli che de’ lor pie dovevano puramente valersi per camminare, siccome i buoi; o dovean poterò sostenersi pascendo in greppi scoscesi, come icervi, le capre, le pecorelle. Sono fatte a dita in quei che dei pie si dovean anche valere quasi di mani a fermar lo prede, come è in cani, in leopardi, in leoni, ein altri da caccia.
XIV. La lunghezza del collo è poi proporzionata all’altezza de’ loro stinchi. Onde il cammello, come il più alto di tutti i giumenti, è provveduto altresì di collo più lungo: altrimenti non gli sarebbe possibile pascolare se non giacendo. E perché a quella mole di carne che l’elefante si porta con esso sé non si confarebbe una tal lunghezza di collo, gli fu data per supplemento la sua proboscide, di cui si serve come di mano perfetta per vincer tutte le incomodità che gli arreca la sua grave corporatura, massimamente nello sterpare le piante qualor si pasce, o nel guadare i fiumi quando non può guadarli, se non vi nuota.
XV. Già scorgete che io meno il pennello a volo, ponendo quasi in iscorcio quelle figure che per le angustie della tela non possono starvi ritte. Però passiamo da’ quadrupedi ai pesci, tanto bene adattati a quell’elemento per cui son fatti. Il loro capo comunemente èbislungo, dovendo come tale servir di prua a quei legnetti animati che solcan l’onde. Le pupille lor sono sferiche, perché se fossero, come negli animali terrestri, in forma di lente, i raggi visuali, in passar l’acqua, mezzo più denso, che non è l’aria, verrebbero a rinfrangersi più del giusto: laddove i pesci han bisogno di vista somma a scoprire il cibo da lungi. Non han palpebre, perché il fine d’esse èsalvar gli occhi prestamente da’ bruscoli inaspettati: e questi van volando per l’aria, ma non per l’acqua. Non hanno lingua, se non molto imperfetta, perché non dovendo masticare essi il cibo, ma divorarlo, per non dar tempo all’acqua di entrare in copia, fu il gusto loro ristretto alle sole fauci. Non hanno collo, perché loro non abbisognava a formar la voce, nascendo mutoli, come porta il loro elemento. Non hanno piedi, perché non hanno da andare a modo di chi cammina, ma di chi naviga. Vero è, che invece di piedi hanno essi nel ventre chi due pennette, chi quattro, come più facea di mestieri a supplir di remi nel correre da ogni banda. All’estremità hanno una penna più larga, la quale nella loro navigazione val di timone, ed un’altra ne hanno pur sopra il dorso per regolarsi, quando abbiano mai vaghezza di andar supini. Le sole lamprede, con altri simili pesci a foggia di serpi, non han né piedi né penne, perché loro talento è di strisciare per l’acque, non è di andare. Sono foderati di scaglie, perchè, se di peli, non reggerebbero all’acque: e le scaglie son tutte andanti a seconda, perché non si oppongano al nuoto. Quei che tra loro hanno meno di sangue, come men calidi, non respirano l’aria per rinfrescarsi; ma ben la respirano tutti quei che tra loro son più sanguigni: onde è che questi furono provveduti di polmoni vicino al cuore, negati ad altri; ed hanno vicino al capo alcuni canali, per cui rispingono l’acqua da loro troppo bevuta nell’ire a fondo.
XVI. E nello scrivere queste cose vorrei pur intignere nel più amaro fiele la penna, per abilitarla ad un’acerba invettiva contra quel superbissimo Alfonso, decimo di tal nome, re delle Spagne, che, quasi avesse il suo trono di gradi eguali a quel dell’Altissimo, si lasciò uscir dalle labbra queste empie voci, che se egli si fosse trovato presente a lui nella creazione delle cose, gli avrebbe suggerite migliori idee nel modello di esse, e migliori istrumenti nel magistero. Venga, non il suo capo scemissimo, ma la sapienza di tutte le menti umane, di tutte le angeliche, e si cimenti in tanta varietà di creature, e massimamente di viventi, o nell’aria, o nell’acqua, o sopra la terra, a riformare, non dico una spezie intera, non dico il capo, non dico il cuore, ma i1 guscio di una lumaca. È questo un animale sì dispregevole, che siccome non si può muovere senza lasciare dovunque va, colla striscia della sua bava, un’attestazione della sua putredine somma, così non può circoscriversi senza noia. E nondimeno io son certo, che con tutta la loro maestria non solamente non sapranno essi distinguere in miglior forma, o colorire con migliori pennellature, o condurre a maggior perfezione quella casa rustica, fabbricata dalla natura ad un suo vil parto; ma che, se questa in qualche lato s’infranga, non gliela sapranno rifare; anzi neppure rappezzare sul dorso, sicché gli si adatti, non dico meglio di prima, ma almeno non malamente. Pensate poi che farebbero ad una chiocciola, non di terra, ove son le vili, ma di mare, ove stan le nobili! Leggano innanzi le parole di Plinio, che mi piace loro apportare distesamente, e poi tra sé conferiscano sull’impresa: Firmioris iam terrœ murices, et concharum genera, in quibus magna ludentis naturœ varietas. Tot ibi colorum differentiœ, tot figurœ, planis, concavis, longis, lunatis, in orbem circumactis, dimidio orbe cœsis, in dorsum elatis, levibus, rugatis, denticulatis, striates, vertice muricatim intorto, margine in mucronem emisso, foris effuso, intus replicato: iam distinzione virgulata, crinita, crispa, canaliculatim reticulata, in obliquum, in rectum expansa, densata, porrecta, sinuata, brevi modoligatis, toto latere connexis, ad plausum apertis, ad buccinam recurvis(Plin. 1. 9. c. 33). – Tal è la faccia esteriore dell’edifizio, lavorato dalla natura per casa di una bestiuola, per altro di nessun pregio, qual è la chiocciola. Or non basterebbe ella sola a farcì riconoscere Dio, massimo ancor nelle minime sue fatture? Con qual arte, con quale avvedimento, con qual finezza dovrem noi credere che sieno ordite nel loro interno tante opere più importanti? E se il nicchio di un vermicciuolo è di avanzo a farci irrefragabile la riprova della divina sapienza, non sarà bastante a farcela un mondo intero? Diasi pur luogo ad ogni estasi di stupore. Questa è la lode più giusta che possa da noi porgersi al Creatore, che tanto ha fatto: non celebrarne le opere, ma ammirarle : Virtutis divinœ miracula obstupuisse, dixisse est(Greg. 1. 2. Mor. c. 5).
III.
XVII. E tuttavia non è poco, se si ottenga da alcuni, che almen le osservino. Quinci, per rimetterci in via, ciò che di vantaggio anche mostra la provvidenza assistente ai bruti, si è, che prima di qualunque esperienza sanno discernere il cibo buono dal reo. Però si vede, che appena nato un cagnolino sa subito ritrovare le poppe della sua madre, e attaccarsi ad esse e spremerle, e suggerle; né mai va, per fallo a cercar quelle di una gatta. E questo avvenimento è tanto accertato, che molti animali hanno insegnate all’uomo l’erbe salubri, con la scelta che ne facevano; insegnate l’erbe nocevoli co’ rifiuti. Così parimente ravvisano i loro nimici innanzi al provarli tali, e da lor si guardano: e i pesci fuggono dalle reti prima d’esservi entrati mai: e prima di ogni riprova gli agnellini fuggon da’ lupi, non fuggono da’ mastini: le colombe si spaventano dello sparviere, non si spaventano dell’avvoltoio: e le fiere si ascondono al ruggir de’ leoni, e non si ascondono al barrire dell’elefante. Come van però queste cose? I bruti non le fanno per elezione, ma per istinto, come tra gli uomini fanno le loro i bambini: il che si raccoglie chiarissimo dal vedere, che tutti le fanno sempre all’istessa forma, benché non l’abbiano apprese. Chi fu però, che loro die tale istinto ? La loro natura? Ma di questa medesima si addimanda: chi la fe’ tale? Si fece ella da sé, con determinarsi a tale aggiustatezza di operazioni, se ella è natura, ma natura di bruto? Adunque potremo dire, che ancor da sé si sia fatto quell’organo, detto idraulico, il quale, al passar dell’onda, or alza’ i tasti, or gli abbassa, con tanta legge di note armoniche, che non potrebbe far più, se egli fosse dotato d’intendimento. Tutto l’opposito. Ne’ movimenti di chiunque è mosso appare subito la virtù del vero motore (S. Th: 1. 2. q. XIII. art. 2. ad 1). Però, siccome nelle operazioni di quell’organo, privo di senso, appare l’arte umana, che gli fa dare que’ tratti tanto aggiustati al passar dell’acqua; cosi nelle operazioni de’ bruti, privi di senno, appare l’arte divina, che fa proromperli in quelle inclinazioni così prudenti, al comparire ora di un oggetto, or di un altro, che sveglia in essi variamente le spezie, cioè sveglia appunto i lor tasti.