PREDICHE QUARESIMALI (I-2020)

Nel MERCOLEDI’ dopo la prima Domenica

VII.

[P. Segneri S. J.: Quaresimale; Ivrea, 1844, Dalla Stamperia degli Eredi Franco, Tipogr. Vescov.]

“Curri spìritus immundus exierit ab nomine, ambulat per loca arida, quærens requiem, et non invenit.”

S. Matth XII, 43

I. Fu già tempo in cui gli uomini riputavano di aver fatta una gran prodezza, qualor essi giungessero ad ottenere che tante fiere, le quali albergano o tra gli orrori de’ boschi, o tra le verdure de’ prati, non recassero loro alcun nocumento; né si stendea la loro industria più oltre, che a procurare di non venire o strangolati dagli orsi, o sbranati da’ cignali, o morsicati dalle vipere, o punti dagli scorpioni. Ora noi ci ridiamo del poco cuore che avevano quegli antichi, e assai più innanzi abbiamo stesa l’audacia de’ nostri voti, ed aguzzato valore de’ nostri ingegni. Vogliamo or noi che queste fiere medesime, dianzi dette, non solamente non ci sieno d’offesa, ma che ancor ci ridondino a giovamento. Però abbiamo animosamente imparato e ad armarci delle loro pelli, e a nutrirci delle lor carni, e a valerci delle loro ossa, ed infino a sanarci co’ lor veleni, da noi cambiati mirabilmente in antidoti; a segno tale, che se ben si considera, molto più son oggi quegli uomini a cui dalle fiere vien conservata la vita, che non son coloro a’ quali vien tolta. Or così appunto converria che facessimo col demonio, fiera senza dubbio la pessima ch’abbia il mondo: Fera pessima (Gen. 37. 33). Non ci dee bastare oggimai il guardarci da esso, di resistergli, di ribatterlo, di fugarlo; dobbiam da esso cavare anche utilità. Ma qual utilità, mi direte, può da lui trarsi? Grandissima, se vogliamo, e questa sia, che impariam da esso a prezzar l’anima nostra. Egli, per testimonianza di Cristo, n’è sì geloso, che quando tolta e sé veggala dalle mani, non si dà pace, ma tutto ansioso, ma tutto ansante faticasi a riacquistarla : Cum spiritus immundus exierit ab homine, ambulat per loca arida, quærens requiem, et non invenit.  Ed a noi non dà niuna pena, che la riacquisto? Mirate un poco quanto studio egli adoperi a farci suoi. Egli ci aggira con fallacie, com’Eva; egli ci assalta con traversie, come Giobbe; egli ci affascina con trufferie, come Giuda; egli, come usò a Cristo, ci tenta con rie lusinghe, ci segue, ci asseconda, ci applaude, ci offerisce magnifiche donazioni; e noi per contrario non vogliamo aver di noi stessi veruna cura? Ah dilettissimi, e com’è giammai possibile tanto inganno? Non prezzar l’anima propria! Non prezzar l’anima propria! Parliamo chiaro: non aver più sollecitudine alcuna in ciò che si spetta, se non altro, a fuggir dalla dannazione! Deh lasciate ch’io questa volta mi sfoghi un poco in deplorare una sì stravagante trascuratezza; e voi compatitemi, perché, se starete attenti, ancor a voi sembrar dovrà luttuosa.

II. E certamente che tra’ Cristiani si dia questa poca sollecitudine di salvarsi, pur ora detta (non accade, o signori miei, che ci lusinghiamo), è manifestissimo, si dà, si dà. Un contrassegno assai spedito a discernere se ci prema alcuna faccenda, si è primieramente, a mio credere, ragionarne, discorrerne, dimandarne, ricercare in essa chi vaglia ad indirizzarci. Giacobbe, il quale, ito a cercar di Labano in terra straniera, ha vera sollecitudine di conoscerlo, minutamente ne interroga que’ pastori da cui crede averne contezza (Gen. XXIX. 5 et 6). Giuseppe, il quale, ito a cercar de’ fratelli per vie solinghe, ha vera sollecitudine di trovarli, ansiosamente ne chiede a quei viandanti da cui spera adirne novelle (Gen. 37. 16). E Saule, il quale non altro al fino esce a ricercar che alcun’asine smarrite al vecchio suo padre, contuttociò, perché ancor egli n’è veramente sollecito, che non fa? che non tollera? che non tenta? Credereste? non solo egli però gira monti, attraversa piani, ed indefesso ne scorre per varj borghi; ma non dubita inoltre d’andare a chiedere qualche favorevole oracolo intorno ad esse, e ad interrogarne un profeta; né solamente un profeta degli ordinarj, ma il segnalato, ma il sommo, ma un Samuele: Eamus ad videntem (1 Reg. IX. 9). Che dite dunque, uditori? Potete voi dar a credere che vi prema di salvar l’anima vostra, mentre non è che mai ricerchiate un consiglio su tanto affare, che ne consultiate con una persona di spirito, che ne conferiate con un uom di dottrina? Riferisce san Luca, che quegli uditori, i quali, intimoriti alle prediche di Giovanni, erano già cominciati alquanto ad entrare in qualche sollecitudine di se stessi, lo andavano a ritrovare sin tra le grotte, e gli domandavano: Quid ergo faciemus? (S. Luc.. III, 14). Vi andavano popolari, e dicevano: Quid faciemus? Vi andavano pubblicani, e dicevano: Quid faciemus? Vi andavano sino gli uomini dati all’arme, e tutti ansiosi ancor essi lo interrogavano: Quid faciemus et nos? Voi (dite il vero) avete mai finor di proposito chiesto a niuno: Quid boni faciam, ut habeam vitam ætérnam? ( S. Matth. XIX. 16). Comparite ben voi talora (chi può negarlo?) in un chiostro di solitari; ma per qual fine? Per diportarvi tra le amenità de’ lor orti, o per discorrere con qualcuno di essi delle vittorie del Tartaro, delle rotte del Transilvano, delle novelle che vengano a noi d’Irlanda: ma per rintracciar seriamente qual sia la strada che per voi trovisi più opportuna a salvarsi, non so se mai scomodato abbiate di camera un Religioso. – Ma qual maraviglia che ne trattiate sì poco, o sì poco ne discorriate, mentre neppur voi tra voi stessi avete in costume dì talor fissarvi la mente? chi ha gran sollecitudine di un negozio, non può da esso, benché voglia, distogliersi col pensiero. Pare appunto un cervo ferito, che dovunque va, porta seco affannosamente la sua saetta. Vi pensa il giorno, vi ripensa la notte, l’ha fin presente nell’anima allor ch’ei giace sepolto in un alto sonno. Così di Temistocle, gran capitano de’ Greci, racconta Tullio, che, ancor dormendo, amaramente invidiava al suo competitor Milziade i trofei. Così di Marcello, gran capitano de’ Romani, narra Plutarco, che, ancor dormendo, terribilmente sfidava il suo nemico Annibale all’armi; e così altri, che da qualche affetto veemente fur posseduti, soleano in esso di leggieri prorompere ancor dormendo, siccome appunto nelle sacre Carte si legge di Salomone (3 Reg. 3, 5). il quale, quantunque in sogno, interrogato da Dio che grazia volesse: Postula quod vis, ut dem tibi, unicamente addomandò la sapienza: Da mihi sapientiam (Sap. IX. 4), perché di questa unicamente avea brama, mentr’ei vegliava: Optavi, et datus est mihi sènsus (Ibid. VII. 7). Come dunque ha verun di voi gran premura di assicurare l’eterna sua salvazione, mentre passeranno i dì interi, non che le notti, senza che di ciò mai vi ricorra alla mente un leggier fantasma; e laddove anche addormentati starete fra voi pensando alle vanità (conforme disse Michea), alle caccie, a’ giuochi, a’ festini, a’ balli, agli amori, alle commedie, alle giostre; Et cogitatis inutile in cubilibus vestris (Mich. II. 1); neppure desti vi sentirete una sola volta rapire violentemente i pensieri al Cielo?

III. Benché fermate, ché il non pensare mai punto all’anima propria ne denota veramente una poca sollecitudine; ma più ne denota, s’io non erro, il pensarvi, e non farne caso. E non vegg’io chiaramente che il suo servizio è quello che vieti posposto ad ogni altro affare, e quasi ch’egli sia fra tutti o il men grave o il men gradito, si rigetta a far sempre in ultimo luogo? Sì, sì, che il veggo, ed oh così avess’io occhi da piangerlo, come gli ho da considerarlo! Sa talun di voi molto bene di aver la coscienza carica di peccati, lo conosce, lo intende; e però un dì ripensando seco a’ gran rischj che a lui sovrastano, si sente al cuore una ispirazion pungentissima che gli dice: Va, miserabile, va a ritrovare il tal Sacerdote, e confessati: vade, ostende te Sacerdoti (S. Luc.. V. 14). Che risponde egli? Orsù, di certo io risolvo di confessarmi. Ma quando? Il dì d’oggi? Oggi io mi ritrovo invitato ad un tale ameno diporto: il farò dimani. È convenevole questa mattina udir messa. L’udirò; ma se avanzi tempo dappoiché avrò ragionato a quell’avvocato per le mie liti. È salutevole questa mattina ire alla predica. Vi andrò; ma se avanzi tempo dappoiché avrò riscosse da quel mercatante le mie ragioni. E così andate pur discorrendo nel resto, sempre ciò che spetta all’anima si vuol fare, se avanzi tempo: In crastinum seria. E cotesta voi riputate che sia premura? Era Eliezer, famoso servo di Abramo (Gen. XXIV), dopo un disastroso viaggio, arrivato a Naéor, città di Mesopotamia, per ivi riportar dalla casa di Batuele qualche onorevole sposa al giovine Isacco. E già conosciuto e raccolto, com’è costume, nell’amorevolissimo albergo, gli vengono tutti intorno per fargli onore; e chi vuol trargli gli arnesi, e chi vuole introdurlo alle stanze, e chi, considerandolo macero dal cammino, corre prontamente ad arrecargli alcun rinfresco, finché si appresti da cena: Et appositus est panis in conspectu ejus( Gen. XXIV. 33). Che credete voich’egli faccia a tali apparecchi? Piano (grida) piano, signori, non vi affannate, perch’io vi giuro che non gusterò qui boccone, s’io non vi avrò prima esposte le mieambasciate: Non comedam, donec loquar sermone meos (Ibid.). E così in piedi, prima di deporre ancor gli abiti di campagna,prende a fare una lunghissima diceria, nella quale tutta minutamente racconta la serie de’ suoi trattati, i desiderj di Abramo, le qualità di Sara, le preminenze d’Isacco, le ricchezze abbondevoli di lor casa, gli abboccamenti da sé pur dianzi casualmente tenuti d’intorno al pozzo con la cortese giovanetti Rebecca, l’acqua che da lei ricevette, i regali che a lei donò. Che più? In quel primo congresso volle così, com’è gli avea cominciato, non sol disporre, ma interamente conchiudere il parentado, e fermarle nozze; né prima restò di dire, che non udisse: En Rebecca coram te est, tolle eam, et sit uxor domini tui(Ibid. XXIV. 51). Ma ch’hai paura, per tua fè, nobil servo? che il tempo fugga? che l’opportunità ti abbandoni? o pur che stiasi già da’ parenti in trattato di dar Rebecca ad altrui? So che di ciò tu non temi. Aspetta dunque, ristorati prima un poco, gradisci i complimenti. soddisfa alle accoglienze, e dipoi tu di ciò che ti sei posto in cuore, quando, già riposato e già fresco, potrai però negoziare con maggior agio. Che il servo aspetti: Ah non permette a lui ciò la sollecitudine che ha di compire le commessioni a lui date dal suo signore. Quel che preme più, dee premettersi in primo luogo; e però ch’egli si ricrei? ch’egli si cibi? falso, falso: Non comedam, donec loquar sermones meos. In hoc ostendit(così commenta avvedutamente il Lirano), in hoc ostendit habere se negotium sibi impositum Cordi. (in Gen. c. 24). Or, se ciò è vero, giudicate voi se dirsi sollecitudine quella che usate voi per l’anima vostra, mentre non solamente la posponete ad un necessario ristoro del vostro corpo, ma a’ passatempi inutili, a’ giuochi vani, a’ trattenimenti da scherzo. Echi è di voi che giammai dica tra sé: io questa mane son caduto in peccato; orsù dunque non comedam, finché io prima non abbia vomitato dal cuore sì rio veleno, e non mi sia confessato: io ho frodata a quel poverino la sua mercede; non comedam, finch’io prima non l’abbia tratto di angustie col soddisfarlo: io ho macchiata a quell’emolo la sua fama; non comedam finché io prima non gli abbia risarcita l’ingiuria con ritrattarmi: io ho violate quelle ragioni ecclesiastiche, ed ho usato al mio Prelato un tal atto d’irriverenza, di fasto, di contumacia; non comedam adunque, non comedam finch’io non sia prima andato ad umiliarmigli, a protestare l’errore, a propor l’emenda: chi è mai, dico, o miei signori, tra voi, che così proceda, e che non anzi riserbi ad aggiustar le partite della coscienza in ultimo luogo, e quando avrà già soddisfatto alle obbligazioni del mondo, a’ capricci dell’appetito?

IV. Ma, stolto me, che dich’io? Non è forse vero che molti una tal cura rigettano alla vecchiaia, ed allora dicono di voler provvedere all’anima loro, quando già languidi la terran su le labbra, e saran vicini a spirar l’estremo fiato? Qual dubbio adunque che leggerissima n’è la sollecitudine, per non dire ch’ella è minima, ch’ella è nulla? Non già così procedete negli altri affari. Si dee collocare una figliuola in matrimonio onorevole? si collochi quanto prima. Si deve procacciare alla famiglia una preminenza fastosa? procaccisi quanto prima. Si devon dilatare i poderi? dilatinsi quanto prima. Si devon terminare le liti? si terminino quanto prima. Si deve stabilire la eredità? stabiliscasi quanto prima. E perché tanto di fretta? Non potreste anche alla vostra morte rimettere tali cure? Potreste, qual dubbio c’è? ma voi non volete, perché  per queste, dite voi, si richiede una mente libera, tempo lungo, trattati attenti, diligenze speciali; laddove per salvar l’anima è talor a molti bastato un momento solo. Ah Cristiani! ed è possibile lasciarsi uscir di bocca sì gran follie! Oh detti detestabili! oh sensi enormi! oh risposte insoffribili in uom fedele! Ma su, concedasi che sia così come dite, perché io non voglio deviar dal proposito principale ch’ho per le mani. Non potete però negarmi che il riserbare la salvezza dell’anima al passo estremo non sia per lo manco un cimento molto arrischiato, e il qual non a tutti riesce a un modo, ma se sortisce in uno, fallisce in cento. Impossibile non est in extremis habere veram pœnitentiam: ciò si dia per verissimo,dice Scoto, dottor sì illustre (in 4 sent. dist.10): hoc tamen difficillimum est, et ex parte hominis, et ex parte Dei. Ex parte hominis,perché è più indurato nel male  ex parte Dei, perché è più irritato allo sdegno. Qual contrassegno però di sollecitudine vi par questo, voler piuttosto avventurare il buon esito della vostra eterna salute, ed esporlo a rischio, che avventurare o il matrimonio della figliuola, o le preminenze della famiglia, o i poderi, o le liti, o l’eredità, quasi che non sia principio indubitatissimo quello di santo Eucherio, che summas sibi sollicitudinis partes salus, quas summa est, vindicare debet(ep. 1). Non già fu tale l’insegnamento che die il prudente Giacobbe (Gen. XXXII.). Uditelo, ch’è divino.Tornava egli con tutta la sua famiglia a ripatriare nel paese di Cana, dond’era stato spontaneamente già esule da venti anni, afin di sottrarsi al grave sdegno implacabile di Esaù, suo fratel maggiore. Quando ecco videsi non lungi ornai dalla patria venire incontro questo suo fratello medesimo tutto armato, con dietro un seguito di quattrocento suoi bravi. Che però il misero ebbe sospetto che quegli, ricordevole ancor delle antiche offese, venisse a prenderne tarde sì le vendette, ma tanto ancora più dolorose e più dure, quanto che non sarebbero or più cadute sopra del solo offensore, ma sopra ancora e delle sue femmine amate,e de’ suoi pargoletti innocenti. Che fece adunque Giacobbe a così gran rischio? Bipartì subito la famiglia in più file ad imitazione di un piccolo squadroncino. Mise alla testa le due schiave Baia e Zelfa, co’ quattro figliuoletti che gli erano d’esse nati; appresso con li suoi sette parti collocò Lia; e Rachele la bella egli pose in ultimo, col vezzosetto Giuseppe, ch’era il solo germoglio da lei fiorito. Ora addimando: che pretese egli mai con tale ordinanza? di venire alle mani? di dare all’armi? o di sostenere almen l’impeto di Esaù con virtù maggiore? Ma che poteva un volgo imbelle di femmine e di fanciulli contra un nervo di sgherri, che sol veduti bastavano a por terrore? Ben conobbe adunque Giacobbe, che a lui non era possibile di resistere. Però,se fosse convenuto perire, volle almeno procedere con riserbo, e non esporre tutte egualmente a pericolo le persone, che non erano tutte egualmente care. Meno care gli erano le schiave; però si doveva convenir ad esse incontrare le prime furie: più delle schiave da lui stimata era Lia; e però più studiarsi di assicurarla: e più di Lia gradita gli era Rachele; e però più si adoperò di difenderla. Posuit ancillas in principio, udite l’Oleastro egregio commentatore (in cap. Xxxiii. Gen. ann. ad 1. 1), ut scilicet iram fratrisminus diìectæ acciperent prius: quo docuitminus dilecta prò conservatione eorum, quæmagis diliguntur, esse periculis objectanda.Or, s’è così, che poss’io dunque mai dire, o Cristiani miei, quando io considero come l’anima vostra è quella appunto che da voi viene avventurata la prima in qualunque rischio, ed a cui tocca di stare alle prime frontiere, alle prime file? Ella, ella tien presso voi le parti di ancella; alla qual però si appartiene di andare a perdersi, perché si salvi l’onore, perché si salvi la roba, perché si salvino i trattenimenti profani, perché i figliuoli, perché i parenti, perché gli amici, perché le femmine impure, perché tutti anch’essi si pongano prima in salvo i corsier da maneggio e i cani da caccia. Oh sciocchezza! oh insania! o portento! oh bestialità! Furore Domini plenus sum, compatitemi se io mi sfogo, furore Domini plenus sum: non ne posso più. Lavoravi sustinens; e però come un Geremia (VI. 11) sono ancor io necessitato di romperei freni allo zelo, quasi che già noi siam giunti al sommo di quello ch’io vi doveva dimostrare per deplorabile.

V. Eppur v’è di più. Perché finalmente espose, è vero, le proprie schiave Giacobbe le prime ai pericoli; ma nondimeno non le prezzò così poco, che l’esponesse a’ pericoli volontarj, ma solo agl’inaspettati, agl’inevitabili; perché non fu esso che uscisse contra Esaù, ma fu Esaù, il quale uscì contro d’esso; e però non gli era possibile di schivarlo. Ma voi molto peggio di schiave tali trattate l’anima vostra; mentre non solo la esponete la prima a que’ pericoli che non volendo incontrate, ma la mandate ad incontrare i pericoli; e, quasi abbiate vaghezza d’ogni suo danno, là v’inoltrate, dove il parlare è più osceno, dove il guardare è più lubrico, dove il conversare è più reo, dove i demonj, diciam così, dove i demonj, non già nascosti in agguato, ma a guerra aperta, ma ad armi ignude combattono contro l’anime, per condursele in perdizione. E ciò sarà punto averne, non dirò più sollecitudine alcuna, ma almen riguardo?

VI. Povera madre del pellegrinetto Tobì! Lo aveva ella consegnato in mano ad un Angelo, benché nel vero non giudicato da lei se non per un uomo di segnalata bontà e di rara saviezza: contuttociò, troppo del figliuolo gelosa, si pentì subito. Né interamente fidandosi, ch’ei non fosse per incontrar nella via qualche gran disastro: Flebat irremediabilibus lacrymis; sospirava, singhiozzava e gemeva, così dicendo: Heu, heu me fili mi, ut quid te misimus peregrinavi, lumen oculorum nostrorum, baculum senectutis nostræ, solatium vitæ nostræ, spem posteritatis nostræ? Omnia simul in te uno habentes(belle parole!) omnia simul in te uno habentes, non te debuimus dimittere a nobis (Tob. X, 4, 5). No, no, che mai non dovevam porti a rischio, mandandoti da noi lungi, mentre in te sta riposto ogni nostro bene; no, no, che mai non doveam porti a rischio. Noi fidarti all’altrui custodia? noimetterti in altrui mano? Ah bene, abbiamo dimostrato, o figliuolo, di non conoscerti. e di non sapere che niente abbiamo nel mondo fuori di te, e che in te solo abbiam tutto; Omnia simul in te uno habentes, non te debuimus dimittere a nobis. Cosi ululava la misera a ciascun’ora. Né valeva che il vecchio marito la rincuorasse con accertarla, che fedelissimo era il custode assegnato al figliuol diletto, e che però potevano in lui quietarsi, in lui riposare. Tace, et noli turbati; satis fidelis est vir ille, cum quo misimus eum (Tob. X. 6). Ciò, dico non valea punto; perch’ella però non paga, nessun sollievo ammetteva, nessun conforto; nullo modo consolari poterat (Ibid. X. 7). Anzi ogni dì se ne usciva quasi fanatica fuor di casa, girava tutte le strade, visitava tutte le porte, che a lei potevano rendere il suo figliuolo; e talor anche su qualche colle più rilevato fermatasi alla campagna, quivi d’ogni intorno guardava per ansietà di potere un giorno dir: eccolo: ut procul videret eum, si fieri posset, venientem (Ibid.). Né ancor vedendolo, rinnovava i lamenti, accresceva le grida; e così a casa sconsolatamente ridottasi in su la sera: Ah di sicuro (tornava a dir) che il mio figlio è pericolato ! Chi sa se ‘l misero ora di me sua madre non chiami, caduto da qualche balza! Chi sa che ‘l misero ora di me sua micidiale non dolgasi, sbranato da qualche, fiera? Amatissimi miei signori, è tanta la gelosia, la qual dovrebbe aver sempre ciascun di noi dell’anima propria, che neppur fidare ad un Angelo la dovremmo, se noi conoscessimo apertamente per tale, e se non ne avessimo ben ravvisate le spoglie, quantunque splendide, per veder se sotto ascondessero qualche frode, nolite omni spiritui credere (quest’era appunto il consiglio di S. Giovanni in negozio di tanto peso), Nolite omni spiritui credere; ma chiaritevi prima s’egli è da Dio: sed proba te spiritus si ex Deo sunt (1 Jo. IV. 1). Che dovrò dunque io dire qualor contemplo che tanti e tanti la vanno a mettere in mano al demonio stesso, e che il demonio le assegnano per sua guida nel pellegrinaggio mortale, lasciandosi come ciechi da lui condurre tra orribili precipizj a feste di amore, a visite d’amore, a veglie d’amore, a ridotti palesi d’impurità, e, per dirla in una parola, in tutte le occasioni più prossime di dannarsi? Dovrò dir io che questi abbiano alcun affetto all’anima propria? che la curino? che la stimino? che tengano in lei riposto ogni loro bene? Ah, se ciò fosse, non la metterebbono mai, così disperatamente in mano al demonio. Anzi nemmen tra gli uomini, no, nemmeno tra gli uomini l’affiderebbero certamente ad ognuno così alla cieca: Non omni spiritui crederent. Ma che? se avessero a procacciarsi un compagno, guarderebbero prima com’egli fosse nimico al vizio; se avessero ad affezionarsi ad un padrone, mirerebbero prima com’egli fosse favorevole alla virtù; tra i confessori si cercherebbe il più dotto, tra i teologi si preferirebbe il più pio, tra i consiglieri si amerebbe il più schietto; e così sempre si procurerebbe di metterla più in sicuro che si potesse. Ma ohimè! che molti fanno appunto l’opposto; e se mi è lecito di usare in ciò le parole di Geremìa (XII. 7); dant dilectam animam suam in manu inimicorum ejus; danno la lor anima in mano ai nemici d’essa; perciocché non solo comunemente più piacciono o i compagni più liberi, o i padroni più licenziosi; ma molti ancora, se la lor coscienza hanno a porre nelle provvide mani di un confessore, ne cercan uno che men avveduto gli palpi ne’ loro delitti; se in quelle di un teologo, lo vogliono scorretto, perché li assecondi; se in quelle di un consigliere, lo vogliono interessato, perché gli aduli. Dant dilectam animam suam (oh cosa orribile!), dant dilectam animam suam in manu inimicorum ejus. E questa è sollecitudine di salvarsi?Ahimè! che questa par piuttosto un’ansia frenetica di perire ad altrui dispetto, ed un convertirsi gli ajuti in nocumenti, i soccorsi in rischj, e gli antidoti stessi in più rio veleno. Si dolea Salomone ne’ suoi Proverbi, trovarsi alcuni, i quali giungono a tanto di stolidezza, che tesson reti, che tendon lacci contro dell’anima propria: Moliuntur fraudes contra, animas suas (Prov. 1. 18). Chi però son questi, chi sono, se non quei miseri, de’ quali or noi ragioniamo, cioè coloro che si affaticano di aggirar sé medesimi e d’ingannarsi, con darsi a credere di poter vivere in coscienza sicuri, sul detto di uomini che non hanno coscienza? Sconsigliati che siete! Se quelli prezzano poco l’anima propria, come volete che stimino assai la vostra? Ma questo appunto è (come io dissi) ciò che da voi si pretende: dar la vostr’anima in mano a chi non la curi, lasciarla pericolare, lasciarla perdere, lasciarla andare in rovina, perché sempre più si verifichi ciò ch’è scritto nella Sapienza, che l’uomo ormai non è altro che un crudo micidial dell’anima propria: Homo permalitiam occidit animam suam (Sap. XVI, 4). Oh me infelice! oh me misero! e chi fu mai che agli occhi miei dia due torrenti di acqua sì impetuosi, com’io dovrei di presente averli, per piangere un tal furore? Ora, ora è tempo che facies meo intumescat a fletu col santo Giobbe (XVI, 17); o veramente che insieme con Geremia (IX, 18), deducant oculi mei lacrymas, et palpebræ memæ defluant aquis. E che vi pare, uditori? Vi siete fissi mai di proposito a penetrare che voglia dire esser beato in eterno,o esser tormentato in eterno? che voglia dire un’eternità di contento, o un’eternità di rancore? che voglia dire un paradiso, ove eternamente si giubila, o un inferno, ove eternamente si freme? Che dite, Cristiani, che dite? Vi siete immersi mai di proposito in tal pensiero? se non ci avete finora mai posto mente, andate vi dirò, quanto prima,con Isaia (XXVI, 20), andate, andate, chiudetevi in una stanza: Vade, populus meus, intra in cubicula tua, claude ostia tua: non più su l’altre faccende, no, super te: e quivi, a finestre serrate, a fiaccole spente,fatevi un poco d’avvertenza speciale, e dipoi tornate a parlarmi, ch’io son sicuro che tornerete come coloro che uscivano già dall’antro del famoso mago Trofonio (Paremiogr. 457); ch’è quanto dir, come attoniti, come assorti, e senza poter mai più prorompere in un sorriso. Ma se ci avete pur qualche volta pensato, com’io son certo,qual trascuraggine più luttuosa di. Questa si può mai fingere, che avventurare per verun capo un negozio di tanto peso? non sentirne premura? non averne ansia? Non v’accorgete che qui si tratta del vostro, si tratta del ben vostro, si tratta del danno vostro, si tratta d’un affare che tutto appartiene a voi? E se voi cadete, che non piaccia a Dio, nell’inferno, chi sarà mai sì pietoso, chi sì potente, che ve ne tragga?Assalon, rilegato in un duro esilio, ebbe il favorito di Davide, che impetragli, benché con qualche malagevolezza, il ritorno (2 Reg. 14). Giuseppe, racchiuso in una oscura prigione, ebbe il coppiere di Faraon che.gli ottenne, quantunque dopo alcuna dimenticanza, la libertà (Gen. XLI). Ed un Geremìa, gittato già da’ malevoli nel profondo di una cisterna fangosa, a dover quivi stentatamente morir di freddo, di fame, di fracidume, di puzzo, ebbe un Abdemelecco, che, mosso a pietà di lui, gli calò dall’alto una fune, alla quale egli attenendosi, su ne venne (Jer. XXXVIII). Ma voi chi avrete, che tal ajuto vi porga ad uscir dagli abissi: De altitudine ventris inferi? (Eccli. LI, 7). Qual fune si troverà, che dal cielo giunga sino a quel baratro di tanta profondità? Qual braccio, che vi regga? qual forza, che vi sollievi? Qui descenderit ad inferos, non ascendet (sentite bene, che son parole di Giobbe), nec revertetur ultra in domum suam (Job. VII, 9 et 10). Chi va giù, non torna più su; chi va giù, non torna più su: Qui descenderit, non ascendet; qui descenderit non ascendet. E voi neppur ci pensate? Ah! fili, fili, io vi dirò dunque afflitto con l’Ècclesiastico (X. 31) / fili, serva animam tuam, et da illi honorem secundum meritum suum. Se io stamane con tante sorte di autorità e di ragioni preteso avessi di persuadervi una cosa di mio privato interesse, come sarebbe, che qui veniste con gran concorso alla predica, che mi approvaste, che mi applaudeste, qualche mercé riguardevole ai miei sudori, potreste avermi (qual dubbio c’è?) per sospetto, e non darmi fede; ma io per me non intendo muovermi ad altro, se non che solo ad avere qualche premura di voi medesimi, o almeno qualche pietà: Miserere animæ tuæ, miserere, (Eccli. XXX, 24). E che poss’io dunque promettermi mai da voi, se ciò non ottengo? Che ne potrò riportare? a che potrò indurvi? Non plane durius vobis dici potest, io vi rinfaccerò con Salvia no (1. 3 ad Eccl.), nihil tam ferum, nihil tam impium, a quibus impetrari non potest, ut vos ipsos ametis? Che non amiate i vostri emoli, vi compatisco: che non amiate i vostri nemici, vi scuso; ma che non amiate voi stessi? chi può soffrirlo? Peccantem, dirò col Savio, peccantem in animam suam, quis justificabit? (Eccli. X, 32). Deh, se d’altronde non sapete far degna stima della vostra anima, vi basti ciò: considerare (come da principio io dicea) quanto il demonio sempre inquieto si adoperi per rubarsela, e quanto d’arti egli però ogni ora tenti ad ingannarvi, a sollecitarvi, a sedurvi, ad assicurarvi. Egli, egli è quegli che ogni altro studio vi fa preporre a quest’uno, che di ragione prepor dovreste ad ogni altro; e però ditemi un poco; quis furor est(e sono parole anche queste di sì gran Vescovo), quis furor est viles a vobis animas vestras haberi, quas etiam diabolus putat esse pretiosas? quis furor est viles a vobis haberi? (Salv. 1. 3 ad Eccl.) S’egli fosse padron del mondo (credete a me) velo darebbe volentierissimo tutto per la vostra anima, conforme a quella: Hæc omnia tibi dabo, si cadens adoraveris me (S. Matth. IV, 9). E voi volete venderla a lui per sì poco? per un piacer momentaneo, per una bellezza fugace, per un interesse leggero di casa vostra, e correrete così per niente a gettarvi, quasi vilissime donnole, in bocca al rospo? Non sia mai vero, uditori, che voi facciate alla vostr’anima un torto così solenne: Ne adducas animæ tuæ inhonorationem(Eccli. 1. 38); ma da quest’ora, rientrando un poco in voi stessi, incominciate ad aver di voi quel riguardo che si conviene, e, come disse nel Deuteronomio Mosè, custodite sollicite animas vestras (Deut. IV. 15).

SECONDA PARTE.

VII. Io non vi voglio negare che questa grave trascuratezza, ch’han gli uomini di salvarsi, finora detta, sarebbe per avventura alquanto scusabile, quando il salvarsi negozio fosse di agevole riuscita; ma fors’egli è tale, uditori, è forse egli tale? Ah voi infelici, se tale è da voi stimato; anzi, oh voi miseri, mentre in materia sì rilevante prendete un error sì grave! Non solo il negozio della nostra eterna salute non è, quale a voi sembra, di agevole riuscita, ma è piuttosto sì lubrico, sì fallace, che, ancora dopo un’immensa sollecitudine, ha tenuto in timore i più eccelsi Santi, spaventatissimi per li tremendi giudizj di quel Signore, il quale riesce, non so come, terribile ancor a quei che gli stan tuttora d’intorno a formar corona: Terribilis super omnes, qui in circuita ejus sunt (Ps. LXXXVIII, 8). –  Sconsolato Girolamo! che non fec’egli per concepire in sé stesso qualche mediocre fidanza di affar sì grande! in quanto folti boschi si ascose! in quanto cieche caverne si seppellì! quanto aspra guerra sino all’età più decrepita seguì a fare contra i suoi sensi! Eppur che dicea? Ego, peccatorum sordibus inquinatus, diebus ac noctibus operior cum timore reddere novissimum, quadrantem(Ep. 5). Un san Gregorio che gemiti non metteva sul trono a lui sì spinoso del Vaticano! (1. 19. mor. c. 9) Un san Bernardo che ruggiti non dava dagli orrori a lui sì diletti di Chiaravalle! (1. 6,de int. domo) E un santo Agostino oh come palpitante diceva di temer l’inferno! Ignem æternum timeo, ignem aeternum timea (in Ps. LXXX). Né a cacciar fuori un tal timore bastava tanto amor di Dio, che avvampavagli dentro al petto. Ma che dich’io sol di questi? Venite, venite meco sino a quell’orrida grotta di solitarj, la quale, per l’aspro vivere che veniva da tutti menato in essa, s’intitolò la Prigione de’ penitenti, ma meglio potea dirsi l’Inferno de’ convertiti. Oh là dentro sì che faceasi daddovero a placar lo sdegno celeste! Stavano alcuni tutta la notte diritti orando al sereno, altri ginocchioni, altri curvi; ma per lo più con le mani tutti legate dietro le spalle, a guisa direi, perpetuamente tenevano i lumi bassi, né si riputavano degni di mirare il cielo. Sedevano altri in terra aspersi di cenere, sordidi, scarmigliati: e, fra le ginocchia tenendo celato il volto, luctum unigeniti faciebant sibi, planctum amarum (Jer. VI, 26); ch’è quanto dire, come suol piangersi sopra un amato cadavere, così ululavano sopra l’anima loro, e la deploravano. Altri percuotevansi il petto, altri si svellevano i crini; ed altri, putrefatte mirandosi le lor carni per gli alti strazj con li quali le avevano macerate, parea che solo in questa vista trovassero alcun sollievo, e si confortassero. Che trattar ivi di giubili? che di scherzi? che di facezie? Pietà, clemenza, compassione, perdono, misericordia: questi erano i soli accenti che per quelle caverne si udivano risuonare; se pur si udivano, mercé i singhiozzi, mercé i ruggiti che ogni altro suono opprimevano, né  lasciavan altro distinguere, se non pianto: quivi prolissi i digiuni, quivi brevissimi i sonni, quivi niuna cura, quantunque moderatissima, de’ lor corpi. Avreste veduti alcuni, per la gran sete lungamente raccolta, trar gravi aneliti, e tenere a guisa di cani la lingua fuori, tutta inaridita, tutt’arsa. Altri si esponevano ignudi di mezzo verno alle notturne intemperie di un ciel dirotto, altri si attuffavan ne’ ghiacci, altri si ravvolgevano tra le nevi; ed altri, i quali non avean animo a tanto, pregavano il Superior, che almen gli volesse caricati di ferro tenere in ceppi; né tenerveli solo per alcun dì, ma stabilmente, ma sempre, ma finché fossero dopo morte condotti alla sepoltura. Benché qual sepoltura diss’io? Non mancavano molti di supplicare con ansia grande, che neppur questo si usasse loro di pietà; ma che, ancor caldo, fosse il loro cadavere dato ai corvi, o gettato ai cani; e così spesso veniva loro promesso e così attenuto, non sovvenendoli prima, per sommo loro dispregio, neppur di un salmo, non che di alcun più onorevole funerale.

VIII. Or chi non crederebbe, uditori, che in una vita, qual costoro menavano, cosi santa, dovessero almanco avere questo conforto, di tener quasi per certa la loro salute, o almen di averne di lunga mano maggiore la probabilità che ‘l sospetto, a speranza che l’ansietà? Eppure udite ciò che, qualora io vi penso, mi colma tutto di profondissimo orrore. Tanto era lungi che però punto venissero que’ meschini ad  assicurarsi, ch’anzi quando alcuno di loro giaceva ornai moribondo sopra la cenere (ch’era il letto ove amavano di spirare) se gli affollavano tutti a gara d’intorno più che mai mesti ; Circumstabant illum æstuantes et lugentes, ac desiderio pleni; e così con molto tremore lo interrogavano: ebben, fratello, che ti pare ornai poter credere di te stesso? Quid est, frater? Quorum modo tecum agitur? quid dicis? quid speras? Quid suspicaris? Hai finalmente ottenuta quella salute, la quale tu ricercasti con tante lagrime, oppure ancora ne temi? Percepisti ne ex labore tuo quod quærebas, an non valuisti?Che ti aspetta^? il reame,o la servitù? lo scettro, o la catena? Il Cielo, o l’Inferno? Ti par di udire una voce amabile al cuore, la qual ti dica: Remittuntur tibi peccata tua (S. Luc. V, 20), o li par anzi di ascoltarne un’orribile, la qual gridi: Ligatis manibus et pedibus ejus, mittite eum in tenebras exteriores? (S. Matth. XXII, 12). Che dici, o fratello, che dici? Quid ais, frater, quid ais? Beh, ti preghiamo,scuoprici un poco il tuo stato, perché dal tuo possiam dedurre qual sia per essere il nostro. A queste tanto affannose interrogazioni quali riputate che fossero le risposte rendute da’ moribondi? È vero, che alcuni d’essi, sollevando i lor occhi sereni al cielo, benedicevano Dio, e così dicevano: Benedictus Dominus, qui non dedit nos in captionem dentibus eórum (Ps. CXXIII, 6); ma, ohimè,quanti all’incontro rispondevan di pendere ancora in forse! Forsitan pertransibit animanostra aquam intolerabilem (Ibid. 5), quasi dicessero, speriamo di passare, speriamo; ma la fiumana è grossa, ma l’acqua è torbida, ma grave sino al fine è il pericolo di annegarsi. E quel ch’è più, non mancavano ancor di molti, i quali prorompendo dolenti in un alto gemito: , esclamavano, ; né dicevan altro; e pregati a piegarsi più apertamente: soggiungevano, Væ animæ illi, quæ non servavit professionem suam integram et immaculatam! Guai a quell’anima, la quale non osservò la sua professione intatta ed immacolata; guai alla miseria, guai! Perché a quest’ora si accorgerà ciò che di là se le appresti: Hæc enim hora sciet quid illic præparatum sit. Lo so, signori cari, che un tal racconto può avere a molti sembiante di favoloso; mercecché tale amerebbesi ch’egli fosse. Ma non accade no lusingarsi troppo è vero. Riferì; pur tutte queste cose chi videle con gli occhi propri, chi le udì con le proprie orecchie, San Giovanni Climaco (De accurata pœn. Or. 5), famosissimo abate del monte Sina, e le riferì quando appunto quelle avvenivano, cioè quando ognuno rimproverare il potea di grandissimo temerario, se nulla di suo capo vi avesse o alterato, o aggiunto, non che mentito.

IX. Ma se ciò è vero, che vuol dir dunque stimar noi soli sì facile, o sì sicuro il negozio della salute, che non ne abbiamo sollecitudine alcuna, non altrimenti che se ‘l tenessimo in pugno? Unde nobis ista dissimulatio est, fratres mei? vi dirò addolorato

con san Bernardo: unde hæc tam perniciosa tepiditas? unde hœc securitas maledicta?(Serm. in Job.) Ah ch’io non posso riferir ciò ad altra cagione, se non ad una in considerazion profondissima che ci accieca, e neppur ci lascia, come dice il Savio, veder que’ precipizj che abbiamo dinanzi agli occhi: Via impiorum tenebrosa: nesciunt ubi corruant (Prov. IV. 19). Però che dobbiamo fare? A me lo chiedete? Chiedetelo a qualcun altro, ch’io, quanto a me, miglior consiglio non potrei darvi di quello ch’ho per me preso. Se a me volete rimettervi: andate, vi dirò, rivoltante le spalle al mondo: e se ancor siete con Lot in tempo a fuggirvene di Pentapoli, non tardate, perché neppur gl’innocenti possono vivere a lungo andare sicuri fra’ peccatori. Ma se pur di tanto eseguire o non vi da l’animo, o non vi riman libertà, perché non risolvervi a frequentar d’ora innanzi ogni settimana quei sacramenti, che sono i mezzi più agevoli alla salute?Perché non deporre tanta alterigia nel tratto? Perché non iscemar tonto pascolo all’ambizione? Perché non mettere ormai qualche freno stretto a sì laide carnalità? Se non fate ciò, che volete ch’io vi risponda?Che voi siete punto solleciti di salvarvi? No, che non siete, no; ve lo dico sì apertamente, ch’io non ho punto a temer che non m’intendiate. Temer ben poss’io piuttosto, che voi però non pigliate a sdegno di udirmi. Ma che posso io fare? Se non mi voleste udir voi, a queste immagini mi rivolterei, a questi marmi, a questi macigni, perché tutti fossero innanzi a Dio testimonj nel giorno estremo, ch’io non ho mancato al mio debito di parlarvi con fedeltà. Benché né anche ho io bisogno di tali testimonianze. È qui in persona quel Giudice vivo e vero, che mi dovrà giudicare, ed Egli mi ascolta. Però, mio Dio,voi sapete quanto di cuore io desideri la salute di questo popolo, illustre popolo vostro.Felice me, s’io potessi dar per esso le viscere, dare il sangue, come l’avete voi stesso dato per me! Ma giacché tanto io non posso, non mancherò almen di questo, e ve lo prometto, di dirgli il vero. Voi fate ch’esso con quel buon affetto il riceva, con che io gliel predico. Io parlerogli alle orecchie, e voi frattanto favellategli al cuore, lo schiarirò gl’intelletti, e voi frattanto infiammate le volontà. Voi dovete essere quegli, che con amorosa violenza tiriate a voi quei che da voi si dilungano. Io ch’altro posso, se non che, a guisa di quei fanali che scorgono fra le tenebre i naviganti, far loro lume? A voi sta spirare a prò loro quella sant’aura, che prosperamente conducali salvi in porto.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.