L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (10)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (10)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°)

P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov. Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA INABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO II

La nostra giustificazione per mezzo della grazia è una vera deificazione. – Come la grazia santificante, sia una partecipazione fisica e formale della natura divina.

I.

Un altro effetto della missione invisibile dello Spirito Santo e della sua presenza in noi è la nostra divinizzazione per mezzo della grazia. « Sarete come dei: Eritis sicut dii », l’antico serpente, l’infernale tentatore, aveva detto ai nostri primi genitori per portarli a raccogliere il frutto proibito. « Dal giorno in cui mangerete questo frutto, i vostri occhi si apriranno e sarete come dei, conoscenti il bene e il male » (Gen. III, 5). E, cedendo ad un orgoglio insensato, portarono il frutto fatale alle loro labbra, e i loro occhi si aprirono effettivamente, ma per contemplare con orrore l’abisso dove la loro disobbedienza li aveva appena precipitati. Al posto della scienza universale e della divinizzazione promessa, essi persero per se stessi e per tutti i loro posteri la giustizia originaria nella quale erano stati creati, nonché le magnifiche prerogative che ne erano la sequela. In seguito a questa terribile caduta, l’uomo nacque peccatore; ancor prima di aver potuto commettere una colpa personale, egli è, per il semplice fatto della sua discendenza da Adamo, un nemico di Dio e un figlio dell’ira, cosicché chi ci genera ci dà la morte, perché ci trasmette solo una natura disonorata, dimezzata, priva della grazia santificante, che è la vita della nostra anima. Aggiungete a questa le altre conseguenze del peccato originale, l’ignoranza, la concupiscenza, il dolore e la necessità di morire, e avrete un’idea della triste eredità che troviamo quando entriamo in questo mondo. Ma, oh meraviglia della bontà divina! Questa divinizzazione, la cui promessa era solo un’esca sulle labbra di satana, ci viene proposta ancora una volta, ma questa volta da Dio stesso, non solo come qualcosa che possiamo legittimamente pretendere, ma anche come una meta che noi dobbiamo raggiungere. Ed è per renderci possibile questa suprema esaltazione, è per meritare questo insigne beneficio, che il Figlio di Dio si è degnato di umiliarsi fino a noi e di rivestirsi della nostra umanità. « Si è fatto uomo – dice sant’Atanasio – per farci come dei. » (S. Ath., serm. IV, contra Arianos.). « Egli è disceso – aggiunge sant’Agostino – per farci salire; e, pur conservando la sua natura, ha voluto prendere la nostra, affinché, pur rimanendo noi stessi nella nostra natura, potessimo partecipare alla sua: con questa differenza, però, che la partecipazione alla nostra natura non lo ha fatto decadere, mentre la comunicazione nella sua natura ci eleva singolarmente. » (S. Aug., Epis t. CXL, ad Honoratum, cap. IV, n. 10). Che se, abbagliati da tanta grandezza, qualcuno non può accettare il pensiero che una semplice creatura possa essere chiamata da Dio a destini così alti, gli diremo con san Giovanni Crisostomo: « Esitate a credere che tali onori possano essere di vostra condivisione? Imparare dall’abbassamento del Verbo Incarnato per ammettere ciò che vi viene insegnato sulla vostra sublime dignità.  Perché, infine, per quanto la ragione umana possa essere arbitra di queste cose, è molto più difficile che un Dio divenga uomo, che un uomo sia costituito figlio di Dio. Quando sentite dire allora che il Figlio di Dio è diventato figlio di Davide e di Abramo, non dubitate più che voi, figlio di Adamo, non dobbiate essere figlio di Dio.  Perché non è invano e senza risultato che il Verbo sia sceso così in basso, ma questo avvenne perché Egli doveva innalzarci alla sua altezza. Egli è nato secondo la carne per farvi nascere secondo lo spirito; è nato dalla Donna perché voi non siate più semplicemente figlio della donna » (S. Joan. Chrys., Homil. II in Matth. n. 2.). – Per quanto sorprendente possa sembrare questa dottrina della nostra esaltazione soprannaturale, essa è nondimeno una verità di fede, insegnata dal Principe degli Apostoli in termini così chiari, sì formali e sì espliciti da non lasciare il minimo dubbio. « Per mezzo di Gesù Cristo – egli dice – Dio ci ha comunicato le grandi e preziose grazie che aveva promesso, rendendoci partecipi della natura divina: Ut per hæc efficiamini divinæ consortes naturæ » (2 Petr. I. 4). Questa partecipazione della natura e della vita di Dio non è altro che la grazia santificante, cioé il dono che ci giustifica, ci divinizza allo stesso tempo, e questa giustificazione è una vera divinizzazione. – Questo è ciò che il grande Vescovo di Ippona esplicita chiaramente. commentando queste parole del salmista: « Io ho detto: Voi siete dei e figli dell’Altissimo »; egli si esprime così: « Chi è che ci giustifica è lo stesso che ci divinizza: Qui autem justificat, ipse deificat, perché giustificandoci, ci rende figli di Dio… Ora, se siamo figli di Dio, siamo per la stessa ragione degli dei, non senza dubbio per via di una generazione naturale, ma per grazia di adozione. Perché unico in effetti è il Figlio di Dio, un solo Dio con il Padre, nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo….. Gli altri che diventano dèi lo diventano per la sua grazia; essi non nascono dalla sua sostanza per essere ciò che Egli è, ma giungono fino a Lui per un beneficio della sua liberalità » (S. Aug., in Ps. XLIX, n. 2). Nessuno sarà sorpreso di sentire i santi Dottori dichiarare che la giustificazione è il capolavoro del potenza divina. San Tommaso, sempre così esatto nelle sue valutazioni, non ha paura di affermare che essa è superiore alla stessa creazione, se non per quanto riguarda il modo d’azione, ma almeno per quanto riguarda l’effetto prodotto; perché l’atto creativo, sebbene di natura esclusivamente divina, porta alla fine solo alla produzione di una sostanza soggetta a cambiamenti, mentre la giustificazione ha come termine la partecipazione alla natura divina, e fa di un peccatore un essere divino, un figlio di Dio, un erede della beatitudine eterna (S. Th., Ia IIæ, q. CXIII, a. 9). Parlando così, l’angelico Dottore si limitava a riprodurre il pensiero di sant’Agostino, che aveva detto già, otto secoli prima: « Giustificare un peccatore è una cosa più grande che creare il cielo e terra; perché il cielo e la terra passeranno, ma la giustificazione e la salvezza dei predestinati non passerà. »  (S. Aug., in Joan. tract, LXXII, n. 3.).

II.

Cerchiamo di penetrare ulteriormente nella conoscenza di questi magnifici segreti e di scrutare, per quanto possibile qui sulla terra, il mistero della nostra divinizzazione mediante la grazia. E innanzitutto, come si opera questa divinizzazione? Con quale meraviglioso processo è inoculata la vita di Dio alla creatura ragionevole? Essa si compie regolarmente attraverso il Battesimo e costituisce una vera generazione che ha per termine una vera nascita. – È questa nuova generazione che viene così spesso menzionata nelle Lettere sante, questa seconda nascita così celebrata dai Padri e così spesso ricordata nella Santa Liturgia: generazione incomparabilmente superiore alla prima, poiché, invece di una vita naturale e tutta umana, ci trasmette una vita soprannaturale e divina; è una nascita mirabile che fa di ciascuno di noi « questo uomo nuovo di cui parla l’Apostolo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità » (Giov. I, 13) generazione tutta spirituale e pertanto vera, il cui principio non è né la carne, né il sangue, né la volontà dell’uomo, ma la libera volontà di Dio: la voluntarie genat nos verbo veritatis (Giac. I, 18); nascita misteriosa che non proviene da un seme soggetto a corruzione, ma da un seme incorruttibile mediante la parola di Dio: Renati non ex semine corruptibili, sed incorruptibili per verbum Dei (1 Petr. I, 23); generazione e nascita altrettanto indispensabili per vivere della vita di grazia, come la generazione e la nascita carnale per vivere della vita della natura – Perché è la Verità stessa che ha detto: « Chi non rinasce dall’acqua e dallo Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio. Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è Spirito » (Givan,. III, 5-6). E dice il Concilio di Trento: « È soltanto a condizione di rinascere in Gesù Cristo che si può essere giustificati, poiché questa seconda nascita è il frutto della grazia che giustifica. » (Trid. Sess. VI, c. 3).  Ma qual è la natura di questo elemento divino e rigenerativo che il Battesimo deposita nelle nostre anime e che ci rende esseri deiformi? In cosa consiste questo principio radicale di vita soprannaturale che un Sacramento ci comunica e che altri segni sacri sono destinati a nutrire, sviluppare e a resuscitare se abbiamo la sventura di perderlo? E poiché questo dono prezioso, causa formale della nostra giustificazione e della nostra divinizzazione, non è altro che la grazia santificante, cos’è la grazia che ci santifica? – Nostro Signore e Redentore Gesù Cristo si degnò spiegarlo un giorno in favore di un peccatore che voleva convertire. Abbiamo già nominato la donna samaritana. Solo che, invece di una definizione colta, che sarebbe rimasta inevitabilmente fraintesa, il buon Maestro approfittò della circostanza che questa donna, venuta a rifornirsi dell’acqua materiale al pozzo di Giacobbe, per poterle parlare della grazia sotto l’emblema di un’acqua misteriosa, dalle proprietà ammirevoli. Egli cominciò chiedendole da bere, perché, secondo il testo sacro, era stanco di camminare ed era l’ora in cui il caldo della giornata era più opprimente; poi, vedendo questa donna sorpresa da una tale richiesta, per il fatto che gli Ebrei non avevano alcun rapporto con i Samaritani, aggiunse: «Se voi conosceste il dono di Dio! Si scires donum Dei! Se voi conosceste il dono di Dio e sapeste chi è Colui che vi chiede di bere, forse voi stessi preghereste ed Egli vi darebbe l’acqua viva » (Giov. IV, 10). Donum Dei, il dono di Dio … questo è davvero il vero concetto della grazia.  Essa è un regalo, quindi qualcosa di gratuito, qualcosa che ci viene concesso senza alcun diritto o merito da parte nostra. È vero che tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che noi siamo, il nostro corpo, la nostra anima, le nostre facoltà, i nostri atti, i nostri beni esterni … tutto, in una parola, ci viene da Dio e può essere chiamato dono della sua liberalità, secondo la parola dell’Apostolo: « Che cosa avete che non abbiate ricevuto? Quid habes quod non accepisti? » (1 Cor. IV, 7). Ma se ogni cosa, ogni perfezione è, nel vero senso, un dono di Dio, non è però “il” dono di Dio. Il dono di Dio per eccellenza, quello davanti al quale tutti gli altri spariscono, è la grazia. La grazia, infatti, è il dono più prezioso, il più magnifico, il più necessario, il più gratuito di tutti i doni. – Ma perché la grazia è paragonata all’acqua? Perché produce spiritualmente tutti gli effetti dell’elemento liquido nell’ordine materiale. L’acqua purifica, rinfresca, disseta e feconda. Purifica ciò che è sporco, e ne restituisce la chiarezza, la lucentezza e la bellezza primaria: simbolo dell’intima purificazione operata dalla grazia, che non solo rimuove le macchie prodotte dal peccato e restituisce all’anima il suo naturale splendore, ma aggiunge alla sua bellezza originaria un fascino incomparabile, che delizia il cuore di Dio e gli strappa queste parole: « Tu sei tutta bella, o mia cara, non c’è macchia in te…. ». L’acqua tempera il calore, raffredda l’atmosfera che un sole ardente aveva trasformato in una fornace, allevia le nostre stanche membra: simbolo della grazia, questa rugiada celeste smorza l’ardore delle passioni e diminuisce gradualmente, senza riuscire a spegnerla però completamente qui sulla terra, la febbre della concupiscenza. L’acqua che disseta e spegne la sete, è immagine della grazia che spegne la sete inestinguibile del cuore umano. Creato per la felicità, l’uomo la cerca costantemente con insaziabile avidità, e non c’è nulla che non faccia per raggiungerla. Ma troppo spesso, purtroppo, cerca la felicità nei beni terreni e passeggeri, nei piaceri sensibili che stimolano solo la sua sete, invece di placarla. Questo è ciò che Nostro Signore voleva far intendere alla samaritana quando, mostrandole l’acqua materiale, figura dei beni effimeri di questo mondo, le diceva: « Chiunque beve quest’acqua avrà ancora sete; ma chi beve l’acqua che Io gli darò non avrà mai più sete » (Giov. IV, 13). Ma cosa significa questa espressione di acqua viva, aquam vivam (Giov. IV, 10), quando il Salvatore la usa per designare la grazia? Ordinariamente – dice sant’Agostino – si dà il nome di acqua viva, in opposizione all’acqua stagnante delle cisterne o delle paludi, all’acqua che sgorga dal terreno, che scorre, che si muove, pur rimanendo in comunicazione con la sua sorgente, e che offre così l’aspetto della vita. Se quest’acqua, pur provenendo da una fontana, viene raccolta in un serbatoio, se il suo flusso viene interrotto, viene separata dalla sorgente, non può più essere chiamata acqua viva. (S. Aug., In Joan., tract, XV, n. 12). Ora, qual è la fonte della grazia, se non lo Spirito Santo? Se si chiama acqua viva, allora è, secondo la riflessione di san Tommaso, perché non si separa dal suo principio, cioè dallo Spirito Santo, che abita nel cuore dei veri fedeli. (S. Th., In Joan., VII, lect. 5.) – Un’ultima proprietà dell’acqua, che non possiamo ignorare, è la sua meravigliosa fecondità. Dove l’acqua abbonda, la terra è ricoperta da un ricco manto di vegetazione, si sviluppano germi, i fiori sbocciano come per magia, i frutti si moltiplicano, i raccolti si susseguono numerosi e variegati; dove è assente, tutto si prosciuga, tutto dissecca, tutto muore: è il deserto con le sue sabbie aride, con la sua triste monotonia. Elemento indispensabile di tutta la vita fisica, l’acqua è una mirabile figura della grazia, con la quale la nostra anima produce una ricca messe di virtù e di meriti, ma senza la quale la virtù lasciata alle sue sole risorse è radicalmente incapace di produrre qualsiasi frutto di salvezza, e rimane per sempre sterile per il cielo. Non è che la natura stessa decaduta non possa, con le proprie forze, produrre alcun bene nell’ordine naturale; ma queste azioni umane, queste virtù di ordine inferiore, simili alle acque della valle, non hanno in sé il potere di elevarsi al cielo. Solo le opere e le virtù cristiane, che procedono dalla grazia e ricevono il loro impulso dallo Spirito Santo, possono portare l’anima fino alle alture della Gerusalemme celeste; discese dalle montagne eterne, esse risalgono come da sole al loro punto di partenza. Per questo Nostro Signore diceva, parlando della grazia: « L’acqua che Io darò diventerà in colui che la riceve una fonte di acqua viva che sgorga nell’eternità » (Giov. IV, 14).  « Quanto amo questo luogo del Vangelo” – diceva santa Teresa – fin dalla più tenera infanzia, senza comprendere il prezzo di ciò che chiedevo, chiedevo spesso al divino Maestro di darmi quest’acqua meravigliosa; e ovunque mi trovavo, avevo sempre un quadro che mi rappresentava questo mistero, con queste parole scritte sotto: Domine, da mihi hanc aquam: Signore, datemi di quest’acqua »  (Vita di santa Teresa scritta da se stessa, cap. XXX). – Purificare, rinfrescare, dissetare: sono le proprietà della grazia medicinale: gratiæ naturam sanantis (S. Th. Ia IIæ, q. CIX, a. 3. — Cf. etiam, aa. 2 et 9), come le chiama san Tommaso; elevare le nostre facoltà ed azioni al di sopra delle esigenze e delle forze della natura, rendere le nostre opere meritorie della vita eterna, diventare in noi il principio di una vita superiore e divina, è il frutto di una grazia propriamente soprannaturale, gratiæ elevantis. – Nello stato originale di giustizia, la grazia non doveva produrre il primo tipo di effetti, perché la purificazione implica la sozzura, il bisogno di ristoro è indice di un eccesso di calore, e la sete, quando brucia, è una sofferenza che può diventare molto acuta. Tuttavia, nello stato d’innocenza, non c’era né sozzura, né profanazione, né disordine, né pena. La grazia non doveva quindi guarire una natura che non era malata, ristabilire un equilibrio che non si era rotto, riparare delle rovine che non c’erano ancora; il suo ruolo in questo ordine di cose si limitava a prevenire. Ma, dopo la caduta, la grazia è prima di tutto un rimedio per guarire le nostre ferite, un bagno salutare dove dobbiamo immergerci per purificarci, un potente tonico la cui virtù deve restituire all’anima le forze morali che il peccato le aveva sottratto. In entrambi gli stati, nello stato attuale di decadenza come nello stato di innocenza, la grazia santificante è la vera forma di santità, la causa della nostra divinizzazione, il principio della vita soprannaturale e divina, in breve, è quella fonte di acqua viva che sfocia nell’eternità fons aquæ salientis in vitam æternam (Giov. IV, 14).

III.

Spiegare la natura della grazia con i suoi effetti è il processo, se non il più profondo, almeno il più popolare, diciamo, l’unico veramente popolare, perché è alla portata di tutte le intelligenze; per questo Nostro Signore l’ha usato nelle circostanze che abbiamo appena citato. Tuttavia, nessuno non troverà cattivo che i Cristiani d’élite, gli uomini colti, i teologi, cerchino di penetrare ulteriormente nell’intimità delle cose. – A coloro che, mossi non da una vana curiosità ma dal lodevole desiderio di conoscere meglio i benefici di Dio, ci chiederanno che cosa sia la grazia santificante in sé, risponderemo, con la Scuola, che essa è un dono soprannaturale e permanente, insito nella nostra anima, una partecipazione della natura e della vita divina, che fa dell’uomo un giusto ed un figlio di Dio. Essa è un dono soprannaturale, cioè, talmente al di fuori e al di sopra delle esigenze e delle aspirazioni della natura, che non potrebbe appartenere a nessun essere creato, né come costituente o porzione integrante della sua natura, né come sviluppo normale delle sue facoltà, né gli vien dato ad alcun titolo. La grazia è quindi qualcosa di essenzialmente gratuito, un extra divino per cui la natura non solo si rafforza e si perfeziona nella propria sfera, ma anche si allarga e si eleva ad una sfera superiore. Inoltre, è un dono permanente. A differenza della grazia attuale, che è un soccorso passeggero, un’illuminazione dell’intelligenza, un impulso dato alla volontà, insomma, una mozione transitoria per farci produrre un atto superiore alle forze della natura, la grazia propriamente detta o santificante è un dono stabile e permanente, che, ricevuto nell’essenza stessa dell’anima, diventa in essa come una seconda natura di un ordine trascendente, un principio di vita soprannaturale, la radice fissa di atti meritori. Non era appropriato, infatti, come osserva l’angelico Dottore, che noi fossimo meno provvisti nell’ordine della Grazia che nell’ordine della Natura, che ci fosse qui un principio stabile di operazione, delle forme, delle potenze sempre presenti e pronte all’azione, mentre là tutto si sarebbe limitato ad un aiuto concreto che innalzasse le nostre facoltà e le applicasse ad una determinata azione per sparire poi con essa. (S. Th., Ia IIæ, q. CX, a. 2). – Ma, sebbene la grazia svolga nell’ordine soprannaturale il ruolo dell’anima in quello della natura, pur essendo principio di vita, seme divino, secondo l’espressione di san Giovanni (Giov. III, 9), la quale dimora in noi per preservarci dal peccato e farci portare dei frutti di santificazione e di salvezza, sarebbe sbagliato considerarlo come un essere sussistente  in se stesso, una specie di sostanza o almeno un elemento sostanziale che Dio aggiungerebbe alla nostra anima, perché, secondo l’osservazione di san Tommaso, la sostanza di un essere si fonde con la sua natura (S. Th., Ia IIæ , q. CX, a. 2, ad 2). Ora, la grazia è qualcosa di essenzialmente superiore non solo alla natura umana, ma a qualsiasi natura creata e creabile. Essa non può quindi essere una sostanza o una forma sostanziale (Ibid.). Tuttavia, resta un accidente soprannaturale, una forma non sussistente (Ibid.), una qualità di ordine divino insita nella nostra anima, secondo la nozione che ci è stata data dal Catechismo del Concilio di Trento, una specie di luce, di splendore, come riflesso della bellezza di Dio che cade sulle anime e le rende tutte belle e tutte splendenti (Catech. Rom., part. II, c. II, n. 50). Da qui queste parole di san Tommaso: « Ciò che è in Dio esiste sostanzialmente sotto forma di accidente nell’anima che partecipa alla bontà divina: Id quod substantialiter è in Deo, accidentaliter fit in anima participant divinam bonitatem » (S. Th., Ia IIæ, q. ex, a. 2, ad 2). Si trattava di esprimere in altre parole ciò che il capo del Collegio Apostolico aveva già detto quando chiamava la grazia una partecipazione della natura divina (« Maxima et pretiosa nobis promissa donavit, ut per hæc efficiamini divinæ consortes naturæ. » – II Petr., I, 4). – Ma in cosa consiste questa partecipazione? Sarebbe, come vogliono alcuni teologi, una semplice partecipazione morale consistente in una rettitudine di volontà, in virtù della quale l’uomo si allontana dal male, compie fedelmente i comandamenti divini e conduce una condotta retta, giusta e santa, proprio come Dio è santo in tutte le sue vie? Se così fosse, la nostra divinizzazione sarebbe puramente nominale, e saremmo solo figli di Dio in modo metaforico, come chiamiamo i figli di Abramo, quelli che imitano la fede di questo Patriarca senza però discendere da lui, e i figli di satana, imitatori della sua malizia. Anche altri teologi – e sono al tempo stesso i più numerosi e i più raccomandabili per sapienza e virtù – considerando da un lato che, lungi dal sopravvalutare i suoi doni e dall’usare, quando ne parlano, un linguaggio iperbolico, come uomini che esaltano in termini magnifici doni spesso di scarsa entità, Dio rimane sempre al di sotto della realtà; e ricordando, d’altra parte, le testimonianze così formali con cui lo Spirito Santo dichiara, qui, per bocca di San Pietro, che la grazia è un dono molto grande e prezioso, maxima et pretiosa nobis promissa, che ci rende partecipi della natura divina, ut per hæc efficiamini divinæ consortes naturæ; là, per l’organo di San Giovanni, che siamo figli di Dio, non solo di nome ma in realtà: filii Dei nominamur e sumus (1 Giov. III, 1), essendo nato da lui: ex Deo nati sunt (Giov. I, 13), credono in una comunicazione reale, fisica, formale, della natura divina; non probabilmente in una comunicazione simile a quella per mezzo della quale Dio Padre trasmette al suo Figlio unigenito la propria sostanza, ma in una comunicazione analogica della natura divina per una certa partecipazione di somiglianza, che consiste in un dono creato, distinto da questa natura, di cui egli è comunque immagine viva (S. Th., III, q. 11, a. 10, ad 1. — Cf. etiam Ia IIæ, q. CXII, a. 1). Questa è pure la dottrina dei Padri. « È falso – dice san Cirillo d’Alessandria – che non possiamo essere una cosa sola con Dio se non attraverso un accordo di volontà. Perché al di sopra di questa unione ce n’è un’altra più sublime e molto più alta, che avviene attraverso una comunicazione della divinità all’uomo, il quale, pur conservando la propria natura, si trasforma per così dire in Dio; così come il ferro immerso nel fuoco diventa igniforme, e, pur rimanendo ferro, sembra essersi trasformato in fuoco. Ecco la via dell’unione con Dio attraverso l’accoglienza in Esso e la partecipazione della divinità che Nostro Signore chiede per i suoi discepoli ». – « In questo modo Dio trasforma le anime umane in Se stesso, in un certo senso, stampando, incidendo in esse un’immagine e una somiglianza della sua sostanza. » (S. Cyr. Alex., in Joan., 1. XI). – Questa comparazione tra il ferro incandescente rivestito delle proprietà del fuoco, quella simile del cristallo illuminato da un raggio di sole e trasformatosi improvvisamente in un fuoco luminoso la cui brillantezza è difficilmente sopportabile, si ritrova spesso sulle labbra dei Padri, quando espongono ai fedeli il mistero della nostra divinizzazione soprannaturale. Ciò che essi propongono con queste analogie è di farci capire che la grazia ci fa veramente deiformi, che abbellisce e trasforma le anime in modo non meno meraviglioso e non meno profondo della luce e del fuoco per i corpi su cui lavorano; ma non pretendono che il modo di operare sia identico da entrambe le parti. Perché c’è un vero splendore dal fuoco al ferro; il primo comunica al secondo parte del suo calore e della sua luminosità, mentre Dio non comunica nulla di se stesso, della sua sostanza o delle sue perfezioni alle creature, né nell’ordine soprannaturale né in quello della natura.

IV.

Ma allora, in cosa consiste questa partecipazione alla natura divina, questo consorzio di nature divine, che è la grazia? Per cogliere a fondo questa risposta, il lettore faccia riferimento nel pensiero a quanto detto in un precedente capitolo (Cap. II), per mostrare come ogni essere creato sia una partecipazione dell’essere increato, ogni perfezione creata è una partecipazione alla perfezione infinita, non un’emanazione, non un flusso di una realtà esistente in Dio e che passerebbe parzialmente all’esterno, bensì una riproduzione per modo di similitudine o di immagine di ciò che è in Dio. Poiché, allora, la grazia è un’entità reale e fisica, e non solo una denominazione esterna o una semplice denominazione esteriore o un favore estrinseco di Dio, come sostenevano i protestanti, la cui affermazione fu colpita con un anatema dal Concilio di Trento, ne consegue che essa è, come ogni altra perfezione verificabile, una partecipazione reale; per maggiore chiarezza,  diciamo, un’imitazione fisica ma finita di una perfezione che è in Dio nello stato infinito. – Essa ne è persino una partecipazione formale. Per comprendere appieno il significato di questa espressione, dobbiamo ricordare il modo in cui le perfezioni create esistono in Dio. Poiché non può esserci nulla di buono in un effetto che non si trovi nella sua causa, e poiché Dio è la causa universale ed efficace di tutto ciò che esiste, è ovvio che le perfezioni delle creature devono preesistere tutte in Lui. Ma non tutte vi si trovano allo stesso modo.  Vi sono, infatti, alcune perfezioni il cui concetto non implica alcun difetto: come la scienza, che è una conoscenza delle cose nelle loro cause; la giustizia, che dà a ciascuno ciò che gli è dovuto, ecc. ecc. ecc.; ve ne sono altre, al contrario, come la vita organica, la facilità di ragionare, etc. che si mescolano essenzialmente con l’imperfezione; poiché, se è una cosa eccellente possedere in se stessi il principio dei propri movimenti, è invece un grave difetto dipendere necessariamente dalla materia nell’esercizio della propria attività; così come, se è un privilegio molto apprezzabile dell’essere ragionevole di poter raggiungere la verità, è un segno di imperfezione arrivarvi solo attraverso lunghi circuiti, con l’aiuto di deduzioni  penose e multiple. Anche l’Angelo, più perfetto di noi, non ragiona; egli vede, legge nel principio tutte le conclusioni in esso contenute. Questo avviene a maggior ragione per Dio. Le perfezioni di questa seconda categoria, chiamata dai filosofi miste, non possono esistere formalmente in Dio, cioè, secondo la loro ragione specifica, ma solo in modo più evidente. Così la ragione non esiste in Dio come facoltà discorsiva, ma si trova solo nel più perfetto stato di pura intelligenza. Per quanto riguarda le perfezioni propriamente e strettamente dette, nulla impedisce loro di essere formalmente in Dio. Ora, la grazia è di questo numero, perché essa non implica alcuna imperfezione: nullam in sui ratione imperfectionem importat (S. Th., Ia IIæ, q. CXI, a. 3, ad 2). Così la grazia è partecipazione ad una perfezione che si trova formalmente in Dio; non in nessuna di quelle perfezioni che possono essere comunicate naturalmente alle creature, come l’essere, la vita, l’intelligenza, ma in una perfezione soprannaturale e specifica di Dio, come elevata al di sopra di ogni creatura esistente o possibile; nemmeno di una perfezione soprannaturale, come ad esempio della conoscenza di Dio di se stesso e del suo amore per se stesso – questo è il segno distintivo della fede e della carità – ma di una partecipazione, che è imitazione di quella perfezione primordiale e fondamentale che, secondo il nostro modo di concepire, è la radice, la fonte, il principio delle operazioni e degli attributi divini; insomma, è una partecipazione formale della natura divina stessa (S. Th., Ia IIæ, q. CX, a. 4). E deve essere proprio così; perché – dice san Tommaso, affidandosi all’autorità di San Dionigi – se, per poter produrre operazioni spirituali, è necessario avere una natura spirituale; e, per parlare universalmente, se non si possono esercitare le operazioni di una natura senza partecipare a questa natura, come si può agire divinamente se non a condizione di possedere, almeno per partecipazione, la natura divina? (S. Th., De Verit. , q. XXTII, a. 2.)  Ora, la grazia ha proprio l’effetto di elevare la nostra anima ad un essere divino che la renda adatta alle operazioni proprie di Dio (S. Th., Sent, 1. II, dist. XXVI, q. 1, a. 5): operazioni che consistono nel conoscersi, nel vedersi così come si è in se stesso, nell’amarsi di un amore beatifico. – Se, allora, Dio vuole, nella sua infinita bontà, permetterci di compiere tali operazioni in modo connaturale, se vuole che un giorno possiamo vederlo, amarlo, come vede e ama se stesso, possederlo, goderlo, e trovare in questo possesso e godimento la nostra felicità suprema, deve comunicarci una partecipazione della sua stessa natura. Da qui queste parole di San Cirillo: “Poiché abbiamo la stessa operazione con Dio, è necessario che partecipiamo alla sua natura – Eamdem operationem connaturaliter habentes, necesse est ejusdem esse naturæ. » (S. Cyril. Alex., Thesaur., 1. 2, c. 2). – Questo è ciò che è la grazia che ci santifica: una partecipazione reale, fisica, formale alla natura di Dio; è la sua vita intima liberamente comunicata alle creature ragionevoli; è l’inizio, l’alba della vita eterna: quoedam inchoath gloriæ in nobis (S. Th., Ia IIa, q. XXIV, a. 3, ad 2). –  Parlando in questo modo, san Tommaso era solo un’eco del grande Apostolo, che avevo detto da lungo tempo: “La grazia di Dio è la vita eterna, quaggiù nel suo germe, lassù nel suo pieno sviluppo: Gratia Dei vita æterna. » (Rom. VI, 23). Questo germe può sembrare piccolo, questo profilo imperfetto, questa alba non molto luminosa; tuttavia, è verità che la grazia del cammino contiene quasi tutta la felicità del cielo, che ci comunica la sostanza dei beni che speriamo, che con essa, in una parola, e attraverso di essa, il cielo è già nei nostri cuori. La gloria, infatti, non sarà uno stato sostanzialmente diverso da quello della grazia; sarà solo l’apogeo, la realizzazione, il pieno sviluppo. « Sarà la quercia spuntata della ghianda, il raccolto invece del seme, il mezzogiorno pieno invece dell’alba (Mgr. Gay, Sermons d’Avent); ma da questa vita è iniziata già l’opera della nostra divinizzazione, e noi possediamo con lo Spirito Santo, il deposito della nostra beatitudine.  Ah, se conoscessimo il dono di Dio, se comprendessimo il prezzo della grazia! Con quali ardenti suppliche reindirizzeremmo anche la parola della donna samaritana: « Signore, dammi quest’acqua! Domine, da mihi hanc aquam! (Giov. IV. 15). E perché portiamo questo tesoro in vasi fragili (« Habemus thesaurum istum in vasîs fictilibus. » (II Cor., IV, 7.) e basta un solo passo falso per compromettere tutto, con quale sollecitudine eviteremmo tutto ciò che potrebbe esporci a perderlo! Con quale fretta cercheremmo subito di recuperarlo dopo averlo perso! – Come ci sforzeremmo di accrescerlo con i nostri meriti! Come ci sembra semplice, ovvia, luminosa, la parola dell’angelico Dottore che afferma che il più piccolo atomo di grazia vale più dell’intero universo « Bonum gratiæ unius majus est quam bonum naturæ totius universi. » (S. Th., Ia IIæ, q. CXIII, a. 9, ad 2).

V.

E tuttavia non abbiamo ancora detto tutto completamente, – E chi potrebbe farlo? – abbiamo a malapena toccato quelle che l’Apostolo chiama le imperscrutabili ricchezze di Cristo: investigabiles divitias Christi (Ephes. III, 8). Questa grazia, che sembra un fine così prezioso, è solo un mezzo; questo obiettivo è solo un punto di partenza. Versando nell’anima del Cristiano questo meraviglioso dono che lo purifica, lo giustifica e lo trasforma in una nuova creatura, in un essere deiforme che è oggetto delle divine compiacenze, Dio lo prepara solo per un dono ancora più sublime, ad una più completa divinizzazione. – Per quanto così grande, anzi, così supremo in sé stesso sia il bene della grazia, non è l’ultimo termine dell’amore divino quaggù, né la più alta effusione del cuore di Dio; questa è solo una preparazione al Bene supremo, un modo per avviarsi verso il dono per eccellenza, una disponibilità  preliminare alla comunicazione dello Spirito Santo che entra di Persona nell’anima giusta in compagnia del Padre e del Figlio, ed unendosi ad essa in modo ineffabile come oggetto della sua conoscenza e del suo amore. Per prendere possesso di Dio, qui sulla terra in modo reale benché oscuro, in attesa dell’ora in cui potremo contemplarlo faccia a faccia, ecco l’ultimo fondo della grazia e ciò che in definitiva ne fa tutto il prezzo. L’opera della nostra divinizzazione comprende quindi un doppio elemento: l’uno creato, che serve in qualche modo come legante, un legame tra Dio e l’anima, e che pone quest’ultima in possesso delle Persone divine: è il ruolo della grazia (S. Th., I, q. XLIII, a. 3, ad 2.); l’altro creato, che costituisce il coronamento della nostra perfezione, il termine delle nostre aspirazioni, il bene il cui godimento iniziale è già un anticipo del cielo: ed è Dio stesso che si dona a noi, unendosi a noi, venendo ad abitare nei nostri cuori, secondo la parola del divino Maestro: « Se qualcuno mi ama … mio Padre lo amerà, e noi verremo a lui, e stabiliremo in lui il nostro soggiorno. » (Giov. XIV, 23). Così i teologi distinguono due tipi di partecipazione alla natura divina – duplex natures divinæ consortium: – l’uno, formale e analogico, con cui Dio ci fa comunicare alla sua natura attraverso una certa partecipazione di somiglianza con lui, per quamdam similitudinis participationem (S. Th., Ia IIæ, q. cCXII, a. 1.); l’altro, termine e scopo del primo, che consiste in un’intima unione delle nostre anime con Dio. San Dionigi riassume questo insegnamento in una formula tanto breve quanto espressiva: « La nostra deificazione, dice, consiste in un’assimilazione ed una unione con Dio la più perfetta possibile: Est autem hæc deificatio, ad Deum, quanta fieri potest, assimilatio et unio ». (S. Dionys., Hirarch. ecceles., c. 1, n. 3). Questa unione, comparata nella Sacra Scrittura a quella del marito e della moglie, è indicata dai mistici col nome di matrimonio spirituale. Questo dimostra quanto sia stretta, dolce e feconda. Un’unione stretta, intima, profonda, inspiegabilmente superiore a quella che esiste tra l’uomo e la donna, perché la natura è solo l’ombra della grazia. Da un lato, in effetti, c’è solo il riavvicinamento dei corpi; dall’altro, c’è la compenetrazione dell’anima da parte di Dio. E se è vero dire che gli sposi umani sono due in una stessa carne, erunt duo in carne una (Gen. II, 24), l’Apostolo dichiara che aderendo a Dio attraverso l’amore, l’anima giusta diventa con Lui uno spirito unico: Qui adhæret Domino, unus spiritus efficitur (1 Cor. VI, 17). -Un connubio pieno di dolcezza e soavità. Rispetto a questa santa unione, l’unione matrimoniale non è che freddezza ed amarezza. Qui la contentezza è breve, il piacere basso e grossolano; là tutto è grande, elevato, duraturo: c’è la gloria, c’è la purezza, c’è la tenerezza, ci sono delizie ineffabili che il linguaggio umano non è in grado di esprimere, ed il cuore dell’uomo è troppo stretto per contenerle. –  Infine, un’unione feconda, da cui nascono pensieri santi, affetti generosi, sforzi audaci e tutte queste perfette opere, chiamate beatitudini e frutti dello Spirito Santo. Cominciata in terra, questa unione benedetta sarà consumata solo in cielo. Già, senza dubbio, secondo la parola dell’Apostolo, l’anima santa è fidanzata al Cristo (II Cor. XI, 2); già essa è la sposa dello Spirito Santo, che le ha dato la sua fede come anello simbolo della loro alleanza (« Ànnulo suo subarrhavit me. » (Ex offic. S. Agnetis.), l’ha rivestita di grazia e carità come una veste di broccato dorato (Ibid.), l’ha adornata di doni e di virtù infuse come delle pietre preziose (Ibid.), e gli si è dato Egli stesso, seppur in modo oscuro, come pegno di eterna felicità. Ora rimane che il divino Marito completi la sua opera e concede alla sua sposa questa dote ineffabilmente ricca che si chiama visione, comprensione, fruizione: la visione che deve succedere alla fede, la comprensione che le farà capire questo bene sovrano che ella ha perseguito qui sulla terra con desideri così ardenti, la fruizione che finalmente consumerà la sua beatitudine (S. Th., I, q. XIIa. 7, ad 1. — Supplem., q. XCV, a. 5). Allora finirà quest’opera di trasformazione soprannaturale che costituisce la trama della vita del Cristiano in questo mondo, essendo ormai perfetta l’assimilazione divina. Divinizzata nella sua essenza dalla grazia, nella sua intelligenza dalla luce della gloria, nella sua volontà dalla carità consumata, l’anima contemplerà senza veli, e possiederà nella pienezza della gioia, Colui che è la Verità sussistente ed il bene sovrano. È nel momento in cui Dio ci apparirà così in tutto lo splendore della sua gloria che noi saremo pienamente simili a Lui, perché lo vedremo così com’è: Scirnus quoniam, cum apparuit, similes ei erimus: quoniam videbimus eum sicut est (1 Giov. III, 2). Vivremo la sua vita, condivideremo la sua beatitudine, perché la vita di Dio consiste nel conoscere e amare se stesso, la sua beatitudine nel godere di se stesso. Allora il desiderio dell’Apostolo, quando scrisse agli Efesini, si realizzerà: “Inchino le ginocchia davanti al Padre di Nostro Signore Gesù Cristo……”. perché siate riempiti di tutta la pienezza di Dio: Ut impleamini in omnem plenitudinem Dei. » (Ephes. III, 19).