L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (9)
R. P. BARTHELEMY FROGET
[Maestro in Teologia dell’ordine dei fratelli Predicatori]
L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO
PARIS (VI°)
P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929
Approbation de l’ordre:
fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).
Imprimatur:
Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov. Lugd.
Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.
E. THOMAS, V. G.
QUARTA PARTE
SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA INABITAZIONE NELLE ANIME.
CAPITOLO PRIMO
Scopo della missione invisibile dello Spirito-Santo e della sua missione nelle anime: la santificazione della creatura. –Perdono dei peccati, giustificazione.
Dopo aver stabilito il fatto di una presenza sostanziale e speciale di Dio nelle anime giuste e spiegato, seguendo San Tommaso, il modo di tale presenza, che, per essere spesso indicata nella Scrittura come dimora dello Spirito Santo, non può però essere considerato come appartenente alla terza Persona, ma ad essa semplicemente attribuita per appropriazione, dobbiamo ancora studiare, alla luce della rivelazione, lo scopo della venuta dello Spirito Santo in noi, così come i molteplici effetti che ne sono la sequela ordinaria, il risultato costante, si potrebbe quasi dire la conseguenza necessaria, della sua presenza divina. Se c’è un argomento che debba interessarci, è certamente questo: niente è più personale, niente è così prezioso, niente è più importante per noi. Necessario in ogni tempo per i Cristiani che hanno la legittima ambizione di non rimanere estranei alle cose dell’ordine soprannaturale, ancor più indispensabile nella nostra epoca di naturalismo sfrenato, dove sembriamo apprezzare solo i beni materiali e i doni della natura, per reagire contro questa tendenza disastrosa, per elevare la mente e il cuore, per dare un’alta idea della grazia e ispirarne una stima profonda, questo studio non solo non offre nulla di scoraggiante e di arido, ma è per noi come gettarci in veri e propri abissi di gratitudine, di ammirazione, di fiducia e di amore. L’Apostolo san Paolo augurava vivamente ai primi fedeli questa conoscenza dei beni spirituali. « Io non smetto – scriveva agli Efesini – di ringraziarvi e di ricordarvi nelle mie preghiere, affinché Dio, Padre del vostro Signore Gesù Cristo, vi dia lo spirito di sapienza e di rivelazione, illumini i vostri cuori e vi faccia conoscere qual è la speranza legata alla vostra vocazione e quali tesori di gloria costituiscono il patrimonio dei santi. » – Presentare un quadro riassuntivo ma sufficientemente completo dei doni relativi alla venuta dello Spirito Santo nella nostra anima, tracciare uno schizzo delle operazioni segrete di questo Ospite interiore e delle speranze di cui Egli è il pegno e la primizia, tale è l’arduo ma sovrano e dolce compito che ci viene ora imposto come coronamento del lavoro che abbiamo intrapreso.
I.
Che lo Spirito Santo sia inviato e dato ai giusti con la grazia, affinché si degni di fare della loro anima la sua dimora, il suo tempio, il suo trono, è una verità tanto indiscutibile quanto consolante, sulla quale non dobbiamo tornare. La questione che ci troviamo ad affrontare ora è questa: Perché questa missione? A cosa tende questa donazione? Qual è lo scopo, il fine, la ragione di questa inabitazione? Se, anche tra gli uomini, persone eminenti, i principi di sangue, i grandi dignitari di uno Stato, non sono inviati che per soggetti di mediocre importanza; se le missioni loro affidate hanno, in virtù del loro stesso stato o ufficio, un sigillo speciale di grandezza, quale dovrebbe essere l’importanza di una missione affidata ad una Persona divina? Quando Dio, volendo salvare il genere umano perduto per colpa del nostro primo padre, si degnò, nella sua misericordia, di mandare il proprio Figlio per realizzare la nostra Redenzione, questa testimonianza di infinita bontà strappò all’evangelista san Giovanni questo grido di ammirazione: « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio per cui chiunque crede in Lui non morirà, ma avrà la vita eterna. » (Giov. III, 16). Tuttavia, per quanto sorprendente possa sembrare questa missione, essa si spiega, in una certa misura, con l’importanza dell’obiettivo da raggiungere e l’ampiezza del risultato da conseguire. – Ma quando si tratta di un bambino battezzato, di un peccatore convertito, di una persona giusta che cresce nella santità, dove sono le grandi cose per la cui realizzazione deve essere inviato lo Spirito Santo o gli interessi maggiori che richiedono la sua presenza? Soprattutto perché non si tratta di una missione passeggera, di una visita di breve durata, e nemmeno di un soggiorno temporaneo più o meno prolungato. Quando lo Spirito Santo entra in un cuore, è per dimorarvi e non lasciarlo mai più, a meno che non ne sia costretto a causa del peccato. Ad eum veniemus, et mansionem apud eun faciemus (Giov. XIV, 23). Che cos’è allora, un altro scopo che lo porta? E perché viene? Sarebbe solo per ricevere in questo tempio vivente e santo la nostra adorazione e la nostra lode, le nostre preghiere e le nostre azioni di grazia? Sarebbe per incoraggiarci con la sua presenza nelle nostre lotte e combattimenti quotidiani, un po’ come un nonno venerabile che segue con uno sguardo simpatico e ringiovanito dall’amore, le gioie dei nipoti, senza però prendervi parte attiva? No. Se viene, è per agire, perché Dio è essenzialmente attivo; Egli è, dicono i teologi, un atto puro. Perciò, lungi dall’essere sterile e infruttuosa, la presenza in noi dello Spirito santificatore, la sua unione con le nostre anime, è, al contrario, sovranamente feconda. Strapparci dall’impero delle tenebre e trasferirci nel regno della luce; creare in noi l’uomo nuovo e rinnovare il volto della nostra anima rivestendola di giustizia e di santità; infonderci con la grazia una vita infinitamente superiore a quella della natura, per renderci partecipi della natura divina, per renderci figli di Dio ed eredi del suo regno; per espandere i nostri poteri aggiungendo ulteriori energie alle loro forze native, per riempirci con i suoi doni e per permetterci di fare opere meritorie di vita eterna; insomma, lavorare efficacemente, incessantemente, amorevolmente, per la santificazione della creatura, ad sanctificandam creaturam (S. Aug., De Trin., 1. III, cap IV), che è lo scopo della sua missione, che è il grande lavoro che viene a compiere e che svolgerà con successo se sappiamo non resistere alle sue ispirazioni e dargli l’aiuto che richiede e senza il quale nulla può avere successo. Ma è importante scendere qui nel dettaglio e studiare separatamente ciascuno dei benefici della sua presenza divina; questo è l’unico modo per conoscerli bene.
II.
Il primo effetto della missione invisibile dello Spirito-Santo, il primo frutto del suo ingresso in un’anima dove non era ancora residente, il primo dono che gli fa, è un perdono completo e generoso; perché, fin dalla caduta originale, dovunque Egli entri per la prima volta, anche nel cuore di un bambino appena nato e sulla cui fronte scorre l’acqua santa del Battesimo, trova un peccatore, cioè un figlio dell’ira: Eramus natura filii iras (Efes. II, 3). – Per apprezzare pienamente questa grazia del perdono, si dovrebbe avere la perfetta comprensione del peccato, comprenderne tutta la malizia, e dare un resoconto accurato delle terribili conseguenze che produce nel colpevole, prima in questa vita, e poi specialmente nell’eternità. Ma come possiamo sondare questo abisso con le nostre deboli luci? Chi dice peccato, dice offesa di Dio, disprezzo di Dio, rivolta contro Dio. Ora, cos’è un Dio offeso, disprezzato, irritato? Quali possono essere le conseguenze della sua collera, quali sono gli effetti della sua vendetta? Senza dubbio non dobbiamo trasportare le nostre passioni in Dio; e quando parliamo di collera e vendetta divina, è ovvio che dobbiamo scartare tutto ciò che comporti il turbamento, l’emozione, il disordine; ma pure dietro queste parole, così frequentemente presenti nella Scrittura, si nascondono delle realtà vere, sante e terribili! Dio infatti non sarebbe bontà assoluta se non fosse nemico implacabile del male; non sarebbe giustizia e santità se lasciasse impunito anche un solo atto la cui malizia è per certi versi infinita (S. Th., III, q. I, a. a, ad 2.). Se è grande nelle opere della sua misericordia, Dio non è meno grande nelle manifestazioni della sua giustizia; se ricompensa magnificamente tutto ciò che si fa per la sua gloria, prende pure un’eclatante vendetta per gli oltraggi commessi contro la sua santa Maestà. Egli agisce sempre da Dio, sia quando remunera la virtù, sia quando punisce il crimine. Che prospettiva apre questa semplice considerazione di fronte ad uno sguardo attento! Così, il santo Giobbe, permeato dal profondo sentimento della giustizia divina, si dichiarò « incapace di sopportarne il peso, come se avesse avuto sul capo le onde di un mare in furia: Semper quasi me super tumentes super me fluctus timui Deum, et pondus ejus ferre non potui » (Giob. XXXI, 23). E il grande Apostolo disse da parte sua, che è una cosa terribile cadere nelle mani del Dio vivente: Horrendum est incidere in manus Dei viventis (Hebr. X, 31). – La caduta nelle mani degli uomini, di un nemico potente e crudele, sembra essere qualcosa di già singolarmente spaventoso. Eppure, che cosa può fare un mortale debole rispetto a Colui che porta il mondo e dal quale nessun peccatore può sfuggire? Anche Nostro Signore diceva ai suoi discepoli: “Non temete coloro che uccidono il corpo e poi non possono più fare nulla contro di voi. Vi dirò Io, chi dovete temere: è Colui che, dopo avervi tolto la vita del corpo, può ancora mandare la vostra anima nelle fiamme eterne. In verità, ve lo dico Io: è questi che bisogna temere. » (Luc. XII, 4-5). Ma Dio non aspetta l’altra vita per esercitare la sua vendetta contro i trasgressori della sua santa legge e i contendenti della sua adorabile Maestà; fin da qui sulla terra inizia il castigo del peccatore, e che sia, almeno di solito, solo puramente interiore e quindi invisibile, non è meno reale e non meno terribile. Ascoltate. Non appena l’uomo ha consumato la sua iniquità e commesso una colpa grave, Dio gli ritira la sua amicizia; invece di considerarlo e trattarlo come un figlio molto amato, circondato da cure e tenerezza, lo guarda con occhio irritato (Ps. XXXIII, 17), e lo tratta come un nemico; perché « Dio odia l’empio e la sua empietà: Odio sunt Deo impius et impietas ejus » (Sap. XIV, 9). Come prima manifestazione di questo odio, gli toglie tutti i beni soprannaturali di cui l’aveva ricolmato: dapprima la grazia santificante, ….. la perla evangelica che Nostro Signore ha acquistato per noi a prezzo del suo sangue, e per la cui conservazione dovremmo essere pronti a sacrificare tutto; poi la santa carità, che ha fatto dell’uomo l’oggetto della compiacenza divina e ha dato alle sue azioni tutto il loro valore. Dio ritira ancora dal peccatore le virtù e i doni infusi dello Spirito Santo, che aveva riversato nella sua anima come semi divini, che richiedevano solo di sbocciare in fiori e frutti di santificazione e di salvezza, e gli lascia solo la fede e la speranza come ultima tavola di salvezza, come un’ultima testimonianza di misericordia. Eccolo, questo uomo infortunato, spogliato di tutto! Da che era figlio di Dio, è diventato lo schiavo di satana; il vaso d’onore si è trasformato in un vaso di ignominia; l’erede al cielo non deve che aspettarsi, da Colui che ha cessato di essere suo Padre, e che rimane suo Giudice, solo una terribile vendetta e dei tormenti eterni. – Avete mai assistito alla degradazione di un soldato, di un ufficiale criminale? Il colpevole viene portato in piazza, e lì, alla presenza dei suoi compagni, tutte le insegne del suo grado vengono successivamente rimosse: prima le sue decorazioni, se ce ne sono, perché, avendo perso l’onore, è indegno di indossare il segno d’onore, poi la sua spada. Questa spada, di cui era così orgoglioso e che gli era stata affidata per la difesa della patria, è spezzata davanti ai suoi occhi, e le sue parti disonorate vengono gettate via, perché è la spada di un traditore. Le sue spalline, i suoi galloni, tutto ciò che riguarda l’uniforme, viene strappato e consegnato al plotone di esecuzione, spoglio dei suoi vestiti e coperto di vergogna. È questa una immagine debole del degrado spirituale inflitto al peccatore da questa vita. Esternamente, è vero, nulla tradisce l’orribile cambiamento appena avvenuto nella sua anima; egli va e viene, fa i suoi affari, e forse vedendo la sua salute così florida come prima, la sua fortuna intatta, la sua reputazione salvata, sarebbe tentato di credere nella sua cecità che, dopo tutto, il peccato non è un male così grande; probabilmente, nonostante il monito dello Spirito Santo, avrebbe il coraggio di dire: « Ho peccato, e cosa mi è successo di spiacevole? » (Eccli. V, 4). Cosa gli è successo di così disastroso? Ah! Se potesse contemplare le terribili devastazioni compiute nella sua anima da un solo peccato mortale, il suo linguaggio sarebbe molto diverso. Quest’anima, un tempo così bella agli occhi di Dio e dei suoi Angeli, ha improvvisamente perso tutto il suo splendore (Thren. I, 6) e ora ha solo l’aspetto orrendo e ripugnante di un volto divorato dalla lebbra. Quest’anima, una volta tutta splendente di grazia, tutta impregnata del profumo delle virtù (II Cor., II, 15), si è improvvisamente coperta di orribili tenebre e ha diffuso intorno ad essa l’infezione di un cadavere: perché essa è morta davanti a Dio, morta e corrotta come i cadaveri delle tombe; non morta, senza dubbio alla vita della natura – in quest’ordine essa è immortale – ma alla vita più alta e incomparabilmente più preziosa della grazia. Perdendo la grazia, il peccatore ha perso tutto: l’amicizia di Dio, il diritto all’eredità eterna, i meriti acquisiti in precedenza, e anche la possibilità di acquisirne di nuovi, fin quando non avrà recuperato la carità divina. Tutto è morto, tutto è affondato nel naufragio. Ma ciò che finisce soprattutto per fare del peccato la più grande delle disgrazie è che esso significa nello stesso tempo la perdita di Dio. L’anima in stato di grazia è il tempio dello Spirito Santo, dimora delle tre Persone divine, che si danno ad essa per essere, in maniera iniziale, fin da questo esilio, oggetto del suo godimento e come anticipo del Paradiso. Ma non appena si commette il peccato mortale, questi Ospiti divini si ritirano, ripetendo quella parola spaventosa che risuonava nell’antico tempio di Gerusalemme all’avvicinarsi della sua rovina: « Usciamo da qui, partiamo da qui »; e l’anima così abbandonata diventa il rifugio di demoni, la tana di rettili e di animali velenosi che sono le passioni scatenate. Capite ora la grandezza del beneficio che Dio si degna di concedere ad una creatura peccaminosa concedendole il perdono per le sue offese? Lasciata a se stessa, abbandonata alle sue sole risorse, non sarebbe mai potuta uscire dal triste stato in cui si era gettata per sua colpa; ma Dio, del Quale – secondo la bella parola della Chiesa – « è proprio mostrare sempre misericordia e perdonare » (« Deus, cui proprieri est miserum semper, et parcere. » – Ex Breviar. Ord. Præd.), le tende una mano d’aiuto per rimuoverla dall’abisso. Benché sia offeso, è Lui che prende l’iniziativa della riconciliazione e muove i primi passi. Lo invita a pentirsi con terrori segreti, lo illumina sulle conseguenze dei suoi crimini, lo attira con le attrattive della sua grazia; gli provoca santi rimorsi, gli pone ostacoli salutari, bussa alla porta del suo cuore senza stancarsi; e non appena l’anima, cedendo alle pressanti sollecitazioni del suo amore, si pente ai suoi piedi dicendo come il prodigo: « Padre, ho peccato, non sono degno di essere chiamato tuo figlio », si china misericordiosamente verso di essa, si affretta a sollevarla, la abbraccia, le restituisce il suo Spirito Santo, che subito riprende possesso del suo santuario, portando con sé la grazia e la pace come dono della gioiosa venuta. Tutto è perdonato, tutto è cancellato, tutto è dimenticato; le antiche relazioni sono riprese e, nella sua felicità per aver ritrovato la pecora smarrita, il Buon Pastore si ripaga delle cattive giornate raddoppiando la tenerezza.
III.
La venuta dello Spirito Santo, o il suo rientro in un’anima, non avrebbe altro risultato se non quello di portarvi la remissione dei suoi peccati ed una grazia di perdono, che sarebbe già un bene inestimabile? Ma non si limitano a questo le larghezze dell’ospite divino. Non contento di dimenticare le offese di quest’anima e di perdonarle il suo debito verso la giustizia divina, si incarica di purificarla dalle sue contaminazioni, a guarire le sue ferite, a ricoprirla con una veste di innocenza; Esso abbatte il muro di separazione che il peccato aveva eretto tra essa e Dio (« Iniquitates vestræ diviserunt inter vos et Deum vestrum » – Is, LIX, 2.) ne spezza le catene, la strappa dall’impero delle tenebre per trasferirla nel regno della luce (« Eripuit nos de potestate tenebrarum, et transtulit in regnum Filii dilectionis suæ. » (Col., I, 13. – Cfr. etiam I Petr., II, 9.), ed essendo pienamente riconciliato con essa, le restituisce, insieme agli altri beni che aveva perso, il suo amore e la grazia che lo giustifica. Perdono e giustificazione sono una cosa sola, o, se ci piace di più, è il doppio aspetto, il doppio effetto di un’unica grazia, un dono soprannaturale e permanente versato nella nostra anima e conosciuto come grazia santificante, che cancella le nostre colpe e ci rende veramente giusti, santi e graditi a Dio. – [L’eresia protestante non la intende in questo modo. Per essa la grazia divina è solo una denominazione estrinseca, un mero favore esteriore di Dio, che non mette nulla di reale, nulla di positivo, nulla in noi, nessun elemento di vera santificazione; non implica né mutazione né rinnovamento interiore, per cui la giustificazione del peccatore consiste esclusivamente nella remissione dei peccati, una sorta di amnistia che, senza cambiare nulla nella persona e nelle disposizioni morali del colpevole, lo dispensa dalla pena subita, lo autorizza a riprendere il suo posto nella società con tutti i suoi diritti precedenti, ne fa sparire fin’anche il ricordo del suo crimine. A giudizio degli pseudo-riformatori, il peccato perdonato non è realmente cancellato, ma semplicemente coperto; conoscendo per fede la giustizia di Gesù Cristo, il peccatore diventa come ricoperto da ricco mantello che copre e nasconde le orribili ferite della sua anima, e in un certo senso la sottrae allo sguardo divino. Soddisfatto dell’oblazione volontaria di suo Figlio e del prezzo del nostro riscatto, Dio decide di non vendicarsi per gli oltraggi commessi contro la sua adorabile Maestà; e il colpevole, anche se non emendato, viene dichiarato giusto e rimandato indietro assolto.]. – Tutt’altro è il concetto cattolico di giustificazione. Invece di vederla come un mero condono della pena ed una non attribuzione di colpa, la Chiesa insegna che la giustificazione del peccatore implica la reale scomparsa del peccato, la sua distruzione, il suo annientamento, così come la santificazione, il rinnovamento dell’uomo interiore attraverso la suscezione volontaria della grazia e dei doni. Questo è ciò che il Concilio di Trento ha solennemente definito nella sua sesta sessione (C. Trid. Sess. VI, cap. VII). E, in effetti, è inconcepibile che possa essere altrimenti. Che un giudice umano, che non vede la profondità delle coscienze e debba fare riferimento ad una testimonianza esterna, respinga un imputato la cui colpevolezza non è chiaramente stabilita, è una necessità per non esporre un innocente ad una condanna. Che un sovrano, desideroso di ristabilire la pace nei suoi Stati e di cancellare anche le ultime tracce di discordia civile, e sia obbligato a trattare con avversari formidabili, desideroso di rimuovere da essi ogni motivo di agitazione, accetti politicamente di perdonare colpevoli che sono stati giustamente condannati e che non sono affatto pentiti, è ancora comprensibile. Ma che Dio possa lasciare, Egli che, secondo la parola della Scrittura, « scruta le reni ed i cuori » (… scrutans corda e renes Deus. – Ps. VII, 10.), e « davanti al quale tutto è nudo e scoperto » (Omnia nuda et aperta sunt oculis ejus – Hebr., IV, 13.); … che Dio, difensore dell’ordine e della legge, permetta che il crimine resti impunito, il disordine non eliminato, la giustizia violata e sia disposto a perdonare il peccatore impenitente e a chiudere gli occhi di fronte alle iniquità sempre vive; che dichiari giusto e consideri giusto chi in realtà è contaminato dai crimini, è ciò che la ragione ed il buon senso, non meno della fede, rifiutano di ammettere; è un’ipotesi contro la quale tutti gli attributi divini protestano: C’è un debito da pagare, un’offesa da riparare, un torto da correggere; finché Dio è Dio, deve esigere dal colpevole una soddisfazione necessaria, e non potrà mai rimandarlo indietro assolto e non emendato. Se così non fosse, la nostra giustizia sarebbe come quella degli scribi e dei farisei, che Nostro Signore ha condannato con tanta forza, quando ha detto: « Guai a voi, scribi e farisei! ipocriti, perché siete come i sepolcri imbiancati, che esteriormente appaiono belli, ma interiormente sono pieni di putridume; così voi, all’esterno apparite giusti agli occhi degli uomini, ma interiormente siete pieni di inganni e di iniquità. » – Matth., XXVI, 27 – 28). – Se dunque il peccatore aspira al perdono divino, c’è solo un modo per ottenerlo, ed è il pentimento; se non vuole che le sue iniquità gli siano imputate, la condizione indispensabile è che siano veramente cancellate dall’infusione della grazia. Questa è la vera nozione della giustificazione, come la Chiesa ha sempre inteso ed insegnato, come risulta da un attento studio dei Libri Sacri e dei documenti della Tradizione.
IV.
Non è, infatti, solo una volta di passaggio, o in termini vaghi ed oscuri, che la Scrittura esprima questo dogma; lo fa in una moltitudine di passaggi ed attraverso espressioni tanto chiare quanto varie. Così si dice che i peccati vengono tolti (Giov. I, 29), cancellati (Act. III, 19), lavati (Ezech. XXXVI, 25), purificati (Hebr. I, 3). San Paolo, ricordando ai Corinzi, le loro antiche contaminazioni, cancellate dal Battesimo, diceva loro: « Voi eravate tutte queste cose, ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore nostro Gesù Cristo e dallo Spirito di Dio » (1 Cor. VI, 11). E così perfetta è questa purificazione, che il peccatore giustificato è più bianco della neve (Ps. L, 9 – Is. I, 18). Se, invece di limitarsi esclusivamente ad uno o a due passi della Scrittura che rappresentano i peccati come coperti e non imputati, i nostri avversari avessero considerato tutti i testi che ci stanno davanti, relativi alla verità, avrebbero incontrato una moltitudine di testimonianze che attestano che i peccati perdonati non esistono più realmente, che sono scomparsi come neve sciolta al sole (Eccli. III, 17); avrebbero sentito lo stesso salmista che tanto esaltano, quando dice: « Beati coloro le cui iniquità sono perdonate e i cui peccati sono coperti; benedetto l’uomo al quale Dio non ha imputato il peccato – « Beati quorum remissæ sunt iniquitates, et quorum tecta sunt peccata. Beatus vir cui non imputavit Dominus peccatum. » (Ps. XXXI, 1-2), per tradurre il suo pensiero in un’altra forma non meno espressiva ed affermare che « quanto l’Oriente dista dall’Occidente, di tanto Dio allontana da noi le nostre iniquità » (Ps. CII, 12); avrebbero così appreso da un altro profeta che Dio getta i nostri peccati in fondo al mare (Mich. VII, 19), volendo lo Spirito Santo, attraverso questo significativo linguaggio figurato, farci capire che i peccati perdonati sono scomparsi e non sono più in questione; infine, avrebbero potuto leggere in Isaia queste parole che il Signore rivolgeva al suo popolo: «Sono Io, Io stesso che cancello i vostri peccati per riguardo a me. » (Is. XLIII, 25). Ora, come osserva Bossuet, non sarebbe un insulto a Dio pensare che ciò che Egli abbia rimosso da noi rimanga ancora là? … Che ciò che ha cancellato, distrutto, annientato, rimanga sempre? … che le macchie che Egli ha lavato e purificato non siano scomparse? Nel senso ordinario della parola, “lavare” non significa coprire, ma rendere puro; il suo significato non verrebbe sminuito, dal momento che è Dio stesso a lavarci, non con il sangue di tori e capre, ma con il sangue del proprio Figlio? Se un tempo il sangue degli animali poteva conferire la purezza legale, il prezioso sangue di Gesù Cristo sarà meno efficace nel purificare le nostre coscienze dalle opere di morte? (Hebr. IX, 14). Concludiamo dunque che, per Dio, giustificare qualcuno non è solo dichiararlo giusto e ritenerlo tale, ma è fare in modo che egli lo sia effettivamente; perdonare i peccati non è solo esentarlo dalla punizione, ma è eliminare la colpa; coprirle è non farle più. Infatti, secondo l’osservazione giudiziosa di sant’Agostino, ci sono due modi per coprire una piaga: l’uno per guarirla, l’altro per nasconderla. Il medico copre la ferita per tenerla fuori dal contatto con l’aria e dalle influenze dannose, il paziente la copre per falsa vergogna o per paura di un intervento chirurgico doloroso; il primo la copre con una sostanza benefica che la fa scomparire; l’altro la copre e la conserva. « Che sia Dio – dice il santo Dottore – che copre le vostre ferite, e non voi; perché se le ricoprite voi perché ne arrossite, il medico non le guarirà. Lasciate che il medico le copra e le guarisca, perché le copre con una sostanza salutare. Quando il medico ha coperto una piaga, questa guarisce, ma quando la copre il paziente, essa viene solo nascosta. » (S. Aug., Enarr. 2a in Ps. XXXI, n. 12.). – A sostegno della dottrina che abbiamo appena delineato sulla giustificazione, san Tommaso porta una ragione teologica tanto bella quanto profonda. Innanzitutto osserva che, giustificando il peccatore, Dio gli dona le sue buone grazie e la sua amicizia; questo suppone la collazione di un dono fatto alla creatura che la rende degna di essere amata. A riprova di questa affermazione, basta ricordare la differenza cruciale che esiste tra l’amore di Dio e quello della creatura, tra la grazia di Dio e il favore dell’uomo. Il nostro amore, presuppone in noi la bontà, e di solito è causato dalle buone qualità e dalle perfezioni che abbiamo notato nell’oggetto amato; in seguito, può tradursi in benefici, ma in linea di principio, è causato dal bene preesistente. « L’amore di Dio, al contrario, crea e riversa nelle cose il bene che le rende amabili a Lui: Amor Dei est infundens et creatis bonitatem in rébus » (S. Th., I, q. XX, a. 2). E secondo la natura del bene conferito, in Dio si distingue un doppio amore: l’uno comune e generale, che si estende a tutto ciò che esiste e che ha per effetto l’essere naturale delle cose; l’altro speciale e di ordine più sublime, con il quale Dio eleva la creatura ragionevole al di sopra della sua condizione naturale e la chiama alla partecipazione della propria felicità. E’ quest’ultimo tipo di dilezione che è in gioco quando affermiamo semplicemente che qualcuno è amato da Dio, perché allora Dio vuole il Bene sovrano ed eterno che è Se stesso. Quando si dice di un uomo che egli possieda la grazia e l’amicizia di Dio, la parola “grazia” non indica qui un semplice sentimento di benevolenza, un favore estrinseco causato dal bene che è in lui, ma designa un dono soprannaturale, proveniente da Dio, e che trasforma in modo meraviglioso colui che lo riceve e che diventa così oggetto di compiacimento divino. (S. Th., 1a IIæ, q. CX, a. 1.). È qualcosa di ineffabile come il cambiamento operato nell’anima dalla grazia. Il peccato gli aveva dato la morte, la grazia gli rende la vita. Il peccato l’aveva resa criminale, schiava di satana, un ramo secco destinato al fuoco; la grazia gli conferisce, con la giustizia e la santità, il titolo di figlio di Dio ed il diritto all’eredità eterna. Il peccato l’aveva resa laida, contaminata, ottenebrata; con la grazia essa è bella, è pura, è luminosa. Oh, se ci fosse possibile contemplare un’anima in stato di grazia! È uno spettacolo tale da deliziare gli Angeli, fare gioire il cuore stesso di Dio, che è la gioia personificata.
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