–Paolo SEGNERI S. J.:
L’INCREDULO SENZA SCUSA –
Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (10)
CAPO X.
I cieli predicano le glorie del loro Fattore.
I. Interrogato Anassagora, a che fosse venuto l’uomo, rispose, a guardare il cielo (L’uomo fu appunto denominato dai Greci andropos. che vuol dire alto-veggente, perché la sua posizione diretta e perpendicolare, lo distingue dai bruti chini al suolo.). Non fu egli sì stolido, che stimasse nulla esservi sopra il cielo di più ammirabile, come di lui sentì chi dannollo per tal risposta di mentecatto (Lact. Inst. 1. 3. c. 9). Anzi se si deve credere ad Aristotile (L. 1. metaph. C. 4), fu egli il primo fra gli antichi filosofi, a riconoscere il vero autor delle cose, attribuendole all’intelletto divino, da cui fece anche derivar tutto l’ordine tanto saldo da lor tenuto. Dunque disse egli ciò, perché, vago di astronomia, giudicò non avere i nostri occhi oggetto più abile ad introdurci nella cognizione di Dio, che il cielo netto da nubi. Però, se del cielo noi non curassimo altro che quanto noi rimiriamo ad un guardo esterno, come fan le aquile, sarebbe quasi vedere un bel libro aperto, ma non vi leggere. Conviene passar oltre col guardo interno a quello di più che gli astronomi fan sapercene, massimamente addì nostri, quando i moderni hanno conseguite di quella mole contezze tanto più esatte di quelle che ne corressero fra gli antichi da me seguiti altre volte. Voglio però, che voi, su tale specula sollevato a mirare il cielo, consideriate come egli mostraci i principali attributi del suo Fattore: con la vastità, la potenza; coi moti, la sapienza; e con gli influssi benefici, la bontà. Ed appunto a questi tre capi possiamo dire che riducasi il confluito di sì gran libro.
I.
II. Quello che a prima giunta dà più nell’occhio, è la vastità della mole. E intorno a questa per non confondere il vero col verisimile, favelliamo prima di ciò che par meno incerto, poi di ciò, che solo si tiene per congettura. Le seste, dirò così, di cui si vaglion gli astronomi in queste sì gran misure, sono le paratasse. Ma perché esse di là de’ pianeti sono insensibili, noi ci fermeremo di qua. Né poco dovrà sembrarci il poggiar tant’alto con sicurezza, sicché un uomo di pochi palmi possa arrivare a farsi una scala che giunga dalla terra sino a Saturno, la più lontana di tutte le stelle erranti. Quei campi poi sì vasti che di là restano, fino all’ultimo cielo, non han misure: Si mensurari potuerint cœli sursum. Ma questo medesimo fu ordinato con arte, ad insinuarci che in rintracciare della potenza divina, allora siamo da cupo, quando credevamo di esser giunti al termine. Pertanto frenando i guardi facciamo così. Né gli arrestiamo nella luna, assai nota, né li portiamo a Saturno, poco osservabile. Fissiamoli in faccia al sole, che sta nel mezzo.
III. Il sole però, che sembra dimorare in cielo fra tante stelle, come il re coronato dai suoi baroni, quantunque agli occhi nostri ingannati appaia sì piccolo, che ci divisiamo di chiuderlo in uno specchio, è egli un gigante di corporatura sì smisurata, che il suo diametro da un capo all’altro, è di miglia dugento settantatremila, cento settanquattro; e la circonferenza è di miglia ottocento settantasettemila, quattrocento sessantotto: maggiore però trentottomila seicento volte, che non è tutto il globo a lui suddito della terra (V. Ricciol. in Almag. 1. 3. c. 11.,). Non vi sembra pertanto che questa opera sola potrebbe coll’ampiezza del suo lavoro bastare a rappresentarci la immensità di chi creolla? Or che sarà, se ci faremo a misurare oltre a ciò l’ampiezza del cielo, ove questo sole si aggira, come in una reggia, spargendo a piena mano sopra tutte le creature inferiori i tesori della sua luce? La massima circonferenza di questo cielo è di cento novantasette milioni di miglia, novecento dieci mila, quattrocento ventiquattro. E di verità, se il sole che è un mondo di splendore, contuttociò nel concavo del suo cielo non comparisce quasi più che una lampana sospesa dalla sua volta, convien pure che siano sterminatissimi quegli spazi, de’ quali egli occupa, secondo l’apparenza, sì poco sito.
IV. Che se da questi spazi, che come io dissi, ci è dato di misurar con più sicurezza, noi vogliamo farci la strada ad argomentare l’eccesso dello altre stelle superiori, io ne uscirò con poco, dicendo che tale eccesso (massimamente se parlasi delle fìsse), è noto solo a quel divino maestro che lavorò sì gran corpi con l’impero della sua voce, per saggio di quel più che può senza termine fabbricare ad ogni momento: né noi possiamo discorrerne senza far da indovinatori: Homo ad immortalium cognitionem nimis mortali est, diceva Seneca (De vita beata c. 32.): nè ciò soltanto a cagion di quel poco che egli intende dietro la scorta de’ sensi. Si tiene (Ricciol. 1. 6. c. 1) che una delle minime stelle da noi vedute con occhio libero, che sono quelle dette di sesta grandezza, contenga la medesima terra cinquemila trecento cinquantacinque volte, tutto che appaiano quasi minute facelle: tanta è la smisurata distanza del firmamento, lontano dal centro del nostro basso mondo quattrocento trentottomila, settecento trentaquattro milioni, quattrocento trentottomila, settecento trentaquattro miglia; di tal maniera, che se un corriere , emulo a quei di Alessandro (i quali facevano, per attestato di Solino, cento cinquanta miglia di strada il giorno), fosse per sorte in obbligo di compire tutto quel tratto, il qual è dalla terra al cielo stellato, converrebbe a compirlo che v’impiegasse cento cinquantottomila anni, settecento novantaquattro; sicché qualor egli si fosse messo in via dal dì primo che il mondo nacque, non sarebbe ancor giunto a trascorrere interamente la ventesima parte del suo cammino.
V. Questo è ciò che n’è parso ad astronomi peritissimi dei dì nostri, dopo lunghi computi, e dopo lungo commercio che tennero con le stelle. Eppure chi sa che questi ancora non diano di sotto al segno, come vi diedero quelli dei tempi andati, e che anch’essi non ci dipingano quella macchina eccelsa minor del vero? Chi sa, che la sfera delle stelle non sia parimente maggiore senza paragone; sicché quelle stelle le quali appaiono sì minori dell’ altre, non siano veramente meno vaste, ma più remote? Chi sa, che siccome coll’uso del cannocchiale abbiamo scoperti di quaggiù tanti lumi che prima non comparivano; così se potessimo ascendere fin lassù, dove sono i pianeti altissimi, ed indi come da tante torri valerci di un somigliante strumento, quasi di spia, non ci riuscisse con esso di rinvenire altre innumerevoli novità finora ignorate, per quella gran lontananza che non permette arrivar sin là niuna mai delle umane tracce? Certo che di qualunque maniera ci figuriamo noi essere quegli spazi, non possono ai nostri sensi riuscire meno di una piccola immensità, mentre al confronto di quelle sfere, il pianeta della, peraltro sì corpulento, svanisce a un tratto, e non fa più figura maggior d’un punto: dando con ciò luogo a quel famoso rimprovero che fé’ Seneca a tanti sciocchi mortali, intenti ad aggrandire i loro confini, a litigare, a lottare in sì angusto campo, mentre là sopra avrebbero tanto più dove dilatarsi: Punctum est, in quo navigatis, in quo bellatis, in quo regna dìsponitis, punctum est(Sen. nat. q. 1. ).
II.
VI. Ora tornando a moli sì smisurate, non sarebbe una grande impresa, se si arrivasse in molti anni, non dico a volgerle, ma solo a farle un tantino mutare di sito? Fu Creduta una gloria meravigliosa di Michel Angiolo il dirsi che in virtù delle macchine da lui divisate col suo cervello si poté poi da meno di mille uomini alzare sulla piazza vaticana quell’obelisco, intorno a cui i re d’Egitto ne avevano adoprati da trenta mila (Boz. de sign. eccl. 1. 6. sign. 24). A terra, o pensieri umani, per fare ossequio alla sublimità del primo motore! Il sole (corpo sì vasto) nell’equatore corre in qualunque ora sette milioni, ottocento ottantottomila, novecento trentaquattro miglia: ed in qualunque minuto secondo che è la sessantesima parte di un minuto primo, corre duemila centonovanta miglia, o per meglio dire non le corre, ma le divora, tanto si muove egli rapido. Non vi pare che il pensiero medesimo sia già lasso a tenergli dietro? Si fa ragione che quel viaggio il quale si compisce dal sole in un solo giorno che è di cento ottantanove milioni, trecento trentaquattro mila, quattrocento sedici miglia, appena si compirebbe da una palla d’artiglieria, portata egualmente sulle ale del fuoco, nel termine di cento venti anni interi.
VII. Ma non logorate di modo i vostri stupori, che non ve ne rimanga una buona parte per ciò che segue. Non è già il sole tra’ pianeti il più celere. Mercurio posto nella sua massima altezza, giunge in un’ora a scorrere molto più di undici miglia. Venere più di tredici, Marte più di ventidue, Giove più di cinquantuno, Saturno più di novantasette (V. Al. mag. 1. 7. c. 7). E se col vero non vi è grave di ammettere il verisimile, tra le stelle del firmamento ve ne ha di molte, poste nell’equinoziale, che in un’ora corrono senza stancarsi lo spazio di duemila dugento settantaquattro milioni, trecento ottantamila, cinquecento miglia: e in un secondo corrono lo spazio di miglia seicento trentunmila, ottocento ottantasette. Aveva ben dunque ragione colui di asserire che la vista del cielo era sufficiente a formare un grand’uomo saggio: Intuere cœlum et philosophare. Non ha mente chi non ravvisa nelle meraviglie dell’opere la sapienza del suo fattore. E chi tuttora voglia pertinace ridurre ad azion fortuita l’architettare macchine di grandezza sì esorbitante, e ridurle a concordia con tanta legge e a sospingerle al corso con tanta lena, sicuramente si merita andare prigione nello spedale de’ pazzi, come già privo di quel senno che ei dona al caso. Convien di necessità confessar ciò che vide Seneca al puro lume ch’ei n’ebbe tra i suoi buiori, ed è: Non sine aliquo custode tantum opus stare: nec hunc siderum certum discursum fortuiti impetus esse, sei hanc inoffensam velocitatem procedere aeternæ legis imperio (Seneca 1. 1. de prov. o. 1). Questi sono indizi troppo manifesti di mente governatrice: e chi né anche dalla sommità delle sfere sa ai nostri dì spiccare un volo a conoscerla, può dissi non curare l’ali a lui date dalla ragione, e però non altro dovergli, che andar carpone per terra come un giumento.
VIII. Che sarebbe poi, se fosse lecito al guardo osservare per minuto la proporziono di questi giri celesti, e la consonanza, e le cagioni, ed i fini di così vari, ma regolati andamenti? Noi che rimaniamo stupiti al concerto di un ballo che duri un’ora, da qual estasi di meraviglia non rimarremmo sorpresi a quella stabile danza che può tenere attonite le menti stesse delle intelligenze motrici? Ma checché di noi fosse allora, quel medesimo nulla, che or ne sappiamo, ci predica ad alta voce che vi ha un Dio, sovrano ingegnere di queste moli inaudite, e di quelle incredibili loro ruote, su cui si aggirano con tanta facilità. Che però del cielo possiamo dire più particolarmente ciò che del mondo tutto disse Agostino (De civ. Dei), pulchierrima specie, et factum se esse, et non nisi a Deo, ineffabiliter atque invisibiliter magno, et ineffabiliter atque? invisibiliter pulcro, fieri potuisse proclamat. E sue voci sono in prima la puntualità, se così vogliamo chiamarla, e la costanza inviolabile di questi gran movimenti; giacché dappoiché i cieli furono creati, non hanno variato mai da quella prima regola che fu loro prescritta al volgersi: onde fondati sull’apparente irregolarità di giri così diversi, possiam pubblicare i calcoli e le effemeridi; e possiam predire le congiunzioni e le ecclissi tanto tempo innanzi che avvengano. Ora se qualunque oracolo, affinché non erri, ricerca di necessità un artefice che il lavori con grande ingegno, che ad ora ad ora il rivegga, lo ripulisca, lo tenga in tuono; in quale animo potrà mai cadere che i cieli, cioè quegli appunto che danno coi loro moti la regola all’oriuolo, potessero aver dal caso i loro principii, dal caso i loro progressi, fino a durar già vicino a sessanta secoli di un tenore tanto uniforme?
IX. Dirassi provenir ciò dalla natura dei cieli, che così porta. Ma no: perché ogni moto proprio di un mobile non è indirizzato dalla natura di lui se non in vantaggio del medesimo mobile, il quale se ne va quasi peregrinando, affine di trovare altrove quel bene che in casa mancagli (S. Th. 1. p. q. 9. a. 1 in c.). Là dove muoversi puramente per muoversi è a lungo andare sì contrario alla propensione di ciascun essere, che i poeti nel loro inferno non seppero inventare pena più strana che il girar sempre, come l’infelice Issione, sopra una ruota, senza cavare mai maggior prò da quell’interminabile velgimento, che seguire ad un’ora, e fuggire » se stesso: Volvitur Ixion, et se sequiturque fugitque (Ovid.). Quel gran moto dunque de’ cieli, quel rotarsi che sempre fanno su’ nostri capi, quel camminar con tanta costanza, quel correre con tanta celerità, e ciò non per altro mai che per nostro bene, non può procedere dalla loro natura particolare: sì perché il loro moto, essendo circolare, non ha termine ove riguardi, e però non può essere a verun di loro appetibile per se stesso; sì perché non appare qual nuovo pregio si giunga a conseguir mai da verun de’ cieli co’ suoi viaggi incessanti. Anzi, mentre il primo cielo muovesi in se medesimo, se si movesse in grazia sua, cercherebbe la sua perfezione dentro di se, e così moverebbesi a ritrovare quel bene che già possiede: come uno stolto che si dimenasse con ansia per rinvenir quell’anello che tiene in dito. Rimane pertanto che quell’effetto il quale non può derivare dalla natura particolare delle sfere celesti, derivi da una cagione universalissima, che qual padrona del tutto, abbia a cuore il bene di altre creature più nobili, cui fa che le sfere servono ne’ loro moti.
X. Che se la vastità dei corpi celesti dichiaraci la potenza del loro artefice, e i moti ne dichiarano la sapienza, non sarà meno eloquente la ridondanza degl’influssi benefici a dimostrarcene la bontà. Basti dire che se i cieli posassero mai qualche poco, una tal quiete sarebbe l’ultimo eccidio della natura inferiore, priva però di vigore ad un tratto e di vita, non men di quello che ne rimangono prive tutte le membra al posare che faccia il moto del cuore. E di fatto quei danni che risultano nel nostro mondo dalle ecclissi de’ luminari superiori, dimostrano chiaramente la dipendenza somma che abbiam dal cielo, e quanto ogni piccolo impedimento che si attraversi alle loro assidue influenze ci riesca di scomodo e di sconcerto. Ma per favellare di cose anche più evidenti, non ci allontaniamo dal sole, tolto da noi per termine luminoso della nostra contemplazione.
XI. Gli antichi savi d’Egitto lo intitolavano figliuolo visibile del Dio invisibile ; e nel vero dissero troppo; se non che poté loro valer di scusa quell’eccessivo splendore che gli accecò. Il sole non figliuolo, ma è ritratto del primo Essere, che volle in lui quasi adombrar se medesimo, e guidarci con questa face alla cognizione della sua natura divina, disponendo però che egli fosse insieme unico, insieme moltiplicato: unico nella natura, e moltiplicato nella beneficenza, sicché non vi sia creatura, la quale non riconosca il sole per padre, mentre, dove egli non giunge con la presenza, arriva con la virtù. Il sole adunque come primo ministro nel regno della natura ci va distribuendo ad ogni ora quanto abbiamo di vita, di salute, di spiriti, di piacere, secondo gli ordini che ne ricevè da principio dal suo sovrano. Dissi secondo gli ordini ricevuti, perché il viaggiò obliquo che egli fa in cielo mostra evidentemente l’arte divina che tenne la cagion prima in volerlo tale: a segno che l’intendere questa medesima obliquità è l’intender la cifra di tutti gli avvenimenti naturali mal conosciuti. Così ne parve anche a Plinio: Obliguitatem eius intellexisse, est rerum fores aperuisse(PI. 1. 2. c. 8). Conciossiachè è cosa certa che questo mondo aveva necessità di varie stagioni per mantenere la sua virtù. L’avea del verno, ad unire il calor natio, che. quando fosse assediato da brina ostile, sarebbesi ritirato tanto più addentro per sua difesa, gettando in tal concentramenlo più valide le radici, e provvedendosi di più copioso alimento. L’aveva della primavera, por uscir quasi in campo con buona ordinanza in nuove frondi, in nuovi fiori, in nuovi virgulti. L’aveva della state, per combattere e superare l’umor superfluo, estenuando ciò che no’ corpi è di esuberanza, e concedendo ciò ch’ovvi di crudità. E finalmente più l’aveva dall’autunno, per trionfare con la dovizia de’ frutti, di cui colma allora ogni seno. Ora tutto questo opera il sole col puro divertir che egli fa, ora verso l’aquilone, ora verso l’austro, fino a ventitre gradi e mezzo nella sua maggiore distanza dall’equatore. E quello che più è da stimarsi, opera tutto ciò con una mutazione quasi insensibile. Imperciocché se dai rigori vernali si passasse immediatamente alle vampe estive, o dallo vampe estive ai rigori vernali, quanto s’incomoderebbero i nostri corpi a quel subito cambiamento, e quanto risentirebbesi la natura? Ora il sole, torcendo a passo a passo con discretezza per la sua via, frammette tra gli estremi del sommo freddo e del sommo caldo la primavera, o tra gli estremi del sommo caldo e del sommo freddo l’autunno, e con pari soavità va temperando le fatiche cui ci obbliga, e va perfezionando le grazie che ci riparte. Ciò che altresì fassi da lui giara al mente nella giusta divisione delle ore diurne e delle notturne, assegnando un tempo al lavoro, un altro al riposo, ed ora allungando i giorni, ove sia d’uopo accrescere il calore alla terra; ora allungando le notti, ove per contrario sia d’uopo diminuirlo: ed ora pareggiando la notte al dì, quando il meglio sia che si agguaglino le partite. Chi però non iscorge che riuscendo i viaggi del sole, e proporzionalmente delle altre sfere, tutti in benefizio dell’uomo, tutti a legge, tutti a libra, tutti a misura, convien di necessità che siano quelli consiglio di una gran mente, la quale intenda il fine con sommo sapere e somma potenza adatti al tempo medesimo i mezzi al fine? Dall’altra banda il sole, benché sia nominato l’occhio del mondo, è cieco al conoscere questo fine, e all’adattar questi mezzi; ed è affatto insensibile a riscaldarsi nel nostro bene: e cieco parimente e insensibile affatto è il cielo con tutti i lumi delle sue stelle benefiche. Conviene adunque che tutto ciò sia opera di un artefice, il quale nella vastità delle sfere, nella velocità de’ moti, nella molteplicità delle influenze propizie abbia formato un ritratto del suo braccio, della sua mente, e del suo cuore divino, da motterci innanzi agli occhi. Sarebbe però troppo gran vergogna dell’uomo, se egli, che per l’orme lasciate da una fiera nel bosco sa riconoscerla, sa rintracciarla, sa arrivare infino a trovarla nel suo covile, non sapesse poi per le vestigia sì manifeste di onnipotenza, di sapienza, di bontà, stampate ne’ cieli, riconoscere, rintracciare, e giungere anche a trovar Dio nel suo trono, ed a venerarlo.