–Paolo SEGNERI S. J.:
L’INCREDULO SENZA SCUSA –
Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884
CAPO VIII.
Dalla costanza dei medesimi effetti nella natura vieppiù si scuopre non venire essi da caso, ma da consiglio.
I. Se un raggio solare passi per qualche spiraglio della finestra, osserverete, al porgli innanzi una carta, che egli dilungatosi alquanto da quel forame, non ritien più la figura quadra, ottangola, ovata, o triangolare, propria di quel forame, per cui passò, ma riducendosi sempre al pari in un cerchio, par che egli dica a chi intenda ben la favella della sua luce: lo son figliuolo del sole: da lui venni a discendere per natura, ed a lui ritorno, dandogli questa gloria di figurare nella mia piccolezza una immagine illustre della sua sfera, tanto maggior della mia (Aristot. in probl, sect. 15. n. 10). Ora quello che è il raggio rispetto al sole, è qualsisia creatura rispetto a Dio: procede ella da lui come da principio, ed a lui ritorna, col dimostrarlo a qualunque occhio non losco: mentre ella non lascia mai di rappresentare in piccolo qualche pregio eminente del suo fattore, sicché chiunque la riguardi abbia occasione di sollevarsi ad argomentare tra sé, che se tanto bello è l’effetto, troppo più bella senza paragone debbe esserne la cagione. Ma come avveierebbesi tal discorso, su l’ordine, l’armonia, l’artifizio, la maestà, che traspira in tutto il creato, non avesse altro principio, che un vil miscuglio di corpuzzi abbracciatisi alla carlona? Sicuramente troppo più alto sarebbe quivi l’effetto, che la cagione. Onde, se ciò non si dee mai concedere in modo alcuno, conviensi necessariamente assegnare a così bel tutto un principio dotato sopra ogni credere di quel senno, di quel sapere, che folgora cosi vivo da tal effetto.
I.
II. Che se pure taluno di que’ protervi i quali non si stimano mai convinti fin che hanno la lingua libera a contraddire, volesse tuttavia sostenere questo partito affatto incredibile, cioè che quelle tante sconciaturelle, cui diamo il nome di atomi, con accozzarsi ciecamente fra loro infinite volte, arriverebbero pure in una a formare questo gran colosso del mondo sì ben inteso: abbiasi per ammesso un tale impossibile. Ma che vale? Né più né meno sarà egli costretto in fine a concedere, che so il caso poteva dare la forma a così bell’opera, non poteva però mantenergliela stabilmente: mentre, fra tutte le proprietà del caso, questa è la massima, la volubilità e la vicenda.
III. E dove si troverà, che egli dia sempre alla luce un parto uniforme? Anzi suo proprio è il variarli più spesso che non fa l’Affrica, cui par poco popolar le arene di mostri, se non gli dà sempre nuovi. Mirate un giocatore non malizioso. Se lascia andare su la tavola i dadi, come lor piace, non è possibile che a qualunque tratto egli scuopra l’istesso punto, ma sempre varia, tanto che, se egli senza intermissione venisse aver tre sei, non vi sarebbe da dubitar che in tal giuoco non fosse inganno. Contenderebbesi al giuocator la vittoria come non giusta: e si terrebbe per manifesto da’ giudici, che quei dadi furono da lui tratti con arte da disleale, e non alla semplice. Quindi è, rimaner celeberrima nelle istorie (Fam. de bell. belg. dec. 2. icon. anim. c. 4), la temerità di quel fantaccino, il quale obbligato con più altri compagni suoi fuggitivi a tirare il dado sotto le forche apprestategli, scoperse alla prima un punto sì avventuroso, che lo campò dalla morte. E pur egli insensato s’indusse a venderlo per poche doppie al vicino. Tornò la seconda volta al funesto giuoco, e sorti il medesimo tiro: ond’egli imbriacato di sua ventura, non dubitò di rivenderlo nuovamente: finché alla terza scoperse un punto pessimo, e lo pagò, con perdere quella vita, di cui si era mostrato sì poco degno. Argomentava lo sciocco, dall’essergli due volte il caso propizio, che gli sarebbe la terza: e non si apponea: mentre all’opposito, perché due volte gli era stato propizio, però più lo doveva egli alla terza temer nemico. Tale è il talento del caso. Non sa mai tessere una tela continova di operazioni tra sé concordi: e benché vagliasi dei medesimi mezzi, non sa valersene ne’ medesimi modi, che è ciò che ricercherebbesi ad assicurare con quelli l’istesso fine. Siamo certificati dalla natura, che questo non è proprio di altri, che di chi opera con accorgimento perfetto. Pertanto, anche a fingere questo grande impossibile, che uno stuolo immenso di que’ corpuzzi volanti alla spensierata si fossero uniti insieme sì bellamente, che avessero composto un leone vivo, come farebbero poi per sessanta secoli, da che oramai sono apparsi leoni al mondo, a formarne tuttodì tanti e tanti simigliantissimi, quanti sono quei che ne contano da sé solo le selve ircane? E ciò che si dice de’ leoni, dite di tanti altri animali che non han numero, dite dell’erbe, dite delle frutta, dite dei fiori, e dite di tutto ciò che rende al tempo stesso sì nobile l’universo.
II.
IV. E molto più, come potrebbe un collegamento fortuito durare incessantemente fra tante contrarietà e tanti contrasti? Dove mai caverebbe il caso vischio bastevole a tener insieme e strette fra loro sì lungamente parti tanto opposte, proprietà tanto ostili, generazioni di cose tra sé implacabili: di leggiere e di gravi; di sode e di fluide; di stabili e di flessibili; di lucide e di opache; di calorose e di fredde; di vincitrici in assidue gare e di vinte? Certamente, che se non può unirsi insieme senza arte una macchina di ruote fra sé contrarie, quali sono quelle che formano l’oriuolo, molto meno può credersi, che senza arte possa ella del continuo poi correre di un tenore, sicché l’istessa contrarietà de’ suoi moti vaglia a maggior concordia, l’opposizione a maggiore perseveramento, l’ostilità a maggior pace. Quante monarchie sono in pochissimi secoli andate a terra? Ecco che il dominio degli Assiri, dei Medi, de’ Macedoni, de’ Romani fu vinto da un dominio maggior del loro, qual è quello del tempo; e ciò con tale sterminio, che di corpi sì vasti né anche restano a rimirarsi più l’urne, non che le ceneri. E pure quelle gran monarchie erano tutte già governate con somma accortezza, guidate con somma attenzione, sostentate con somma forza. E vorremmo poi darci a credere, che la repubblica delle creature potesse durare costante a onta del tempo, se ella non solo fosse già fondata dal caso , ma dal caso ancor sostenuta? Nulla è più naturale, che risolversi le cose un dì ne’ principii donde furono originate. E però un tutto nato dal caso, dalla confusione, e dal miscuglio d’infinite minuzie, non potrebbe non ridursi poi nel suo caos, nella sua confusione, e nel suo miscuglio natio. E certamente quel capitano, il quale dopo la rotta sa riparare in tempo l’esercito, raccogliere i fuggitivi, riunir le file, e rimettere la battaglia, vien riputato nell’arte militare come un prodigio di perspicacità e di prudenza. Ben dunque è d’uopo, che non solo sia lippo, ma che voglia essere, chi nega di ammirare per colmo di arte quell’artefice sommo della natura, il quale delle perdite sa valersi a fare nuovi acquisti; e poiché le cose caduche, non solamente sono sbaragliato, ma spente, sa trovar modi da sostituirne altre subito in luogo loro, sicché su la fine di qualunque anno, mancando, per dir così, la natura stessa nel suo sfiorire, non manchi mai; e disfacendosi, sempre più torni intera a riporsi in forze. Che follia pertanto è la vostra, se in vece di fare al vero il dovuto ossequio, con dirgli, Io cedo, volete ancora oppugnarlo? No no, si gettino le armi, che egli ha trionfato, sol che voi tenghiate a memoria quanto io vi ho detto. Una cagion casuale (Una cagion casuale è una contraddizione in termini. Poiché cagione è forza attiva, efficiente, epperciò dotata di realtà, mentre il caso è una mera entità as tratta, a cui non risponde veruna realtà in natura. Arroga, che il vocabolo caso pigliasi altresì a significare un fatto, un avvenimento, un fenomeno qualunque siasi. Or come un fatto, val quanto dire un effetto può esser cagione?Adunque cagione casuale varrebbe quanto circolo quadrato), non può partorire effetti tanto ordinati, con tale proporzione di mezzi adattissimi al fine ch’ella riporta. E dato per impossibile, che taluno ne partorisse, questo sarebbe rispetto a lei come un mostro: onde non potrebbe esserne ella feconda di tanti e tanti, quanti se ne richieggono alla costituzione dell’universo. E posta finalmente anche in lei questa sì prodigiosa fecondità, non potrebbe tal cagione mai seguitare per tanti secoli, a riprodurre gli stessi effetti con rinnovellamenti sì universali, con regole sì uniformi, e con un tenore di operazioni sì stabili nello stesse instabilità.
III.
V. E pure, che i medesimi effetti abbiano sempre da ritornare nella natura, e da ritornare con ordine, è cosa già tanto fuori di controversia, che gli ateisti medesimi 1’hanno a credere, non ostante l’oltraggio manifestissimo che, col mostrare di crederla, fanno al caso. Altrimenti si dovrebbe da loro mettere in dubbio, se domani sia per sorgere il sole dall’orizzonte, come sorse ieri; se la terra potrà loro più essere di sostegno, se l’aria di respiro, se l’acqua di refrigerio; se sian più per nascere uomini come prima; ed in una parola se tutta la natura abbia da durar più nell’antica forma, o pure svanire, come un palazzo d’incanto. I popoli del Messico, innanzi di venire alla incoronazione del loro re, voleano che egli giurasse loro di fare, che i cieli non si fermassero mai; che niun pianeta mutasse punto il suo corso, ne il suo veruna stagione; che i mari mai non avessero ad asciugarsi, e che i prati, i campi, i colli, ed i boschi annosi, non mai restassero di dare quasi decrepiti i loro parti, e di germogliare (Saved. In inst. princip. p. 46). Ora una cerimonia sì stolta, qual era questa, dovrebbe riuscire il senno più fino degli ateisti, quando eglino da senno credessero, che l’universo non fosse altro che un aggregato casuale d’innumerabili atomi volubili e vagabondi. Conciossiachè nulla sarebbe più verisimigliante, che il doversi questi disciogliere all’improvviso, per assecondare il talento innato che essi hanno di andare in volta; e lo sperare che avessero a star costanti in perpetua unione, sarebbe lo sperare un chiaro miracolo; onde il passato non potrebbe essere agli ateisti argomento valevole, come è a noi, d’indovinare il futuro; anzi il sapersi da essi quello che fu, dovrebbe valer loro piuttosto ad inferire ciò che non dovrà essere: sicché l’universo sarebbe per loro simile ad un oriuolo guasto, che già più ad altro non serve che a mostrare quell’ora la qual non è. La verità si è però, che tra essi non ha veruno il quale seguiti in pratica la dottrina da sé protetta: ma tutti sempre regolano le loro deliberazioni come fa chiunque tiene per indubitato, che la natura non altererà le sue leggi; altrimenti è chiaro che i miseri non potrebbero né seminare, né mietere, né mangiare, né medicarsi, né per poco durare due giorni in vita. E pure che è il presupporre una tale uniformità tra gli effetti che debbono intervenire nella natura e gl’intervenuti, senonché il presupporre un’opera tutta piena d’intelligenza contraria al caso?
IV.
VI. Pare che il caso sia finito con ciò di cadere a terra. E tuttavia non ha egli ricevuta finora la spinta massima: spinta, che gli viene dal braccio d’un Aristotile, nimico suo capitale (Aristot. phys. 1. 1. c. 8. tex. 66. Metaph. 1. 11. c. 9. n, 15). Perocché vi chieggo: che cosa è mai la cagion casuale di qualunque effetto che voi sappiate assegnarmi? E altro forse che una cagione imitante la cagion propria di quel medesimo effetto? Se un pittore, fortunatissimo al pari di quello già da noi menzionato, gettando per dispetto la spugna carica di colori sulla sua tela, può figurare casualmente una rosa, distinta in più vaghe foglie, conviene adunque, che con quei colori medesimi possa figurarsi su quella tela una rosa tale, anche ad arte: conciossiachè, so non vi si potesse fingere ad arte, né anche mai vi si potrebbe da alcuno fingere a caso. Che dite pertanto voi? Dite che a caso potesse il mondo l’ormarsi dagl’intrecciamenti di atomi svolazzanti, o che a caso da questi ancora egli possasi mantenere nella prima forma? Dunque non potete negare insieme un artefice intelligente, che altrettanto potesse far di consiglio, e tuttora il possa: altrimenti converrà, che a forza vi risolviate a inghiottir questa gofferia tanto intollerabile, che vi sia cagion casuale di quello cose di cui non v’è cagion propria. Ma un tale artefice altro non è, né può essere, se non Dio. Dunque il caso stesso confermaci che Dio v’è. Ogni cagione accidentale presuppone la naturale.
V.
VII. Risponderete, che por cagion naturale può supplire d’avanzo nel caso nostro la natura medesima delle cose, le cui diverse inclinazioni bastarono a lavorare le varie parti di questo tutto visibile, e bastano a mantenerle in perpetua corrispondenza senza altro Dio. Onde quando anche si abbia finalmente ad ammettere qualche artefice universale, maggior del caso, ecco qual è: la natura. Ma grazie al cielo, che con tale risposta venite al meno a degradare ormai gli atomi da quel posto ove gli aveva sollevati il capo vanissimo di Democrito e de’ suoi malcauti seguaci. Contuttociò, perché il rispondere voi così non è altro che fare come la seppia, la quale, dove è colta, si aiuta subito a spargere tanto inchiostro d’intorno a sé, che vi disparisca; converrà che a forza io vi tragga da coteste nuove tenebre fatte a mano, mettendo in chiaro questo male inteso vocabolo di natura, che è il nascondiglio.