–Paolo SEGNERI S. J.:
L’INCREDULO SENZA SCUSA –
Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884
CAPO VII.
Dal procurare che la natura fa quegli effetti, i quali ella ottiene, ai manifesti che ella non opera a caso.
I. Qualunque artefice retto, secondo la dottrina che dà l’Angelico, considera tre cose nei suoi disegni (S. Th. l. dist. 39. q. 2. art. 1). Considera il fine dell’opera: come si è (qualora egli abbia da fabbricar una casa) per chi la fabbrichi. Considera le proporzioni che hanno a tenersi: cioè la proporzion generale dell’opera al fine, e la proporzione speciale di ciascuna parti; dell’opera verso l’altre. E finalmente considera quali siano quei mezzi i quali più promuovono questo fine, e ne tengono indietro gl’impedimenti: valendosi però di modelli, di manovali, e di ordigni i più confacevoli che può ritrovare a tal uopo. Tutte queste considerazioni proprie dell’arte, nelle operazioni della natura risplendono a meraviglia: onde, se di niuno artefice, il quale proceda conforme alle dette regole, si dirà che egli operi a caso, ma che operi anzi con saper sommo; perché dovrà dirsi solo della natura? Forse non le osserva ella sempre divinamente? Miriamolo in ciò che ciascuno ha davanti gli occhi.
I.
II. La natura vuole che gli animali non lascino di nutrirsi, per la necessità che hanno tutti di riparare con l’alimento ciò che il calor innato consumò in essi con la sua attività.
III. Ed ecco che a tal fine ella riempie la terra d’erbe infinite, di frumento, di frutta, l’aria di pennuti, l’acque di pesci, le foreste di selvaggine, affinché quasi da dispensa incessante ne tragga chiunque vive una refezione proporzionata al talento, scegliendo fin tra ciò che talvolta all’uno è veleno, all’altro è rimedio.
IV. Ma non basta che vi sia cibo: conviene che il cibo adattisi a quelle membra che si hanno ad alimentare. Ecco però, che a tutti gli animali, senza eccezione, vien data bocca da inghiottirlo, palato da discernerlo, denti da romperlo, da sminuzzarlo, da macinarlo; tanto che fino i tarli più tenerelli trovano nel duro legno di che sfamarsi, ed hanno al masticarlo una dentatura sì forte, che non si arrende dove si spezzan le seghe.
V. Senonchè non è sufficiente quella prima digestione di cibo che gli animali formano nella bocca, ad estrarne il sugo. Conviene che questo per la gola scenda allo stomaco, prodigioso nel suo lavoro. Perché, se quivi non si incontrasse una fervidezza piacevole, un fermento proporzionato, e una robustezza sufficiente di fibre e nervose e carnose con buona interna fodera vellutata nelle sue tuniche e corredata di minutissime glandule (affinché, secondo che è d’uopo, il cibo ritenuto si ammollisca, si agiti, si disciolga, ed in nuova tenera massa, risultante dal mescolamento del cibo con la bevanda, possa per lo clivo del piloro scorrere agevolmente nelle intestina, ciò che mangiossi, sarebbe più di peso che di sostegno.
VI. E pur che è ciò, rispetto al rimanente dell’opera che vi vuole alla nutrizione? Parlate agli anatomisti, ed essi con i propri lor termini vi diranno quanti liquori tuttavia vi abbisognino, stemperati con mirabil arte nelle officine del fegato, e del pancreas, donde per due loro acquedotti sgorghino al principio delle budella, quasi nuovo fermento, necessarissimo alla perfezion del chilo, perché assottigliato vieppiù, e quasi volatilizzato che questo siasi, possano le particelle utili (che sono le nutritive) separarsi dalle inutili (che sono le escrementizie), tanto che in virtù della pressione dei muscoli soprapposti, e delle fibre stesse degl’intestini, vadano a penetrare per angustissimi ingressi negl’innumerabili canali lattei, i quali, sparsi pel mesenterio, passano a prò del chilo per quelle ghiandole, prima di versarlo nel loro ricettacolo universale, detto altresì vaso linfatico grande. Né solo cibo, ma vi diranno come ivi il chilo nuovamente approfittisi nel mescolamento di sottilissima linfa, finché salendo per via poc’anzi scopertasi alla vena succlavia sinistra, arrivi misto finalmente col sangue, mediante la vena cava, al ventriglio destro del cuore; senzachè neppure venga però ammesso a nutrire perfettamente se non dopo essersi rotato prima tutto per li polmoni. E vi aggiungeranno, come alle imboccature dei canali per cui trascorre, son posti per ogni via tanti ripari contro il ringorgo de’ fluidi, e scompartiti tanti ingegni, e scansati tanti intoppi, e tenute tante avvertenze, che l’accennarle tutte sarebbe non finir mai. Pare a voi pertanto, che la natura in quel pochissimo solo che ne ho qui detto conseguisca un fine, il quale non sia da lei preteso direttamente, anzi procurato con tutte e tre quelle previe considerazioni le quali costituiscono il buono artefice (Queste considerazioni si trovano stupendamente espressa da Cicerone nel secondo libro del suo De natura Deorum.)?
II.
VII. Che se nella pura nutricazione degli animali, che è la più bassa di tutte le opere loro, bada ella sì attentamente al fine di essa, bada all’ordine, bada agli organi, bada a tutto, giudicate voi ciò che ella faccia nelle più sollevate: da che come un genere di ornamento cittadinesco, qual è il corintio, o il composto, è dovere che sia condotto più gentilmente di un rusticano: così nella fabbrica impareggiabile di qualunque animale non lascia la natura di avere la mira a ciò che dee più stimarsi. – Ditemi dunque: in che consiste far le cose a disegno, se questo è, secondo voi, farle a caso? Vedeste giammai miracolo così strano? Un cieco, nato senz’occhi, che mai non rimirò la luce in se stessa, mai ne’ colori, pigliare in mano un pennello, ed alla rinfusa bagnandolo in varie tinte, disegnare ad un tempo, e tirare a fine, non dirò un’opera pari a quella cena ammirabile degli dei, per cui RaffaelIo si dimostrò quasi nume della pittura, ma neppure una di quelle tanto inferiori che diedero il primo credito a Cimabue? Come può pertanto avvenire, che se la figura, contraffatta ancora e storpiata, di un animale, non può lavorarsi senz’arte, possa senz’arte lavorarsi a stupore l’animale medesimo vivo e vero? Bisogna bene uscire affatto di sé per credere queste ciance. Galeno mandò già un cartello di disfida a tutti gli epicurei, dando loro di tempo un intero secolo ad emendare, ad aggiungere, ad aggrandire, e mutare in meglio una minima particella del corpo umano; ed ove questo eseguissero, si offriva a farsi loro seguace, sino a riconoscere il caso per architetto di sì bello edifizio. Su, portate voi parimente una disfida simile agli ateisti sopra qualunque altro lavoro della natura, e vedrete se rimarran più che svergognati: tanto è infallibile che con tutto l’ingegno loro aguzzato dalla passione non troveranno in quei lavori altro oggetto che di applauso e di ammirazione; tale è la scienza del fine, tale è la disposizion delle parti, e tale è la prudenza in tutti que’ mezzi che la natura adopera al fine inteso.
III.
VIII. Né vale punto il ricorrere alle infinite combinazioni possibili di quegli atomi andati in volta: fra le quali una può dirsi che questa fu, da cui si forma al presente il nostro universo. Debol puntello a macchina sì cadente. Conciossiachè fra tutte le combinazioni che sian possibili al caso, non può trovarsi mai veruna di quelle che sono unicamente possibili all’intelletto. Se per infiniti secoli fossero andati già vagando per l’aria tutti i caratteri delle stampe olandesi, non avrebbero sortito mai di formare la Gerusalemme liberata del Tasso, ma ad ogni accoppiamento felice avrebbero sempre uniti a migliaia i falli; non potendo avvenire che il caso con tutti i suoi ravvolgimenti possibili giunga ad operar mai da quello che egli non è, cioè ad operare da artefice, non da caso; come non può avvenir che tutti i fantasmi di un cavallo, o di un cane, con infiniti ravvolgimenti che facciano in una tale immaginativa, giungano a produr mai discorso da uomo, mercecchè il discorrere trascenda tutti i confini prescritti al modo che tiene nel suo operare qualunque testa brutale. Tal è l’essenza del caso. Essere una cagione determinata a proceder in modo opposito a quello dell’intelletto, cioè a procedere senza connessione e senza corrispondenza: onde, se quei caratteri avessero mai formato un sol verso giusto, sarebbe stato un miracolo di fortuna maggior di quello che Plutarco racconta di un tal pittore, il quale disperato di poter esprimere al vivo la spuma del cavallo da lui ritratto col freno in bocca, gli gettò sul freno la spugna a guastare il fatto, e invece di guastarlo il perfezionò. E pure questo miracolo di fortuna cambiata in arte disse Plutarco esser l’unico a ricordarsi: Hoc unum fortunate artificiosum facinus narratur (Plut. libello de fortuna). Nel resto, come col gittar tale spugna infinite volte non sarebbe a quel dipintore riuscito mai di formare l’Elena di Zeusi, il Gialiso di Protogene, il Genio di Parrasio, l’Andiomene di Apelle, ma al più al più sarebbe avvenuto di fare qualche altra facile combinazion di colori, simigliante alle casuali; così quei caratteri, con accozzarsi infinite volte tra sé, non sarebbero mai pervenuti a formare un poema eroico. Pertanto, se immensamente più colma d’intelligenza e d’ingegno è qualunque composizione di un corpo animato, che non è qualunque composizione di versi, benché bellissimi; come può esser parto del caso un elefante, un alicorno, un delfino, un’aquila, un uomo, anzi tutto il concerto dell’universo sì ben disposto, se non può essere parto del caso un poema di ottava rima?
IV.
IX. Che più? Va per le bocche di tutti, che l’arte è bella, quando imita più la natura. Or come dunque la natura è senz’arte? Può chi copia cavare dall’esemplare ciò che non vi è?
X. Anzi, se l’arte ha bisogno di tanto senno e di tanta sagacità per imitar la natura; convien che la natura di tanto prevalga all’arte in senno e in sagacità, di quanto quel maestro che dà l’idea conviene che prevalga a quello scolaro che debba apprenderla. (L’arte umana è figlia della natura, come la natura è figlia di Dio, giusta il verso di Dante: « Sì che vostr’arte a Dio quasi è nipote – Inf. c. 11, v.105. ») É gran prodigio, che la luce di una verità così folgorante non ferisse a forza le pupille di Democrito, tutto che chine e chiuse in lui dall’impegno. Fu pur egli già quel Democrito, il quale abbattutosi in un tal villanello, detto Protagora, che su le spalle portava a casa un fastelletto di legne legate insieme con garbo non ordinario, si fermò prima tacito ad osservarlo, e dipoi fattogli scomporre da capo il suo piccol carico, pronunziò che Protagora avea talento da divenire filosofo di gran nome, e l’indovinò. Ora udite cosa incredibile, e pur sicura. Democrito riconosce in un fascio di legne ben ordinate l’ingegno di un uomo; ed in questo gran teatro dell’universo, sì metodico, riconosce se non il caso fabbricante a chius’occhi! Non vuole che poche legna accozzate insieme con qualche proporzione possano procedere da altra inferior cagione, che da un intelletto operante con avvedimento e con accortezza; e vuole che questa grande architettura del mondo, di cui tutti gl’ingegni umani non arrivano a penetrare la superficie, non che le finezze ed il fondo, sia struttura di un brulicame confuso di corpicciuoli volanti a caso nel nulla, ed acchiappatisi insieme, come fanno i ragazzi, alla gatta cieca. Ebbe ben ragione Aristotile (L. 1. metaph. c. 4) di chiamare questo discorso un discorso di ebbro, il quale non vede, travede. Se non che disse anche poco, mentre queste di verità non sono traveggole, sono stralunamenti. Ma voi frattanto che dite? Vi pare, che s’inducano a credere belle cose quei che hanno a sdegno di credere fermamente, che Dio vi sia? In qual de’ due casi dovete voi trattar più da tiranno la vostra mente; in obbligarla ad approvare i discorsi che sono cosi confacevoli alla ragione, o in obbligarla ad approvar le stoltizie? Ma tale è questa, che la natura non intenda quei fini a cui fa che cospirino tanti mezzi. Rimane ora a mostrare, che questi fini non ottenga ella soltanto una volta, o un’altra, come fa il caso, gli ottenga costantemente. Ma perché questo è chiamarmi all’altra proposizione, che getta a terra le fabbriche attribuite sì falsamente da Democrito a un orbo, riserbiamo il provarla ad un altro capo, da che so ‘l merita.
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