SALMI BIBLICI: “DOMINE, REFUGIUM FACTUS ES NOBIS” (LXXXIX)

SALMO 89: “DOMINE, REFUGIUM FACTUS ES NOBIS”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS -LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 89

[1] Oratio Moysi, hominis Dei.

    Domine, refugium factus es nobis

a generatione in generationem.

[2] Priusquam montes fierent, aut formaretur terra et orbis, a sæculo et usque in sæculum tu es Deus.

[3] Ne avertas hominem in humilitatem; et dixisti: Convertimini, filii hominum.

[4] Quoniam mille anni ante oculos tuos tamquam dies hesterna quæ præteriit, et custodia in nocte;

[5] quæ pro nihilo habentur eorum anni erunt.

[6] Mane sicut herba transeat; mane floreat, et transeat; vespere decidat, induret, et arescat.

[7] Quia defecimus in ira tua, et in furore tuo turbati sumus.

[8] Posuisti iniquitates nostras in conspectu tuo, sæculum nostrum in illuminatione vultus tui.

[9] Quoniam omnes dies nostri defecerunt; et in ira tua defecimus. Anni nostri sicut aranea meditabuntur;

[10] dies annorum nostrorum in ipsis septuaginta anni. Si autem in potentatibus octoginta anni, et amplius eorum labor et dolor; quoniam supervenit mansuetudo, et corripiemur.

[11] Quis novit potestatem iræ tuæ,

[12] et præ timore tuo iram tuam dinumerare? Dexteram tuam sic notam fac, et eruditos corde in sapientia.

[13] Convertere, Domine; usquequo? et deprecabilis esto super servos tuos.

[14] Repleti sumus mane misericordia tua; et exsultavimus, et delectati sumus omnibus diebus nostris.

[15] Lætati sumus pro diebus quibus nos humiliasti, annis quibus vidimus mala.

[16] Respice in servos tuos et in opera tua, et dirige filios eorum.

[17] Et sit splendor Domini Dei nostri super nos; et opera manuum nostrarum dirige super nos, et opus manuum nostrarum dirige.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXXIX

È il salmo intitolato da Mosè, non perché da Mosè composto; ma perché Mose prega Dio. Argomento è orazione a Dio pel genere umano, il quale pel peccato originale cadde nelle massime sciagure, ed è nella necessità del soccorso di Dio a portare con pazienza i mali della vita ed arrivare alla beatitudine celeste. (1)

Orazione di Mosè nomo di Dio.

1. Signore, tu sei stato nostro rifugio per tutte quante le età.

2. Prima che fossero fatti i monti, e formata la terra e il mondo da tutta l’eternità e per tutta l’eternità, o Dio, sei tu.

3. Non ridur l’uomo nell’abiezione, tu che dicesti: Convertitevi, o figliuoli degli uomini. (2)

4. Perocché mille anni dinanzi agli occhi tuoi son come il dì di ieri che è trapassato;

5. E come una vigilia notturna; i loro anni saran come cosa che nulla si stima.

6. In un giorno passa com’erba: al mattino fiorisce, e passa; sulla sera cade, e si indurisce, e si secca.

7. Siam venuti meno sotto il tuo sdegno, e pel tuo furore viviamo in turbamento.

8. Hai collocate davanti a te le nostre iniquità, e la nostra vita davanti alla luce della tua faccia.

9. Così tutti i giorni nostri sono mancati, e noi sotto il tuo sdegno siam consumati.

10. Come tela di ragno saran considerati gli anni nostri: pei giorni di nostra vita si hanno i settant’anni. E pei più robusti gli ottant’anni; e il di più è affanno e dolore. Dappoiché é venuta in aiuto la (tua) benignità, e noi sarem tosto rapiti. (3)

11. Chi sa conoscere la grandezza dell’ira tua? e chi sa comprender la tua indignazione, come tu sei formidabile?

12. Fa adunque conoscere (a noi) la tua destra, e dà a noi un cuore illuminato dalla sapienza. (4)

13. Volgiti a noi, o Signore; e fino a quando (sarai sdegnato)? placati coi servi tuoi.

14. Sarem ripieni al mattino di tua misericordia, e saremo nella esultazione e nel gaudio per tutti i giorni nostri.

15. Avrem letizia per ragione dei giorni nei quali tu ci affliggesti, e per gli anni nei quai vedemmo miserie.

16. Getta il tuo sguardo sopra i tuoi servi e sopra le opere tue; e reggi tu i loro figliuoli.

17. E la luce del Signore Dio nostro sia sopra di noi; e governa tu in noi le opera delle nostre mani; e l’opra delle mani nostre, governa tu.

(1) Diversi interpreti hanno attribuito questo salmo a Mosè, perché ne porta il nome; ma Sant’Agostino e, dopo di lui un gran numero di commentatori, respingono questa opinione per ragioni desunte dalla durata assegnata alla vita dell’uomo nel versetto 10, e pensano che il nome di Mosè sia stato attribuito a questo salmo per conferirgli maggiore autorità. – Questo salmo deve al nome di Mosè che porta, il posto che occupa nel breviario, nell’ufficio delle “laudes” del giovedì, ove è stato avvicinato al cantico di Mosè dopo il passaggio del mar rosso, che ebbe luogo, si dice, il giovedì.

(2) Nel testo ebraico, il Salmista oppone l’eternità di Dio alla brevità della vita degli uomini. Voi siete – egli dice – immortale ed immutabile, l’uomo passa sotto gli occhi vostri; Voi riducete allo stato più umile, alla distruzione, alla morte, e dite: andate e tornate, figli di Adamo nella polvere dalla quale siete stati tratti (Gen. III, 19).

(3) Le miserie che accompagnano la vita e ne accorciano il corso sono un effetto della giusta collera di Dio, ma la morte, che è il termine di queste miserie, può essere vista come un effetto della sua bontà, della sua compassione.

(4) Il senso di questo versetto, nella Vulgata, potrebbe essere la conseguenza di ciò che precede: Fate almeno che, riconoscendo la vostra mano in questi castighi, noi ne siamo istruiti in saggezza

Sommario analitico

Il Salmo CI, composto sulla fine della cattività di Babilonia, indica che i Salmi che compongono questo libro siano stati raccolti poco prima dell’epoca in cui, sotto Esdra, fu formato il canone dei Giudei (Le Hir.). – In questo salmo, in cui il profeta considera il genere umano dopo la caduta di Adamo e contempla le miserie di questa vita mortale e passeggera.

I. – Egli si volge a Dio:

1° Come verso il rifugio che gli è preparato dall’inizio del mondo (1);

2° come verso l’Autore eterno della salvezza dell’uomo;

3° Come verso la causa prima della sua conversione (2).

II. –  Deplora la brevità della vita:

1° Comparata con la primitiva immortalità (3);

2° considerata in se stessa e nei simboli della sua breve durata (5, 6);

3° Egli espone la causa di questa brevità della vita: la collera di Dio (7);

4° l’occasione di questa collera, il peccato (8, 9);

5° i lavori inutili che abbreviano ordinariamente la vita (10).

III. – Egli desidera che Dio:

1° che Dio, per un effetto della sua dolcezza, lo distolga dal male e gli faccia conoscere la grandezza della sua collera;

2° gli insegni la vera saggezza (10-12);

3° ponga su di lui degli sguardi di misericordia (13);

4° gli faccia provare i dolci e soavi effetti di questa misericordia, in cambio dei mali che egli ha sofferto (14-15);

5° diriga lui e tutta la sua vita con la sua luce divina, conduca e faccia prosperare tutte le sue opere (16, 17).

Spiegazioni e Considerazioni

1. – 1, 2.

ff. 1, 2. – Davide, prima di raccontare il triste destino dell’uomo, e deplorare le calamità del genere umano, comincia con il lodare Dio, affinché non si imputino alla durezza del Creatore le sventure e le prove di cui sta per parlare, ma alle colpe di colui che è stato creato (S. Girol., Epist. 139). – Dio è per noi un rifugio sicuro in tutte le nostre tribolazioni, qualunque esse siano; è un rifugio aperto a tutti, in ogni tempo e per l’eternità. « Signore, Voi siete stato il nostro rifugio di generazione in generazione, » per insegnarci come il Signore sia divenuto nostro rifugio, cominciando per noi ad essere ciò che non era in precedenza, benché sia sempre stato il nostro rifugio, il Profeta aggiunge: « prima che le montagne fossero fatte, e che la terra ed il pianeta non fosse formato, Voi siete fin dall’eternità, ed in tutti i secoli ». Voi dunque, che siete da sempre, Voi che siete da prima che noi fossimo e che il mondo fosse … Voi siete diventato il nostro rifugio dal giorno in cui ci siamo come convertiti a Voi (S. Agost.). –  « Prima che le montagne fossero fatte … Voi siete Dio. » Prima dell’esistenza di questi esseri che, nella vostra creazione, sono i più grandi ed i più elevati, prima che la terra fosse costituita perché vi fosse un essere che vi conoscesse e vi lodasse sulla terra; e non è esagerato dire che quasi tutti gli esseri abbiano cominciato sia nel tempo, sia con il tempo, ma piuttosto « … dal secolo fino al secoli Voi esistete. » La Scrittura non dice forse a ragione: Voi siete stato fin dai secoli, e sarete fino al secolo? essa pone il verbo al presente, per far comprendere che la sostanza di Dio è assolutamente immutabile, e che non si possa dire di Lui. Egli è, Egli è stato, Egli sarà, ma soltanto.: Egli è! Da ciò vengono queste parole: « Io sono Colui che sono » (Es. IV, 16) – « Voi siete sempre lo stesso, ed i vostri anni non verranno mai a mancare » (Ps. CI, 27, 28). Ecco che l’eternità è diventata vostro rifugio, ed è verso di essa che noi dobbiamo fuggire l’incostanza dei tempi, per restare sempre in essa (S. Agost.). – Fin tanto che noi siamo quaggiù, viviamo in mezzo a grandi e numerose tentazioni, ed è da temere che esse ci distacchino da questo rifugio. Così, cosa chiede l’uomo di Dio nella sua preghiera? « Non allontanate l’uomo nella sua bassezza », fate che l’uomo non si allontani dalle vostre eterne grandezze per desiderare ciò che passa, e prendere gusto a ciò che è terrestre, egli aggiunge poi: perché Voi avete detto: « convertitevi figli dell’uomo », come se dicesse: Io vi domando ciò che voi avete ordinato, glorificando così la grazia divina, affinché chi si glorifica, si glorifichi nel Signore, senza il cui soccorso noi non possiamo, con la nostra sola volontà, vincere le tentazioni di questa vita (S. Agost.). – Chiediamo spesso a Dio che non permetta che noi ci perdiamo nel fango dei nostri desideri e delle nostre passioni, e non ci seppelliamo interamente nella morte con l’oblio completo del sovrano Bene, perché Egli stesso ci ha chiamati a convertirci a Lui con la voce esterna delle Scritture, e con la voce interna della sua grazia.

II. — 3 – 9.

ff. 3-6. – Ecco il motivo per il quale noi dobbiamo allontanarci da tutto ciò che passa e scorre, al fine di arrivare al nostro rifugio, ove dimorare senza mai cambiare: e per quanto tempo si possa desiderare di vivere, « mille anni davanti ai vostri occhi, sono come il giorno di ieri che è passato. » Non è detto lo stesso per il giorno come il giorno di domani che deve ancora venire, perché tutto ciò che è limitato dal tempo che finisce, deve essere considerato come già passato (S Agost.). – « Il numero dei giorni dell’uomo, anche il più lungo, è di cento anni, e questi pochi anni sono come una goccia d’acqua nel mare, come un granello di sabbia nel giorno dell’eternità. Ecco perché il Signore è paziente verso gli uomini, e spande su di essi la sua misericordia » (Eccl. XVIII, 8, 7). Che sono cento anni, che sono mille anni, se un solo momento li cancella? Consideriamo allora come brevissimo, o piuttosto come un niente ciò che finisce, poiché infine, anche quanto si fossero moltiplicati gli anni oltre tutti i numeri conosciuti, visibilmente questo non sarà nulla quando saremo giunti a questo termine fatale. (Bossuet) – « I loro anni saranno come le cose che sono considerate un nulla. » Considerate un nulla, in effetti, sono le cose che non esistono prima di essere giunte e che, al loro arrivo, non saranno già più; perché esse non vengono per essere, ma per non essere. Il mattino, cioè l’inizio, che l’uomo trascorre come l’erba, il mattino, che fiorisce e che passa; la sera, cioè il poi, che cade, si dissecca e appassisce; cade nella morte e si dissecca nel suo cadavere, si dissecca nella polvere (S. Agost.). – La scrittura compara incessantemente la durata della nostra vita con ciò che vi è di più mobile, di più fuggitivo, di più leggero: è un’ombra, un sogno, un fiore che appare e appassisce ben presto, un fulmine che svanisce; ciò che è passato è ingoiato nel nulla, ciò che è futuro non è che in nostra potenza, quel che chiamiamo presente ci sfugge, e all’ultimo momento della nostra vita, di questa carriera non resta, per quanto lunga possiamo immaginarla, che il ricordo consegnato in parte alla nostra anima, ma ben più incisa nell’intelletto di Dio. È questo ricordo solo che ci deve interessare, e secondo il quale dobbiamo regolare tutti i nostri passaggi (Berthier).

ff. 7, 9. – L’uomo innocente non avrebbe provato la morte, ma è per l’invidia del demonio e a causa del peccato al quale egli ha condotto l’uomo, che la morte è entrata nel mondo. È dunque la collera di Dio, divampata per la malizia del peccato, che ha abbreviato la vita dell’uomo, e l’ha ridotta ad uno stato di debolezza. – È  lo stesso peccato che ha riempito di disturbi l’uomo, che godeva in principio di una pace profonda, nella conoscenza e nell’amore del suo Creatore (Duguet). – Nessuno deve essere persuaso che tutte le sue iniquità non siano presenti all’occhio di Dio, e che lo splendore di questa Maestà eterna rischiari finanche le pieghe più intime ed oscure della sua coscienza. Ciascuno di noi, al momento della morte, può dire: ecco il mio secolo finito; e con questo secolo, quale che sia la sua lunghezza o la sua brevità, tutti i secoli del mondo sono ugualmente assorbiti ed annientati. Non resta se non la luce di Dio, ed essa si stende su tutti i momenti della vita. Si saranno persi di vista gli smarrimenti dell’infanzia, le irruenze della giovinezza, gli intrighi dell’età matura, la debolezza della caducità, non ci si ricorderà né dei pensieri di frode, né dei desideri nascosti, né delle parole sconsiderate, né delle azioni momentanee, molto meno ancora delle circostanze che hanno cambiato o aggravato la specie dei peccati. Ma nulla sfugge alla conoscenza di Dio, come Egli tenga conto della minima azione fatta per compiacerlo, come raccolga tutti i dettagli della vita del peccatore per accusarglieli. (Berthier). – I suoi occhi eternamente aperti osservano tutte le direzioni, contano tutti i passi di un peccatore, e considerano i suoi peccati come sotto un sigillo, per presentarglieli nell’ultimo giorno … si nasconde agli uomini durante il momento così breve di questa vita, che passa come un’ombra, ma quando questa ombra sarà passata, la luce del volto di Dio, alla quale tutta la nostra vita sarà esposta, manifesterà tutto, metterà in evidenza le cose più nascoste nel fondo dei cuori. (Bossuet). – Anima cristiana, leva gli occhi, contempla in silenzio queste verità teologiche: che Dio, nella sua santità, conosce il tuo peccato, lo considera, lo esamina, e ne misura tutte le dimensioni; tanto che Egli vede nell’infinità delle bellezze e le grandezze delle sue perfezioni divine, sia che veda nelle bruttezze, le bassezze e gli obbrobri della vostra vita criminale. Egli compara il tuo stato al suo; trova che non c’è più né altezza né gloria nelle più sublimi elevazioni della tua saggezza e del tuo amore verso il suo Verbo, e che non c’è che il niente dove  sei caduta allontanandovi da Lui. Egli vede gli uni gli altri nella stessa visione. Che cos’è questo, gran Dio, esclama il Profeta tremante di orrore? (Ps. LXXXIX, 8). Occorre dunque che questo sia in un giorno così splendido nel quale contempliate le disgrazie e le onte della nostra vita miserabile e che, tra gli splendori del paradiso, il secolo della nostra ingratitudine, sia uno spettacolo della vostra eternità? Ecco come Dio conosce ciò che passa tra noi, ecco ciò che pensa di un solo e minimo peccato. (BOSSUET, liêflex. sur le triste état des pécheurs.)- Signore, Voi avete chiamato le nostre opere a comparire davanti alla vostra giustizia, avete posto il nostro secolo nello sguardo luminoso del vostro volto. Guardate la luce di questa fiamma, tutti i nostri giorni non sono stati che una sequela di cadute, e dovremo molto meditare per riempire i nostri anni di un lavorio che non ci sarà profittevole, un vero lavoro di ragnatela. – Riflessione, questa, tardiva che faranno alla morte tutti coloro che, per una lunga vita, avranno goduto della più grande prosperità. Essi diranno allora, vedendosi spogliati di tutti i loro beni: ahimè, tutti i nostri giorni si sono consumati, sono svaniti, e ci troviamo noi stessi consumati. Consideriamo allora il corso così precipitoso di una vita che tende alla morte in tutti i momenti, non attacchiamo il cuore ad un qualcosa che passa sì prontamente (Duguet). Perché rattristarci sulla rapidità dei destini dell’uomo? La vita è breve! E che importa! Che bisogno abbiamo di restare per tanto tempo sulla terra? Il cielo è nelle buone opere, non alle lunghe opere. Temete il viver male, non temete di vivere poco. Voi siete qui per lavorare. Se lavorate bene, avete paura di ricevere troppo presto la ricompensa? Al contrario, desideratela: Dio permette che voi la desideriate; ciò che Egli permette è giusto e saggio. Se lavorate male, di che si lamenta il vostro cuore, più virtuoso delle vostre opere? Convertitevi e desiderate di morire presto, per non ricadere nel peccato. « Colui che vuol vivere per raggiungere la perfezione – diceva un santo dottore – desideri morire, ed è perfetto. » Ma non crediate che la vita sia così breve: voi lasciate per tanto tempo dopo di voi, il bene o il male di cui avete riempito i vostri giorni. Non avete rovinato che un cuore, quanti ne rovineranno altri! Non avete preservato che un’anima, quante anime essa non preserverà (L. V., Rome et Lorette, n, 58.).

ff. 10, 11. – Nulla c’è di più preoccupante della ragnatela, niente di più fragile che il proprio lavoro. Esso si risolve nel tendere dei fili che sono distrutti in un momento. –  I nostri giorni trascorrono nei vani lavori simili a quelle tele che il ragno produce dalla sua sostanza e che lo affaticano. C’è molta arte nel lavoro di questo insetto, sembra quasi che esso rifletta per formare un tessuto così fine e ben  ordinato. È per questo che il Salmista si serve del termine “meditare”. Cosa facciamo durante la nostra vita? Riflessioni per ergere delle opere così frivole come le tele leggere del ragno, per intraprendere grandi lavori che terminano nel prendere delle mosche, per formare delle trame e tendere dei filamenti in cui siamo noi stessi avviluppati, e che si rompono tanto facilmente quanto più li abbiamo tessuti con difficoltà (Berthier, Duguet). – Qual è l’uomo la cui vita non si consumi tra vani progetti, tra vane meditazioni! Si fanno sogni che non si avverano; si formano dei desideri che non si realizzano o non soddisfano mai; si inseguono dei beni passeggeri, ci si agita, ci si sforza, ci si tormenta. E cosa ne viene all’uomo da tutto questo lavoro … domanda l’Ecclesiaste? (I, 3). Gli anni dell’uomo trascorrono nel meditare inutili pensieri; essi meditano, ci dice il Re-Profeta, come il ragno che tesse la sua tela. Ogni anno che passa è una tela nuova che si tesse e che si strappa. Le mosche frivole che si catturano nelle nostre trappole, valgono i nostri duri lavori? … così i nostri anni si succedono rapidamente e ci trascinano con esse; esse consumano lentamente la nostra vita. « Cosa viene all’uomo dal suo lavoro? » Ahimè, egli si consuma lavorando, tutte le cure che lo occupano lo divorano. Ogni nuovo affanno per il suo cuore, aggiunge una ruga nuova alla sua fronte. Simile al ragno tesse lui stesso i fili effimeri delle sue opere, e come esso, si dissecca, stendendo la tela. Tuttavia, ci affrettiamo a ridirlo, sono soprattutto i peccatori che si impegnano in pene superflue, perché a loro si applicano le parole di Davide: « allontanandosi da Dio, essi si sono resi inutili » (Ps. XXXVIII). E sempre è l’anima dei peccatori che lo stesso Profeta ha visto in questo versetto del Salmo: « Signore, avete punito l’uomo a causa delle sue iniquità, Voi avete fatto seccare la sua anima come il ragno » (Ps. XXXVIII, 13).  (Mgr. DE LA BOUILLERIE, Symb. II, p. 444, etc.).- Il Profeta aveva considerato l’eternità di Dio e vi oppone la durata sì breve della nostra vita, che è di settanta anni, o al più di ottanta anni, ma ancor circa la metà del genere umano perisce prima di raggiungere la giovinezza, e non c’è che la decima parte degli uomini fatti per giungere a settanta anni. (Berthier).

III. — 11-17.

ff. 12, 13. – Effetto della misericordia di Dio, è abbreviare il corso della nostra vita. Una vita breve, ma tutta impiegata al servizio di Dio, è ben lunga. Una vita lunga, ma che si consuma in bagattelle, è ben corta, ma quale lunghezza di mali produrrà (Dug.). – Dalla severità con cui Dio ha punito il peccato del primo uomo, il Profeta trae le conclusioni della divina severità in generale. Chi potrà temervi tanto da eguagliare il suo timore alla vostra giustizia e i mille mezzi che avete per punire i peccatori? – « Chi sa apprezzare la potenza della vostra collera e misurare la vostra collera sul timore che Voi ispirate? » – Non appartiene – dice il Profeta – che ad un piccolo numero di uomini il conoscere la potenza della vostra collera; perché nei riguardi della maggior parte degli uomini, più voi li risparmiate, più vi irritate contro di essi, di modo che è piuttosto alla vostra collera che alla vostra dolcezza che occorre attribuire la pena ed il dolore con i quali voi castigate ed istruite coloro che Voi amate, per paura che siano destinati alle pene eterne. Quanto è difficile trovare un uomo che sappia misurare la vostra collera sul timore che Voi ispirate, e considerare come un effetto della vostra collera la pazienza con la quale risparmiate coloro contro i quali vi irritate maggiormente, di modo tale che il peccatore prosperi nella sua via e riceva un castigo più severo nell’ultimo giorno. Non c’è che un piccolo numero di coloro che sono istruiti per comprendere che la vana ed ingannevole felicità degli empi è la prova di una collera più violenta da parte di Dio (S. Agost.). –  « Fate conoscere la vostra destra; » cioè fate conoscere il vostro Cristo, del quale è stato detto: « … A chi è stato rivelato il braccio del Signore. » (Isai. LIII, 1). Fatelo conoscere in modo tale che i suoi fedeli apprendano in Lui a sollecitare ed a sperare da Voi, di preferenza, le ricompense che non sono espresse nell’Antico Testamento, ma rivelate dal Nuovo. Fate che essi non pensino che bisogna stimare come gran prezzo la felicità che danno i beni terreni e temporali, bramarla e amarla con passione, per timore che i loro piedi non siano tremanti quando la vedranno posseduta da coloro che non vi adorano, e per timore che essi non scivolino e non cadano in errore nel calcolare la vostra collera (S. Agost.). –  C’è una saggezza di spirito ed una saggezza del cuore che San Paolo chiama la saggezza del mondo: questa conviene ai filosofi, ai politici e a tutti i falsi saggi del mondo. La vera saggezza del cuore, consiste nell’essere ben persuaso che tutta la falsa saggezza del mondo non è che una follia, secondo la qualifica stessa del grande Apostolo, e che non si può essere veramente saggio se non quando si riconosce che si ama e si preferisce Dio ad ogni cosa. – Dio si ritira talvolta e per qualche tempo dai suoi servi; ma quando i suoi fedeli sono in questo stato pietoso, Egli si lascia piegare in loro favore.

ff. 14, 15. – Il Profeta, anticipando per esperienza i beni a venire e considerandoli già come compiuti, esclama: « Noi siamo ricolmi fin dal mattino della vostra misericordia. » Questa profezia è dunque per noi, nel mattino dei lavori e dei dolori di questa notte, « … come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori » (II Piet. I, 19). – Fin tanto che questa promessa si compia, alcun bene ci è sufficiente e non deve farci soffrire, per timore che il nostro desiderio non resti in cammino, intendendosi cioè finché non sia soddisfatto. « Noi siamo nella gioia per tutta la durata dei nostri giorni. » Questo è il giorno che non ha fine. Tutti i giorni sono radunati in uno solo; ecco perché noi saremo saziati; perché non ci sarà un giorno che fa posto ad altri giorni, là dove non c’è nulla che non sia ancora da venire, e che non sia già venuto. Tutti i giorni sono riuniti insieme. Perché non c’è che un solo giorno che arriva e non passa mai, e questo giorno è l’eternità. (S. Agost.). – Rallegriamoci quaggiù in proporzione alle nostre sofferenze. Perché le gioie del cielo vi saranno proporzionate. Vedete i radiosi volti di questa folla di Santi che numerosi circondano, affollandosi, il trono dell’Altissimo, saziate le vostre anime con la contemplazione della loro grave ed intellettiva bellezza; ammirate questi fieri sguardi con cui si dipinge la loro purezza senza macchia, e la calma intensità del loro amore tutto celeste. Ebbene, per la maggior parte di essi, è il dolore che li ha condotti attraverso la tempesta fino a queste rive felici; è il dolore che ha confezionato le corone da cui la loro testa è ornata; il dolore profondo, acuto e prolungato che ha fatto contemplare ad essi, senza veli, la splendida ed eterna Maestà di Dio (FABER, Le Créât, et la créât., p. 217). – Non è vero che per molti tra noi, per misericordia di Dio, le più grandi dolcezze che abbiamo gustato nella nostra vita siano nate in queste grandi contraddizioni? E consultando il fondo della nostra anima, noi possiamo dire con il Salmista: « non ci resta che un sentimento di gioia al ricordo dei giorni nei quali siamo stati umiliati, e degli anni in cui abbiamo incontrato il male. »

ff. 16, 17. – « Gettate uno sguardo sui vostri servi. » 1° Lo sguardo di Dio è sovranamente desiderabile, essendo per noi la sorgente di vita e di ogni bene: « La grazia e la misericordia del Signore riposano sui suoi Santi, ed il suo sguardo sui suoi eletti. » (Sap. IV, 15). – 2° Noi abbiamo bisogno di Dio come guida nella via del cielo: « … e dirigete i loro figli. » – 3° Noi abbiamo bisogno in questa via, della luce divina: « … e che la luce del Signore si spanda su di noi. » – 4° L’uomo deve agire, ma deve dirigere tutte le sue opere verso Dio: « Conducete dall’alto le opere delle nostre mani. » – Tutte le nostre buone opere sono le opere delle mani di Dio, sulle quali Egli getta volentieri gli occhi. Guai a colui che le attribuisce a sé e le considera come opere delle sue mani. Se Dio le conduce e le dirige, non saranno più le opere delle nostre mani, ma delle mani di Dio (Dug.). – Tutte le nostre buone opere si riassumono in una sola opera buona, che è la carità; perché la carità è la pienezza della legge (Rom. XIII, 10). In effetti, dopo aver prima detto: « E rendete rette in noi le opere delle nostre mani, » il Profeta dice in un secondo luogo. « Rendete retta l’opera delle nostre mani, » come per mostrare che tutte le nostre opere non sono che un’opera unica, che cioè debbano tendere ad un’opera unica. Le nostre opere in effetti, sono rette quando tendono a quest’unico fine, perché la fine di ogni precetto, dice San Paolo (1 Tim. I, 5), è la carità che proviene da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera (S. Agost.).

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 3° Corso di Esercizi Spirituali (12)

S. S. GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO:

III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (12)

[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]

IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ CRISTO

12. La orazione eucaristica

Il quadro di famiglia che Nostro Signore Gesù Cristo ha delineato intorno all’Eucaristia ci porta a considerare un altro elemento, quello dell’intimità, perché l’intimità è propria della famiglia. Questo discorso potrebbe allargarsi in diverse direzioni, ma per ragioni di tempo conteniamolo in un punto solo, il colloquio con Nostro Signore, cioè l’orazione. Questa orazione — parlo della orazione eucaristica, ma quello che dico può valere per qualsiasi tipo di orazione — ha l’aspetto di un colloquio. Vorrei dire che questo colloquio diventa un elemento caratteristico dell’iter che dobbiamo fare con Gesù Cristo. Perché io attiro la vostra attenzione sulla orazione eucaristica? Perché prima di tutto nella S. Comunione — a parte la preparazione che tutti sanno che va fatta e fatta bene — il nostro apporto è dato da questo discorrere con Nostro Signore. Pertanto il parlare della orazione eucaristica risolve anche il punto pratico più interessante a proposito della S. Comunione. Ma c’è un altro motivo anche più pratico che ritengo di dover delineare subito per indicare gli elementi che facilitano la orazione eucaristica. Mi rendo ben conto che il problema, quando si tratta di orazione, è sempre questo: Beh, io comincio, mi metto lì, poi a un certo punto non so più che cosa dire, e allora… mi attacco a ripetere sempre la stessa cosa, senza fine. Intanto è già una gran cosa ripetere, tanto più che la ripetizione è quella che può consumare, nel senso di portare a esplicitazione completa, l’amore di Dio. Si può fare benissimo! Ma mi rendo anche conto che quando si parla di orazione eucaristica, di colloquio con Nostro Signore Gesù Cristo, bisogna anche un po’ insegnare come si fa a parlare. È lo stesso problema che occorre a proposito della meditazione. Perché, vedete, la oratio eucaristica, e cioè la orazione che si fa davanti al SS. Sacramento, sia in chiesa che in qualsiasi punto del pianeta — quando in chiesa si è impediti di venirci col corpo, ci si può venire con la mente e col cuore — in realtà può diventare la orazione di tutta la vita. E allora veramente per questa strada si arriva a portare a perfezione una vita che sia, come è logico, come è da suggerirsi a tutti i Cristiani, incentrata in Nostro S. Gesù Cristo presente là dove Lui si è messo presente, cioè nell’Eucaristia. E vorrei affidare a questo discorso sulla orazione eucaristica la ripetizione della verità che ho già ricordato, e cioè che la pietà eucaristica non la si fa soltanto con le ginocchia o con la gola, facendo delle grandi genuflessioni e cantando, perché talvolta può anche accadere che intere ore di orazione siano fatte soltanto con le ginocchia e con la gola e nient’altro. Ci vuole qualche cosa di più. È tutta quanta la vita che viene ad armonizzarsi, a razionalizzarsi, a organizzarsi intorno a Nostro Signore. – La orazione eucaristica deve essere una orazione d’intimità. Perché? Perché la orazione eucaristica ha sempre il carattere di un dialogo: si parla con Nostro Signore. Non è mai un monologo, è sempre un colloquio. Questo colloquio, poiché da Nostro Signore è stato collocato nell’atmosfera di famiglia, di una famiglia divina, deve prendere sempre il carattere della intimità. Io ho già dovuto dire qualche cosa a proposito della intimità con gli altri: la intimità della carità con i fratelli, dell’amicizia, e ho ricordato che è un elemento fondamentale; ma ora, trattandosi di parlare con Nostro Signore Gesù Cristo, il che è una questione un po’ più alta, devo riprendere il discorso e dire quello che non ho avuto occasione di dire quando parlavo della intimità con gli altri, di quella intimità bene inteso onesta e sincera che ha luogo anche nella vita umana, nell’ambiente familiare e in tutti quegli ambienti che riproducono in qualche modo la stessa atmosfera del focolare domestico. – La preghiera deve essere d’intimità, bene! La intimità da che cosa risulta? Vediamo un po’ gli elementi dei quali è fatta la intimità. Il primo elemento è una comunanza: bisogna che ci sia qualche cosa di comune. Perché la fusione propria della intimità avviene su qualche cosa di comune. Se non c’è qualche cosa di comune, non si realizza l’intimità. E allora perché la preghiera e il colloquio con Nostro Signore raggiunga l’intimità, deve avere qualche cosa di comune. Che cosa di comune? L’apprezzamento dello stato di grazia. Quando si è nello stato di grazia, si ha la partecipazione della vita divina. La grazia è una partecipazione della vita divina, elemento che ci mette in comunità, in comunione di vita con Nostro Signore, comunione reale, non solo psicologica; è ontologica questa. – Ma noi dobbiamo cercare di spingere al massimo questa comunità di qualche cosa. Ed è quando con Nostro Signore ci si sforza di portare l’animo nostro ad avere le gioie e i dolori che ha avuto Lui nella sua vita terrena; avere le approvazioni e le disapprovazioni che Egli, giudice eterno, ha nella sua eterna saggezza, nel suo beneplacito, Egli, Signore delle cose. Quando noi la portiamo a questo, la comunità, la intimità aumenta. Per esempio io aumento la intimità con Nostro Signore se l’elemento comune, che poi porta legna al fuoco da ardere, sono le preoccupazioni della Chiesa, le preoccupazioni delle anime, le gioie della Chiesa, le gioie delle anime, tutti i bisogni che si conoscono, perché i bisogni di tutti gli uomini sono cose che interessano il Cuore divino; e allora, se noi entriamo su quelli, siamo subito in comunione. Non dimenticate! Vedete come incomincia a diventare facile la orazione eucaristica! Non si finisce più. Perché se nella orazione eucaristica uno, mancandogli assolutamente tutto, non solo i ceppi da gettare sul fuoco ma anche i sarmenti e perfino le foglie secche, comincia a dire: Signore, vedi, conosco il tale, poveretto, guarda un pochino, non se la sa cavare, così…. Lo sai, d’accordo, ma aspetti che te lo dica io. Abbi pietà di lui. Guarda ! Poi c’è l’altro e poi l’altro ancora. C è questo e poi quello. Quando uno non sapesse più cosa dire, soltanto che si metta su questo elemento che gli viene indicalo dalla comunità, non la finirebbe più. Io ho goduto quando ho sentito leggere certi punti nella vita del santo Curato d’Ars. L’hanno inteso pregare a voce alta — a voce alta si prega anche meglio — e ho goduto di sentire che stava facendo una preghiera di questo tipo. Badate che con una preghiera di questo tipo si può fare una orazione eucaristica che duri anche tutta una notte, perché di esemplari sui quali portare la nostra attenzione benevola e supplichevole ce ne sono tanti. E ci si trova nella intimità, perché si parla a Dio, a Gesù Cristo, di coloro che Egli ama, di coloro per i quali egli è andato in croce. La prima caratteristica della orazione eucaristica è la intimità. La intimità si basa sulla comunione, sulla comunità dell’oggetto, su degli elementi comuni. Guardate che la intimità è fatta di fiducia completa, la intimità è il « rilascio » dell’anima di uno verso l’anima dell’altro. Il rilascio, espresso in termini meno materiali e più esatti, è la fiducia. E la preghiera eucaristica acquista una intimità quando, oltre la comunione, la comunità dell’oggetto, ha la infinita fiducia. È quella fiducia in Nostro Signore Gesù Cristo che prende il carattere dell’abbandono. – La intimità non solo si fonda sulla comunione dell’oggetto, sulla fiducia, ma si fonda anche sulla semplicità. Tutto ciò che è arzigogolo guasta la intimità. L’intimità è un filo diretto. È una linea retta brevissima. Basta che faccia un cerchio perché la intimità s’illanguidisca. Quindi la semplicità dell’animo e la generosità del cuore, cioè l’amore che dona, che cerca; il cuore largo, il cuore aperto. Questi sono gli elementi con i quali si fa la intimità. Io mi sono fermato a esaminarne con una certa lunghezza uno, ho appena sfiorato l’altro, e ho accennato agli ultimi. Badate bene che tutte queste cose, a farne la radiografia, rivelano una ricchezza enorme per la oratio eucaristica, per il colloquio con Nostro Signore. – Ora andiamo avanti ed esaminiamo un altro elemento che si prospetta in modo diverso, ma che arricchisce stupendamente ed è il fondamento della orazione eucaristica. È l’atto di adorazione. L’atto di adorazione che cosa è? È il riconoscimento della sovraeminenza propria di Dio Signore e Creatore, della sua infinita eccellenza, della sua infinita superiorità. Il riconoscimento è adorazione. Ora la adorazione nella orazione eucaristica è una cosa necessaria, anzi è la prima, è preminente. Non è uno stato come la intimità. È un atto la adorazione. Ecco perché se ne distingue. Tuttavia può sembrare che possa essere esaurita subito: Signore, io ti adoro! Ti riconosco Padrone di tutto, Signore del cielo e della terra! Sei infinito, sei santo, sei perfetto. Amen. E poi? Finisce lì. Eh no! Non finisce lì. Attenti bene. Qui si apre un’altra ricchezza immensa. Perché? L’atto di adorazione non può essere inteso soltanto teorico. Perché se è inteso soltanto teorico, io pronuncio delle parole, dico: Signore, tu sei il creatore del cielo e della terra: adoramus te, benedicimus te, e giù fino in fondo, e poi è finito. Ma l’atto di adorazione concreto, pratico, è l’accettazione di Dio. È l’accettazione in concreto della superiorità divina. In poche parole è la conformazione, prima e soprattutto, della propria volontà alla volontà divina, e poi conseguentemente la conformazione di tutte le proprie azioni alla divina volontà. È la osservanza della legge, l’adorazione in concreto. Ora posso anche rendermi conto che la adorazione in concreto, l’osservanza della legge, la si fa anche dopo la orazione eucaristica, la si fa poi nella vita. La si fa lì, la si fa dovunque. Quello che invece emerge, proprio ai fini della orazione eucaristica, della sua ricchezza, è l’atto della uniformità della volontà propria alla volontà divina. E può essere fatto nella orazione sia come rettifica del passato, rettifica di tutto quello che è stato non accettazione, non uniformità della volontà propria alla volontà di Dio, sia come accettazione di tutto il presente e come premessa del futuro. Ora vedete che sorta di ricchezza è questa! Noi nella nostra vita non potremo avere un bene uguagliabile a questo, al di sotto della grazia del Signore, di avere l’abito della uniformità della volontà nostra alla volontà di Dio, che è l’abito morale proprio corrispondente all’atto della adorazione. – Ma agli effetti della preghiera e della adorazione eucaristica in sé stessa, ammirate un po’ che sorta di ricchezza. Se uno, quando è a colloquio con Nostro Signore e nella sua adorazione, comincia a dire: ecco io ho fatto questo, e la volontà perfettamente uniformata alla volontà di Dio non l’ho avuta, aggiustiamola! Ho fatto quest’altro, e lì le cose non erano del tutto secondo la legge di Dio, aggiustiamole! E se le fa passare, e le esamina, e trascina la vita propria, il proprio ricordo, la propria memoria davanti a Gesù Cristo, nella sua nudità, con la sua deformità, umilmente, e fa la rettifica, oh! ne viene fuori uno di quegli atti di adorazione che rintronano anche gli orecchi degli Angioli! Pensare e richiamare tutti gli elementi che sono difficoltosi nella propria esperienza spirituale e nella propria vita, richiamarli tutti e in tutti fare la rettifica della volontà: io voglio così, deve essere così perché così è la tua volontà. Vedete come allora può diventare incredibilmente ricca la orazione eucaristica, mentre diventa incredibilmente proficua ai fini morali di irrobustimento della propria vita. Perché noi la perfezione la troveremo sempre nella uniformità perfetta e concreta della nostra volontà alla volontà di Dio. E, vedete, è un esercizio questo che bisogna fare e farlo molto. Farlo quando si è al tempo delle vacche grasse affinché serva quando si arriva al tempo delle vacche magre. – Perché ci sono poi i momenti di aridità; i momenti di abbassamento, i momenti in cui cascano le ali a terra. Siamo uomini, poveretti! Si capisce che quando arriva lo scirocco, ci si sente più snervati. Quando arriva la tramontana si dirà: è freddo, ma si diventa più gagliardi. Le stesse cose succedono anche nella vita dell’anima. E allora che cosa è che salva e rende facile la uniformità alla volontà di Dio nei momenti delle vacche magre, cioè quando le faccende tentano allo stordimento, alla confusione e alla tentazione e soprattutto alla aridità spirituale? Quando avvengono certi traumi, certi choc psichici per cui succede nella nostra anima quello che succede quando si prende inavvertitamente una boccata di brodo che è ancora bollente, a cento gradi, e si rimane con la bocca tutta quanta bruciata per cui fino al giorno dopo non si sente più gusto di niente. E questo sarebbe poco, purché non succeda altro, che non si facciano delle piaghe. – Si hanno degli choc psichici, a volte, che producono questo effetto: di far perdere completamente la sensibilità, il gusto delle cose spirituali. Mettono veramente a terra. Oppure quando si debbono affrontare grandi decisioni, accettare dei dolori, accettare cose che possono fare anche spavento. Cari miei, allora viene bene l’esercizio della uniformità alla volontà divina. – La orazione eucaristica ha altri aspetti. Dopo la adorazione viene il ringraziamento. Guardate che cosa rappresenta per la nostra vita il ringraziamento inteso in concreto. Perché il ringraziare è il riconoscimento di un benefìcio ricevuto. Ed è quella certa forma di restituzione fatta con un atto affettuoso, con un riconoscimento affettuoso e con un atto spirituale di amore, di generosità, di ammirazione, una certa aliquale restituzione del bene che si è ricevuto. Quando io dico grazie, esprimo questo: mi hai fatto una cosa che mi ha fatto del bene, mi ha fatto piacere. Ti vorrei restituire qualche cosa. Riconosco anzitutto che mi hai fatto qualcosa e ti restituisco un atto di affetto. Ecco, questo è il ringraziamento. Però — ed è qui dove si vede la ricchezza pratica dell’inserimento nella orazione eucaristica del ringraziamento — l’atto del ringraziamento contiene sempre il giudizio sulla bontà delle cose. Questo significa che quello di cui io dico grazie, mi accorgo che è un bene. Se grazie lo dico distrattamente, per abitudine, non penserò a niente, sono quelle frasi che assumono quasi il valore di una interiezione. Ma se grazie lo dico sapendo quel che dico, in quel momento dico: questo è un bene, cioè riconosco che è un bene. – Sentite, miei cari amici, potete voi provarvi a pensare come cambia tutto il panorama della nostra vita spirituale se ci abituiamo a considerare che tutte le cose che Dio ci ha dato sono beni e che noi generalmente non consideriamo? Perché tutto passa in giudicato, passa nel comune, passa nel diritto e non se ne parla più. Ma se ci soffermiamo e facciamo questo atto di educazione di considerare le singole cose e accorgerci che sono un bene, allora si sostanzia l’atto del ringraziamento. Ne ho di cose di cui mi posso accorgere che sono un bene! Non la finiamo più nessuno di noi, perché i beni che abbiamo ricevuti sono infiniti. Noi gretti, che guardiamo quasi sempre nella mano dove c’è vuoto e non guardiamo mai nella mano dove c’è pieno e pertanto ci lamentiamo! Ma se siamo giusti, siccome sono molto di più le cose che abbiamo di quelle che non abbiamo, per giustizia dobbiamo prenderne atto: sì, questo è un bene, lo riconosco. Non nel dimenticatoio, non nella oblivione, non nel disprezzo, non nel non conto. Atto di giustizia. Questo è bene, quest’altra cosa è bene. Signore tu me l’hai data! Enumerare i beni! Anche in capo alla giornata! Ma insomma che oggi vi sia il sole non è una cosa bella, non è un bene? È sempre meglio che vi sia il sole che il tempo uggioso, che deprime, snerva, irrita. Siamo circondati di beni! Tutta la nostra vita è stata una continua elargizione di beni da parte di Dio. E se è così, ringraziamolo! – Vedete che non ci si ferma più, se vogliamo essere esatti. E di cose da nutrire la orazione eucaristica quante ne arrivano! Ma c’è un altro fatto che ha un risultato morale: la nostra vita, quando cui mi accorgo che è un bene, si accende una lampadina nuova! E io, continuando la elencazione e accorgendomene: questo è un bene, quest”altro è un bene, questo è un altro bene, aumento continuamente la luce. È verissimo questo: le anime liete sono quelle che vivono di riconoscenza. Il segreto della gioia è vivere di riconoscenza. Per la ragione che è riconoscenza vera, s’accorge del bene. Insomma, riconoscenza significa contemplazione del bene. Se uno si va a mettere per tutta la vita dinanzi a un lebbroso che si disfa, dinanzi a un cimitero stravecchio dove tutte le cose pare abbiano il tedio persino della eternità; se uno si mette sempre davanti a cascamorti, a gente che deve storcere sempre la bocca, gente che deve sempre capire a rovescio, parlare a rovescio, interpretare a rovescio, che deve predire dolori, che deve predire sciagure; che deve far cascare il mondo, catastrofi, apocalissi… a un certo punto, poveretto, gli viene un infarto! Finisce con l’avere il muso lungo anche lui: muso lungo di fuori e muso lungo di dentro. L’ha con gli altri e l’ha con se stesso; va tutto male, mangia limoni dalla mattina alla sera! – Il discorso potrebbe farsi lungo, ma bisogna che andiamo avanti. C’è la propiziazione. Il chiedere perdono. Basta enunciare: capite subito quale ricchezza porti questo terzo punto alla orazione eucaristica. C’è poi la impetrazione. Ah! Qui qualche parola bisogna spendercela, e vedrete la ricchezza che nella orazione eucaristica anche questo elemento può portare all’animo nostro nel colloquio con Nostro Signore Gesù Cristo. Chiedere. Ma se ci mettiamo a chiedere, possiamo non finirla più. Quanto lui ci ha incoraggiato! Ci ha detto: «Chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto», e ha aggiunto : « Sine intermissione orate ». Dunque si tratta di chiedere. C’è da chiedere per noi, per gli altri, per la Chiesa, per chi ne vuole e per chi non ne vuole, per chi sta bene, per chi sta male, per chi canta, per chi ride… per tutti. Si può chiedere per tutti. E siccome il buon Dio allarga la manica quanto più noi chiediamo e s’aumenta l’effetto della nostra preghiera se chiediamo insistentemente e se chiediamo di più e per i più, questa manica facciamola allargare! Andiamo avanti e cerchiamo di arrivare, almeno sommariamente, in fondo all’argomento di questa oratio eucaristica. Vedete! Questa orazione eucaristica può arrivare e deve arrivare a uno stato anche contemplativo., Intendiamoci -. io non parlo della contemplazione mistica, cioè quella che presuppone uno stato carismatico, che viene da una grazia speciale, da un miracolo che fa Iddio. Ma stiamocene pure in quella che non è contemplazione straordinaria, e cioè la orazione eucaristica che può arrivare a quello stato di quiete in cui non c’è più il fatto discorsivo, il fatto della successione delle immagini, ma il fatto dell’intelletto che, seguendo l’affetto del cuore, rimane fisso in Dio. Fisso, non addormentato eh, intendiamoci, fisso, che è una cosa diversa. Fisso su verità che riguardano Iddio, lasciando l’azione a un fatto penetrativo; quel fatto penetrativo che consiste nel guardare con l’intelletto, sostenendo la volontà il cuore, per cui una verità, che a guardarla sembrava nuvolosa, si dipana, diventa chiara. E allora in questa fissità dell’intelletto, senza fatto discorsivo, cioè senza successioni d’immagini o passaggio da maggiore a minore in un ragionamento, una verità diventa sempre più chiara, abbagliante. Questo può accadere e può accadere senza che occorrano grazie straordinarie. Quindi è una certa quale orazione di quiete. Una certi quale, intendiamoci, non la orazione di quiete di S. Giovanni della Croce, di S. Teresa, di S. Lutgarda e di S. Matilde’. Beati loro! È una orazione di quiete, di una certa qual quiete che è possibile al comune Cristiano. È evidente che l’arrivare a questo stato di contemplazione, di aliquale orazione di quiete, suppone una pace nell’anima, suppone aver placato quel certo sommovimento psicologico, aver fermato il passeggio indebito della fantasia — che a volte viene bene, soccorre perché con le sue trovate e con i suoi cartelloni e con i suoi ritagli aiuta — suppone aver fermato tutto questo. E pertanto il fatto contemplativo in qualsiasi orazione e anche nella orazione eucaristica della quale stiamo parlando non è il più facile, intendiamoci. Ma è possibile. E non è detto che a brevi tratti, a frammenti, non si possa intercalare, infilare in mezzo a tutto il rimanente della oratio eucaristica. E può essere anche che, a forza d’infilarcelo anche per pochi istanti, qualcuno riesca a portarlo avanti per qualche minuto; e poi può essere anche che gli accada di portarselo avanti per qualche ora: Dio sia benedetto! E sia benedetto anche colui al quale ciò succede. Però non è una cosa facile, ma ci si può arrivare. – Allora lo sguardo dell’intelletto è fisso a Gesù Cristo o a qualche verità, in quella fissità però nella quale, senza fatto discorsivo dell’anima, l’oggetto stesso, da solo, lo muove, e passa dallo stato nebuloso allo stato più luminoso, dallo stato chiuso allo stato aperto, dallo stato generico allo stato dettagliato; e può arrivare anche a una luce abbagliante. E può anche lentamente presentare, quasi si direbbe, delle risposte — non parliamo di cose miracolose — da parte di Dio, cioè sottoporre all’intelligenza che rimane così fissa in Dio dei principi o delle verità che, pervenute in quel momento, sono come la presentazione di una risposta. Perché ci può essere, al di là della orazione di quiete, un dubbio, una istanza che pencola nell’anima. E può accadere, in questa orazione di quiete, permettendolo Iddio, che l’oggetto si dipani da solo e venga a mettere davanti al naso proprio quella cosa che occorreva considerare per risolvere un dubbio, Allora Dio sia benedetto! Intendiamoci, è cosa diversa dall’intervento, dalle voci; per carità, non parliamo di quelle cose lì perché è talmente grave il pericolo dell’isterismo, che bisogna starsene bene attenti. Vedete che cosa è, che cosa può essere la orazione eucaristica! Come si può dipanare con la stessa ampiezza con la quale s i dipana il moto dell’onda nel mare immenso, che si riproduce, si risolleva, ripete il suo ritmo fintanto che forse, a distanza di migliaia di chilometri, trova la sponda. La sponda è l’eternità! Nel caso presente è la orazione eucaristica, il colloquio con Nostro Signore. – Perché il Signore sta lì? Sta lì perché noi camminiamo nella nostra vita con Lui. Ma capite bene che camminare nella vita con Lui non è semplicemente muovere delle gambe e mettersi dei chilometri dietro alle spalle. È un’altra cosa! È un movimento di virtù che s’ispira all’Eucaristia. È  un movimento dell’intelligenza che vive di tutta la realtà teologica, dogmatica, evangelica che sta nell’Eucaristia. È accendere il fuoco che Lui ha acceso intorno all’Eucaristia: la caritas, che ha il suo più grande fondamento nella humilitas. Ma è il parlare con lui partendo dal fondamento di quello stato di grazia che ci rende consoni e partecipi della stessa natura divina e che mette una comunanza tra noi e Gesù Cristo, dinanzi alla quale impallidiscono tutte le altre comunanze o comunità che possono annoverarsi nell’ordine meramente naturale. Parlare con Lui tutta la vita! Ora voi traducete e capirete il valore dell’ora di adorazione, il valore della visita al SS. Sacramento, capirete il valore della visita fatta al SS. Sacramento anche da lontano. Anche da lontano! Quando camminerete e incontrerete una chiesa, non dimenticatevi mai di parlare con Lui, anche se non vi entrerete. Quando vedrete un campanile, ricordatevi che c’è Lui e sappiate parlare con Lui, sia pure brevissimamente. Non è detto che gli altri se ne debbano accorgere, non occorre affatto. Sono affari che si sbrigano dentro sé stessi! Ma l’iter con Gesù Cristo ha una parte importante, una parte dirimente, una parte vitale nel colloquio con Nostro Signore Gesù Cristo. – Allora camminiamo con Lui! Che non accada, come è accaduto ai due discepoli che fino a Emmaus non si sono accorti di niente. Soltanto avvertivano un certo calore dentro. Apriamo gli occhi prima! Loro avevano parlato con Lui; ma avevano parlato senza accorgersene. Noi parliamo con Lui accorgendocene e ripetendo sempre, come hanno ripetuto quei due poveri uomini che in fondo finivano con lo scappare sconsolati da Gerusalemme e poi sono tornati indietro: « Mane nobiscum, Domine, quoniam advesperascit ». Rimani con noi,Signore, perché si fa sera! Già, si fa sempre seranel mondo, perché c’è la caducità delle cose, perchéc’è il volgersi del sole; c’è il volgersi dellestagioni e degli anni, c’è in tutto il ridursi all’umiltàdella morte. E allora il colloquio deve durare:

« Mane nobiscum, Domine, quoniam advesperascit!».

https://www.exsurgatdeus.org/2020/01/23/s-s-gregorio-xvii-il-magistero-impedito-3-corso-di-esercizi-spirituali-13/