S. S. GREGORIO XVII:IL MAGISTERO IMPEDITO:
III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (11)
[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]
IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ CRISTO
11. La vera carità
Il collegamento fra la nostra vita eucaristica e la virtù della carità è talmente grande, talmente fondamentale, per volere di Nostro Signore Gesù Cristo, che noi dobbiamo ancora insistere su questo concetto e sulle sue pratiche conseguenze. Già vi ho fatto vedere che nella mente del nostro Divin Salvatore la carità fa veramente parte della cornice e dello sfondo della vita eucaristica, della pietà eucaristica. – La virtù della carità va pratìcata come l’ha praticata Nostro Signore Gesù Cristo. Che sostanza ha dato Nostro Signore Gesù Cristo alla parola: amare il prossimo? L’ha data in due modi: parlando e facendo. Parlando, egli ha detto chiaramente che se noi non ameremo il nostro prossimo anche quello che non ci è bene viso, saremo come i pagani. Ha detto chiaramente che l’amore verso i propri fratelli è complementare dell’amore di Dio, e pertanto fa parte del primo e supremo di tutti i precetti che racchiude tutta la Legge e i Profeti: amare Dio e amare il prossimo. L’amore del prossimo va distinto, per l’oggetto, dall’amore di Dio, ma è parte complementare delle stesso amore di Dio. Nostro Signore ha detto che il prossimo va amato come amiamo noi stessi. Sono parole grandi e tuttavia hanno bisogno di una spiegazione pratica che è data dal modo in cui si è comportato Gesù Cristo stesso. Allora si raggiunge veramente la sostanza della carità verso il prossimo. – Nostro Signore per amare noi uomini ha fatto così: ha fatto di sé stesso, Dio, un uomo. Ossia ha fatto di sé stesso quello che sarebbe venuto bene per noi. Se non si fosse fatto uomo, non avrebbe potuto redimerci; non sarebbe stata possibile, in via di giustizia, la soluzione del peccato del mondo, del peccato di tutti gli uomini. Tutto questo è legato al fatto che s’è fatto uomo come noi, avendo preso la umana natura per mezzo di una madre come abbiamo fatto tutti noi. Cioè Egli ha amato noi non soltanto, come talvolta potrebbe sembrare in questo mondo, con la sua borsa — tanto non l’aveva, non l’ha mai voluta avere, l’ha lasciata portare agli altri — o con altri elementi estranei a sé, no; ha amato gli uomini con sé stesso, facendo di sé quello che veniva bene per gli uomini. E allora ci ha dato veramente l’indicazione di come si faccia ad amare il nostro prossimo. Questa è la grande indicazione che distingue la carità dall’amore umano, dall’umanitarismo, dalla filantropia e da tutte le altre cose o piacevolezze che si vanno dicendo talvolta in questo mondo; che distingue la socialità cristiana da tutto ciò che non è socialità cristiana. Il prossimo lo si ama così: facendo di noi delle persone talmente complete, buone, umili, sante, equilibrate, talmente a posto da essere sempre il principio della vita e della gioia, della serenità e della pace, della concordia e della riconciliazione per tutti gli altri. Ecco la carità: una moglie ama il marito se fa qualcosa per cui il marito sta bene; il marito ama la moglie se fa qualcosa per cui la moglie sta bene. E così l’amico per l’amico, il compagno per il compagno, il collaboratore per il collaboratore. Tra gli uomini questa è la grande legge: si amano gli altri facendo noi buoni in modo che gli altri stiano bene, come ha fatto Nostro Signore Gesù Cristo. E allora si comprende come la virtù della carità venga descritta da S. Paolo nel cap. XIII della prima Lettera ai Corinti con una tale sequenza di attributi che si direbbe quasi diventata la virtù totale. E tutta quella serie di attributi si compendia in questo: per amare il prossimo bisogna diventare buoni su tutto il fronte. E questo perché non dobbiamo dare agli altri soltanto delle parole o dei facili e futili sentimenti, ma qualche cosa di sostanziale, come ha fatto Nostro Signore Gesù Cristo. Non è la prima volta che vi parlo di questo argomento, ma è un argomento che non sarà mai abbastanza richiamato, perché è troppo facile che la carità verso il prossimo la si confini in un sentimento, in una specie d’istinto o addirittura in una specie di simpatia, il che non è assolutamente adeguato al concetto di carità, o che la si confini in un’abitudine di elemosina o in qualche elargizione di sorrisi di bontà e di forma quando la elemosina non la si vuole e non la si può fare o ci sembra che non sia il caso di farla. – Allora è chiaro che la virtù della carità ha bisogno della umiltà. L’elemento che più di tanto equilibra noi in rapporto ai nostri fratelli è la virtù della umiltà. Ho già detto che la virtù dell’umiltà risolve a questo mondo le questioni. È la chiave con cui si aprono tutte le porte. È l’espediente o, meglio, la risorsa con la quale si superano tutte le difficoltà, è la forza con la quale si fanno cadere tutte le muraglie, tutte le fortezze, anche quelle di Gerico. È l’arma con la quale si spuntano tutte le armi degli altri. Veramente humilitas omnia resolvit. Ora non devo fare un discorso diretto sulla virtù dell’umiltà, ma devo parlarne quale elemento potenziale per avere la virtù della carità. Badate bene che, siccome la virtù della carità è una virtù di relazione col prossimo, il fondamento di tutte le buone relazioni col prossimo sta sempre nella umiltà. Se ve ne volete convincere, provate a guardare da che parte arrivano a noi tutti i fastidi che ci dà il prossimo nostro: arrivano dalla superbia. La superbia degli altri, che poi si stempera in orgoglio, in vanità, in ambizione, in testardaggine, in gelosia, in invidia, in spirito di vendetta. Tutte parti potenziali della superbia, che è veramente il fumo negli occhi. Noi stiamo tanto bene quando troviamo della gente umile. Qualche volta questo stare bene è un po’ interessato, perché non siamo umili noi e allora ci fa ancora più piacere che lo siano gli altri, quasi perché la diversità aumenta il comodo e l’agio nostro; e questo non va bene. Tanto la umiltà si desidera dagli altri, altrettanto bisogna darla agli altri. Deve esserci una reciprocità. Gli altri, con le manifestazioni della loro superbia, ci danno veramente fastidio, ci creano una pena, sono per noi un disagio permanente. Vedendo questo negli altri, allora possiamo capire, dallo specchio, come siamo noi quando, con la nostra superbia, siamo ambiziosi, vanitosi, orgogliosi, gelosi, invidiosi, testardi; prendiamo talvolta delle grandi impennate e arriviamo alle impazienze e alle sfuriate, mettiamo su i musi, diventiamo nervosi e facciamo della gran solennità fuori posto. In sostanza si tratta di banalissime manifestazioni di superbia senza nessuna dignità. Da questo possiamo capire quanto diamo fastidio al nostro prossimo. – Voi capite che per avere la carità sostanziale secondo l’esempio che ci ha dato il nostro divin Salvatore, bisogna che ci mettiamo bene in testa che il primo dono che possiamo fare ai nostri fratelli è la nostra umiltà. L’umiltà è l’arte di sapere aver torto quando non lo abbiamo, di saperci tirare indietro, di avere così torniti i nostri sentimenti interiori che questi non abbiano a trapelare in tante manifestazioni, sia pure di sfumatura, ma che annebbiano, che lacerano la buona concordia coi nostri fratelli. Occorre, per questo, farci un’abitudine interiore, perché l’umiltà, se non è un fatto interiore, è inutile averla esternamente. La umiltà che si ha solo esternamente si chiama untuosità. E d è falsità, perché se uno, per essere umile e non credendoci affatto, dice: Io sono un somaro, io sono un’oca, è chiaro che questa non è umiltà, questa è falsità e soprattutto è untuosità. Oppure è cerimoniosità: grandi inchini, grandi scappellate e riverenze, titoli, ecc. Sono tutte cose esterne e di poco valore, che non reggono. Attenti bene! L’umiltà, per elevare, santificare, corroborare e assicurare la vita di relazione, non regge se non è un fatto interiore, se non parte dall’umile sentire di sé, da quel giudizio sincero di noi dato da noi stessi, se non parte da quella prudenza per cui, anche dinanzi a ragioni obiettive per stimarci a una determinata quota, noi abbassiamo sempre il prezzo, perché sappiamo che c’è un istinto di personalità che a nostra insaputa, incoscientemente, ci porta avanti. Con questo deprezzamento volontario, virtuoso, probabilmente arriveremo a metterci nel giusto circa la valutazione di noi stessi e quindi circa tutte le conseguenze anche esterne di contegno che vengono a dipendere da essa. Per ritornare al mistero eucaristico, vedete con quale umiltà si è presentato Nostro Signore Gesù Cristo, sotto quali apparenze si è messo. Non si è andato a mettere sotto le apparenze di una corona gemmata, di un simbolo d’oro, non si è andato a costituire chissà mai quale cosa artistica, straordinaria, ricercata, rara, ma si è messo sotto le apparenze del pane e del vino che sono il nostro nutrimento quotidiano. Le cose più semplici, più immediate. Nostro Signore ci dà questo esempio e se ne sta lì nel tabernacolo ad aspettare gente che non viene; rimane solo in tante chiese e in tante ore del giorno, tutte le ore della notte. È raro trovare dei santi Curati d’Ars che passino la notte in chiesa a pregare, a fare la parte degli altri, a fare la lampada vivente. È così difficile mettere su delle associazioni che facciano l’adorazione anche di notte! Vedete quale esempio di umiltà ci viene da Nostro Signore! La virtù della carità, proprio perché deve essere sostanziale, come mette l’accento sulla virtù della umiltà, deve mettere l’accento su qualche altra virtù. Perché se vi riducesse ad essere accompagnata da queste altre virtù, difficilmente reggerebbe. E parlo della semplicità e della sincerità dell’anima. In tutti i nostri rapporti col prossimo s’impone sempre un’istanza di chiarezza. L’istanza di chiarezza è dovuta a questo: che noi presentiamo al prossimo la nostra faccia, il corpo-materia, insomma; e per quanto la faccia abbia gli occhi e gli occhi siano le porte dell’anima che lasciano trapelare guizzi dai quali si possono capire tante cose, l’anima il nostro prossimo non la vede direttamente. La condizione naturale, imprescindibile dell’umana condizione è questo modo di essere opachi per natura, dato dal fatto che siamo costituiti di anima e di corpo, e non c’è la visione immediata tra anima e anima, che richiede sostanzialmente, perché i rapporti col nostro prossimo siano nella carità, la trasparenza. Cioè là dove esiste un corpo che è di natura sua opaco e non lascia vedere direttamente l’anima — perché l’anima può benissimo celarsi e presentarsi in spoglie completamente mentite — è necessario metterci la trasparenza. Questa è la ragione obiettiva che richiede la semplicità e la sincerità, proprio perché nelle relazioni nostre col prossimo crolla questo sipario opaco. Notate bene che ho detto due parole: non ho detto soltanto sincerità, che è la virtù morale della verità, ma ho detto anche semplicità. E la ragione è questa: che la sincerità non riesce a dare la trasparenza se manca la semplicità. La semplicicità è la negazione di ogni arzigogolo; è la negazione delle complessità, delle complicazioni, delle vie ritorte. È la negazione, insomma, di tutto quell’involgersi col quale noi facciamo perdere al nostro prossimo le tracce di quello che realmente pensiamo, anche senza dire delle menzogne. Quando manca la semplicità, non è detto che noi siamo menzogneri; non si dice il rovescio di quel che si pensa, non c’è disparità, per sé e direttamente, tra il pensiero e la parola, ma c’è un tale menare un can per l’aia che alla fine della favola si ottiene lo stesso effetto, press’a poco quasi come se si dicesse una bugia: si gira, si gira e si complica; si fanno tanti di quei giri nel labirinto delle nostre parole che si fa perdere la nozione di dove sia il nord, il sud, l’est e l’ovest. Questa è la mancanza di semplicità. Ora capite perché non ho detto che per fare cadere questo velario opaco, che è sempre pronto a erigere dei muri tra noi e il nostro prossimo, occorre solo la sincerità: perché la sincerità dà la trasparenza, ma questa trasparenza deve essere aiutata e assicurata dalla semplicità. Sì, voi potete mettere un vetro, lo so, e il vetro di natura sua è trasparente; ma se questo vetro ce lo mettete smerigliato, non ci si vede attraverso. Se voi questo vetro lo mettete sfaccettato, come si sfaccettano i diamanti, non potete vedere bene la parte di là. La sfaccettatura vi devia molti raggi e pertanto le immagini non vi possono arrivare. Ecco perché la sincerità, per raggiungere la trasparenza, per far cadere il velo della opacità, deve essere armata e sostanziata essa pure di semplicità. Non se ne può fare a meno. Che andamento sereno prende allora tutta la dottrina di Nostro Signore Gesù Cristo! Come noi da questa sponda, seguendo il pensiero suo, abbiamo l’impressione di intravvedere il paradiso terrestre, l’Eden! Come si fanno belle, colorite, vive le cose! Come cambia completamente la vita, in tutti i suoi rapporti, quando sia veramente come vuole Nostro Signore Gesù Cristo! – La virtù della carità ha un punto delicato, e non si può fare a meno di parlarne anche perché c’è l’invito esplicito di Nostro Signore Gesù Cristo: « Se stai per fare il tuo dono davanti all’altare… ». Ritorniamo al concetto eucaristico. Badate che è un richiamo preciso a una legge senza la quale la carità non sussiste, ma diventa parziale, frammentaria, e poi finisce col cadere nella sua stessa sostanza. Si tratta della legge del perdono. A volte la carità appare talmente fatta di velluto e pare vellutare talmente tutte le pareri e tutti i pavimenti e persino il cielo, che vien da piangere a considerarla bene. Ma quando si arriva all’argomento del perdono, cascano gli altarini. Io ho paura che su dieci che si ritengono molto Cristiani, quasi perfetti Cristiani, e che si ritengono di avere il colloquio immediato con Dio, a mala pena se ne trovano tre o quattro che sanno perdonare. Eppure la legge del perdono è legge fondamentale nel Vangelo, tanto fondamentale che quando Nostro Signore ha creduto opportuno insegnarci una preghiera molto breve, riassuntiva, in cui ha messo le cose principali, il Pater noster ce l’ha infilata dentro: vi ha messo la condizione: « Dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris ». Questo ci fa dire, e così ci mette in imbarazzo sempiterno. Quando si dice il Pater noster, se ci si pensa, talvolta non si riesce ad andare avanti e finirlo. Perché se si pensa a quel che si dice quando cirivolgiamo a Dio dicendo: « Signore, rimetti a noii nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori», se per disgrazia non è perfettamente veroche noi abbiamo rimesso ai nostri debitori, come si fa a dirlo? Capisco che alle volte si va talmente avanti con l’armonica automatica che si dicono le cose più inverosimili al buon Dio mentre si prega Se ci si pensasse un po’ di più, si direbbero cose meno inverosimili. Invece con una faccia tosta inverosimile diciamo: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. – La legge del perdono è fondamentale nell’Evangelo. Io direi che un vero cristiano lo si riconosce dal perdono. Il grado, la temperatura, la valenza, la caratura, quella autentica, sostanziale, genuina del Cristiano la si conosce dal perdono. Nostro Signore è stato, direi, tremendo su questo punto. Ricordate la parabola del servo cattivo? Aveva avuti condonati dal proprio padrone tanti talenti e non aveva avuto la forza di condonare un piccolo debito a un suo conservo. E il padrone ha fatto prendere lui, la moglie e i figli e gettarli in una prigione finché non rendesse fino all’ultimo centesimo. – Quando Pietro chiese a Gesù: « Signore, fino a quante volte dovremo perdonare? Fino a sette volte? » gli sembrava di sfornare tutta la generosità del mondo. E si è sentito rispondere: « Non fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette », frase che nel linguaggio aramaico nel quale parlava N. S. Gesù Cristo, significa: perdonerai sempre. Sempre. Adesso io non indugio a parlare del fatto che il perdono non inibisce che si faccia giustizia, che si diano le punizioni a chi si devono dare, perché le ragioni sociali prevalgono su quelle individuali. Non è il caso di fare la casistica. Ma la legge del perdono in sé deve rimanere. Qui c’è una piccola precisazione da fare. La legge del perdono molti la considerano una legge da tirarsi fuori come i grandi addobbi, come i pavesi, cioè nelle grandi occasioni: la scena è pronta, le quinte sono ben tirate, tutto è luminoso e io faccio il bel gesto del perdono. È il gesto di S. Giovanni Gualberto che un venerdì santo incontra per la strada, inerme, lui che era armato, l’uccisore del proprio fratello, il quale allarga le braccia in croce e domanda pietà in nome del Crocifisso di cui quel giorno si faceva la commemorazione. S. Giovanni Gualberto lo perdona abbracciandolo, poi va nella chiesa di S. Miniato, e il Crocifisso china il suo capo verso di lui come a dirgli: Hai fatto bene! Casi solenni, vero? Distribuiti qua e là nella vita, per qualche circostanza un po’ teatrale, molto drammatica, molto ben drappeggiata e illuminata, è quasi una recitazione di orgoglio. Badate che la legge del perdono è una legge che dobbiamo applicare dalla mattina alla sera. È qui veramente dove si vede il perdono. Certo, quando si danno le grandi occasioni, le gravi offese, allora bisogna fare grandi remissioni, dare qualche grandissima assoluzione, perdonare al proprio calunniatore. Beh, sì, ci sono anche queste occasioni, non dico di no. Ma guai se pensiamo che la legge del perdono sia valevole soltanto in queste grandi occasioni. La legge del perdono va applicata dalla mattina alla sera, cento volte al giorno. In moltissimi dei rapporti che noi abbiamo col nostro prossimo salta fuori qualche debituccio, o almeno noi crediamo che il nostro prossimo, qualunque esemplare del nostro prossimo con cui abbiamo da fare, ci pianti sempre lì qualche piccolo debito. Che poi sia vero o non sia vero, anche questa è una cosa da tener presente, perché siamo moltissimo pronti a registrare tutti i debiti che gli altri hanno con noi, e ne inventiamo anche, e non siamo affatto pronti a ricordare i crediti che gli altri hanno con noi. Ma è certo che dalla mattina alla sera, nei contatti col nostro prossimo, sia che esista o non esista una ragione obiettiva, noi vediamo allinearsi tutta una serie di piccoli crediti nostri e di debiti altrui. E queste cose poi, ristagnando, formano una specie di patina, talché a volte finiscono col dare l’umor nero e chissà quale capacità di fulminare tutto 1’universo! Allora viene il nervoso, vengono le reazioni, ci si lavora sopra, si mettono fuori i musi e non si finisce più. Allora gli altri capiscono che ci sono dei musi, e ne fanno anche loro; uno capisce che l’altro ha fatto i musi e non capisce perché ha fatto i musi. A volte ci costruiamo noi un mondo di nemici, di persecuzioni, di vendette, di guai, insomma, che poi sono tutti nella nostra fantasia. – È l’applicazione della legge del perdono che interessa. E non è facile! Io ritengo che sia più facile dare i grandi perdoni, quelli solenni, teatrali; credo che sia più facile perché lì c’è anche il senso di troneggiare, di fare una cosa egregia: tutto l’insieme sostiene. Mentre è difficilissima, nella giornata, la continua applicazione della legge del perdono per cui non resta mai niente, la pagina rimane sempre pulita. Non c’è mai nessun debito, tutto viene subito messo a posto. – Ecco, io credo che da questa più o meno disordinata descrizione della legge del perdono al minuto, non all’ingrosso, voi siate in grado di fare una conclusione molto importante: il perdono al minuto è quello che libera l’anima continuamente, è quello che sblocca l’anima continuamente, che la riporta sempre alla serenità virtuosa, non poltrona, virtuosa davanti a Dio e davanti ai fratelli. Ed è quella che ci fa stare a questo mondo molto meglio, perché si sta bene a questo mondo quando si fa così. Costa un po’, eh! esercitare il perdono a questo modo e regolarmente bruciare tutti idebiti degli altri mano mano che pare arrivino, pensando anche che il maggior numero di debiti degli altri sono frutto della nostra fantasia e del nostro orgoglio e non frutto del peccato altrui. Anche questa considerazione deve avere il suo peso. – Ma è la liberazione, la serenità dell’anima. Allora si raggiunge veramente la semplicità. Vi ho detto: c’è qualche cosa di opaco tra noi e i fratelli: la carità deve farcela abolire. Ma per abolirla occorre la sincerità. La sincerità da sola, che sarebbe per sé trasparente, può non esserlo perché i vetri possono essere smerigliati, sfaccettati, dipinti e perfino istoriati. Da questo vetro bisogna continuamente, con una pelle di daino, spazzare via tutto quello che vi si posa: la polvere, i granelli, gli insetti, tutto. Senza questa pelle di daino in mano non si riesce a mantenere la semplicità dei rapporti e pertanto la sincerità nei contatti coi nostri fratelli. Perché è quando ci si sente circondati di sincerità, di trasparenza, che si sta bene. Ma la trasparenza può essere mantenuta con la semplicitàe col perdono continuo. Rinnegando il perdono al minuto, il vetro si copre, si appanna. Se al mattino era bello, traslucido, alla sera non si vede più di là: è tutto coperto dai debiti degli altri e dai crediti nostri. Allora non si vede più niente e tutto diventa incerto, dubbioso, penoso, precario. Bisogna dare questa carità al nostro prossimo. Nostro Signore, mentre istituiva l’Eucaristia, faceva questo discorso : « Ut omnes unum sint! »: che tutti siano una cosa sola! L a grande luminosità della pietà eucaristica da parte dei fedeli è la carità, carità che arriva a questo punto. Così sia.