DIO IN NOI (2)

DIO IN NOI (2)

[R. PLUS: Dio in noi – Versione p. f. Zingale S. J. – L. I. C. E. – Berruti & C. – Torino, 1923; imprim. Torino, 7 aprile 1923 Can. Francesco Duvina]

CAPO III.

La Redenzione.

Abbiamo detto che il soprannaturale è la vita divina in noi, la nostra partecipazione alla natura infinita di Dio. Fissiamo meglio il concetto. Abbiamo già un punto di riscontro per apprezzare, al suo giusto valore, la ricchezza di cui siamo gratificati. Prima ancora d’investigare in che consista la mia vita divina, che luce non promana già da questo solo pensiero: Dio ci ha riscattato, e Gesù Cristo si è incarnato per questo solo motivo: renderci il soprannaturale perduto! – È questo un fatto misterioso: Dio che si fa uomo, e poi il presepio, i trenta anni di vita nascosta; tre anni di vita pubblica; la croce; e lo scopo unico di tutto ciò: rifarci uomini divini. Riflettiamoci più addentro. – L’abbiamo già notato: per il peccato di Adamo noi eravamo tantum homo, uomini e nulla più. Dio non può accettare questa formula. Abbiamo saccheggiato la sua opera: Egli la vuole intatta; l’abbiamo cacciato dall’anima nostra: Egli vuole ritornarvi.

« … E il Verbo si è fatto carne ».

S. Ignazio, negli Esercizi spirituali, nella contemplazione sull’Incarnazione, ci invita a penetrare i consigli di Dio e vedervi la Trinità santa che delibera sulla sorte dell’uomo e sui mezzi da scegliere per salvarlo. – Taine, pensando a Dio e alla sua immensa maestà, paragonava l’uomo a una formica e l’Altissimo a un personaggio impassibile che, col suo mantello, spazza il piccolo essere che cammina ai suoi piedi, senza punto curarsi di lui! Crassa ignoranza di ciò che è Dio! Rivolta verso di noi, la Trinità santa si turba per la nostra miseria, e cerca un mezzo di salvarci… Dio non è troppo grande per abbassarsi a questo modo? — Dio è buono, infinitamente buono, e prova per l’uomo una tenerezza particolare, quella tenerezza che rapiva in estasi il Salmista, e lo faceva esclamare: « Che cosa è dunque l’uomo, o Signore, perché Voi pensiate a lui? » (Quid est homo, quod memor es ejus! Ps. VIII, 5). È vero, profonda è la nostra miseria, ma è pur vero che la misericordia di Dio è meravigliosa. Quello che non fece per gli Angeli, lo farà per noi. Ma come risolvere il problema? Il delitto fu commesso da un uomo; bisogna dunque che la riparazione di questo delitto venga compiuta per mezzo di un uomo. D’altra parte l’ingiuria fatta a Dio ha un valore infinito … Allora la seconda Persona, il Verbo, pronunzia, nelle magioni celesti, la parola di salvezza. Egli si incaricherà di tutto. Figlio di Dio, si farà figlio dell’uomo. Prenderà la nostra natura, diventerà uno di noi. Avrà una madre come noi, una vita come la nostra, abbraccerà le sofferenze come noi. La riparazione sarà di un uomo, perché, pur essendo Verbo, Egli si farà carne. La riparazione sarà di un Dio, perché pur fattosi carne, Egli non cesserà di essere Verbo. E l’Incarnazione è stabilita. Il Salvatore si farà fratello nostro per natura, affinché noi diventiamo fratelli suoi per grazia; parteciperà della nostra vita, affinché noi possiamo partecipare della sua. – Ecco il disegno; ed eccone l’attuazione. L’Arcangelo Gabriele si reca da una Vergine e Le dice: «Dio cerca una madre. Volete divenire la Madre del Figlio di Dio? ». Maria consente. Gesù viene al mondo: « Verbo abbreviato », come dicono i Santi Padri, Verbum abbreviatium, figura ridotta, compendio della Parola eterna, adattato alla nostra capacità. Se Dio si fosse appagato di offrirvi una formula di solvenza, un comandamento da osservare, non avremmo capito. Gli Ebrei, nell’Antico Testamento, avevano le Tavole della legge. Una carta è poco per attrarre gli uomini, e la storia d’Israele è la storia dei continui oblìi e dei rinnegamenti, rinnovati senza interruzione. La formula finirà di essere una mera formula, il comandamento cesserà di essere un semplice comandamento. La parola prenderà corpo, e invece di operare secondo le norme scritte su di un pezzo di carta, agirà seguendo le orme di un uomo. – Il Figlio di Dio, divenuto uno di noi, sarà il nostro capo. Egli sarà il primogenito, il grande fratello di cui tutta la famiglia umana si onorerà; e basterà seguirlo per non deviare nel nostro cammino. Ci mostrerà per dove dobbiamo passare: « Io sono la via ». Lo vedremo sempre il primo della fila, e due sbarre incrociate che formano la sua bandiera, per quanto ne siamo lontani, le scorgeremo facilmente, perché in mezzo ad esse risplende un cuore luminoso. Ego lux! — Venite, figliuoli miei — filioli— il cammino è difficile, ma io vi precedo e chiedo da voi unicamente che mettiate i piedi sulle tracce dei miei passi. Credete alla mia parola. « Io sono la Verità ». Colui che ha ricevuto il Battesimo e crederà, sarà salvo. Colui che rifiuterà di ascoltare la mia voce, si perderà. Che cosa fai tu sull’orlo della strada, che hai gettato la croce per terra e non vuoi più andare innanzi?… Chi vuol venire dietro a me, prenda la sua croce; solo dopo aver fatto questo, potrà seguirmi… Povero Figliuolo! tu manchi di forze. Io te le do. La vita del Padre è discesa nell’anima tua col Battesimo; questa vita bisognerà custodirla in te stesso, svilupparla; i mezzi, a questo scopo, sono i miei Sacramenti… Se per caso vieni meno, se cadi, bisognerà che ti rialzi. Io caddi tre volte, percorrendo lo stesso cammino, per dare a te l’esempio del coraggio e farti rialzare dalle tue cadute mortali, come Io mi rialzai dalle mie cadute fisiche. Io ti ho dato l’esempio: Io ti ho dato anche i mezzi per ristorare le tue forze esauste. Non hai tu la Confessione? La Confessione, il più divino di tutti i miei Sacramenti, da me immaginato affinché la colpa non imputridisca nel tuo cuore. Come il Padre mio, dopo il fallo di Adamo, poteva astenersi dal perdonare, ugualmente Io potrei, dopo il tuo primo peccato, non concederti alcuna remissione. Considera la mia bontà, non per abusarne, ma perché tu abbia maggior confidenza in me. Ogni qualvolta tu cadrai, un Sacerdote sarà pronto, vicino a te, per perdonarti in mio nome. E quando sarai tormentato dal dubbio o dall’angoscia, ascolta la voce dei miei rappresentanti sulla terra, della mia Chiesa. L’esempio, la regola da seguire, i soccorsi da utilizzare; che cosa più ti manca? Dimmelo, che cosa avrei potuto fare di più, per te, che non l’abbia fatto? E tutto questo, notalo bene, tutto questo unicamente, esclusivamente perché tu viva della vita del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, perché tu viva della vita divina. Ho agito così, ho fatto un così grande passo — sicut gigas— per farti partecipe, Io Verbo, della mia vita che è la vita del Padre e dello Spirito Santo. Continuerai a stimare come cosa di poco conto, questa vita divina, questa vita soprannaturale? Tu non vi badi, ovvero non ne fai alcun caso. Mentre io… Considera quello che risolvetti di fare e che poi feci. – E cerca, ormai, di capire.

— Signore! Lo so. Aumentate la mia fede. Concedetemi di modellare tutta la mia vita su queste grandi idee. Voi mi avete reso la mia vita divina. Terrò ormai davanti agli occhi, non dimenticherò mai quanto quest’opera insigne vi sia costata.

— Tu non hai ancora compreso tutto. Hai contemplato, sì, con un’occhiata la mia vita e i miei benefizi. Il presepio, per te; la mia vita nascosta, per te; per te la predicazione evangelica; per la tua salvezza la fondazione della mia Chiesa, l’istituzione dei miei Sacramenti. – Hai pensato che su tutto ciò si distendeva una grande ombra, l’ombra sinistra, ma gloriosa, delle due traverse, mal connesse, che in forma di croce, dominavano il Golgota? Potevo vivere felice sulla terra. Non volli farlo: intendevo scrivere nel Vangelo: «Beati i poveri ». Se fossi stato ricco, mi avresti detto: « Voi parlate senza aver provato ». Scelsi la povertà. A Betlem non ebbi nulla. Sulla Croce, nulla. Fra la Croce e Betlem, nulla. Potevo vivere fra gli onori. Volevo poterti dire: «Beati i perseguitati», senza che tu avessi nulla da rimproverarmi. Ascolta. Alla mia nascita sono cercato a morte da Erode. Durante la mia predicazione, parecchie volte, vogliono arrestarmi e mettermi in prigione; prendono di terra le pietre per lapidarmi; la mia bontà è rimunerata con l’insulto. Quanto alla Passione ecco Anna, Caifa, un altro Erode, Pilato, i Giudei che schiamazzano; l’abbandono, l’odio, il tradimento; non mi mancò nulla. Avrei potuto… ma perché continuare? Scelsi la sofferenza, la Croce, volli versare tutto il mio sangue.

Perché?

Perché tu capisca meglio quanto io stimi la vita soprannaturale alla quale è destinata l’anima tua. Io mi annientai, mi ridussi a zero exinanivit— affinchè Dio viva in te. Mi ridussi al minimum, affinché tu potessi avere la vita al maximum.

Ohimè!

Che disdetta non fu la mia, che perdita! Operai a questo modo per amore degli uomini. Ma quanti di loro vi pensano? Quale stima mostrano della vita divina che portano in sé, — che dovrebbero almeno portare? — Il peccato dappertutto, nella strada e nella famiglia, nelle grandi sale, nelle stanze destinate al riposo, perfino nelle chiese e nei chiostri. I peccati dei buoni, specialmente! Essi soli mi ridussero all’agonia. Non potei resistere a tanto orrore, e dovetti sudare sangue. Peccati numerosissimi, grossolani, enormi! Io ne fui schiacciato dal peso, annientato. – Il mio sangue, tutto il mio sangue, inutile! Inutile, non per i soli infedeli di nascita, i pagani, ma per la folla degli infedeli dal cuore troppo gaio; per i Cristiani che sono in peccato mortale. Il povero Giuda, lo sai bene, è il modello delle anime che rifiutano di lasciarsi guadagnare. Misi in opera ogni mezzo, per salvarlo: la bontà, la compassione, la minaccia. M’inginocchiai ai suoi piedi per lavarglieli. Non capì nulla, non si commosse, e Io dovetti lasciarlo in braccio alla perdizione! Tutto il mio sangue è pertanto un prezzo d’infinito valore!… L’uomo mi ha profondamente rattristato. È dunque questo il cuore dell’uomo? E mia Madre, la mia povera Madre ch’Io volli associare con me alla tua redenzione e al mio martirio! Non è Madre tua, solo perché ha, per te, gli stessi sentimenti che una madre nutre per suo figlio, ma perché in realtà — Io la feci tua Madre, — tu Le devi la vita soprannaturale. – Nell’Annunziazione, quando Gabriele si presentò a Maria, ecco la strana proposta che Le fece, il contratto singolare a cui Le domandò di associarsi: « Dio ha stabilito di rendere all’uomo la vita divina. A questo scopo vuole incarnarsi e voi siete scelta per metterlo al mondo. Se accettate, il mondo possederà un Salvatore. Per mezzo suo avrà la salvezza. Senza di voi nulla è possibile. Dite sì, e tutto sarà conchiuso. Ma perché non vi sia un malinteso, sentite quali sono le condizioni del contratto: Gesù morrà sulla Croce. Voi lo alleverete per il sacrificio. Senza il Calvario non vi sarà Redenzione. Per salvare i vostri figli, gli uomini, — figli vostri perché a voi dovranno la vita soprannaturale che dipende unicamente dal vostro fiat, — bisognerà sacrificare il vostro Primogenito. Accettate la morte dell’uno, per salvare tutti gli altri? ».

Maria accetta.

Ella è Madre. È tua Madre, titolo che Maria stima molto, perché riassume il suo ufficio, il suo sacrifizio, la sua missione: Mater Dolorosa, madre dei dolori. In tutta la sua vita, tua Madre — la Madre mia — ebbe dinanzi agli occhi la visione tremenda della Croce che avrebbe dominato la mia e la sua vita, e a ogni momento si rinnovava il triste spettacolo di me, suo Primogenito, inchiodato e sanguinante sopra il legno infame. E Io ho permesso questo, per amor tuo. Senza questa doppia crocifissione, che per me durò trentatrè anni e per mia madre tutta la vita, tu non saresti stato riscattato. Maria rinnovò il fiat dell’Annunziazione in ogni istante della sua esistenza. Ai piedi della Croce ripeterà con me la sua giaculatoria consueta, l’Amen sublime, con cui si associò pienamente, fin da principio, alla mia volontà redentrice. Così si riassume, con l’ufficio di Gesù, l’ufficio di Maria nella nostra rinascita collettiva alla vita soprannaturale (noi non pretendiamo punto che la Vergine abbia avuto, dal primo momento, la conoscenza di tutta la Passione del suo Divino Figliuolo, in tutte le particolarità. Ma diciamo, secondo il giudizio di vari Santi Padri, che l’Angelo verisimilmente poté rivelare alla Vergine la Passione del Figlio, presa nel suo insieme. Come difatti spiegare l’accento di rassegnazione del fiat? Ad una proposta di grande onore si risponde piuttosto: meglio così, anziché: fiat, sia. La sola umiltà di Maria non basta, secondo alcuni, a dare ragione della risposta fatta all’Angelo. La Vergine aveva d’altronde letto Isaia, il vermis et non homo, il virum dolorum. Sapeva quindi che il Messia sarebbe l’uomo dei dolori. Accettando perciò la maternità del Messia, per il fatto stesso accettava di essere una Madre addolorata; e per chi conosce il cuore di una madre, Maria si rassegnava al dolore durante tutta la sua vita. La Vergine dovette averne l’intuizione alle prime parole dell’Angelo. Quanto alle particolarità, non si potrebbe forse ammettere che durante i trent’anni di contatto continuo con Lei, Nostro Signore abbia rivelato a sua Madre, scelta ad essere corredentrice, quale sorta di pene fossero riservate a Lui?). L’umanità deve tutto a Maria; e l’essere costata a Lei tanti dolori, spiega perché la Vergine sia così potente presso Dio, allorquando trattasi di difenderci contro gli attacchi giornalieri dei nemici dell’anima nostra. – Giacché non basta che siamo stati salvati una volta. Noi siamo esposti, ogni giorno, a cadere nel male in mille maniere. Maria, per ciascuno di noi, non dimentica l’ufficio che assunse una volta. Ella accettò il sacrificio del suo Primogenito, per strappare alla morte noi, suoi « secondi » figli. Questo importa molto, ed è la ragione precipua dell’efficacia del suo intervento. Nel secondo libro dei Re si racconta che una madre, avendo due figli, vede un giorno il minore accusato dell’uccisione del fratello. Il reo è condannato a morte, essendo provato il delitto. La madre, presente alla sentenza, si getta ai piedi del giudice, e gli dice : « Che cosa fate, signore? Ho perduto già un figlio, e voi oserete uccidere l’unico che mi resta? ». Possiamo immaginarci lo stesso riguardo Maria — Omnipotentia supplex, l’onnipotenza supplichevole — al momento in cui la morte è sul punto di colpire un suo figliuolo in peccato mortale, per privarlo in eterno dell’eredità dei figli di Dio. Ella allora si prostra ai piedi del Padre, e dice: « Signore, Io ho sacrificato il mio Primogenito. Fate grazia, vi supplico, a questo mio secondogenito, per i dolori sofferti dal Primo; per tutte le pene da me sopportate, perdonatelo… è un mio figliuolo! Non vogliate punirlo in eterno. Mandategli una grazia che lo converta… Abbiate pietà di me! ». Cominciamo a capire il vero valore della nostra vita soprannaturale. Allorché si ignora il valore di un bene, si ricorre a chi è in grado di stimarlo. – Io stimo per nulla la mia vita divina.

Quanto invece fu stimata da Maria?

Quanto da Gesù? L’uno e l’altra capaci, pertanto, di apprezzarla! Bisogna che qualcuno s’inganni; o s’ingannano essi o m’inganno io. Sì, m’inganno io. Bisogna quindi che io rettifichi al più presto il mio falso giudizio, e che, in conseguenza, non trascurando la stima che altri ne ha fatto, mi studii di trovare in me che cosa sia la vita soprannaturale, la presenza di Dio, nell’anima mediante la grazia.

LIBRO SECONDO

L’abitazione divina nell’anima nostra

Le grandi linee del disegno di Dio sono le seguenti:

In principio l’uomo è colmato, al disopra della sua natura, di doni meravigliosi, dei quali il più importante è una partecipazione di amore alla stessa vita della Trinità Santa. – Per il peccato originale, l’uomo perde questo tesoro soprannaturale. Tutto però non è perduto irremissibilmente. – Dio stabilisce di rendere all’uomo la partecipazione ineffabile alla sua vita divina; soltanto non saranno resi alcuni doni accessori e d’ordine temporale. – Per mandare ad effetto tale restituzione, Dio sceglie di venire Egli stesso sulla terra. Il Verbo, seconda Persona della Santa Trinità, si incarna, dopo aver fatto domandare a Maria se accetta l’onore e il martirio di divenire sua Madre. – Grazie a questa redenzione, a questo riscatto, eccoci divenuti uomini divini. Dio ha determinato di venire in terra, unicamente per rientrare nelle nostre anime. Egli non si lasciò attrarre dal presepio di Betlem, ma dal nostro cuore. Vuole rientrare nel dominio del cuore, affinché ridiveniamo quello che eravamo alla nostra origine: portatori di Dio.

Spieghiamo quest’espressione e dimostriamone l’esattezza letterale. Ci riuscirà facile il compito, se avremo provato che per mezzo della grazia santificante Dio fa dell’anima nostra:

1. Un vero tabernacolo;

2. Un cielo;

CAPO I .

” Templum Dei .

Nulla è più spesso ripetuto e affermato, nelle Epistole, di questa verità, che noi dobbiamo considerarci come tabernacoli, vere Chiese, case di Dio: Quæ domus sumus. — Vos estis templum Dei. – S. Paolo, per sostenere questa dottrina, usava lo stesso insegnamento di Nostro Signore. « Se qualcuno mi ama», aveva detto Gesù, vale a dire se qualcuno è fedele ai miei comandamenti, se non pecca, ma vive in stato di grazia, « mio Padre e Io l’ameremo, e verremo a lui, stabiliremo in lui la nostra dimora, la nostra abitazione, il nostro soggiorno ».

« Verremo a lui ». Chi farà questo? Noi, Padre, Verbo, Spirito Santo, che siamo un solo. Verremo, non della venuta necessaria e comune, in virtù dell’immensità divina; ma di una venuta speciale, gratuita, di amore, che ci costituirà non più nelle relazioni di un oggetto con colui che l’ha fatto, di creatura a Creatore, ma nelle relazioni di amico ad amico.

« Noi verremo a lui ».  È una grazia grande venire anche di passaggio, venire per ripartire al più presto. Ma noi faremo di più: Verremo e resteremo; verremo per dimorare, per stabilirci, per operare continuamente la divinizzazione più completa e più perfetta dell’anima. « Noi verremo e resteremo ». Noi resteremo, e da parte nostra, questa presa di possesso sarà irrevocabile, sarà una dimora che non avrà fine. Tu solo, col peccato, potrai pronunziare una sentenza d’espulsione e allora Noi partiremo. Non potremmo fare altrimenti! Ma finché questo non accade, la nostra vita, la nostra presenza in te, è un fatto, una vera realtà. Io impegno la mia parola. – Si conosce da tutti l’espressione di San Pietro, difficile a tradursi, ma bella, chiara, con cui afferma ai primi Cristiani, che se persistono nello stato di grazia, sono in possesso della « partecipazione alla natura divina, divinæ consortes naturæ ». Cerchiamo di rappresentarci in concreto questa presenza di Dio nell’anima nostra. – Abbiamo spesso meditato sul presepio. Supponiamo adesso il presepio, divenuto tutto a un tratto vivente… La culla del Salvatore conteneva Gesù, Uomo-Dio. Noi, divenuti, per la grazia, culle viventi, portiamo, non la santa Umanità del Signore, ma la sua divinità. Secondo il simbolismo delle tre Messe che si celebrano il giorno di Natale, se la prima ci ricorda la nascita eterna del Verbo nel seno del Padre e la seconda la nascita temporale del Cristo a Betlem, la terza, invece, ci rappresenta la nascita spirituale di Dio in ciascuna delle nostre anime con la grazia santificante. Spesso abbiamo meditato sull’Eucaristia. Immaginiamoci la sacra pisside divenuta a un tratto vivente… La pisside racchiude Gesù, l’Uomo-Dio. Per la grazia, noi divenendo pissidi viventi, portiamo non l’Umanità di Nostro Signore, ma quello che in Lui è più grande: la sua Divinità. – Nel 1914 alcune religiose belghe, costrette a fuggire dinanzi all’invasione tedesca, riparando in Olanda, portarono seco la sacra pisside che la superiora aveva tolta dal tabernacolo. Erano fuori di sé per la gioia di portare, una volta nella loro vita, Nostro Signore. Ma la religiosa che teneva con sé il sacro deposito, aveva forse pensato che ogni giorno, per la grazia santificante, ella portava realmente, benché non nello stesso modo, il buon Dio? – Di tutte le lodi tributate al valore durante la guerra, è certamente assai meritata quella di un basco di Urrugna, chiamato Ururétagoyena: « Soldato valoroso… Il 16 giugno 1916, durante l’incendio di X …, non permise che il parroco andasse a prendere il Santissimo in mezzo alle fiamme, ma vi andò egli stesso, malgrado i pezzi infiammati che cadevano da tutti i punti, e, attraversando una finestra, riuscì a portare la pisside al prete ». Essendo quel soldato un fervente Cristiano, come lo sono generalmente i baschi, si può supporre che sia stato santamente orgoglioso di avere portato, anche durante alcuni minuti, il Dio vivente. E per noi, quale dovrebbe essere il nostro nobile orgoglio, se pensassimo che ad ogni momento — se siamo in grazia — portiamo Dio. Lo portiamo dovunque andiamo, non soltanto sopra di noi, come le buone suore di cui abbiamo parlato, ovvero come il bersagliere basco, o come il Papa Alessandro, che si dice portasse continuamente appeso al collo, in una teca d’oro, il SS. Sacramento; ma dentro di noi dove risiede, non corporalmente, — privilegio riservato alla presenza eucaristica dopo ogni Comunione, durante il tempo in cui durano le sacre specie; — ma spiritualmente, per la grazia santificante, finché noi lo vogliamo, in virtù della nostra fedeltà. – Noi siamo altrettanti tabernacoli. I Santi vivevano di questo pensiero. Ogni anno la Chiesa ci fa leggere nel breviario le lezioni della festa di Santa Lucia. Il prefetto l’interroga: «Lo Spirito Santo è in te? » — « Sì, coloro che vivono casti e pii sono il tempio dello Spirito Santo ». S. Ignazio martire dice a Traiano che l’insulta, trattandolo di miserabile: — Nessuno osi trattare di miserabile Ignazio, Porta-Cristo. — Come potresti chiamarti Porta-Cristo, Cristoforo? — Perché questa è la verità. Io porto Dio in me. – All’occasione, Nostro Signore stesso s’incarica di dire, ad alcune anime privilegiate, le meraviglie della sua presenza in noi. Un giorno chiamò così S. Angela da Foligno: « Figlia mia carissima, mio tempio, mia delizia… ». – E a Santa Gertrude, la santa per eccellenza, dell’Abitazione in noi, la Santa di cui la Chiesa, nell’orazione per la sua festa, dice: « O Signore, che nel cuore di Gertrude vi siete preparata una dimora deliziosa… » parecchie volte Gesù Cristo rivolge queste parole: « Io ti ho scelta per abitare in te, e per trovare in te le mie delizie ». – La conoscenza che il Divin Salvatore dava alle sue Sante era ben diversa dalla nostra, non era cioè una conoscenza di pura fede, ma una conoscenza sperimentale, sentita, appartenente a quell’ordine mistico di cui noi qui non intendiamo affatto occuparci. Fatta questa riserva, possono valere per noi le parole che Gesù rivolgeva loro. Nessuno negherà che non possa chiamare noi suo tempio e non possa dirci: « Io ti ho scelto per abitare in te ». E difatti nel suo dogma Egli ci chiama e ci parla così. – Nulla di più esatto. I Cristiani istruiti che hanno una fede viva, non ignorano questo. Si conosce il gesto di Leonida, padre di Origene. Inchinandosi sul figlio, adagiato nella culla, per baciarne il petto, risponde a chi si meraviglia: « Io adoro Dio, presente nel cuore di questo piccolo battezzato ». Origene stesso scriverà più tardi, parlando della grazia santificante e della vita divina che la grazia apporta in noi: « Scio animam meam inhabitatam. Habitata est quando plena est Deo, quando habet Christum et Spiritum Sanctum. L’anima mia è un’abitazione. Abitazione di chi? Di Dio, di Gesù Cristo, dello Spirito Santo » (In Jerem., hom. VIII).

Abbiate stima di questo piccolo essere;

Egli è assai grande, ha in sè Dio!

(Prenez garde à ce petit être;

Il est bien grand, il contient Dieu.

VICTOR HUGO).

Credette mai, Victor Hugo, di esprimere, in questi due versi, una verità dogmatica fondamentale ed insieme commovente? Ecco ancora un tratto, forse più bello di quello di Leonida. – Una madre, fervente cristiana, dopo molti anni di sterilità dà alla luce una bambina. A coloro che glie la porgono perché l’abbracci: « No, risponde; lo farò tra breve, quando avrà ricevuto il Battesimo ». Poche madri avrebbero forse una fede simile. Non meno cristiana è l’attitudine di Botrel, bardo bretone, il quale, citato a testimoniare in un tribunale e non scorgendovi più il Crocifisso, rifiuta di sollevare la mano, e la pone invece, premendo forte, sul petto, esclamando: « Dio è almeno qui ». Dalla cittadella di Lilla, in cui era stato rinchiuso come in prigione di rigore, per essersi rifiutato di ubbidire contro coscienza, allorché il governo aveva imposto gl’inventari agli edifici sacri, un ufficiale francese, non potendo visitare il Santissimo Sacramento, si consolava al pensiero che almeno nessuno gli poteva impedire di visitare Dio presente nell’anima sua, per la grazia: «Per fare una buona adorazione, egli scriveva, io rientro in me stesso, o meglio, adoro Dio presente in me. Non siamo forse noi altrettanti tabernacoli?».Pensiero, anche quest’altro, pratico e profondo: « Quanto a me, scriveva prima della guerra il Dottor Périé, presidente del circolo della gioventù cattolica dell’Aveyron, la vita cristiana consiste, tutta quanta, nella fedeltà a questa massima: vivere, ogni momento della nostra vita, con Gesù Cristo. Sentire Lui, Dio, amico, confidente, padrone, presente sempre accanto a noi e dentro di noi ».Quanta forza in questo pensiero, quando lo si è compreso! Poter dire a ogni minuto: io non sono solo, siamo due, Dio e io! Consideriamo come dato a noi il consiglio di Monsignor d’Hulst: « L’anima vostra sia un tabernacolo davanti al quale vi prostrerete spesso, a causa dell’Ospite divino che vi abita ».

CAPO II.

“Cœlum sumus,,.

« Noi siamo un cielo ».

S. AGOSTINO.

Una carmelitana di Digione, morta di recente, dopo solo alcuni anni di vita religiosa, suor Elisabetta della Trinità, la cui vita spirituale si basa quasi esclusivamente sul dogma dell’Abitazione divina, è un modello di ciò che deve essere l’intimità « interiore ». Il titolo di Carmelitana non deve costituire una difficoltà. Il P. Foch fa osservare, con ragione, in una lettera, citata al principio delle Memorie di suor Elisabetta: « Il carattere singolarmente importante che me la fa assai apprezzare, si è che la perfezione di quest’anima religiosa, in ultima analisi, consiste nell’effusione della grazia, nello sviluppo progressivo, normale, logico delle virtù teologali, quali il Battesimo le infonde in tutti ». Questo importa, che il substratum divino, su cui suor Elisabetta edificò l’edificio della sua santità, è posseduto anche da noi. Non esistono punto due forme di stato di grazia. È pertanto, fuori di dubbio che il posto che noi riserviamo a Dio nell’anima nostra può differire a seconda della capacità delle nostre virtù; ma ciò sarà solo secondo un numero maggiore o minore di gradi, una misura più o meno ristretta. Dio può concedere, è vero, grazie straordinarie che facilitano la vita interiore, come fece con S. Elisabetta. Col solo spirito di fede noi possiamo, nondimeno, avvantaggiarci molto nella conoscenza concreta di Dio in noi. Questo è possibile a tutti, purché si abbia buona volontà. Ecco perchè le « Memorie » di questa religiosa — con le correzioni che noi indichiamo — possono servire di modello a tutti. S. Paolo fornisce la teoria; Suor Elisabetta ce ne mostra la pratica, con gli accomodamenti necessari alla vita di ciascuno di noi. – La serva di Dio dice di avere trovato un gran segreto, il giorno in cui s’accorse che le parole di Gesù Cristo e quelle di S. Paolo su « Dio in noi », non erano da ritenersi come una metafora, ma alla lettera; in altri termini: « Dio in noi » non è semplicemente una formula, ma una vera, una sublime realtà. La pia carmelitana fece, di questa realtà, il centro della sua vita. – « Dio in noi », cioè a dire il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo: « Tre »; secondo una sua espressione favorita. Non bisogna parlare d’un Dio lontano, assente. Il suo Dio è vicinissimo, i suoi « Tre » sono là. E la sua intera esistenza si riassumerà in queste poche parole: «L’intimità interna cogli ospiti dell’anima mia ». A partire da questo momento, una sua idea molto cara, idea vera anche per noi, si è che possedendo Dio, l’anima nostra è un cielo. Noi dicevamo poco fa: tabernacolo, tempio. Possiamo dire, molto esattamente: cielo, paradiso. « Vivere, è comunicare con Dio da mane a sera e dalla sera al mattino… Lo portiamo in noi, e la nostra vita è un cielo anticipato. « Far sì che la nostra « casa di Dio » sia pienamente occupata dai « Tre… », mi pare il segreto della santità, un segreto molto semplice! – Dire che abbiamo in noi il nostro cielo … Quanto sarà bello, quando il velo cadrà, e noi godremo Dio faccia a faccia! ». Scrivendo a sua sorella, le cita la parola dell’Apostolo: « Non siete più ospiti o estranei, ma della città dei santi e della casa di Dio ». E aggiunge: « Questo cielo è al centro dell’anima nostra… Non vi pare semplice e consolante? Malgrado le tue occupazioni e attraverso le tue sollecitudini materne, tu puoi ritirarti in questa solitudine… Allorquando sarai distratta dai tuoi numerosi doveri… se vuoi raccoglierti, entrerai, a ogni ora, nel centro dell’anima tua, là dove dimora l’Ospite divino; potrai pensare alle consolanti parole: Le nostre membra sono il tempio dello Spirito Santo che abita in voi (1 Cor., III, 16); e a queste altre che sono di Gesù Cristo: Dimorate in me ed Io in voi. Si narra di S. Caterina da Siena che viveva sempre nella sua stanzetta, benché fosse in mezzo al mondo, giacché viveva in quest’abitazione interiore… ». Questo pensiero dominava la serva di Dio nei suoi ritiri spirituali. Ella scrive: «Poiché l’anima mia è un cielo dove io vivo aspettando la Gerusalemme celeste»… E riassume tutto in un’equazione luminosa: « Ho trovato il mio cielo sulla terra, poiché il cielo è Dio, e Dio è nell’anima mia ». – Grazie speciali davano a Suor Elisabetta una particolare penetrazione del mistero divino. Questa facilità di « rientrare nel suo interno », di vivere « sola con Dio solo », non può appartenere, nello stesso grado, che alle anime prevenute da soccorsi straordinari, ovvero preservate dalle innumerevoli distrazioni della vita del mondo. – In conseguenza noi non vogliamo occuparci di questo. Non pretendiamo che la facilità sia per tutti uguale, ma diciamo che in tutti — in tutti coloro che sono in grazia, — Dio abita, e che dipende da noi, aiutati dalla grazia e secondo le risorse esteriori della nostra devozione, discendere in noi, quando vogliamo pregare;

in noi, poiché Dio vi si trova e in nessun altro posto ci è più vicino. Nostro Signore stesso spiegò una volta, nel giorno dell’Ascensione, a Santa Margherita Maria questa dottrina: « Ho scelto l’anima tua perché sia un cielo di riposo sulla terra e il tuo cuore sia un trono di delizie per il mio divino amore». Presenza sentita per la Santa; presenza semplicemente conosciuta in virtù della fede, quando trattasi di noi, ma identica nel suo fondo, differente solo in un punto accidentale: il modo di percepirla. – I Padri spiegano spesso questa dottrina: « Cœlum es et in cœlum ibis, dice Origene (In Jer., hom. VIII); tu sei cielo e andrai in cielo ».

— E Sant’Agostino: « Portando con noi il Dio del Cielo, siamo cielo. Portando Deum cœli, cœlum sumus». (In Psalm. LXXXVIII).L’Imitazione di Cristo nella sua semplicità dice:« Ubi tu es, ibi cœlum » (III, 59). E il P. Faber traduceva: « Dio produce il cielo, dovunque si trova ». Da ciò si comprende meglio l’agire di Santa Teresa che cadeva in estasi alla vista di un’anima in istato di grazia. « Il cielo, scriveva la Santa, non è l’unica abitazione di N. Signore; ve n’è un’altra nell’anima che può chiamarsi un secondo cielo ».S. Teresa considera specialmente, e nelle Fondazioni e in altri scritti, la verità della presenza di Dio in noi dal punto di vista mistico, come in generale facevano gli scrittori antichi; ma non omette, all’occasione, di ricordare il nostro punto di vista, basandolo sui principii della teologia dogmatica. Valendosi della frase di Origene: Tu coelum es, la Santa chiama l’anima nostra « un piccolo cielo… in cui abita Colui che ha creato il cielo e la terra ». « Vi è mai cosa alcuna più degna d’ammirazione, dice ancora, che di vedere Colui il quale riempirebbe della sua grandezza mille mondi, racchiudersi in una piccolissima dimora come la nostra? ».S. Bernardo, a sua volta, parlando dell’anima scrive: « Non bisogna dirla celeste unicamente a causa della sua origine; bisogna chiamarla il cielo stesso. Puto non modo cœlestem esse propter originem, sed cœlum ipsum posse non immerito appellari » (Dice ancora: « Non mirum si henter habitet hoc cœlum Dominus juxta illud Lucæ: Regnum Dei infra vos est. Nessuna meraviglia se Dio abita volentieri nel cielo dell’anima nostra; per creare il cielo visibile, si contentò di dire il fiat; per il cielo dell’anima nostra, dovette combattere e versare tutto il suo sangue, pugnavit ut aquireret, occubuit ut redimeret. Quindi, dopo quest’immenso lavoro, godendo della sua vittoria, ait: hæc requies mea, hic habitabo, disse: prenderò là il mio riposo, abiterò là dentro » – Serm. XVII in cantica, n. 9). È però indubitato che a differenza del cielo che ci attendiamo nell’eternità, il cielo dell’anima noi possiamo perderlo. Quaggiù portiamo i nostri tesori in vasi di argilla, vasis fictilibusl’altro invece non si può perdere. Questo « cielo» in noi è invisibile. Dio è presente, ma sfugge a qualsiasi percezione dei nostri sensi, e vi è un abisso tra la fede e la visione. Maria de la Bouillerie, che doveva morire religiosa del Sacro Cuore, nel suo ritiro di prima comunione fu colpita da questa frase: « Il nostro corpo è un velo che c’impedisce di vedere Dio ». Fra la grazia e la gloria vi è solo questa distanza — grandissima e piccolissima — il velo. Alla morte cadrà il velo della nostra carne, come un mantello che si squarcia, e allora vedremo. È invisibile, si può perdere e sfugge ai sensi. Con la grazia possediamo l’eredità, ma per goderne bisogna aspettare la gloria ( « Il cielo è Gesù », scriveva Mgr. Gay all’abate Perdrau; « la felicità non consiste nel vederlo, ma nel fatto che esista e che sia nostro. Or ci appartiene qui. È  verissima quindi la definizione che il Dottore Angelico dà della grazia: inchoatio vitæ eternæ… Noi possiamo e dobbiamo esclamare, lodando Dio e congratulandoci gli uni gli altri: portio mea Dominus » (Corresp. t. II, p. 217Monsignor Gay, per la sua devozione personale e per dirigere le anime, si valeva molto del dogma dell’Abitazione divina.).Quale soggetto, pertanto, degno della nostra stima, se vi facessimo attenzione! Io sono «cielo»! E la conclusione da dedurne: lavorare a mettere il « cielo » nell’anima mia, a metterne sempre di «più». Seminare nel tempo, per raccogliere nell’eternità: abbiamo altre ragioni di vivere quaggiù?

https://www.exsurgatdeus.org/2019/12/17/dio-in-noi-3/

SALMI BIBLICI: “DEUS, JUDICIUM TUUM REGIS DA” (LXXI)

SALMO 71: “Deus, judicium tuum regi da”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

CATENA D’ORO SUI SALMI

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 71

Psalmus, in Salomonem.

[1] Deus, judicium tuum regi da,

et justitiam tuam filio regis;  judicare populum tuum in justitia, et pauperes tuos in judicio.

[2] Suscipiant montes pacem populo, et colles justitiam.

[3] Judicabit pauperes populi, et salvos faciet filios pauperum, et humiliabit calumniatorem.

[4] Et permanebit cum sole, et ante lunam, in generatione et generationem.

[5] Descendet sicut pluvia in vellus, et sicut stillicidia stillantia super terram.

[6] Orietur in diebus ejus justitia, et abundantia pacis, donec auferatur luna.

[7] Et dominabitur a mari usque ad mare, et a flumine usque ad terminos orbis terrarum.

[8] Coram illo procident Aethiopes, et inimici ejus terram lingent.

[9] Reges Tharsis et insulæ munera offerent; reges Arabum et Saba dona adducent;

[10] et adorabunt eum omnes reges terræ, omnes gentes servient ei.

[11] Quia liberabit pauperem a potente, et pauperem cui non erat adjutor.

[12] Parcet pauperi et inopi, et animas pauperum salvas faciet.

[13] Ex usuris et iniquitate redimet animas eorum, et honorabile nomen eorum coram illo.

[14] Et vivet, et dabitur ei de auro Arabiæ; et adorabunt de ipso semper, tota die benedicent ei.

[15] Et erit firmamentum in terra in summis montium; superextolletur super Libanum fructus ejus, et florebunt de civitate sicut fænum terræ.

[16] Sit nomen ejus benedictum in sæcula; ante solem permanet nomen ejus. Et benedicentur in ipso omnes tribus terræ; omnes gentes magnificabunt eum.

[17] Benedictus Dominus, Deus Israel, qui facit mirabilia solus.

[18] Et benedictum nomen majestatis ejus in æternum, et replebitur majestate ejus omnis terra. Fiat, fiat.

Defecerunt laudes David, filii Jesse.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXI

Davide nell’ultima sua vecchiezza, consegnando il regno a Salomone, prega Dio per lui. Ma più veramente trasportato dallo spirito di profezia, con elegantissime immagini descrive la venuta di Cristo, la propagazione del suo regno e la rettitudine del suo governo.

Salmo sopra Salomone.

1. Dà, o Dio, la potestà di giudicare al re, e l’amministrazione di tua giustizia al figliuolo del re, affinchè egli giudichi con giustizia il tuo popolo e i tuoi poveri in equità.

2. Ricevano i monti la pace pel popolo, e i colli ricevano la giustizia.

3. Ei renderà giustizia ai poveri del popolo, e salverà i figliuoli de’poveri, e umilierà il calunniatore.

4. Ed ei sussisterà quanto il sole e quanto la luna per tutte quante le generazioni. (1)

5. Egli scenderà come pioggia sul vello di lana e come acqua che cade a stille sopra la terra. (2)

6. Spunterà ne’ giorni di lui giustizia e abbondanza di pace, fino a tanto che non sia più la luna.

7. Ed ei signoreggerà da un mare sino all’altro mare, e dal fiume sino alle estremità del mondo. (3)

8. Si getteranno a’ suoi piedi gli Etiopi, e i nemici di lui baceranno la terra.

9. I re di Tharsis (4) e le isole a lui faranno le loro offerte; i re degli Arabi e di Saba porteranno i loro doni. (5)

10. E lo adoreranno tutti i re della terra, e le genti tutte a lui saran serve;

11. Imperocché egli libererà il povero dal possente; e tal povero, che non aveva chi lo aiutasse.

12. Avrà pietà del povero e del bisognoso, e le anime dei poveri farà salve.

13. Libererà le anime loro dalle usure e dalla ingiustizia; e il nome loro sarà in onore dinanzi a lui.

14. Ed ei vivrà, e gli sarà dato dell’oro dell’Arabia, (6) e sempre lo adoreranno, e tutto il dì lo benediranno. (7)

15. E nella terra il frumento sarà sulla cima delle montagne, e le sue spighe si alzeranno più che i cedri del Libano e moltiplicheranno gli uomini nella città come l’erba ne’ prati.

16. Sia benedetto pei secoli il di lui nome: il nome di lui fu prima che fosse il sole. E in lui riceveran benedizione tutte le tribù della terra; le genti tutte lo glorificheranno. (8)

17. Benedetto il Signore Dio di Israele: egli solo fa cose ammirabili.

18. E benedetto il nome della maestà di lui in eterno; e la terra tutta sarà ripiena della sua maestà; cosi sia, cosi sia. Fine delle laudi di David, figliuolo di Jesse. (9) (10).

(1) Vale a dire, le generazioni vi loderanno notte e giorno, fintanto che dureranno il sole e la luna.

(2) La pioggia abbondante che bagna la terra, opposta a “pluvia”, la pioggia fine.

(3) L’Eufrate, limite estremo del regno di Salomone, è considerato qui come l’estremo del mondo.

(4) Tharsis, Tartessus, colonia fenicia di Spagna, viene considerata tra i paesi marittimi più lontani. – Era verso occidente il paese marittimo più lontano conosciuto dagli Ebrei; di conseguenza, i re delle coste marittime più lontane del lato di ponente.

(5) I re di Arabia e di Saba, l’Arabia felice; ciò non prova che i magi fossero di questi paesi; il salmo non si applica a loro che “in specie”, ma generalmente a tutti i popoli che vengo alla Chiesa ed al Messia. – Saba designa l’Abissinia, popolata dagli arabi. Così, tutti i popoli più lontani vengono al Messia (Le Hir.). 

(6) Sia che vi fossero miniere d’oro (oggi non ce ne sono più), sia perché piuttosto perché con trasporto, l’oro dell’interno delle terre, arrivava in Giudea (Le Hir.).

(7) L’ebraico tradotto con «  de ipso », significa « propter cum », ed anche « per eum ». – i Settanta dicono: essi pregheranno, « orabunt », invece di « adorabunt ». « Orabunt de ipso » sarebbe l’equivalente di: essi pregheranno nel suo nome, o per i suoi meriti.

(8) Immagine della prosperità sotto il regno del Messia. Un pugno di frumento, seminato anche sulla cima di una montagna, darà delle spighe magnifiche che muovendosi al soffio dei venti, somiglieranno ai cedri del Libano. Dall’altro canto, le città saranno così floride e gli abitanti così numerosi che sembreranno pullulare come l’erba dei campi. – Questi due versetti formano la dossologia che si trova alla fine di ciascun libro.

(9) Secondo san Girolamo, è detto che qui finiscono i cantici di Davide, perché è descritto ciò che deve succedere alla fine dell’epoca di Gesù-Cristo. Ma questa ragione non è meno che letterale. Noi amiamo dire meglio con qualche critico, che queste parti indicherebbero una prima raccolta di Salmi, dati volgarmente sotto il nome di Davide – benché non siano tutti suoi – che ne comprende i primi settantadue. La prima raccolta, che sarebbe stata composta dopo la costruzione del tempio, sarebbe stata completata da un altro, ed in essa sono inseriti altri salmi di autori che vissero prima di Davide, ed un buon numero di salmi inediti dello stesso Davide. 

(10) Il nuovo Testamento non cita questo salmo come profetico, dice M. Schmidt (Rédemption du genre humain); ma come disconoscere questo carattere, tanto più che celebri rabbini gli attribuiscono formalmente questo carattere? – In effetti, la maggior parte dei rabbini più famosi hanno applicato i versetti 16 e 17 ed anche tutto il salmo al regno del Messia. Si può vedere come Drach, Michaelis e Rosen-Müller assicurino che questo salmo contenga dei tratti troppo magnifici per non essere applicati che solo a Salomone. – L’esame del Salmo conferma la stessa verità, ed è sufficiente scorrerlo con attenzione per convincersi: – 1° che questo salmo contenga tratti che non sono affatto verificabili in Salomone; di conseguenza non c’è armonia nel salmo, considerando questo principe come l’oggetto totale e primitivo dello stesso salmo, benché si faccia una continua allusione al suo regno come ad una brillante immagine del regno del Messia; – 2° che tutti questi tratti, al contrario, convengano perfettamente e letteralmente a Gesù-Cristo, che di conseguenza ne è l’oggetto primario. – I. Ammettiamo che si possano applicare i primi 4 versetti a Salomone; ma una volta giunti al 5° bisogna lasciare l’uomo mortale per considerare un regno tanto esteso quanto la durata del sole e della luna, cosa che non può convenirgli. – Il 6° versetto contiene una comparazione che sembra così bene caratterizzare il regno dolce e pacifico di Salomone, ma non si torna a lui che per lasciarlo al versetto 7°, ove ancora si tratta di un regno di pace e di giustizia che deve durare quanto la luna. – Questo principe riappare al versetto 8°, che gli si può applicare, restringendo il senso di « a mari usque ad mare » e di « terminos orbis terrarum », ma non si può affatto riconoscerlo nel 9° versetto, perché quali sarebbero i nemici ai quali avrebbe fatto « mangiare la polvere », egli il cui regno non è mai stato turbato dalla guerra? – il Versetto 11 non può essere applicato a Salomone che con restrizione, ed è di questo avviso lo stesso D. Calmet, che non può applicarlo a questo principe, se non con esagerazione ed iperbole. Non si vedono da nessuna parte poi tutti i re della terra prosternarsi ai piedi di Salomone, come nei versetti 11-15. A maggior ragione non gli si possono applicare queste parole. « ante solem permanet nomen eius … benedicentur in ipso omnes tribus terræ ». – pertanto se si consideri Salomone in un versetto, lo si deve abbandonare al seguente, per riprenderlo poi dopo e lasciarlo nuovamente subito dopo nel seguente, cioè distruggendo tutta l’armonia del salmo, che non può dunque applicarsi a Salomone. – II. Tutti questi tratti al contrario, convengono perfettamente e letteralmente al regno del Messia; dunque bisogna concludere che Egli è l’oggetto primario in senso letterale di questo salmo. Così le diverse qualità del regno del Messia, i due grandi caratteri del Messia, quello di liberatore e di santificatore dei poveri, l’abbondanza di ogni tipo di beni spirituali; infine i tratti ancora più caratteristici del Messia con i quali il Profeta termina questo salmo; l’eternità del suo nome di Figlio che data prima di tutti i secoli; tutte le tribù della terra benedette nella sua Persona, etc.

Sommario analitico

Davide, nella persona di suo figlio Salomone, o secondo altri, Salomone stesso, contempla il regno di Gesù-Cristo, di cui descrive le diverse qualità (3).

I. – Egli fa dei voti per la sua venuta:

1° affinché porti sulla terra la giustizia nei giudizi e la pace nel governo del suo reame (1, 2);

2° perché faccia una giusta ripartizione tra ricompense e castighi (3);

3° per l’eterna durata del suo regno (4).

II. – Descrive la sua discesa dall’alto dei cieli e la sua incarnazione:

1° La sua incarnazione nel seno di una Vergine, sotto la figura della dolce rugiada che cade segretamente sul vello di pecora (5);

.2° I benefici della sua Incarnazione e della sua nascita, l’abbondanza durevole della giustizia e della pace (6).-

III. – Descrive la grandezza del regno di Gesù-Cristo, i beni  che elargirà ai suoi soggetti:

1° la sua estensione in tutte le parti del mondo: Egli sarà riconosciuto dai più barbari tra i popoli, dai suoi nemici abbattuti, dagli omaggi, le offerte, le adorazioni di tutti i re della terra (7-10);

2° I due grandi caratteri del Messia, cioè di liberatore e di santificatore dei poveri, che lo rendono l’oggetto della venerazione e delle benedizioni dei popoli (11-13);

3° L’abbondanza di ogni tipo di beni spirituali, designati sotto delle immagini conformi alle idee degli orientali, e conformi alla natura della loro terra (14-15);

4°  L’eternità del suo nome di Figlio che data da prima dei secoli, tutte le tribù della terra benedette nella sua Persona, le meraviglie così grandi, i prodigi così elevati al di sopra dell’uomo che Dio solo può esserne l’autore, Dio solo, di cui Egli esalta il nome e la maestà (16-19). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-4.

ff.1. – Il Signore dice Egli stesso nel Vangelo: « Il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio » (Joan. V, 22). È il compimento di questa parola: « Date il vostro giudizio al Figlio ». È nello stesso tempo il Figlio del Re, perché Dio Padre, è il Re per eccellenza (S. Agost.). Uno dei principali caratteri con cui gli scrittori sacri descrivono il regno di Gesù-Cristo, è la giustizia; è in effetti il regno della giustizia che il mondo reclama prima della venuta di Gesù-Cristo. Quel che dominava di più nel mondo antico era l’ingiustizia sotto tutti gli aspetti: ingiustizia dell’uomo in rapporto a Dio, che non era né conosciuto né amato, né servito come doveva essere; ingiustizia dell’uomo rispetto ai suoi simili, la frode, la violenza, l’oppressione, i diritti più sacri calpestati così come le cause più giuste, gli interessi più inviolabili. – Il Figlio di Dio, venendo al mondo, doveva distruggere questa triplice ingiustizia. – Notate che il Profeta, dopo aver detto: « O Dio! Date il vostro giudizio al Re, e la vostra giustizia al Figlio del Re », ponendo in primo luogo il giudizio, ed in secondo la giustizia, ha detto poi, ponendo prima la giustizia e dopo il giudizio, « per giudicare il vostro popolo nella giustizia ed i vostri poveri nel giudizio »; ma questa inversione di parole prova soltanto che il giudizio non ha altro senso che la giustizia. In effetti è costume il chiamare giudizio cattivo ciò che è ingiusto, ma non diciamo giustizia iniqua, una giustizia ingiusta; perché, se la giustizia fosse cattiva, essa sarebbe stata ingiusta, e non si potrebbe più chiamare giustizia. Così ponendo in primo luogo il giudizio ed esprimendolo una seconda volta sotto il termine di giustizia, e ponendo poi in primo luogo la giustizia ed esprimendola una seconda volta sotto il termine di giudizio, il Profeta ci mostra chiaramente che egli chiama giudizio, propriamente parlando, ciò che si ha l’abitudine di chiamare giustizia, cioè ciò che non può esistere in un giudizio cattivo (S. Agost.). Coloro che sono chiamati a governare i popoli devono avere innanzitutto, una grande rettitudine di spirito e di cuore, e giudicare i subordinati, non secondo le prevenzioni o anche secondo i lumi sì limitati dello spirito umano, ma secondo le regole di questa giustizia divina, secondo la quale Dio conduce Egli stesso gli uomini e di cui quella che riluce in noi non è che una scintilla.

ff. 2. – « Per giudicare i vostri poveri nell’equità dei suoi giudizi ». Notiamo questa espressione del salmista: « vostri poveri ». Che significa questa espressione? I ricchi, in qualità di ricchi, essendo alla sequela del mondo, essendo per così dire marcati nel loro spazio, nel regno di Dio vi sono per tolleranza, ma è ai poveri e agli indigenti  che portano il marchio del Figlio di Dio, che appartiene l’esserne propriamente ricevuti. Ecco perché il divin salmista li chiama « i poveri di Dio », perché i poveri di Dio? Li nomina così in spirito, perché, nella nuova alleanza, Egli li ha potuto adottare con una particolare prerogativa (BOSSUET, Eminente dignité des pauvres dans l’Eglise) – Le montagne, le prime ad essere illuminate, fanno scendere in seguito la loro luce sulla distesa delle campagne; le montagne sono, nella Chiesa, gli uomini eminenti per santità e per scienza e che sono capaci di istruire gli altri (2 Tim. II, 2), dando loro, con la loro parola, un insegnamento fedele e, per via loro, un esempio salutare. Le colline, al contrario sono questi uomini che imitano, con la loro obbedienza, l’eccellenza delle montagne. La pace è la riconciliazione che ci avvicina a Dio, e le montagne ricevono questa grazia per trasmetterla al popolo, « tutto viene da Dio, che ci ha riconciliato con Lui per mezzo del Cristo – dice l’Apostolo – e ci ha affidato il ministero della riconciliazione » (1 Cor. V, 17). « Ecco come le montagne ricevono la pace per darla al popolo » (S. Agost.). Le montagne sono più elevate e le colline lo sono di meno. Le montagne vedono, le colline credono. Coloro che vedono ricevono la pace per portarla a coloro che credono, e questi ricevono la giustizia, cioè l’obbedienza che è negli uomini ed in tutte le creature ragionevoli, poiché è la perfezione della giustizia (S. Agost.). – Gli uomini più eminenti per i loro meriti come degni oratori, in uno Stato, così come nella Chiesa, ricevono la pace e la giustizia; essa discende poi sui popoli simbolizzati dalle colline, che sono più basse delle montagne: la pace dei reami e degli Stati dipende molto dalla giustizia di coloro che li governano. – Non si può avere la vera gioia, se non si ha a salvaguardia la pace e la giustizia. La prima cosa, in effetti è come la radice dalla quale tutto esce, ed è la giustizia. La seconda, la pace; la terza la gioia. Dalla giustizia nasce la pace, che uno dei primi frutti della venuta di Gesù-Cristo. La vera giustificazione è stata seguita da una vera pace dell’uomo con Dio, con tutti gli altri uomini e con se stesso. La pace, a sua volta, produce la vera gioia (S. Ces. D’Arles. Hom. XIX.).

ff. 3. – Il Profeta espone le qualità di un Re giusto, soprattutto quelle del Messia, al quale appartiene sovranamente il far giustizia ai poveri, ai piccoli, agli infelici, e distruggere coloro che li opprimono « … ed Egli umilierà i calunniatori ». Ora non si potrebbe meglio applicare che al demonio questo titolo di calunniatore. La calunnia è il suo forte. « … forse Giobbe adora il Signore per nulla? » (Giob. I, 9). Ora Gesù, il Signore, lo umilia, aiutando i suoi con la sua grazia perché essi adorano il Signore gratuitamente e mettendo le loro delizie nel Signore. Egli ancora lo ha umiliato per il fatto che il demonio, vale a dire il principe di questo mondo, non avendo trovato in Lui alcuna colpa (Giov. XIV, 39), l’ha fatto perire con le calunnie dei Giudei, delle quali il calunniatore si è servito come di suoi strumenti. Egli ha umiliato il demonio perché Colui che i giudei avevano messo a morte è resuscitato, ed ha distrutto il reame della morte, che il demonio aveva così ben governato a suo profitto, e per mezzo di un solo uomo, che egli aveva ingannato, aveva coinvolto tutti gli uomini in una simile condanna a morte. Il demonio è stato umiliato perché, se il peccato ha stabilito, per mezzo di un unico uomo, il regno della morte, a maggior ragione, coloro che ottengono l’abbondanza della grazia e della giustificazione, regneranno nella vita eterna per mezzo del solo Gesù-Cristo (Rom. V, 17), che ha umiliato il calunniatore nel momento in cui costui utilizzava, per perderlo, delle false accuse, dei giudici iniqui e dei falsi testimoni (S. Agost.). – « … Ed io ascoltavo una gran voce nel cielo che diceva: Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, poiché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte. » (Apoc. XII, 10).

ff. 4. – « E sussisterà come il sole ». Ma che cos’ha di glorioso il durare quanto il sole per Colui per mezzo del Quale tutte le cose sono state fatte, e senza il Quale nulla è stato fatto (Giov. I, 5), a meno che questo profezia non sia stata fatta a causa di coloro che pensano che la Religione cristiana vivrà nel mondo per un certo tempo e poi sparirà? Egli durerà quindi tutto il tempo del sole: finché il sole si leverà e si deporrà; vale a dire finché i secoli compiranno le loro rivoluzioni, la Chiesa di Dio o “Corpo di Cristo” sussisterà sulla terra. Il Profeta dice poi. « Egli sarà prima della luna ». Avrebbe potuto dire : « … e prima del sole »; cioè Egli durerà come il sole ed esisteva prima del sole; ciò che significherebbe: Egli durerà quanto i secoli ed esisteva già prima dei secoli. Ora, ciò che precede i tempi è eterno e lo si deve considerare come veramente eterno ciò che non cambia con il corso dei tempi, come il Verbo, che era fin dall’inizio. Ma il Profeta ha preferito la comparazione della luna, perché questo astro è la figura della crescita e della diminuzione delle cose mortali (S. Agost.). – Il regno del Messia non si limiterà alla durata del sole e della luna; è solo detto: « Egli durerà quanto il sole e la luna, di generazione in generazione, per sottolineare che, durante questa rivoluzione di secoli, eserciterà il suo impero sugli uomini, formando tra essi i suoi eletti, governandoli e conducendoli al termine ove essi regneranno eternamente con Lui ». (Berthier).

II. — 5-6.

ff. 5. – « Scenderà come pioggia su di un vello di lana ». Davide fa qui allusione all’azione di Gedeone, e ci fa sapere che essa si è compiuta in Gesù-Cristo.  Gedeone aveva domandato a Dio, come segno della sua volontà, che un vello di lana in mezzo ad un’ara, si imbibisse solo di rugiada, mentre l’aia restasse asciutta; e fu così come Gedeone aveva chiesto (Giud. VI, 36-40). Questo vuol dire che il popolo di Israele fu inizialmente questo vello posto in mezzo ad un’aia, cioè in mezzo all’universo. Il Cristo è dunque disceso come una pioggia sul vello, mentre l’aia restava asciutta; ed è per questo che Egli ha detto: « … Io non sono stato inviato che alle pecore sperdute di Israele »  (Matth. XV, 24). È là in effetti che ha scelto la Madre in seno alla quale voleva prendere forma di schiavo per mostrarsi agli uomini; è là che ha formato i suoi discepoli ai quali ha dato un comandamento simile alla sua dichiarazione: « Non andate nelle vie dei gentili, … ma andate prima alle pecore perse della casa di Israele » (Ibid. X, 5-6). Dicendo prima verso quelli, Egli mostrava che in seguito, quando avrebbe avuto luogo il coprirsi di acqua l’intera aia, essi potessero andare verso altre pecore che non appartenevano all’antico popolo di Israele. È così che la pioggia è discesa sul vello mentre l’aia restava ancora asciutta. « Ma ben presto, per la grazia di Gesù-Cristo, mentre la nazione giudaica restava all’asciutto, l’universo intero, in tutte le Nazioni che lo compongono, è stato bagnato dai torrenti della grazia cristiana, versati dalle nuvole che ne erano cariche. Così il salmista ha designato questa stessa pioggia sotto il termine di gocce di acqua che cadono, non più sul vello, ma sulla terra » (S. Agost.). – Ma un gran numero di altri Padri, in particolare S. Ambrogio, san Crisostomo, san Bernardo, hanno visto in questo vello di Gedeone il simbolo della beata Vergine Maria; e in questa pioggia che cade sul vello, la figura del divino Salvatore discendente dal cielo nel suo seno verginale. In effetti: – 1° l’agnello esce come dal seno del vello, e dal seno della Vergine Maria è uscito l’Agnello che toglie il peccato dal mondo (Giov. IV,29), – 2° il vello della pecora figura perfettamente, per il suo candore, la purezza dei costumi e l’innocenza della vita di questa Vergine divina; – 3° Essa è il vello, cioè la lana senza la carne, la lana staccata dalla carne con la mortificazione e la verginità. Il vello, dice S. Pietro Crisologo (Serm. 143), appartiene al corpo, ma essa è estranea alle sofferenze, alle impressioni del corpo; così come la verginità esiste nella carne restando estranea ai vizi della carne. – 4° la Vergine Maria, dice Riccardo di San Vittore (in Ps. LXXI), è il vello che riveste le sue virtù, che protegge e riscalda le anime pure ed innocenti. – 5° Maria è veramente il vello di Gedeone, perché essa ha ricevuto tutta intera la rugiada discesa dal cielo, vale a dire il Cristo. Cosa c’è di più silenzioso e meno rumoroso della rugiada che cade dolcemente su un vello? Essa non colpisce l’orecchio con alcun suono, non rimbalza su alcun corpo circostante, ma senza turbare le pecore, la pioggia penetra il vello interamente, senza violenza, senza alcune separazione del tessuto. Ed è con ragione che Maria è comparata ad un vello: Ella che ha concepito nostro Signore ricevendolo nel suo casto seno, senza che l’integrità del suo corpo verginale ne abbia sofferto il minimo danno (S. AMBR. Serm. 3 de Nativ.). « E come l’acqua che cade goccia a goccia sulla terra … », questa pioggia abbondante che Dio ha riservato come sua eredità, è dapprima discesa dolcemente e senza brusii, senza il concorso dell’azione dell’uomo, nel seno verginale di Maria, ma in seguito essa si è sparsa su tutta la terra con la bocca dei predicatori, non più come rugiada sul vello, ma come pioggia sulla terra, con il rumore che accompagna la predicazione e l’operazione dei miracoli; perché queste nuvole che portano la pioggia nel loro seno, si sono ricordate del comandamento che fu loro dato quando furono inviate: « Ciò che o vi dico nelle tenebre ditelo alla luce » (Matth. X, 27) (S. Bern. Hom. 2 super Missus est.). – Il regno di Gesù-Cristo si stabilisce in un’anima con tutti i caratteri che comprendono le due comparazioni enunciate in questo versetto. È dal cielo che questo Re benefico versa i doni della sua grazia, il mondo non ha parte in quest’operazione tutta divina. Gesù-Cristo si comunica nel profondo del cuore: Egli lo penetra come la rugiada imbibiva il vello misterioso, la cui vista incoraggiò Gedeone. È nelle segrete comunicazioni, ed anche durante il silenzio della notte che l’anima, svincolata da ogni occupazione terrena, riceve le sue salutari influenze. Non si fa tutto con una sola visita dell’Altissimo, ma i doni della sua misericordia si succedono come le gocce di acqua che umettano a poco a poco un terreno arido. Allora tutta quest’opera interiore diviene feconda in buone opere, tutte le sue facoltà concorrono alla gloria di questo Re pieno di bontà, che non disdegna di regnare in un cuore puro, umile, sottomesso a tutte le sue volontà (Berthier). – « La giustizia si leverà nei suoi giorni con l’abbondanza della pace ». Il primo frutto dell’incarnazione e della nascita del Figlio di Dio, è la giustizia considerata o come virtù speciale che rende a ciascuno ciò che gli è dovuto, o come virtù generale, significante la riunione di tutte le virtù. È questo regno di giustizia che reclamava, prima della venuta del Salvatore, il mondo, schiacciato sotto il regno della forza brutale, che opprimeva tutti i diritti più sacri. Il secondo frutto, è l’abbondanza della pace, cioè una pace profonda nella sua natura, universale nella sua estensione ed eterna nella sua durata. Una pace universale regnava in tutto l’universo quando Gesù-Cristo, il Principe della pace, apparve sulla terra; ma non era che una falsa pace. L’uomo, in preda alle sue passioni ingiuste e violente, provava dentro di sé la guerra ed il dissenso più crudele; lontano da Dio, lasciato alle agitazioni ed ai furori del suo cuore, combattuto dalla molteplicità e dalla contrarietà eterna delle sue inclinazioni sregolate, egli non poteva trovare la pace, perché non la cercava che nella sorgente stessa delle sue turbolenze e delle sue inquietudini … Gesù-Cristo scende sulla terra per portare agli uomini questa pace vera, che il mondo fino ad allora non aveva potuto dare loro  (MASSILL. Serm. p. la f. de Noël), la pace dell’uomo come Dio, la pace con gli altri uomini, la pace con se stesso. – Noi non immaginiamo che sia un vantaggio per il Re degli Angeli essersi fatto anche il Principe degli uomini. Il regno che gli piace stabilire su di noi, è la pace, la libertà, la vita e la salvezza dei suoi popoli; Egli non è Re né per esigere dei tributi, né per formare delle grandi armate, ma è Re perché governa le anime, perché ci procura i beni eterni, perché fa regnare con Lui coloro che la carità sottomette ai suoi disordini … Il regno del nostro Principe, è la nostra felicità per cui si degna di regnare su di noi, è la clemenza, è la misericordia e questo non è un accrescimento di potenza, ma una testimonianza della sua bontà (S. Agost. Trait, XL, sur S. Jean, N° 4.). I precetti del Vangelo ben osservati uniranno insieme tutti i popoli, e manterranno tra di essi gli stessi principi di moderazione, di buona fede, di equità e tranquillità. Ciò che il Vangelo non fa, a causa delle passioni che dividono i principi e le Nazioni, Egli lo esegue nelle anime dei giusti. È la che regnano e regneranno sempre la vera giustizia e l’abbondanza della pace; beneficio che non hanno le umane Nazioni: esse non possono regolare che la condotta esteriore, ma non hanno alcun impero sui sentimenti del cuore (Berthier).

III. — 7-19.

ff. 7-10. – Tale è l’estensione del regno di Gesù-Cristo: da un mare all’altro e fino alle estremità della terra, dove non finisce, perché si estende fino al cielo. –La durata del regno di Gesù-Cristo, non è limitato dalla durata del mondo, ma si estende a tutta l’eternità. – Trionfo di piacere quando vedo in Tertulliano che già ai suoi tempi, così vicini alla morte del nostro Salvatore e dall’inizio della Chiesa, il nome di Gesù era già adorato per tutta la terra, e che in tutte le province del mondo che erano conosciute, il Salvatore vi aveva un numero infinito di soggetti. « Noi siamo, dice con risonanza questo gran personaggio, quasi la maggior parte di tutte le città»(AD SCAP., N° 2). I Parti, invincibili dai Romani, i Traci antinomi, come li chiamavano gli antichi, gente insofferente ad ogni sorta di leggi, hanno subito volontariamente il giogo di Gesù. I Medi, gli Armeni, i Persiani e gli Indiani più lontani; i Mauri e gli Arabi, e queste vaste province dell’Oriente; l’Egitto e l’Etiopia, e l’Africa più selvaggia; gli Sciti, sempre erranti; i Sarmati, i Getutei e le barbarie più inumane sono state domate dalla modesta dottrina del Salvatore Gesù. L’Inghilterra, i cui bastioni rendevano inaccessibili i luoghi ai Romani, era stata affrontata. Cosa dirò dei popoli della Spagna e delle bellicose nazioni dei galli, paura e terrore dei Romani, e dei fieri Germani, che si vantavano di non temere null’altro che il cielo che cadesse sulle loro teste? Essi sono venuti a Gesù, dolci e semplici come degli agnelli, a chiedere umilmente perdono, pressati da un timore rispettoso. Roma stessa, questa città superba che si era per tanto tempo inebriata del sangue dei martiri di Gesù, Roma, la padrona, ha abbassato la testa ed ha portato tanto onore alla tomba di un povero pescatore più che ai templi del suo Romolo.  Non c’è impero così vasto che non sia racchiuso in qualche limite. Gesù regna dappertutto, dice il grave Tertulliano (AD JUD., N° 7), nel libro contro i Giudei dai quali ho disegnato quasi tutto ciò che sto dicendo dell’estensione del regno di Dio. Gesù regna dappertutto, egli dice, ed è adorato dappertutto. Davanti a Lui la condizione dei re non è migliore di quella degli infimi schiavi. Sciti o romani, greci o barbari, tutto è uguale davanti a Lui, Egli è uguale per tutti, è il Re di tutti, è il Signore ed il Dio di tutti (BOSSUET. Circonc. Royauté de Jésus-Christ.) – (FÉNÉLON,  Serm. pour la féte de l’Êpiph., I part.). « … I re di Tarsi e delle isole gli offrono dei doni ». Predizione dei doni che i Re Magi offrono a Gesù-Cristo appena nato. – I Magi – dice S. Gregorio Magno – riconoscono in Gesù la triplice qualità di Dio, di uomo e di re: essi offrono al Re l’oro, a Dio l’incenso, all’Uomo la mirra. Ora – egli prosegue – ci sono degli antichi eretici che credono che Gesù sia Dio, che credono ugualmente che Gesù sia un uomo, ma si rifiutano assolutamente di credere che il suo regno si estenda dappertutto … Essi non erano irreprensibili nella loro fede, ed il Papa san Gregorio inflisse la nota di eresia a coloro che, facendosi un dovere di offrire a Gesù l’incenso, non volevano aggiungere l’oro. Costa caro alla terra, costa caro alle Nazioni il non flettere il ginocchio davanti al Nome ed alla regalità di Gesù. Sono allora altre genuflessioni che occorre fare. La lingua che rifiuta di aprirsi per proclamare e confessare la potenza del Re Gesù, a quale silenzio umiliante non è condannato? « … Ed ora Signore, noi non abbiamo neanche il diritto ed il potere di aprire la bocca, e noi, la vecchia Francia cattolica, la regina della Nazioni, noi siamo diventati un soggetto di confusione e di obbrobrio per tutti coloro che vi servono e vi onorano ». (Dan. III, 33) – (MGR PIE, sur l’étendue univ. de la royauté de Jésus-Christ. TOM. VIII, p. 621).

ff. 11-13. – « Perché Egli libererà il povero dalle mani del potente ». Davide predice qui uno dei caratteri principali del grande Re atteso da Israele, che libererà il povero dalla servitù sotto la quale era stato ridotto dai potenti. La generazione presente si è talmente identificata con la menzogna, e le contro-verità più manifeste sono talmente accreditate tra di noi, che si è esposti ad essere accusati di paradosso richiamando semplicemente i principi del Cristianesimo su questa materia. Ciò nonostante, non è vero che la grande legge dell’eguaglianza degli uomini e della loro divina fraternità era stata come abrogata sotto l’impero dell’idolatria, che non era affatto che il regno della forza ed il trionfo della materia?  E in effetti, dappertutto e sempre, fuori dal Cristianesimo, la schiavitù sarà un fatto inevitabile, e nello stesso tempo una conseguenza dell’ordine sociale. Il Figlio di Dio scende sulla terra e prende forma di schiavo; Egli trasmette a tutti gli uomini di tutti i paesi e di tutti i secoli questa parola, fino ad allora sconosciuta: « … Padre nostro, che siete nei cieli »; e con questa parola Egli ristabilisce sulla terra una fraternità spirituale che produrrà prima o poi, tra le sue conseguenze, il ritorno della fraternità primitiva nella grande famiglia degli uomini. Si, secondo la parola di Gesù-Cristo, un giorno verrà in cui « il Figlio libererà gli schiavi, ed allora essi saranno veramente liberi, perché saranno affrancati dalla verità ». Questa opera di affrancamento, di emancipazione non sarà l’opera di un giorno: essa si opererà insensibilmente con la forza delle idee ed il progresso dei princìpi evangelici (Mgr PIE. Disc. T. I.er, p. 75).- Due grandi caratteri del Messia, quello del liberatore e del santificatore, vengono a liberare i poveri. Nostro Signore Gesù-Cristo ha cominciato il corso delle sue predicazioni evangeliche col proclamare beati i poveri; Egli si era applicato questa profezia di Isaia: « lo Spirito del Signore è su di me, Egli mi ha consacrato con la sua unzione per evangelizzare i poveri »; (Luc. IV, 17); ed in effetti i poveri sono per Lui, come per i suoi Apostoli e per tutti gli operai evangelici animati dal suo spirito, il principale oggetto del loro zelo apostolico. – Egli salva le anime dei poveri richiamandoli alla conoscenza della verità, rendendoli ricchi nella fede ed eredi del regno che Egli ha promesso a coloro che ama (Giac. II, 5); Egli li salva perché, per sua grazia, essi useranno santamente del loro stato, e troveranno preziose risorse nella povertà più grande, facendo un tesoro della stessa povertà. – Come il peccatore è stato liberato dalle usure con la redenzione che gli ha meritato Gesù-Cristo? È – dice S. Agostino, la cui osservazione sembra inizialmente sottile, ma che si trova vera ed anche necessaria quando la si medita – è, dice questo santo dottore, che il peccato consumato in un momento, ed il cui frutto è sì poca cosa per colui che lo commette, è punito con una pena eterna. È una usura che la giustizia divina trae dalla temerità e dall’ingratitudine del peccatore. Gesù-Cristo ce ne ha liberato, e nello stesso tempo dalla iniquità che era la causa di questa usura. Non si può abbastanza considerare qual sia il prezzo del sangue e del nome dei Cristiani; il loro sangue è costata la vita di un Dio, il loro nome è stato consacrato nella Persona di un Uomo-Dio. Questo sangue e questo nome sono rispettabili agli occhi di Dio stesso, che rispetta il nome dei Cristiani, perché vi vede il carattere di Gesù-Cristo, il suo unico Figlio. « Il Profeta dice che questi sono i poveri di cui soprattutto il sangue ed il nome sono preziosi agli occhi di Dio ». Quanta forza e sentimento in questa espressione! Egli ha detto, più in alto, che i re e le Nazioni Lo adoreranno e Lo serviranno; ma, quando viene a parlare ai poveri, agli umili, ai piccoli, Egli cambia in qualche modo il tono, e dice che il Messia stesso li rispetterà e li onorerà (Berthier). Questo perché il povero è ben diverso agli occhi della carne ed agli occhi della fede! Cosa c’è di più disprezzabile agli occhi della carne, di un povero spoglio di tutto, abbandonato da tutti, mentre agli occhi della fede, il nome di questo povero appare onorevole davanti a Dio stesso.

ff. 14, 15. – Gesù-Cristo, doveva riscattare con la sua morte, le anime dei poveri, cioè di coloro che erano interamente spogli di ricchezze naturali, e soprattutto della grazia, ma questa morte stessa doveva essere in Lui la sorgente di una nuova vita immortale che Gli ha attirato i rispetti, le adorazioni, le benedizioni, le ricche offerte dei popoli convertiti. Il Profeta descrive in seguito la fecondità della Chiesa ed i frutti della predicazione evangelica, dopo la Resurrezione di Gesù-Cristo. La terra sarà ricoperta dai frutti della parola di Dio; li si vedrà anche là ove regna ordinariamente la sterilità, sulle sommità delle montagne, il frumento su queste sommità aride, oltrepasserà l’abbondanza e l’altezza dei cedri del Libano, ed in questa città di cui è già stato detto: « … è da Sion che uscirà la legge, e la parola del Signore da Gerusalemme, i credenti saranno numerosi come l’erba dei campi ». È ciò che S. Luca ci insegna essersi compiuto: « … E la parola di Dio cresceva ed il numero dei discepoli aumentava sempre di più » (Act. VI), (Bellarm.). – Ci è pure permesso, con un gran numero di pii interpreti, fare una predizione dell’Eucarestia, che è il sostegno, l’appoggio per eccellenza (firmamentum); vale a dire il pane solido, sostanziale dell’anima. È così che la scrittura chiama il pane, « firmamentum panis » (Ps. CIV, 16); « baculus panis, » (Lev. XXVI, 26), e del pane dice che « consolida il cuore dell’uomo » (Ps. CIII, 15). Il pane dell’Eucaristia consolida le montagne. Cioè gli uomini eminenti in santità. La divina semenza del Vangelo, così come la santa Eucaristia, producono il loro frutto, ma un frutto che si eleva al di sopra dei cedri del Libano, perché essendo un frutto tutto celeste, si eleva fino al cielo ed oltrepassa tutto ciò che sembra essere più elevato nel secolo.

ff. 16-19. – « Che il suo Nome sia benedetto in tutti i secoli; il suo Nome dimora da prima del sole ». il sole significa il tempo, il suo Nome dimora dunque eternamente; perché l’eternità precede il tempo e non si saprebbe limitare. « E tutte le tribù della terra saranno benedette in Lui ». In effetti è in Lui che si compie la promessa fatta ad Abramo; perché secondo l’osservazione dell’Apostolo, Dio non dice: « e ai tuoi discendenti », come se si trattasse di molti, ma « … alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo » (Galat. III, 16). Ora ecco la promessa fatta ad Abramo: « Tutte le tribù della terra saranno benedette in Colui che nascerà da te ». (Gen. XXII, 18). « Questi non sono i figli secondo la carne, dice San Paolo, ma i figli della promessa, che sono contati nella posterità ». (Rom. IX, 6). « Tutte le nazioni Lo esalteranno ». esse Lo esalteranno perché esse saranno benedette in Lui; esse Lo esalteranno, non dandogli maggiore grandezza, perché Egli è per se stesso ogni grandezza, ma lodandoLo e proclamandone la grandezza. È così che tutti noi esaltiamo la grandezza di Dio, è così che egualmente diciamo: « sia santificato il vostro Nome », benché il suo Nome sia sempre infinitamente santo. – « Benedetto sia il Signore, Dio di Israele ». Dopo aver completato tutte le meraviglie che Egli viene a portare, il Profeta, nel suo entusiasmo, canta un inno e benedice il Signore Dio di Israele. È il compimento della profezia data a questa donna sterile, figura della Chiesa: « e Colui che l’ha liberata, il Dio di Israele, sarà nominato il Signore di tutta le terra » (Isaia, LIV, 5). « Solo Egli compie dei prodigi », perché solo Lui è l’Autore dei prodigi compiuti dagli altri. – « Che il suo Nome glorioso e maestoso sia benedetto nell’eternità », e tutta la terra sarà piena della sua gloria: « Così sia ». Voi l’avete ordinato, Signore, ed è così. È così fino a che il reame, che è cominciato dal fiume, si estenda fino alle estremità dell’universo (S. Agost.). 

DIO IN NOI (1)

DIO IN NOI (1)

[R. PLUS: “Dio in noi” – Versione p. f. Zingale S. J. – L. I. C. E. – Berruti & C. – Torino, 1923; imprim. Torino, 7 aprile 1923 Can. Francesco Duvina]

PREFAZIONE

Reverendo e carissimo Padre,

Durante i quattro anni appena trascorsi, abbiamo pregato molto per il felice esito della guerra. Bisognava farlo. La vittoria fu spessissimo compromessa, rimase lungo tempo incerta, indecisa! – Siano rese grazie al Signore: la vittoria delle armi è adesso un fatto compiuto. Ma la vittoria di Dio? A quale fase è pervenuta? « La vittoria di Dio! ». L’espressione, la formula non è mia. Giuda Maccabeo fu il primo a trovarla, e la dava come parola d’ordine, come segno di raccolta alle sue truppe, quando le lanciava all’assalto contro gli eserciti di Siria (Mac. XIII, 15).

La Francia, l’Italia, l’Inghilterra, l’America, il Belgio hanno avuto « il loro scopo di guerra ». Dio anche ha avuto il suo. Non ha permesso che si scatenasse sul mondo un simile cataclisma, senza qualche grande fine. Quale fine si propose?

Primieramente, — la Chiesa ce lo suggerisce nella Messa prò tempore belli — primieramente l’emenda dei nostri difetti, l’espiazione delle nostre colpe nazionali e individuali. Meglio ancora. Alcuni anni prima della guerra, Pio X, salendo sul trono pontificale, pubblica un’enciclica, in cui riassume, con tre parole di San Paolo, il suo programma di governo: Instaurare omnia in Cristo (Ephes. I, 10). Pio X, possiamo crederlo, fu l’araldo precursore, il profeta, l’interprete della saggezza e della volontà di Dio; alcuni anni prima della guerra venne ad annunciarci ciò che Dio aveva in mira, permettendo questa tremenda calamità: la rigenerazione cristiana della Francia e del mondo — con tutto ciò che essa importa. – E gli avvenimenti, le vicende della guerra, non fanno forse sentire, meglio di tutte le apologie, quanto i popoli abbiano bisogno di Gesù Cristo, quello che guadagnano vivendo del suo spirito e ciò che perdono facendone a meno? La vittoria di Dio, ohimè, è molto lenta a venire. La vedessimo almeno delinearsi da lontano, all’orizzonte!

Una prima volta la rigenerazione del mondo fu fatta dallo Spirito Santo, nel mistero di Pentecoste…

Tutto sarebbe concluso se arrivassimo a guadagnare il cuore di Dio: giacché Egli può tutto: « quæcumque voluit, fecit ». Noi guadagneremo il cuore di Dio nella misura in cui riusciremo a stabilirci nel soprannaturale. Una legge del mondo morale richiede che ogni essere ami il suo simile. Dio non può non sentire affetto e simpatia irresistibile per l’anima che vive della sua vita divina, che vive del soprannaturale. Non può non esaudirne la preghiera.

Ora, difficilmente immagineremo — ecco il punto che volevo mettere in rilievo — una forma di soprannaturale più concreta, più intellegibile del mistero di « Dio in noi ». Il lavoro che Ella pubblica importa la spiegazione larga, luminosa, concludente di questa dottrina. Quanto più le anime, che l’avranno imparato alla sua scuola, ne avranno coscienza e sapranno sfruttarne la virtù, altrettanto saranno in grado di gustare e di provare, nella loro vita, ciò che S. Paolo diceva di se stesso e dei suoi discepoli fedeli: « Dio ci fa sempre trionfare in Gesù Cristo » (II COR., II, 14. Gratias Deo qui semper triumphàt nos in Christo Jesu). Ed Ella avrà così preparato la « Vittoria di Dio » per mezzo del culto dell’Emmanuele, il culto del « Dio in noi ».La benedizione del Sacro Cuore di Gesù possa concedere a queste pagine la diffusione che meritano, perché vadano a spargere dovunque « la vita eterna », quella vita superiore e realmente divina che il Sacro Cuore stesso c’infonde a ogni istante: Jugiter influit. – Col ricordo persistente e affettuoso delle nostre antiche relazioni in Olanda (1), formo, Reverendo e carissimo Padre, il voto sincero per la maggiore diffusione del suo ottimo libro.

GERMANO FOCH, S. J .

Montpellier, 10 gennaio 1919.

***

(1) L’autore delle pagine che seguono, ebbe il benefizio della direzione spirituale del Rev. P. Foch, durante i tre anni del corso filosofico. Una dura necessità costringeva allora a vivere fuori di Francia. Ecco quindi il motivo dell’allusione all’Olanda.

Il P. Germano Foch è fratello dell’illustre Maresciallo Foch. (N. D. T).

LIBRO PRIMO

I nostri privilegi soprannaturali

CAPO I

L’intimità con Dio.

La mèta della devozione, la sua ragione di essere e il suo coronamento è l’intimità con Dio. Ma poche anime, relativamente, la possiedono e molte la considerano come impossibile. Quale ne è la causa? La ragione principale si è che noi abbiamo l’uso di trattare Dio come un assente. Come divenire intimo di qualcuno che non è con noi? L’intimità suppone la presenza… Benissimo. Ma è possibile, senza che ci abbandoniamo a un mero sogno, all’immaginazione, trattare con Dio come con qualcuno che ci è presente? Fra le differenti maniere, in cui Dio è presente nel mondo, ve n’è una, in modo particolare, che fornisce la sorgente per eccellenza dell’intimità. Noi vorremmo, in queste pagine, spiegarla e metterla in piena luce, se fosse possibile:

« La Presenza di Dio in noi per mezzo dello stato di grazia. »

Dio, ci dice il Catechismo, è presente dappertutto. Questa presenza universale, questa onnipresenza, impressiona molto certe anime, ma in piccolo numero. Per la maggior parte, essere dappertutto, equivale a non essere in nessun punto, ed eccettuati alcuni Santi, la massa non arriva a comprendere come mai possa generare l’intimità una presenza impersonale, difficile a concepirsi, la stessa per il peccatore e per il giusto, che risulta unicamente dal fatto della creazione. – Dio, inoltre, è presente d’una presenza speciale, in cielo. Ma è così lontano, il cielo! Occorre una grande potenza d’astrazione per crearsi una intimità che non distrugga questa distanza enorme e perpetuamente esistente. Ciò valga per S. Tommaso, di cui dicono i contemporanei che camminava cogli occhi sempre levati al cielo, assorto nella contemplazione divina. Valga per S. Ignazio di Loyola, che il Lainez paragona a Mosè, perché pareva che parlasse faccia a faccia con Dio (La sua giaculatoria favorita era: « O Beata Trinitas! » e la sua preghiera che noi citeremo più innanzi: « O amabilissimo Verbo di Dio ») e amava pregare, come dice il P. Nouet, sui punti più elevati della casa in cui abitava, immaginando di trovarsi così più vicino al cielo. Dio è presente nell’Eucaristia, e questa presenza, benché anch’essa molto misteriosa, è assai più palpabile. Vediamo e sentiamo qualcosa che la garantisce alla nostra povera natura sensibile. Ciò che vediamo e gustiamo, è semplice apparenza; la realtà sfugge alla nostra percezione, ma questo poco basta a sostenere la nostra fede che sotto queste apparenze adora la realtà divina. E poi, la presenza eucaristica, nella Comunione, dura poco; ed io non posso fare della mia vita una visita perpetua al Santissimo Sacramento. – Oltre queste tre maniere di presenza di Dio, ne esiste un’altra, molto più feconda, dal punto di vista che trattiamo.

— Dov’è Dio? — fu chiesto a un fanciullo. — Nel mio cuore.

— Chi ve l’ha messo? — La grazia.

— Chi potrebbe cacciarnelo? — Il peccato.

Queste risposte di un fanciullo, mentre mostrano una grande conoscenza della vera vita cristiana, riassumono la dottrina che ci sembra produrre l’intimità al suo ultimo grado. Di tutte le nostre attitudini, la più singolare è quella di saper passare accanto al meraviglioso, senza punto curarcene. La bellezza morale della vita di sacrificio di una suora, lo splendore della Chiesa, la grandezza del sacerdote chi la vede? Ma anche noi, noi Cristiani, siamo maestri nell’arte di non curarci affatto delle splendide realtà che portiamo con noi. – Domandate ad un battezzato che definisca lo stato di grazia. Vi risponderà: «Lo stato di grazia consiste nel non avere peccati mortali sulla coscienza». Insistete: «Unicamente in questo, secondo voi? » — « Sì; non è forse sufficiente?…» — «Nella vostra spiegazione vedo bene che possedere lo stato di grazia significa non avere qualche cosa. Ma non vorrebbe anche dire: Avere… » — « Avere che cosa?…» —

« Ecco; state bene attenti: Dio presente e vivente in noi ».

E’ il dogma della Chiesa, la definizione del Catechismo, né più né meno. Come vedremo più innanzi, questa presenza, questa abitazione di Dio in noi, in virtù della grazia:

Nostro Signore l’afferma;

S. Pietro la spiega;

S. Paolo ne fa l’argomento abituale delle sue epistole;

I Dottori la richiamano continuamente alla nostra considerazione;

La liturgia la commenta in mille modi;

I Santi vivevano di essa.

Donde mai viene che questo dogma fondamentale, per la maggior parte dei Cristiani, ed anche per molte anime religiose, sia praticamente lettera morta? Che una dottrina davvero così consolante sia quasi sconosciuta o senza vigore? – Varie ragioni potrebbero addursi di un modo di agire così strano. Una che fin d’ora vogliamo far notare sta in ciò che se ne parla pochissimo. In un corso di esercizi spirituali, predicati ai sacerdoti della sua diocesi, alcuni mesi prima della guerra, l’arcivescovo di Malines, S. Em. il Card. Mercier, diceva: « È una verità che Dio vive in noi… Molti battezzati ignorano questo mistero profondo e per tutta la loro vita vi restano estranei… I Sacerdoti, cioè a dire quei medesimi che ricevettero la missione divina di predicarlo al mondo, se ne lasciano distrarre, non vi pensano punto, e quando lo si richiama alla loro memoria, se ne meravigliano… Convenite dunque nel credere che Dio non vi abbandona finché, per il peccato mortale, voi non lo costringiate a fuggire. Fate atti di fede volontari, espliciti, frequenti in questa presenza reale, stabile, di Dio dentro voi stessi. Non ricercate Dio al di fuori, ma là, dentro voi stessi, dove Egli abita per voi, dove vi chiama, vi aspetta e soffre delle vostre dissipazioni e dimenticanze ». Già un sapiente commentatore, Cornelio Alapide, rimpiangeva simile omissione: «Poche persone, scrive, apprezzano il dono della grazia nel suo giusto valore. Ciascuno dovrebbe ammirarla rispettosamente in se stesso, i predicatori e i dotti dovrebbero spiegarla, per inculcarne al popolo una conoscenza profonda. I fedeli apprenderebbero così che sono tempio vivente dello Spirito Santo e che portano Dio medesimo nel loro cuore; che perciò debbono camminare divinamente alla sua presenza, vivere una vita degna dell’ospite che li accompagna dovunque e dovunque li vede ». Monsignor de Ségur esprime la stessa lagnanza:

«Tutti i Cristiani sanno, in via generale e teorica, che Dio è nel loro cuore, che sono tempio di Gesù Cristo, che lo Spirito Santo abita in loro. Intanto, come mai accade che quasi nessuno sembra annettervi importanza, che quasi nessuno vi pensa, ne vive, o lo crede praticamente? Anche fra i Sacerdoti, fra i buoni Sacerdoti, non ho timore di dirlo, sono pochi coloro che danno direttamente alle anime questo nutrimento delizioso e inestimabile, il solo di cui abbiano vero bisogno, il solo capace di appagare la fame e di estinguere la sete che hanno di Dio, vita dell’anima loro, tesoro del loro cuore, compagno della loro esistenza, intima sorgente della loro forza, della loro mortificazione e pietà ». – Se si deve prestar fede al messaggio del Cuore di Gesù al Cuore del Sacerdote, Nostro Signore manifesterebbe il desiderio di veder propagata la « devozione allo stato di grazia ». Ecco ciò che importa questo « messaggio », trovato fra i manoscritti di un religioso Marista, morto a Roma, e che un’anima santa gli aveva certamente comunicato: « È certo che la devozione al mio Sacro Cuore è molto diffusa: essa mi consola poiché procura numerose anime a me, che sono il Salvatore delle anime! Ma ciò nondimeno, quanto si è lontani dal comprendere i tesori infiniti del mio Cuore! Ahi se sapessero il desiderio intenso che Io ho di unirmi intimamente a ciascuno di loro!… Molto rari sono coloro i quali giungono a questa unione, nella misura in cui il mio Cuore l’ha loro preparata sulla terra!… « E che cosa bisogna fare per conseguirla?

« Raccogliere, riunire, in qualche modo, tutti i propri affetti, e dirigerli verso di me che sono là, nel più intimo dell’anima loro! Ah! grida e di’ a tutti quanto Io li ami; supplicali di ascoltare l’appello premuroso del mio cuore, il mio tenero invito di scendere nel fondo della loro anima, per unirsi, là, a Colui che non li abbandona mai; di identificarsi in qualche modo con me… oh, allora, che abbondanza di benedizioni prometto loro!

« Quest’unione misteriosa e divina sarà il principio di una vita molto più santa e feconda di quella condotta fin qui.

« Molti Sacerdoti conoscono benissimo la teoria dell’unione dell’anima con Dio; parecchi vi aspirano; ma quanto pochi la conoscono in pratica; quanto pochi, fra i leviti pii, zelanti, anche miei amici devoti, sanno che Io sono là, in fondo all’anima loro, ardendo dal desiderio di farla una con me!

«Perché? Perché vivono come alla superficie della loro anima. Ah! se si involassero alle cose sensibili, alle impressioni umane, per discendere così soli nell’intimo della loro anima, proprio al fondo, dove Io sto; mi troverebbero subito, e che vita di unione, di luce e d’amore non sarebbe la loro!… ».

Monsignor de Ségur non esitava ad incolpare se stesso del fatto che i fedeli vivono così poco di questa dottrina ammirabile, mentre, come spiega S. Paolo ai Colossesi, essa è il grande mistero, nascosto alle generazioni passate, manifestato dal Vangelo ai Santi che Dio degna iniziare alle ricchezze divine. – Il santo prelato diceva, nella sua bonomia ordinaria: « Noi, ministri di Dio, non abbiamo abbastanza spirito di fede, abbiamo la fede in partibus, come quei buoni vescovi che non hanno diocesi. Ahimè! io sono un Arcivescovo di questa specie ». – Intanto non si può mettere in dubbio, che di tutte le realtà della fede, la più indispensabile a penetrarsi da chi, a un titolo qualsiasi, vuol essere apostolo, non sia questa realtà sublime che portiamo in noi. Se non l’abbiamo a lungo esplorata, con una diuturna e assidua meditazione, con uno studio paziente, come potremo meravigliarci che i fedeli trascorrano la loro vita nell’ignoranza inverosimile del più bel tesoro che esista, dato che questo tesoro, dai predicatori della dottrina non fu creduto degno di una fervida investigazione? Qualcuno forse dirà che i Sacerdoti, avendo studiato il trattato de Gratia, conoscono bene ciò che riguarda il mistero dell’abitazione di Dio in noi, ma che riesce impossibile predicare e porgere alle anime questa dottrina come nutrimento ordinario e abituale. – Dovremo allora rassegnarci a questo ripiego: che la parte fondamentale del dogma, quella su cui si basa ogni vera vita cristiana, praticamente sarà ignorata dalla maggior parte dei fedeli; ciò che noi non crediamo possibile (« Se c’è un argomento che debba interessarci, è assolutamente questo: nulla è a noi più intimo, nulla ha un così grande valore, nulla c’importa di più… Questo studio non solo non è scoraggiante e arido; ma è capace di sprofondarci in un vero abisso di gratitudine, di ammirazione, di confidenza, d’amore ». P . FROGET, O. P .: De l’Habitation du Saint Esprit dans les àmes justes. Lethielleux, 1898; p. 184). – Eppure a chi predicava S. Paolo « il grande mistero » della presenza di Dio in noi mediante la grazia? Ai conciapelli di Efeso, agli scaricatori di Corinto, tutta gente non meno « sprofondata nella materia » di molti Cristiani dei nostri tempi, e le cui abitudini e idee pagane dovevano renderli più difficilmente accessibili all’intelligenza di « Dio in noi », di quello che non accade a noi, Cattolici di razza, figli e nipoti di battezzati. – Ma ammesso pure che non tutti i fedeli, almeno nella stessa misura, possano familiarizzarsi con questo concetto della divina presenza in noi, non potremmo supporre che molte anime religiose, o semplicemente ferventi, le quali aspirano all’intimità con Dio, rivolgendo la loro attenzione su questo fatto capitale, abbiano a trovarvi un vantaggio di molta importanza? L’abbiamo supposto; donde la ragione di queste pagine. – Molte anime generose si spossano in lunghi sforzi senza giungere a poggiare più in alto, perché invece di cercare la ragione della loro intimità, là dove si trova veramente, cioè nel dogma più bello, più fondamentale della Religione, la cercano nel sentimento, o in pratiche accessorie (Altra difficoltà: il pericolo, per le anime, di confondere l’Abitazione divina con certe dottrine eterodosse, venute fuori dal modernismo [l’antico Panteismo gnostico riciclato dal modernismo ed oggi dal post-modernismo del novus ordo, l’antichiesa vaticana – ndr. -], e che tendono a sopprimere Dio, o a deificare l’uomo. Noi abbiamo Impugnato questa obiezione nella Revue Pratique d’Apologétique 1 e 16 giugno 1914: «Notre temps et l’intelligence de l’état de grace»). – S. Bernardo, per fare comprendere a queste anime il loro inganno, commenta quello che accadde al sepolcro a Maria Maddalena. Cerchiamo Dio dove non si trova, o piuttosto, non lo cerchiamo là, dove in modo speciale si trova; ecco l’origine di tanti indugi e lamenti. « Donna, tu piangi? Chi cerchi? Tu possiedi Colui che cerchi e l’ignori! Tu l’hai e piangi? Lo cerchi fuori di te, eppure Egli si trova dentro di te. Ritta accanto al sepolcro, sei tutta in lagrime; perché? Dove sono Io? Ma Io sono in te — mens tua monumentum meum est. — Io riposo là dentro, non morto, ma eternamente vivo. Tu stessa sei il mio giardino. Hai ben giudicato appellandomi giardiniere. Novello Adamo, anch’Io ho in custodia un Paradiso. Il mio officio è lavorare a far nascere in questo giardino, che è l’anima tua, messi abbondanti di desideri. In qual modo? Tu mi hai, mi possiedi in te, e l’ignori? — habes me intra te et nescis? — Ecco perché mi cerchi fuori. Ebbene, eccomi. Io ti apparisco fuori, ma per ricondurti dentro — ut te intus reducam. — Proprio qui tu mi troverai… Ah! io non sono assente e lontano, come t’immagini; ti sono molto vicino. Dimmi, che cosa è più vicino a qualcuno che il proprio cuore? Coloro che mi trovano, mi trovano appunto nel loro cuore, perchè Io risiedo là dentro — lllic intus invenior, a quibuscumque inveniorDeliciæ ejus esse cum filiis hominum. Mulier, quid ploras, quem quæris? Habes quem quæris, ignores? Habes intus, quem foris inquiris. Vere stas ad monumentum foris plorans? Mens tua monumentum meum est. Ibi non mortuus, sed in æternum requiesco vivens. Mens tua, hortus meus est. Bene existimasti, quia hortulanus sum… Habes me intra te et nexcis, ideo foras quæris… Ecce et foras apparebo ut te intus reducam et invenias intus quem foris quæris… Non longe a te sum. Quid propinquius homini quam cor suum? Illic intus invenior a quibuscumque invenior ». – In passionem et resurrectionem Domini, sermo XV). – Evitando tutto ciò che nell’esposizione della dottrina potrebbe essere oggetto di controversia, procureremo di spiegare nella maniera più chiara possibile, a vantaggio di tutte le anime desiderose di condurre una vita veramente cristiana, in che cosa consista la Presenza e l’Abitazione di Dio in noi (1).

 (1) Per lo svolgimento teologico e patristico, e una più profonda intelligenza di alcuni punti della nostra trattazione, rimandiamo ad alcune opere di un interesse speciale in materia. Oltre CORNELIO A LAPIDE (Commentario su S. Paolo), e PETAU (de Trinitate) inaccessibili forse alla maggior parte dei lettori, rammentiamo: BELLAMY: La Vie Surnaturrlle; NOUET: Le chrétien dans ses rapports avec la Très Sainte Trinité; TERRIEN: La Gràce et la Gloire; RAMIERE: La Divinisation du chrétien; DE SMET: Notre vie surnaturelle;. FROGET. O. P.: De l’Habitation du Saint Esprit dans les Ames justes; M.gr DE SÉGUR (con le correzioni che indicheremo) (*): Gesù vivente in noi; il P. FOCH: Catechism de la vie interieure; SAUVÉ: Elèvations Dogmatiques, t. VI.

(*) Tutte le opere summenzionate, tradotte, saranno di prossima nostra pubblicazione – ndr.-

CAPO II.

L’ordine soprannaturale.

Dio non ha crealo l’uomo solamente con un corpo e un’anima.

La definizione dell’uomo: animale ragionevole, corrisponde alla realtà filosofica, ma non alla realtà storica. L’uomo, tale quale Dio lo ha fatto, tale quale Dio lo ha costituito, è più che un uomo, è un uomo piùqualche cosa. – Noi ci studieremo di spiegare questo « qualche cosa ». – Quando Dio vuole creare un essere, si fa un dovere di conferirgli tutto ciò che lo costituisce nella sua natura. Ammettiamo che Dio crei un albero. Dio dovrà dargli tutto quello che sarà necessario affinché l’albero sia realmente un albero. Se Dio, dopo aver crealo l’albero, volesse aggiungergli qualche cosa che non gli appartiene, come sarebbe la facoltà di spostarsi: questo « qualche cosa » non potrà dirsi dovuto per natura, ma eccedente la natura, cioè soprannaturale. – Se Dio crea un animale, deve a quest’animale ciò che lo costituisce nel suo essere proprio. Dovrà forse in seguito conferirgli qualcosa di più? No. Ma se mai gliela conferisce, ciò sarà un mero favore. Se a un cavallo o ad un cane Dio desse la ragione, questa facoltà sopraggiunta, potrà considerarsi come eccedente la natura di quel cavallo o di quel cane, e quindi, in un senso molto vero, soprannaturale(1(1) Notiamo subito la terminologia in uso: preternaturale si dice quello che eccede una data natura; soprannaturaleciò che è specificamente divino, e che eccede qualsiasi natura creata).Fin qui, pure supposizioni. Entriamo ora nell’ordine dei fatti. Dio vuol creare l’uomo: gli deve in conseguenza (o meglio Dio deve a se stesso) tuttociò che lo costituisce nella vera natura d’uomo, e nulla più: dunque, un corpo, un’anima e niente altro. La Rivelazione c’insegna che Dio, creando l’uomo, come se ancora non fosse soddisfatto dell’opera sua, sotto l’impressione, per così dire, di un secondo slancio del suo amore infinito, aveva voluto aggiungere qualcosa di più ai doni meravigliosi che costituivano l’uomo nella sua natura.Un corpo, un’anima; sta bene: l’uomo vi è tutto intero. Ma in questa creazione, Dio non è tutto intero. Egli ha realizzato il suo piano; ma non ha esaurito il suo amore. Secondo Lui non ha dato abbastanza. Vuol dare di più. L’uomo non sarà solo un uomo. Sarà corpo e anima,sì; ma sarà anche qualcosa di più. Dio stabilisce di farlo partecipe della sua vera vita, della sua vita divina. L’uomo, restando uomo, sarà chiamato, fin da questa terra, a vivere della vita di Dio, per potere più tardi, in cielo, viverne pienamente, definitivamente; in modo limitato, è vero, ma senza velo; e il mistero consisterà forse meno nel fatto che l’uomo sia ammesso a porre un atto divino (quello di vedere Dio, come Dio si vede in se stesso) che non nel fatto che ponga quest’atto divino e tuttavia rimanga uomo.D’altronde le difficoltà importano poco. Voglio dire che esse formano l’oggetto dello studio del teologo, ma non di chi solo voglia fondare sul dogma la sua vita spirituale. E queste stesse difficoltà manifestano meglio l’immenso amore che Dio ebbe per noi. Noi eravamo sul punto di ringraziarlo in modo singolare.Questi privilegi splendidi (e anche altri di ordine temporale e sensibile, come la facoltà di non essere soggetti al dolore e alla morte), Dio li aveva connessi con l’osservanza fedele dei suoi ordini. Il conseguimento della vita divina era subordinato a un atto d’obbedienza del primo uomo. Dio, così, non lasciava di essere infinitamente buono. Nella sua bontà ci porgeva anzi l’occasione di meritare ciò che da parte sua era un puro favore. Adamo disobbedisce. Tutto è perduto. Esseri sensibili quali siamo, noi sentiamo di più la scomparsa dei doni sensibili. Noi quindi soffriamo E quanto!Ormai siamo condannati alla morte. Il fatto principale, il solo veramente essenziale è che tutti i nostri tesori divini ci furono rapiti, e siccome Dio ce li aveva dati a questa condizione, che il loro possesso o il loro rifiuto fosse per noi una sorgente di vita o di morte, perderli, importava l’inferno senza pietà, senza perdono. Dio non creò l’uomo e il soprannaturale nell’uomo con due atti distinti della sua potenza. No. Ma con unico atto, d’un solo colpo fece l’uomo soprannaturale. Quindi l’uomo vedrebbe Dio faccia a faccia, custodendo i suoi tesori di vita divina; ovvero cacciando Dio da sé, egli verrebbe cacciato da Dio, per sempre. Ecco la legge. – Or l’uomo pur conoscendo questo, preferì, da stolto, perdere la sua vita divina: ed ecco il peccato originale. Senza dubbio, Dio, in punizione, abbandonerà l’uomo a se stesso. – Il peccato originale — e in genere, sotto questo aspetto, ogni peccato mortale, — secondo un’espressione scultoria di S. Agostino, consiste in ciò, che l’uomo accetta di non essere altro che un semplice uomo: Per peccatum, homo fit tantum homo. L’uomo, animale ragionevole, per soddisfare un suo capriccio, rigetta i doni divini, la sua soprannatura; — amputato della parte più bella del suo essere, del tesoro che lo rende non solo cosa di Dio, ma amico di Dio e suo figliuolo, in un attimo perde, per la vita presente e per la futura, tutti i favori, tutte le ricchezze racchiuse in questo tesoro che egli possedeva. Si suol dire l’uomo decaduto. E difatti, che caduta tremenda! L’uomo sarà dunque abbandonato da Dio alla miseria di non essere altro che unuomo? E poiché Adamo ha rinunziato volontariamente ai suoi doni divini, il Creatore promulgherà il decreto di condanna eterna, senza lasciare né a lui, né ai suoi posteri, alcuna possibilità di riscatto? – Noi non conosciamo Dio! Non sappiamo quale misericordia infinita lo inclini verso l’uomo, prevaricatore nella persona di Adamo, e dopo Adamo, attraverso i secoli, così meschino, così miserabile, così poco degno delle attenzioni divine, anche fra quei popoli che Dio aveva prediletto, nell’Antico e nel Nuovo Testamento! – Abituati come siamo alla Redenzione, Gesù Cristo, (quando non ci sembra un personaggio del tutto insignificante e di cui non bisogna tener conto, ci appare come un uomo perfettamente normale, non del tutto straordinario, venuto, così si pensa presso a poco, per suo piacere, o almeno per sua fantasia; come un uomo quasi, la cui venuta, noi, gente senza macchia, meritavamo. – Il soprannaturale ci pare cosa naturalissima. E non vediamo quale enorme splendore si racchiuda nella Redenzione; quale anormalità prodigiosa presenti un personaggio come Gesù Cristo. Se riflettessimo solo un istante, vedremmo che l’opera del nostro riscatto, compiuta da Dio medesimo, meriterebbe da parte nostra un’ammirazione senza fine e continui ringraziamenti. – Noi avevamo perduto tutto. Dio ci rende tutto ciò che avevamo perduto. Noi restiamo freddi. Che indifferenza incredibile! Senza dubbio vi è una difficoltà. Ciò che abbiamo sempre visto a un modo, ci fa pensare che non poteva essere altrimenti. Chi di noi, essendo fanciullo, pensò mai che le circostanze della sua nascita potevano essere assai diverse: che in luogo delle rive della Senna, per esempio, o della Loira, potevano toccarci in sorte le rive del fiume Giallo o quelle del Congo? I doni soprannaturali, in mezzo ai quali siamo nati, ci sembrano anch’essi un ornamento che ci spetta, le cui parti già preparate, si sono connesse senza difficoltà, in virtù di non so quale armonia prestabilita e tutta meccanica. – Ma noi avremmo potuto benissimo non avere un Salvatore! La Redenzione non è una parte obbligatoria di un ornamento necessario. Commesso il peccato originale, poteva benissimo accadere che nessuno venisse in nostro soccorso e quindi non avessimo un Gesù Cristo; una volta perduti, si sarebbe potuto essere perduti per sempre. Lucifero peccò. Per lui non vi fu Redenzione. Gli angeli cattivi si ribellano, Dio li abbandona per sempre alla loro condanna. Perché dunque Dio ha voluto salvare noi? Come noi, Lucifero e i demoni non avevano commesso che un solo peccato; Dio non li salva. Ma salva noi. Quelli erano puri spiriti, noi nature inferiori, cioè spirito unito al corpo. Dio salva noi e danna i demoni. E chi mai si prende pensiero di questo, per così dire, capriccio di Dio? Noi, gli ultimi della famiglia, troviamo grazia presso Dio. E, invece, per i nostri fratelli maggiori, più nobili, più belli di noi, la cui colpa sembra meno grave, le circostanze, se non altro, meno puerilmente desolanti, nessuna remissione. Bisogna confessare che Dio ha avuto per noi un amore di preferenza! – Appena creati ci arricchisce di doni meravigliosi che non ci spettavano punto. Noi perdiamo tutto… E Dio — che abbandona alla colpa altre creature più privilegiate di noi per natura, — pensa unicamente a renderci tutto quello che abbiamo perduto! – Ma allora che cosa sono mai questi doni meravigliosi? Certamente devono costituire un tesoro magnifico agli occhi di Dio, se Egli — per farci rientrare nel loro possesso — determina e sceglie un piano meraviglioso, quello della Redenzione!

[1 – Continua]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/12/12/dio-in-noi-2/

SALMI BIBLICI: “IN TE, DOMINE, SPERAVI … ET ERIPE ME” (LXX)

SALMO 70: “IN TE DOMINE, SPERAVI, … et eripe me”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 70

Psalmus David, filiorum Jonadab, et priorum captivorum.

   [1] In te, Domine, speravi;

non confundar in aeternum;

[2] in justitia tua libera me, et eripe me: inclina ad me aurem tuam, et salva me.

[3] Esto mihi in Deum protectorem, et in locum munitum, ut salvum me facias: quoniam firmamentum meum et refugium meum es tu.

[4] Deus meus, eripe me de manu peccatoris, et de manu contra legem agentis, et iniqui:

[5] quoniam tu es patientia mea, Domine; Domine, spes mea a juventute mea.

[6] In te confirmatus sum ex utero; de ventre matris meae tu es protector meus; in te cantatio mea semper.

[7] Tamquam prodigium factus sum multis; et tu adjutor fortis.

[8] Repleatur os meum laude, ut cantem gloriam tuam, tota die magnitudinem tuam.

[9] Ne projicias me in tempore senectutis; cum defecerit virtus mea, ne derelinquas me.

[10] Quia dixerunt inimici mei mihi: et qui custodiebant animam meam consilium fecerunt in unum;

[11] dicentes: Deus dereliquit eum: persequimini et comprehendite eum, quia non est qui eripiat.

[12] Deus, ne elongeris a me; Deus meus, in auxilium meum respice.

[13] Confundantur et deficiant detrahentes animae; operiantur confusione et pudore qui quaerunt mala mihi.

[14] Ego autem semper sperabo, et adjiciam super omnem laudem tuam.

[15] Os meum annuntiabit justitiam tuam, tota die salutare tuum. Quoniam non cognovi litteraturam,

[16] introibo in potentias Domini; Domine, memorabor justitiae tuae solius.

[17] Deus, docuisti me a juventute mea; et usque nunc pronuntiabo mirabilia tua.

[18] Et usque in senectam et senium, Deus, ne derelinquas me, donec annuntiem brachium tuum generationi omni quae ventura est, potentiam tuam,

[19] et justitiam tuam, Deus, usque in altissima; quae fecisti magnalia, Deus: quis similis tibi?

[20] Quantas ostendisti mihi tribulationes multas et malas! et conversus vivificasti me, et de abyssis terrae iterum reduxisti me.

[21] Multiplicasti magnificentiam tuam; et conversus consolatus es me.

[22] Nam et ego confitebor tibi in vasis psalmi veritatem tuam, Deus; psallam tibi in cithara, sanctus Israel.

[23] Exsultabunt labia mea cum cantavero tibi; et anima mea quam redemisti.

[24] Sed et lingua mea tota die meditabitur justitiam tuam, cum confusi et reveriti fuerint qui quaerunt mala mihi.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXX.

Questo Salmo fu composto da Davide quando fu cacciato da Assalonne. L’appropriazione poi ai figliuoli di Jonadab, non è certo se sia per allusione profetica di Davide, o per l’uso che ne abbian fatto i Sacerdoti. Allorché questi figliuoli, per obbedienza alla voce di Geremia, non si rifiutarono dalla cattività al tempo del re Joachim.

Salmo di David: de’ figliuoli di Jonadab, e de’ primi prigionieri.

1. In te, o Signore, ho posta la mia speranza; non sia io confuso in eterno; per la tua giustizia dammi liberazione e salute.

2. Piega le tue orecchie verso di me, e salvami.

3. Sii tu a me un Dio protettore, e un asilo sicuro per farmi salvo. Perocché mia fermezza e mio rifugio se’ tu.

4. Dio mio, liberami dalle mani del peccatore e dalle mani del violator della legge e dell’iniquo;

5. Imperocché tu se’, o Signore, la mia aspettazione; Signore, tu mia speranza fin dalla mia gioventù.

6. Sopra di te, io posai nell’uscire dall’utero; dal seno della madre mia, tu sei mio protettore.

7. Te io cantai in ogni tempo; fui tenuto da molti come un portento: ma un forte difensore se’ tu.

8. Sia piena la mia bocca di laude, affinché io canti la tua gloria e la tua grandezza per tutto il giorno.

9. Non rigettarmi nel tempo della vecchiezza; non abbandonarmi quando verrà meno la mia fortezza.

10. Imperocché contro di me han parlato i miei nemici; quelli che tendevano insidie all’anima mia han tenuto insieme consiglio, (1)

11. Dicendo. Iddio lo ha abbandonato, tenetegli dietro, ed afferratelo, dappoiché non v’ha chi lo scampi.

12. Non ti dilungare, o Dio, da me Dio mio, volgiti ad aiutarmi.

13. Sian confusi, e vengan meno coloro che appongono calunnie all’anima mia; sieno coperti di confusione e di vergogna quelli che amano il mio male.

14. Ma io sempre spererò, e laudi aggiungerò a tutte le laudi tue.

15. La mia bocca predicherà la tua giustizia, e tutto il giorno la salute che vien da te. (2)

16. Perché io non ho cognizione di lettere, m’internerò nella possanza del Signore; della sola giustizia tua, o Signore, io mi ricorderò.

17. Tu, o Dio, fosti mio maestro fin dalla mia giovinezza, e io annunzierò le meraviglie fatte da te fino a quest’ora; (3)

18. E tu fino alla vecchiezza, fino all’età avanzata, o Dio, non mi abbandonare, fino a tanto che io a tutta la generazione che verrà annunzi la tua fortezza,

19. E la potenza tua e la tua giustizia, che va fino agli altissimi cieli, e le magnifiche cose fatte da te: Chi, o Dio, è simile a te?

20. Quante facesti provare a me tribolazioni molte ed acerbe! e di nuovo mi ravvisasti, e dagli abissi della terra di bel nuovo mi ritornasti.

21. Tu desti in molti modi a conoscere la tua magnificenza, e di bel nuovo mi consolasti.

22. Imperocché io pure al suono de’ musicali strumenti darò laude a te per la tua verità; te io canterò sulla cetra, o Santo di Israele.

23. Esulteranno le mie labbra e l’anima mia redenta da te, quando io canterò le tue lodi.

24. Ed ancor la mia lingua tutto di parlerà della tua giustizia, allorché confusi e svergognati rimarranno quelli che amano il mio male.

(l) Molti, dice David vedendomi detronizzato, sono colpiti da stupore, e si chiedono se Dio mi abbia abbandonato; ma no, Dio sarà il mio sostegno.

(2) È necessario osservare qui che la parola ebraica tradotta in “litteraturam”, sarà più esattamente tradotta con “numerum”. La parola “letteratura” della Vulgata designa l’ufficio dello scriba come tenere i registri, fare i conti, così come si vede rappresentato nelle scene domestiche, sui monumenti egiziani; tale è il valore della parola “sephorot”. Il senso del salmista è dunque: io loderò il Signore, perché la moltitudine dei suoi benefici è sì grande che non posso ricordare tutto, come gli scribi li hanno consegnato nei nostri annali (Le Hir.).

(3) Si può tradurre altrimenti, cambiando la punteggiatura: Signore, Voi mi avete istruito fin dalla mia giovinezza e fino a questo giorno; io non cesserò di esaltare i vostri benefici.

Sommario analitico

Davide, esiliandosi volontariamente per sfuggire alla persecuzione di Assalonne, nella sua persona, espone tutta la sua vita alla persecuzione dei suoi nemici.

IDomanda a Dio di non essere confuso in eterno.

1° A causa di Dio, – a) la cui bontà gli fa sperare il soccorso che egli implora; – b) la cui giustizia reprimerà gli sforzi dei suoi nemici (1); – c) la cui maestà e l’immensità sono come una fortezza; – d) la cui potenza può salvare tutti coloro che sono ricorsi a Lui;

2° A causa dei suoi nemici, calunniatori, perfidi ed ingiusti (3);

3° A causa di se stesso, – a) egli ha sperato fin dalla sua giovinezza (4); – b) Dio è stato il suo protettore fin dal seno di sua madre (5); – c) Dio è sempre stato l’oggetto dei suoi canti, nelle avversità e nella prosperità (6, 7).

II – Egli domanda specialmente a Dio che non lo abbandoni nella sua vecchiaia (8).

1° A causa dei suoi nemici che hanno cospirato per la sua perdita nella speranza che fosse abbandonato da Dio (9-12);

2° A causa di se stesso: – a) il suo cuore ha sperato costantemente in Dio e ha mostrato  a tutti le sue lodi (13); – b) la sua bocca ha reso pubblica la sua giustizia e celebrato la sua assistenza salutare (14); – c) la sua intelligenza ha negletto tutte le vane sottigliezze per applicarsi alla meditazione della sua potenza (14); – d) la sua memoria ha conservato il ricordo della giustizia di Dio escludendo ogni altra cosa (15).

III- Egli promette a Dio una eterna riconoscenza:

1° per i benefici ricevuti in gioventù: – a) Dio stesso è stato il suo maestro (16); – b) non cessa di rendere pubbliche le sue lodi (17);

2° Per ciò che egli attende da Dio nella sua vecchiaia, – a) prega Dio che non lo abbandoni mai (17); – b) gli promette in cambio di lodare, di celebrare la sua potenza, la sua giustizia, tutte le sue opere meravigliose, la sua essenza e i suoi attributi divini (18).   

3° Tutto ciò di cui Dio deve colmarlo durante la sua vita. – a) egli è stato dapprima provato, a causa dei suoi crimini, con numerose e penose afflizioni (19); – b) Dio lo ha in seguito liberato, rendendogli la vita, quando la sua sorte era disperata, e moltiplicando per lui i doni della sua magnificenza (20); – c) egli promette a Dio di far esplodere la sua riconoscenza con tutti i mezzi di cui dispone, gli strumenti musicali, i canti, la meditazione interiore delle sue bontà (21-23). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-7.

ff. 1. – « Io non sarò confuso in eterno ». Io sono già confuso, ma che non lo sia eternamente. Come in effetti non sarebbe confuso colui al quale si indirizzano queste parole: « Quale frutto avete ottenuto dalle cose di cui oggi arrossite? » (Rom. VI, 21). Che fare dunque affinché non siamo eternamente confusi? « … Avvicinatevi a Lui e sarete illuminati, ed i vostri volti non arrossiranno » (Ps. XXXIII, 6). Voi siete coperti di confusione in Adamo, ritiratevi da Adamo, avvicinatevi al Cristo e così non sarete confusi (S. Agost.). –  Sperare in Dio ed essere confuso, sperare negli uomini e trovarvi un solido appoggio, è ciò che non è mai successo; è ciò che mai accadrà. – Voi mi direte, io ho sperato e sono stato coperto da vergogna. Se siete coperto di vergogna, è perché non avete sperato come si doveva, o avete cessato di sperare, o ancora non avete atteso la fine, perché il vostro spirito ed il vostro cuore si sono ristretti e richiusi, perché la vera speranza è quella che ci tiene protesi verso Dio in mezzo ai mali ed ai pericoli (S. Agost.). – Liberatemi, non nella mia giustizia, ma nella vostra: se infatti io confidassi nella mia giustizia, sarei uno di quelli di cui l’Apostolo ha detto: « Non conoscendo la giustizia di Dio e volendo stabilire la propria giustizia, essi non si sono sottomessi alla giustizia di Dio » (Rom. X, 3). – Che cos’è in effetti la mia giustizia? L’iniquità l’ha preceduta; e se io divento giusto, questo avverrà per la vostra giustizia, perché io sarò giusto della giustizia che Voi mi avete dato, e non sarà in me se non restando in Voi, perché essa sarà un vostro dono (S. Agost.).

ff. 2. – « Siate per me un Dio protettore ». Che i colpi del nemico non giungano fino a me, perché non posso proteggermi da me stesso. Ma non basta essere protettore, per cui il Profeta aggiunge: « … e un luogo fortificato ». Ecco dunque che Dio stesso è diventato il luogo del vostro rifugio. « … Siate per me come un luogo fortificato, al fine di salvarmi. Io non sarò salvo senza di Voi; se non diventate il mio riposo la mia malattia non sarà guarita. Sollevatemi da terra, che riposi su di Voi, affinché mi rialzi in un luogo fortificato ». Può essercene uno che sia più forte? Quando sarete rifugiato in questa fortezza, ditemi quale nemico temerete? Quanto a me, se scelgo un’altra fortezza, io non vi troverò certamente la mia salvezza. Se ne trovate una che sia meglio fortificata, sceglietela. Non si può sfuggire a Dio, che rifugiandosi nel suo seno (S. Agost.).

ff. 3. – È una disavventura cadere tra le mani di un nemico potente, ma è una sventura ancora più grande cadere tra le mani, cioè nella familiarità di un amico peccatore e che agisce contro la legge di Dio; perché malgrado l’affezione che ha per noi, siccome è nemico di Dio, ci indirizza spesso delle insidie senza che vi ci pensi e, con il suo esempio o con le sue parole, ci persuade circa cose in cui non possiamo compiacerlo senza perdere davanti a Dio (Dug.).

ff. 4, 5. – La nostra pazienza non solo viene da Dio, ma Egli stesso è la nostra pazienza, perché noi non possiamo avere nulla che non venga da Lui e non torni a Lui. – Se Voi siete la mia pazienza, ciò che segue è perfettamente giusto: « Signore Voi siete la mia speranza fin dalla mia giovinezza ». Voi siete la mia pazienza, perché Voi siete la mia speranza, o piuttosto non siete Voi la mia speranza perché siete la mia pazienza? Perché la tribolazione, dice l’Apostolo, produce la pazienza, la prova, la speranza; ora la speranza non confonde (Rom. III, 5). Pertanto, perché ho messo la mia speranza in Voi, io non sarò confuso in eterno (S. Agost.). –  « Voi siete la mia speranza fin dalla giovinezza ». Dio è vostra speranza fin dalla giovinezza solamente? Non lo è dalla vostra adolescenza e dalla vostra infanzia? Senza alcun dubbio, perché vedete il seguito: « … dal seno di mia madre, Voi siete stato il mio protettore ». Perché dunque ho detto « dalla mia giovinezza » se non perché è da quel momento che ho cominciato a sperare in Voi? Prima io non speravo ancora in Voi, benché foste il mio protettore e mi abbiate portato Voi stesso in tutta sicurezza fino al giorno in cui io ho appreso a mettere in Voi la mia speranza, vale a dire fino al momento in cui mi avete armato contro il demonio, affinché nelle fila dei vostri soldati, armato della vostra fede, della vostra speranza, della vostra carità e degli altri vostri doni, io abbia potuto combattere i vostri invisibili nemici (Ephes. VI, 12) (Idem).

ff. 6. – « Io sono apparso a molti come un prodigio », quaggiù, in questo tempo di speranza, in questi tempi di gemiti, in questo tempo di umiltà, in questi tempi di dolore, in questo tempo in cui il prigioniero grida sotto il peso dei suoi ferri, perché queste parole: « Io sono apparso come un prodigio »? Perché io credo in ciò che non vedo ancora. Quanto a coloro, al contrario, che cercano la felicità nelle cose che vedono, essi non gioiranno nell’ebrezza, nella lussuria, nel libertinaggio, nell’avarizia, nelle ricchezze, nelle rapine, nelle dignità mondane, in questo strato di bianco che applicano su di una muraglia di fango: ecco ciò che fa le loro delizie. Quanto a me,  io cammino in una via tutta diversa, disprezzo le cose presenti, temo anche le prosperità del secolo, e non ho sicurezza che nelle promesse di Dio (Cor. XV, 33). – Essi dicono: mangiamo e beviamo, perché domani moriremo. Che dite? Ripetetelo: « mangiamo e beviamo ». Molto bene: ma cosa avete detto dopo? « perché domani moriremo ». Ma un tale motivo mi spaventa, lontano dal sedurmi … ascoltate ciò che io dico, al contrario: preghiamo e digiuniamo, perché domani moriremo. È seguendo questa via stretta e penosa che io sono apparso come un prodigio ad un gran numero di uomini, « … ma Voi siete il mio potente protettore ». Venite, o Signore Gesù, venite e ditemi: non perdete coraggio nella via stretta, io vi sono passato per primo; sono Io che sono questa via, sono Io che conduco, è in me che Io conduco, è verso di me che Io conduco (S. Agost.).

ff. 7. – Che vuol dire « tutto il giorno »? … senza tregua. Nella prosperità, perché mi consolate; nelle avversità perché mi correggete; prima di essere, perché mi avete creato; dopo la mia esistenza, perché Voi mi avete salvato; quando io ho peccato, perché mi avete perdonato; nella mia conversione, perché mi avete aiutato; nella mia perseveranza, perché mi avete coronato (S. Agostino). – Tale è l’occupazione dei santi in questa vita: lodare Dio, celebrare la sua gloria, esaltare le sue grandezze. Essi portano dappertutto con esso il loro tempio ed il loro altare, secondo la bella espressione di San Crisostomo. In mezzo agli affari che intraprendono per il prossimo, essi sono uniti a Dio; il cuore prega mentre la bocca è in silenzio, e quando la cura delle anime lascia loro un momento di solitudine, essi ne profittano per sospirare davanti a Dio (Berthier). 

II. — 8-5.

ff. 9, 13. – Quale è questo tempo della vecchiaia? « Quando la forza mi mancherà, non mi abbandonate ». Dio vi risponde qui: desiderate piuttosto che la vostra forza vi manchi, perché la mia sia in voi, e diciate con l’Apostolo: è quando sono debole che sono forte (II Cor. XII, 10). – non temete di essere rigettato nella vostra debolezza, nel tempo della vostra vecchiaia. Nostro Signore non era senza forze sulla croce? … cosa vi ha insegnato rifiutando di scendere dalla croce, se non che dovete essere paziente in mezzo agli oltraggi, se non che dovete essere forti in Dio? (S. Agost.). – Se si ha bisogno della protezione divina in tutti i tempi, è soprattutto in vecchiaia che questo soccorso è necessario; allora si provano maggiormente traversie, infermità, avversità; si è più abbandonati dagli uomini; non si ha il gusto dell’intraprendere, né la forza di eseguire. La debolezza di questa età inasprisce il carattere, e l’oblio ed il disprezzo nel quale si cade, rivolta l’amor proprio. Quando ci si è esercitati presto alla pietà, ci si trova molto consolati al tempo della vecchiaia, ed il divorzio che da tempo si è fatto con il mondo, fa che non ci si inquieti delle sue freddezze e dei suoi disprezzi. Ma se si è atteso questa ultima stagione di vita per rientrare in se stessi, si ha molto da combattere, e le passioni hanno ancora un grande ascendente su tutte le facoltà dell’anima (Berthier). – Occorre temere molto che il fervore dei primi anni non si intiepidisca in vecchiaia, e che il vigore dell’anima non si indebolisca con la forza del corpo. Occorre premunirsi contro questo danno e dire con l’Apostolo: « Benché l’uomo esteriore si distrugga, non di meno l’interiore si rinnova giorno per giorno » (II Cor. IV, 16). – Il demone, il mondo e la carne: sono i tre nemici irreconciliabili dell’uomo. Uno solo è esteriormente formidabile. Che farà dunque quando cospireranno tutti e tre insieme per perderlo? Bisogno far ricorso a Colui che ha vinto il demone ed il mondo, e che non ha mai ricevuto alcun attacco dalla carne di cui si era rivestito. – I malvagi fanno ordinariamente poca attenzione a Dio, quando intraprendono di perseguitare la gente per bene. Essi non pensano affatto nel fondo del loro cuore, che la Provvidenza abbia abbandonato coloro che essi vogliono perdere; ma, per dare un colore di giustizia ai loro processi, e per imporsi ai semplici, si reputano qualche volta di essere solo gli esecutori delle divine volontà; essi dicono che Dio si schiera con essi, e che non protegge la causa di coloro che essi attaccano, e se ottengono qualche successo, lo indicano come prova contro i malcapitati che essi vogliono sopraffare (Berth.). – Consolarsi e fortificarsi con la preghiera: quando si è abbandonati da Dio, tutto è perduto; ugualmente quando Egli non si allontana da noi, non c’è nulla da temere: un solo sguardo di Dio è sufficiente a rovesciare i nemici più formidabili. – Arriva un momento nella vita in cui noi osserviamo che tutto ci sfugge, e che la nostra esistenza non è stata che una successione di amicizie spezzate. La giovinezza passa con le sue illusioni, e coloro che abbiamo amato sono fuggiti lontano da noi; noi non siamo stati che infedeli gli uni agli altri, noi non abbiamo fatto che obbedire ad una legge della vita e sentire per esperienza ciò che non è che l’abbandono del mondo: il movimento della vita ci ha separato. Poi viene l’età matura, la stagione delle crudeli delusioni, come se la ragione, nella sua maturità, non sapesse che distruggere le nostre affezioni a forza di sospetti, inganni, interpretazioni maligne; tutte le nostre amicizie ed i nostri appoggi ci mancano; attraversiamo delle conoscenze che si succedono rapidamente, lasciamo delle amicizie senza numero, usiamo la benevolenza dei nostri alleati, fiacchiamo la confidenza del nostro prossimo; ma c’è un punto al di la del quale non possiamo più abusare della sua indulgenza, ed è così che arriviamo al porto solitario della vecchiaia, per stancare, con le nostre innumerevoli miserie, la fedeltà che si fa un dovere religioso di servirci nella nostra decadenza. Là noi conosciamo che Dio ha sopravvissuto e resistito a tutto: Egli è l’amico di cui la fede non è mai stata in dubbio, l’alleato che il sospetto non ha potuto mai coinvolgere, Colui che ci ha amato di più, a quanto pare, man mano che vediamo il peggio … Tutti gli uomini ci hanno ingannato; coloro che sembravano dei santi sono mancati quando le nostre imperfezioni hanno pesato su di loro; essi ci hanno ferito, e la ferita era avvelenata; ma Lui è stato sempre fedele e vero e non si è mai allontanato da noi (FABER. Le Créateur et la créature, p. 77. 78).

ff. 13-15. – Mai bisogna perdere la speranza in Dio, qualunque cosa possa arrivare, e in qualunque stato ci si trovi. – Colui che ama Dio non è mai contento di ciò che fa: egli vuole fare sempre di più ed aggiungere incessantemente nuove lodi a quelle che ha già fatto (Dug.).– Io aggiungerei questa lode a tutte le vostre lodi: che la mia giustizia, se sono giusto, non è affatto la mia giustizia, ma la vostra giustizia depositata in me. In effetti siete Voi che giustificate l’empio (Rom. IV, 5). « Tutto il giorno, cioè in tutti i tempi, io celebrerò la vostra salvezza ». Che nessuno pretenda, con una ingiusta usurpazione, che debba a se stesso la propria salvezza. La salvezza viene dal Signore (S. Agost.). –  Qual è l’arte di scrivere che non ha conosciuto il Profeta, sulla bocca del quale la lode di Dio si trova tutto il giorno? I Giudei possiedono una certa letteratura; è ad essi, in effetti che noi riporteremo questa parola, ed è là che ne troveremo l’applicazione. L’orgoglio dei Giudei, che mettevano la loro fiducia nella loro forza e nella giustizia delle loro opere, si glorificava della Legge, e in questa Legge, i Giudei si glorificano, non della grazia, ma della lettera. In effetti la legge senza la grazia, non è altra cosa che una lettera; essa resta per condannare l’iniquità, ma non per dare la salvezza …  È dunque con ragione che il Profeta dice in seguito: « … Io entrerò nelle potenze del Signore », non nella mia potenza, ma in quelle del Signore. Altri si sono glorificati della propria potenza, che attribuivano alla lettera della Legge. Ecco perché essi non hanno conosciuto la grazia aggiunta alla lettera (S. Agost.). –  Uscire dalla propria debolezza per entrare nella forza del Signore; cosa, tutta la forza degli uomini riuniti, potrà contro colui che si è rifugiato in questo forte? È là, Signore che stando fuori dall’attendere a tutto ciò che il mondo e l’inferno stesso potrebbero intraprendere contro di me, io dimenticherò tutto il resto per non ricordarmi che della sola vostra giustizia (Dug.). Si, della sola vostra giustizia, perché così io non pensi alla mia. – La vostra giustizia sola mi libera, io non ho nulla di mio se non i miei peccati. Lungi da me quindi glorificarmi delle mie forze, e attenermi alla lettera. Che io respinga questa letteratura, vale a dire che gli uomini si glorifichino della lettera e che, nella loro follia, presumano criminalmente delle loro forze. Che io riprovi tali uomini ed entri nella potenza del Signore alfine di essere forte in ragione della mia debolezza (S. Agost.). –  L’anima che possiede Dio non vuole che Lui. « … Io entrerò nella potenza del Signore: Signore io non mi sovverrò che della vostra giustizia ». Quando si vuole entrare nelle grandezze e nelle potenze del mondo, si cade necessariamente nella molteplicità dei desideri; ma quando si penetra nelle potenze del Signore, ben presto ci si dimentica di tutto il resto, e non ci si occupa che dei mezzi per la crescita nella giustizia, per assicurarsi il possesso di un sì grande bene. È ciò che il Vangelo conferma, esortandoci a cercare innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia. Il regno è « potentias Domini », perché si lavora per acquisire la giustizia onde giungervi  (BOSSUET. Panég. de S. Franc. d’Assisi.). – A che vi servirà conoscere le cose del mondo, quando anche il mondo sarà passato? Nell’ultimo giorno non vi si domanderà ciò che avete saputo, ma ciò che avete fatto, « … e non c’è più scienza nell’inferno, verso il quale precipitate ». Cessate un vano lavoro, chiunque voi siate non abbiate a coltivare l’albero i cui frutti danno la morte. Lasciate la scienza che nutre l’orgoglio, la scienza che gonfia, per occuparvi unicamente di acquisire quella che rende umili e santi « … la carità che edifica ». Imparate ad umiliarvi, a conoscere il vostro niente e la vostra corruzione. Allora entrerete nelle potenze del Signore, Dio verrà verso di voi, vi illuminerà della sua luce, vi insegnerà, nel segreto del cuore, questa scienza meravigliosa di cui Gesù ha detto « … Io vi benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché avete nascosto queste cose ai saggi ed ai prudenti, e le avete rivelate ai piccoli » (Lam. Im.). – O Dio! « Io mi ricorderò della sola vostra giustizia »; ricevete tutti i pensieri che saranno il frutto di questo ricordo; che la vostra giustizia e la vostra verità brilli dappertutto; che io ami la vostra giustizia, e vi serva con un amore casto, cioè non con paura e pena, ma con amore della vostra giustizia (BOSSUET, Elev. XXIII, S. VI, E.).

III. 16-23.

ff. 16-18. – « Voi mi avete istruito fin dalla mia giovinezza »; ma dopo la giovinezza cosa è successo? All’inizio della vostra conversione, avete appreso che prima della vostra conversione non eravate un giusto; allora, rinnovato e cambiato nell’uomo nuovo, non ancora nella realtà, ma nella speranza, avete appreso che nulla di buono aveva preceduto la grazia in voi, e che siete stato convertito a Dio dalla grazia di Dio. Ma forse, direte voi ora come spesso si fa: lasciatemi ora, io avevo bisogno che mi lasciaste vedere la mia strada, ma questo mi è sufficiente; io non mi ingannerò. E Colui che vi ha mostrato la via vi dirà: non volete dunque che vi conduca? Ma se voi rispondete con orgoglio: no, mi è sufficiente, io camminerò da solo; Dio vi lascerà andare e, in seguito alla vostra debolezza, voi sarete nuovamente tratto in inganno. Ditegli dunque: « conducetemi, Signore, nella vostra via ed io camminerò nella vostra verità » (Ps. LXXXV, 11). Ora, la vostra entrata nella via, è la vostra giovinezza, il vostro rinnovamento è l’inizio della vostra fede … La via stessa è venuta a voi, e voi vi ci siete sicuramente stabilito, senza averlo in alcun modo meritato, poiché voi vi eravate ingannati fin là. Ma cosa! … dopo che siete entrati, voi vi dirigete da voi stessi? Colui che vi ha mostrato il cammino vi lascia a voi stessi? No, risponde il Profeta: voi mi avete istruito dalla mia giovinezza, « … ed io renderò pubbliche le vostre meraviglie fino al presente ». In effetti è una cosa meravigliosa che vi degniate ancora di condurmi, dopo avermi messo sulla strada, è una meraviglia (S. Agost.). – Dio, avendo preso cura di istruire il Profeta nella sua giovinezza, lo aveva continuamente illuminato con i suoi lumi. Era un impegno per lui celebrare continuamente le grandezze ed i benefici di questo Maestro interiore che gli aveva sempre parlato: ma coloro che si ingannano dalla giovinezza e che non aprono gli occhi alla luce divina che nell’età matura o in vecchiaia, sono meno obbligati di Davide nel consacrare il resto della loro vita alla gloria di Dio? « Ah! Diceva eloquentemente san Pietro Crisologo, ammiriamo la misericordia di Gesù-Cristo, che non ha destinato che un giorno per giudicarci, e che ci accorda tutto il tempo della nostra vita per fare penitenza. Se l’infanzia e la giovinezza ce ne sottraggono una parte, che la vecchiaia almeno corregga queste deviazioni; che ci si penta dei passati peccati, quando non si è più in grado di commetterne; che abbandoni le sue cattive abitudini quando le forze lo abbandonano; che faccia di necessità virtù, e che l’uomo infine muoia penitente, dopo aver vissuto per tanto tempo colpevole » (Berthier). – Non si deve desiderare di vivere, se non per meglio conoscere Dio, e per farlo conoscere alle generazioni che ci seguono ed annunciar loro la potenza del suo braccio divino. La potenza che non sia accompagnata dalla giustizia è perniciosa; la giustizia che non sia sostenuta dalla potenza, è estremamente debole, entrambe si incontrano miracolosamente in Dio. Bisogna far brillare la prima fin nei luoghi più elevati, vale a dire nei cieli, per le grandi cose fatte, creando gli spiriti celesti con una sì alta perfezione, e la seconda precipitando da questi luoghi più elevati un gran numero tra i suoi angeli, a causa del loro orgoglio! « … O Dio, chi è simile a Voi? » Parole di fuoco che nella bocca di S. Michele precipitarono lucifero e gli angeli suoi complici dal più alto dei cieli negli abissi più profondi.

ff. 19, 20. – È il sentimento di un’anima che si trova alla fine della sua carriera, e che entra nel riposo del Signore. Quali tribolazioni ha vissuto durante questa vita mortale! Quali tempeste hanno turbato il suo riposo! Quali pericoli ha corso su questo mare tempestoso! Infine la riceve nel suo seno, gli rende la vita, la trae fuori da questo abisso di male. È impossibile ad un’anima ancora legata agli organi del corpo, apprezzare i sentimenti che nascono da questo primo momento di libertà. « … Noi morremo per cominciare a vivere », dice S. Agostino  è veramente la vita che succede a questi stati di morte in cui siamo sulla terra. « Voi vi siete voltato verso di me, dice il Profeta, mi avete reso la vita ». Occorre che Gesù-Cristo si volga anche verso di noi, per liberarci dalle tribolazioni che ci agitano in questo mondo (Berthier).

ff. 21-23. –  Espressioni differenti che ci fanno comprendere la santa inquietudine di un’anima giusta per testimoniare a Dio la sua riconoscenza. Dio si diletta particolarmente nel nome di Santo. Egli si chiama spesso « il santo di Israele »; Egli vuole che la sua santità sia il motivo, il principio della nostra! « … Siate santi, perché Io sono santo », dice il Signore (BOSSUET. Elev. I, S. 2, El.). – Le lodi esteriori che si danno a Dio, affinché Gli siano gradite, esse devono avere per principio la fede e la carità che sono nel cuore. La lingua medita la giustizia di Dio, quando ciò che proferisce è il frutto della meditazione del cuore (Dug.).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI (… CON CAZZUOLA E GREMBIULINO) DI TORNO: S.S. LEONE XII – “QUO GRAVIORA”

Ancora una volta il Pontefice regnante, S.S. Leone XII, è costretto a scomunicare gli aderenti alle sette malefiche e maledette, che, sotto il pretesto delle riforme politiche o della filantropia umanitaria, hanno come obiettivo principale la lotta alla Chiesa Cattolica, in particolare nella figura del Santo Padre, il Vicario di Gesù Cristo, Colui che ha sconfitto e distrutto il regno che lucifero, loro padre di adozione [col nome di baphomet, signore dell’universo] aveva stabilito sulla terra a perdizione del genere umano. Il Sommo Pontefice rinnova le scomuniche e riporta addirittura i testi integrali dei precedenti documenti Apostolici dei Papi antecedenti. Tremende sono le espressioni che utilizza il successore di S. Pietro nel confermare le condanne dei suoi predecessori « … Noi sotto le stesse pene comminate nelle lettere dei Nostri Predecessori che abbiamo riportato in questa Nostra Costituzione, e che espressamente confermiamo, in perpetuo proibiamo tutte le società occulte (qualunque sia il loro nome), tanto quelle ora esistenti, quanto quelle che forse si costituiranno in seguito e che si propongono le azioni sopra ricordate contro la Chiesa e le supreme potestà civili … » – « …. I fedeli debbono assolutamente astenersi dalle società stesse, dalle loro riunioni, conferenze, aggregazioni o conventicole sotto pena di scomunica in cui incorrono sull’istante tutti i contravventori sopra descritti senza alcuna dichiarazione; dalla scomunica nessuno potrà venire assolto se non da Noi o dal Romano Pontefice pro tempore, salvo che si trovi in punto di morte. (….) Soprattutto poi condanniamo risolutamente e dichiariamo assolutamente vano l’empio e scellerato giuramento che vincola gli adepti di quelle sette a non rivelare mai ad alcuno tutto ciò che riguarda le sette medesime e a punire con la morte tutti i compagni che si fanno delatori presso i superiori, sia Ecclesiastici, sia Laici… ». Leggendo queste poche righe, praticamente oggi, per tale motivo, è scomunicato pressoché tutto l’orbe terracqueo, dal mondo politico, finanziario, giornalistico, a quello artistico, scientifico, letterario e … dulcis in fundo: finto-ecclesiastico … modernista e pseudo tradizionalista ben saldato alle matrici ideologiche e dottrinali satanico-massoniche. E poi, dove trovano il Papa “vero” o un suo vero delegato che rimetta la scomunica “latae sententiae” comminata loro ipso facto? Meglio leggere attentamente il documento e pregare – il pusillus grex – per questi scellerati, non tanto per quello che di ignobile e vergognoso compiono in occulto nel nostro mondo, ma per quello a cui sono destinati nella vita eterna, e per la figuraccia mortale che faranno al giudizio universale, quando i loro inganni, le loro prevaricazioni, le usurpazioni, le trappole spirituali e materiali, gli attentati, i misfatti, le violenze di ogni tipo, gli innumerevoli omicidi, saranno svelati agli occhi di tutti, dei tanti che credevano in questi uomini ritenendoli “eroi della patria”, benefattori dell’umanità, modelli sociali, culturali e addirittura spirituali … Signore perdona loro, perché non sanno quello che fanno … offriamoci ostie di espiazione per le offese continue a Dio, al suo Cristo, alla sua Chiesa, ai suoi Santi, alla sua dottrina.

Bolla

Quo graviora

Leone XII

Roma, 13 marzo 1825

1. Quanto più gravi sono le sciagure che sovrastano il gregge di Cristo Dio e Salvatore nostro, tanta maggiore sollecitudine devono usare, per rimuoverle, i Romani Pontefici, ai quali sono stati affidati il potere e l’impegno di pascere e di governare quel gregge in nome del Beato Pietro, principe degli Apostoli. Compete infatti ad essi, come a coloro che sono posti nel più alto osservatorio della Chiesa, lo scorgere più da lontano le insidie che i nemici del nome cristiano ordiscono per distruggere la Chiesa di Cristo, senza che mai possano conseguire tale scopo; ad essi compete non solo indicare e rivelare le stesse insidie ai fedeli, perché se ne guardino, ma anche, con la propria autorità, stornarle e rimuoverle. I Romani Pontefici Nostri Predecessori compresero quale gravoso incarico fosse loro affidato; perciò si imposero di vigilare sempre come buoni pastori. Con le esortazioni, gl’insegnamenti, i decreti e dedicando la stessa vita al loro gregge, ebbero cura di proibire e di distruggere totalmente le sette che minacciavano l’estrema rovina della Chiesa. Né la memoria di questo impegno pontificio può essere desunta soltanto dagli antichi annali ecclesiastici: lo si evince chiaramente dalle azioni compiute dai Romani Pontefici dell’età nostra e dei nostri Padri per opporsi alle sette clandestine di uomini nemici di Cristo. Infatti, non appena Clemente XII, Nostro Predecessore, si avvide che di giorno in giorno si rafforzava e acquistava nuova consistenza la setta dei Liberi Muratori, ossia dei Francs Maçons (o chiamata anche in altro modo), che per molti validi motivi egli aveva considerata non solo sospetta ma altresì implacabile nemica della Chiesa Cattolica, la condannò con una limpida Costituzione che comincia con le parole In eminenti, pubblicata il 28 aprile 1738, il cui testo è il seguente:

2. “Clemente Vescovo, servo dei servi di Dio. A tutti i fedeli, salute e Apostolica Benedizione.

Posti per volere della clemenza Divina, benché indegni, nell’eminente Sede dell’Apostolato, onde adempiere al debito della Pastorale provvidenza affidato a Noi, con assidua diligenza e con premura, per quanto Ci è concesso dal Cielo, abbiamo rivolto il pensiero a quelle cose per mezzo delle quali – chiuso l’adito agli errori ed ai vizi – si conservi principalmente l’integrità della Religione Ortodossa, e in questi tempi difficilissimi vengano allontanati da tutto il mondo Cattolico i pericoli dei disordini. – Già per la stessa pubblica fama Ci è noto che si estendono in ogni direzione, e di giorno in giorno si avvalorano, alcune società, unioni, riunioni, adunanze, conventicole o aggregazioni comunemente chiamate dei Liberi Muratori o des Francs Maçons, o con altre denominazioni chiamate a seconda della varietà delle lingue, nelle quali con stretta e segreta alleanza, secondo loro Leggi e Statuti, si uniscono tra di loro uomini di qualunque religione e setta, contenti di una certa affettata apparenza di naturale onestà. Tali Società, con stretto giuramento preso sulle Sacre Scritture, e con esagerazione di gravi pene, sono obbligate a mantenere un inviolabile silenzio intorno alle cose che esse compiono segretamente. Ma essendo natura del delitto il manifestarsi da se stesso e generare il rumore che lo denuncia, ne deriva che le predette società o conventicole hanno prodotto nelle menti dei fedeli tale sospetto, secondo il quale per gli uomini onesti e prudenti l’iscriversi a quelle aggregazioni è lo stesso che macchiarsi dell’infamia di malvagità e di perversione: se non operassero iniquamente, non odierebbero tanto decisamente la luce. Tale fama è cresciuta in modo così considerevole, che dette Società sono già state proscritte dai Principi secolari in molti Paesi come nemiche dei Regni, e sono state provvidamente eliminate. Noi pertanto, meditando sui gravissimi danni che per lo più tali Società o Conventicole recano non solo alla tranquillità della temporale Repubblica, ma anche alla salute spirituale delle anime, in quanto non si accordano in alcun modo né con le Leggi Civili né con quelle Canoniche; ammaestrati dalle Divine parole a vigilare giorno e notte, come servo fedele e prudente preposto alla famiglia del Signore, affinché questa razza di uomini non saccheggi la casa come ladri, né come le volpi rovini la vigna; affinché, cioè, non corrompa i cuori dei semplici né ferisca occultamente gl’innocenti; allo scopo di chiudere la strada che, se aperta, potrebbe impunemente consentire dei delitti; per altri giusti e razionali motivi a Noi noti, con il consiglio di alcuni Venerabili Nostri Fratelli Cardinali della Santa Romana Chiesa, e ancora motu proprio, con sicura scienza, matura deliberazione e con la pienezza della Nostra Apostolica potestà, decretiamo doversi condannare e proibire, come con la presente Nostra Costituzione, da valere in perpetuo, condanniamo e proibiamo le predette società, unioni, riunioni, adunanze, aggregazioni o conventicole dei Liberi Muratori o des Francs Maçons, o con qualunque altro nome chiamate. Pertanto, severamente, ed in virtù di santa obbedienza, comandiamo a tutti ed ai singoli fedeli di qualunque stato, grado, condizione, ordine, dignità o preminenza, sia Laici, sia Chierici, tanto Secolari quanto Regolari, ancorché degni di speciale ed individuale menzione e citazione, che nessuno ardisca o presuma sotto qualunque pretesto o apparenza di istituire, propagare o favorire le predette Società dei Liberi Muratori o des Francs Maçons o altrimenti denominate; di ospitarle e nasconderle nelle proprie case o altrove; di iscriversi ed aggregarsi ad esse; di procurare loro mezzi, facoltà o possibilità di convocarsi in qualche luogo; di somministrare loro qualche cosa od anche di prestare in qualunque modo consiglio, aiuto o favore, palesemente o in segreto, direttamente o indirettamente, in proprio o per altri, nonché di esortare, indurre, provocare o persuadere altri ad iscriversi o ad intervenire a simili Società, od in qualunque modo a giovare e a favorire le medesime. Anzi, ognuno debba assolutamente astenersi dalle dette società, unioni, riunioni, adunanze, aggregazioni o conventicole, sotto pena di scomunica per tutti i contravventori, come sopra, da incorrersi ipso facto, e senza alcuna dichiarazione: scomunica dalla quale nessuno possa essere assolto, se non in punto di morte, da altri all’infuori del Romano Pontefice pro tempore. – Vogliamo inoltre e comandiamo che tanto i Vescovi, i Prelati Superiori e gli altri Ordinari dei luoghi, quanto gl’Inquisitori dell’eretica malvagità deputati in qualsiasi luogo, procedano e facciano inquisizione contro i trasgressori di qualunque stato, grado, condizione, ordine, dignità o preminenza, e che reprimano e puniscano i medesimi con le stesse pene con le quali colpiscono i sospetti di eresia. Pertanto concediamo e attribuiamo libera facoltà ad essi, e a ciascuno di essi, di procedere e di inquisire contro i suddetti trasgressori, e di imprigionarli e punirli con le debite pene, invocando anche, se sarà necessario, l’aiuto del braccio secolare. Vogliamo poi che alle copie della presente, ancorché stampate, sottoscritte di mano di qualche pubblico Notaio e munite del sigillo di persona costituita in dignità Ecclesiastica, sia prestata la stessa fede che si presterebbe alla Lettera se fosse esibita o mostrata nell’originale. A nessuno dunque, assolutamente, sia permesso violare, o con temerario ardimento contraddire questa pagina della Nostra dichiarazione, condanna, comandamento, proibizione ed interdizione. Se qualcuno osasse tanto, sappia che incorrerà nello sdegno di Dio Onnipotente e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, nell’anno dell’Incarnazione del Signore 1738, il 28 aprile, nell’anno ottavo del Nostro Pontificato”.

3. Questi provvedimenti, tuttavia, non apparvero sufficienti a Benedetto XIV, altro Nostro Predecessore di veneranda memoria. Nei discorsi di molti era diffusa la convinzione che la pena della scomunica irrogata nella lettera del defunto Clemente XII fosse inoperante perché Benedetto non aveva confermato quella lettera. In verità, era assurdo affermare che le leggi dei Pontefici precedenti diventano obsolete qualora non siano espressamente approvate dai Successori; inoltre era evidente che da Benedetto, più di una volta, era stata ratificata la Costituzione di Clemente. Tuttavia Benedetto decise di sottrarre anche questo cavillo dalle mani dei settari, pubblicando il 18 marzo 1751 una nuova Costituzione che comincia con la parola Providas. In essa riportò, parola per parola, la Costituzione di Clemente e la confermò, come suol dirsi, in forma specifica, che è considerata la forma più ampia e più efficace fra tutte. Questo è il testo della Costituzione di Benedetto:

4. “Il Vescovo Benedetto, servo dei servi di Dio. A perpetua memoria.

Giudichiamo doveroso, con un nuovo intervento della Nostra autorità, sostenere e confermare – in quanto lo richiedono giusti e gravi motivi – le provvide leggi e le sanzioni dei Romani Pontefici Nostri Predecessori: non soltanto quelle leggi e quelle sanzioni il cui vigore o per il processo del tempo o per la noncuranza degli uomini temiamo si possa rallentare od estinguere, ma anche quelle che recentemente hanno ottenuto forza e piena validità. – Di fatto Clemente XII, Nostro Predecessore di felice memoria, con propria Lettera apostolica del 28 aprile dell’anno dell’Incarnazione del Signore 1738, anno ottavo del suo Pontificato – Lettera diretta a tutti i fedeli e che comincia In eminenti – condannò per sempre e proibì alcune società, unioni, riunioni, adunanze, conventicole o aggregazioni volgarmente chiamate dei Liberi Muratori o des Francs Maçons, o diversamente denominate, già allora largamente diffuse in certi Paesi e che ora sempre più aumentano. Egli vietò a tutti e ai singoli Cristiani (sotto pena di scomunica da incorrersi ipso facto senza alcuna dichiarazione, dalla quale nessuno potesse essere assolto da altri, se non in punto di morte, all’infuori del Romano Pontefice pro tempore) di tentare o ardire di entrare in siffatte Società, propagarle o prestare loro favore o ricetto, occultarle, iscriversi ad esse, aggregarsi o intervenirvi, ed altro, come nella stessa Lettera più largamente e più ampiamente è contenuto. Eccone il testo.

[Il testo della Costituzione In eminenti di Clemente XII è pubblicata integralmente nelle pagine precedenti di questa stessa Bolla].

Ma poiché, per quanto Ci è stato riferito, alcuni non hanno avuto difficoltà di affermare e diffondere pubblicamente che la detta pena di scomunica imposta dal Nostro Predecessore non è più operante perché la relativa Costituzione non è poi stata da Noi confermata, quasi che sia necessaria, perché le Apostoliche Costituzioni mantengano validità, la conferma esplicita del successore; ed essendo stato suggerito a Noi, da parte di alcune persone pie e timorate di Dio, che sarebbe assai utile eliminare tutti i sotterfugi dei calunniatori e dichiarare l’uniformità dell’animo Nostro con l’intenzione e la volontà dello stesso Predecessore, aggiungendo alla sua Costituzione il nuovo voto della Nostra conferma; Noi certamente, fino ad ora, quando abbiamo benignamente concesso l’assoluzione dalla incorsa scomunica, sovente prima e principalmente nel passato anno del Giubileo, a molti fedeli veramente pentiti e dolenti di avere trasgredito le leggi della stessa Costituzione e che assicuravano di cuore di allontanarsi completamente da simili società e conventicole, e che per l’avvenire non vi sarebbero mai tornati; o quando accordammo ai Penitenzieri da Noi delegati la facoltà di impartire l’assoluzione a Nostro nome e con la Nostra autorità a coloro che ricorressero ai Penitenzieri stessi; e quando con sollecita vigilanza non tralasciammo di provvedere a che dai competenti Giudici e Tribunali si procedesse in proporzione del delitto compiuto contro i violatori della Costituzione stessa, il che fu effettivamente più volte eseguito: abbiamo certamente fornito argomenti non solo probabili ma del tutto evidenti ed indubitabili, attraverso i quali si sarebbero dovute comprendere le disposizioni dell’animo Nostro e la ferma e deliberata volontà consenzienti con la censura imposta dal predetto Clemente Predecessore. Se un’opinione contraria si divulgasse intorno a Noi, Noi potremmo sicuramente disprezzarla e rimettere la Nostra causa al giusto giudizio di Dio Onnipotente, pronunciando quelle parole che un tempo si recitavano nel corso delle sacre funzioni: “Concedi, o Signore, te ne preghiamo, che Noi non curiamo le calunnie degli animi perversi, ma conculcata la perversità medesima supplichiamo che Tu non permetta che siamo afflitti dalle ingiuste maldicenze o avviluppati dalle astute adulazioni, ma che amiamo piuttosto ciò che Tu comandi”. Così riporta un antico Messale attribuito a San Gelasio, Nostro Predecessore, e che dal Venerabile Servo di Dio il Cardinale Giuseppe Maria Tommasi fu inserito nella Messa che s’intitola Contro i maldicenti. – Tuttavia, affinché non si potesse dire che Noi avevamo imprudentemente omesso qualche cosa, al fine di eliminare agevolmente i pretesti alle menzognere calunnie e chiudere loro la bocca; udito prima il consiglio di alcuni Venerabili Nostri Fratelli Cardinali della Santa Romana Chiesa, abbiamo decretato di confermare la stessa Costituzione del Nostro Predecessore, parola per parola, come sopra riportato in forma specifica, la quale è considerata come la più ampia ed efficace di tutte: la confermiamo, convalidiamo, rinnoviamo e vogliamo e decretiamo che abbia perpetua forza ed efficacia per Nostra sicura scienza, nella pienezza della Nostra Apostolica autorità, secondo il tenore della medesima Costituzione, in tutto e per tutto, come se fosse stata promulgata con Nostro motu proprio e con la Nostra autorità, e fosse stata pubblicata per la prima volta da Noi. – Per la verità, fra i gravissimi motivi delle predette proibizioni e condanna esposti nella sopra riportata Costituzione ve n’è uno, in forza del quale in tali società e conventicole possano unirsi vicendevolmente uomini di qualsiasi religione e setta; è chiaro quale danno si possa recare alla purezza della Religione Cattolica. Il secondo motivo è la stretta e impenetrabile promessa di segreto, in forza del quale si nasconde ciò che si fa in queste adunanze, cui meritamente si può applicare quella sentenza che Cecilio Natale, presso Minucio Felice, addusse in una causa ben diversa: “Le cose oneste amano sempre la pubblica luce; le scelleratezze sono segrete”. Il terzo motivo è il giuramento con il quale gli iscritti s’impegnano ad osservare inviolabilmente detto segreto, quasi che sia lecito a qualcuno, interrogato da legittimo potere, con la scusa di qualche promessa o giuramento di sottrarsi all’obbligo di confessare tutto ciò che si ricerca, per conoscere se in tali conventicole si faccia qualche cosa contraria alla stabilità e alle leggi della Religione e della Repubblica. Il quarto motivo è che queste Società si oppongono alle Sanzioni Civili non meno che alle Canoniche, tenuto conto, appunto, che ai sensi del Diritto Civile si vietano tutti i Collegi e le adunanze formati senza la pubblica autorità, come si legge nelle Pandette , e nella celebre lettera di C. Plinio Cecilio, il quale riferisce che fu proibito per suo Editto, giusta il comandamento dell’Imperatore, che si tenessero le Eterie, cioè che potessero esistere e riunirsi Società e adunanze senza l’autorizzazione del Principe. Il quinto motivo è che in molti Paesi le citate società e aggregazioni sono già state proscritte e bandite con leggi dei Principi secolari. Infine, l’ultimo motivo è che presso gli uomini prudenti ed onesti si biasimavano le predette società e aggregazioni: a loro giudizio chiunque si iscriveva ad esse incorreva nella taccia di pravità e perversione.

Infine lo stesso Predecessore nella sopra riportata Costituzione esorta i Vescovi, i Superiori Prelati e gli altri Ordinari dei luoghi a non trascurare d’invocare l’aiuto del braccio secolare qualora occorra per l’esecuzione di tale disposizione.

Tutte queste cose, anche singolarmente, non solo si approvano e si confermano da Noi, ma anche si raccomandano e si ingiungono ai Superiori Ecclesiastici; ma Noi stessi, per debito della Apostolica sollecitudine, con la presente Nostra Lettera invochiamo e con vivo affetto ricerchiamo il soccorso e l’aiuto dei Principi Cattolici e dei secolari Poteri – essendo gli stessi Principi Supremi e i titolari del potere eletti da Dio quali difensori della fede e protettori della Chiesa – affinché sia loro cura adoperarsi nel modo più efficace perché alle Apostoliche Costituzioni si prestino il dovuto ossequio e la più assoluta obbedienza. Ciò riportarono alla loro memoria i Padri del Concilio Tridentino, Sess. 25, cap. 20, e molto prima l’aveva egregiamente dichiarato l’Imperatore Carlo Magno nel Tit. I. cap. 2, dei suoi Capitolati nei quali, dopo aver comandato a tutti i suoi sudditi l’osservanza delle Sanzioni Ecclesiastiche, aggiunse queste parole: “In nessun modo possiamo conoscere come possano essere fedeli a noi coloro che si mostrano infedeli a Dio e disubbidienti ai suoi sacerdoti”. Conseguentemente impose a tutti i Presidenti e ai Ministri delle sue province che obbligassero tutti e i singoli a prestare la dovuta obbedienza alle leggi della Chiesa. Inoltre comminò gravissime pene contro coloro che trascurassero di fare ciò, aggiungendo fra l’altro: “Coloro poi che in queste cose (il che non avvenga) saranno trovati negligenti e trasgressori, sappiano che non conserveranno gli onori nel nostro Impero, ancorché siano nostri figlioli; né avranno posto nel Palazzo; né con noi né coi nostri fedeli avranno società o comunanza, ma piuttosto pagheranno la pena nelle angustie e nelle ristrettezze”.

Vogliamo poi che alle copie della presente, ancorché stampate, sottoscritte di mano di qualche pubblico Notaio e munite del sigillo di persona costituita in dignità Ecclesiastica, sia prestata la stessa fede che si presterebbe alla Lettera se fosse esibita o mostrata nell’originale.

A nessuno dunque, assolutamente, sia permesso violare, o con temerario ardimento contraddire questo testo della Nostra conferma, innovazione, approvazione, comandamento, invocazione, richiesta, decreto e volontà. Se qualcuno osasse tanto, sappia che incorrerà nello sdegno di Dio Onnipotente e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 18 marzo dell’anno dell’Incarnazione del Signore 1751, undicesimo anno del Nostro Pontificato”.

5. Oh, se i potenti di allora avessero preso in considerazione questi decreti, come lo richiedeva la salvezza della Chiesa e dello Stato! Oh, se si fossero persuasi di dover vedere nei Romani Pontefici Successori del Beato Pietro non solo i pastori e i maestri della Chiesa universale, ma anche i valenti difensori della loro dignità e gli attenti indicatori degli imminenti pericoli! Oh, se si fossero serviti del loro potere per sradicare le sette i cui pestiferi disegni erano stati rivelati ad essi dalla Sede Apostolica! Già da quel tempo avrebbero posto termine alla vicenda. Ma siccome, sia per l’inganno dei settari che occultavano astutamente le loro tresche, sia per inconsulti suggerimenti di taluni, avevano divisato di trascurare questa questione, o almeno di trattarla con noncuranza, da quelle antiche sette massoniche, sempre attive, molte altre sono germinate, assai peggiori e più audaci di quelle. Sembrò che quelle sette fossero tutte comprese in quella dei Carbonari, che era considerata in Italia e in alcuni altri Paesi la più importante fra tutte e che, variamente ramificata con nomi appena diversi, si diede a combattere aspramente la Religione Cattolica e qualunque suprema, legittima e civile potestà. Per liberare da questa sciagura l’Italia, gli altri Paesi e anzi lo stesso Stato Pontificio (in cui, soppresso per qualche tempo il governo Pontificio, quella setta si era introdotta insieme con gl’invasori stranieri) Pio VII di felice memoria, a cui Noi siamo succeduti, con una Costituzione che comincia con le parole Ecclesiam a Jesu Christopubblicata il 13 settembre 1821 condannò con gravissime pene la setta dei Carbonari, comunque fosse denominata a seconda della diversità dei luoghi, degli uomini e degli idiomi. Abbiamo pensato di includere in questa Nostra lettera anche il testo di essa, che recita come segue.

6. Il Vescovo Pio, servo dei servi di Dio. A perpetua memoria. – La Chiesa fondata da Gesù Cristo Salvatore Nostro sopra solida pietra (e contro di essa Cristo promise che non sarebbero mai prevalse le porte dell’inferno) è stata assalita così spesso e da tanti temibili nemici, che se non si frapponesse quella promessa divina che non può venir meno, vi sarebbe da temere che essa potesse soccombere, circuita dalla forza o dai vizi o dall’astuzia. Invero, ciò che accadde in altri tempi si ripete anche e soprattutto in questa nostra luttuosa età che sembra quell’ultimo tempo preannunciato in passato dall’Apostolo: “Verranno gli ingannatori che, secondo i loro desideri, cammineranno nella via dell’empietà” (Gd 18). Infatti nessuno ignora quanti scellerati, in questi tempi difficilissimi, si siano coalizzati contro il Signore e contro Cristo Figlio Suo; costoro si adoperano soprattutto (sebbene con vani sforzi) a travolgere e a sovvertire la stessa Chiesa, ingannando i fedeli (Col II, 8) con una vana e fallace filosofia e sottraendoli alla dottrina della Chiesa. Per raggiungere più facilmente questo scopo, molti di costoro organizzarono occulti convegni e sette clandestine con cui speravano in futuro di trascinare più facilmente numerosi individui a essere complici della loro congiura e della loro iniquità. – Già da tempo questa Santa Sede, scoperte tali sette, lanciò l’allarme contro di esse con alta e libera voce, e rivelò le loro trame contro la Religione e contro la stessa società civile. Già da tempo sollecitò la vigilanza di tutti perché si guardassero in modo che queste sette non osassero attuare i loro scellerati propositi. È tuttavia motivo di rammarico che all’impegno di questa sede Apostolica non abbia corrisposto l’esito cui essa mirava e che quegli uomini scellerati non abbiano desistito dalla congiura intrapresa, per cui ne sono derivati infine quei mali che Noi stessi avevamo previsto. Anzi, quegli uomini, la cui iattanza sempre si accresce, hanno perfino osato creare nuove società segrete.

A questo punto occorre ricordare una società nata di recente e diffusa in lungo e in largo per l’Italia e in altre regioni: per quanto sia divisa in numerose sette e per quanto assuma talvolta denominazioni diverse e distinte tra loro, in ragione della loro varietà, tuttavia essa è una sola di fatto nella comunanza delle dottrine e dei delitti e nel patto che fu stabilito; essa viene chiamata solitamente dei Carbonari. Costoro simulano un singolare rispetto e un certo straordinario zelo verso la Religione Cattolica e verso la persona e l’insegnamento di Gesù Cristo Nostro Salvatore, che talvolta osano sacrilegamente chiamare Rettore e grande Maestro della loro società. Ma questi discorsi, che sembrano ammorbiditi con l’olio, non sono altro che dardi scoccati con più sicurezza da uomini astuti, per ferire i meno cauti; quegli uomini si presentano in vesti di agnello ma nell’intimo sono lupi rapaci. – Anche se mancassero altri argomenti, i seguenti persuadono a sufficienza che non si deve prestare alcun credito alle loro parole, cioè: il severissimo giuramento con cui, imitando in gran parte gli antichi Priscillanisti, promettono di non rivelare mai e in nessun caso, a coloro che non sono iscritti alla società, cosa alcuna che riguardi la stessa società, né di comunicare a coloro che si trovano nei gradi inferiori cosa alcuna che riguardi i gradi superiori; inoltre, le segrete e illegali riunioni che essi convocano seguendo l’usanza di molti eretici e la cooptazione di uomini d’ogni religione e di ogni setta nella loro società. – Non occorrono dunque congetture e argomenti per giudicare le loro affermazioni, come più sopra si è detto. I libri da loro pubblicati (nei quali si descrive il metodo che si suole seguire nelle riunioni dei gradi superiori), i loro catechismi, gli statuti e gli altri gravissimi, autentici documenti rivolti a ispirare fiducia, e le testimonianze di coloro che, avendo abbandonato la società cui prima appartenevano, ne rivelarono ai legittimi giudici gli errori e le frodi, dimostrano apertamente che i Carbonari mirano soprattutto a dare piena licenza a chiunque di inventare col proprio ingegno e con le proprie opinioni una religione da professare, introducendo quindi verso la Religione quella indifferenza di cui a malapena si può immaginare qualcosa di più pernicioso. Nel profanare e nel contaminare la passione di Gesù Cristo con certe loro nefande cerimonie; nel disprezzare i Sacramenti della Chiesa (ai quali sembrano sostituirne altri nuovi da loro inventati con suprema empietà) e gli stessi Misteri della Religione Cattolica; nel sovvertire questa Sede Apostolica (nella quale risiede da sempre il primato della Cattedra Apostolica) sono animati da un odio particolare e meditano propositi funesti e perniciosi. – Non meno scellerate (come risulta dagli stessi documenti) sono le norme di comportamento che la società dei Carbonari insegna, sebbene impudentemente si vanti di esigere dai suoi seguaci che coltivino e pratichino la carità e ogni altra virtù, e che si astengano scrupolosamente da ogni vizio. Pertanto essa favorisce senza alcun pudore le voluttà più sfrenate; insegna che è lecito uccidere coloro che non rispettarono il giuramento di mantenere il segreto, cui si è fatto cenno più sopra; e sebbene Pietro principe degli Apostoli prescriva che i Cristiani “siano soggetti, in nome di Dio, ad ogni umana creatura o al Re come preminente o ai Capi come da Lui mandati, ecc.” (1Pt II,13); sebbene l’Apostolo Paolo ordini che “ogni anima sia soggetta alle potestà più elevate”, tuttavia quella società insegna che non costituisce reato fomentare ribellioni e spogliare del loro potere i Re e gli altri Capi, che per somma ingiuria osa indifferentemente chiamare tiranni (Rm III,14).

Questi ed altri sono i dogmi e i precetti di questa società, da cui ebbero origine quei delitti recentemente commessi dai Carbonari, che tanto lutto hanno recato a oneste e pie persone. Noi, dunque, che siamo stati designati come veggenti di quella casa d’Israele che è la Santa Chiesa e che per il Nostro ufficio pastorale dobbiamo evitare che il gregge del Signore a Noi divinamente affidato patisca alcun danno, pensiamo che in una contingenza così grave non possiamo esimerci dall’impedire i delittuosi tentativi di questi uomini. Siamo mossi anche dall’esempio di Clemente XII e di Benedetto XIV di felice memoria, Nostri Predecessori: il primo, il 28 aprile 1738, con la Costituzione “In eminenti”, e il secondo, il 18 maggio 1751, con la Costituzione “Providas”, condannarono e proibirono le società dei Liberi Muratori, ossia dei Francs Maçons, o chiamate con qualunque altro nome, secondo la varietà delle regioni e degli idiomi; si deve ritenere che di tali società sia forse una propaggine, o certo un’imitazione, questa società dei Carbonari. – E sebbene con due editti promulgati dalla Nostra Segretaria di Stato abbiamo già severamente proscritta questa società, seguendo tuttavia i ricordati Nostri Predecessori pensiamo di decretare, in modo anche più solenne, gravi pene contro questa società, soprattutto perché i Carbonari pretendono, erroneamente, di non essere compresi nelle due Costituzioni di Clemente XII e di Benedetto XIV né di essere soggetti alle sentenze e alle sanzioni in esse previste. – Consultata dunque una scelta Congregazione di Venerabili Fratelli Nostri Cardinali di Santa Romana Chiesa, con il loro consiglio ed anche per motu proprio, per certa dottrina e per meditata Nostra deliberazione, nella pienezza dell’autorità apostolica abbiamo stabilito e decretato di condannare e di proibire la predetta società dei Carbonari, o con qualunque altro nome chiamata, le sue riunioni, assemblee, conferenze, aggregazioni, conventicole, così come con il presente Nostro atto la condanniamo e proibiamo.

Pertanto a tutti e a ciascuno dei fedeli di Cristo di qualunque stato, grado, condizione, ordine, dignità e preminenza, sia laici sia chierici, tanto secolari che regolari, degni anche di specifica, individuale ed esplicita menzione, ordiniamo rigorosamente e in virtù della santa obbedienza che nessuno, sotto qualsivoglia pretesto o ricercato motivo, osi o pretenda di fondare, diffondere o favorire, e nella sua casa o dimora o altrove accogliere e nascondere la predetta società dei Carbonari, o altrimenti detta, come pure di iscriversi od aggregarsi ad essa o di intervenire a qualunque grado di essa o di offrire la facoltà e l’opportunità che essa si convochi in qualche luogo o di elargire qualcosa ad essa o in altro modo prestare consiglio, aiuto o favore palese od occulto, diretto o indiretto, per essa stessa o per altri; e ancora di esortare, indurre, provocare o persuadere altri ad iscriversi, ad aggregarsi o a intervenire in tale società o in qualunque grado di essa o di giovarle o favorirla comunque. I fedeli debbono assolutamente astenersi dalla società stessa, dalle sue adunanze, riunioni, aggregazioni o conventicole sotto pena di scomunica in cui incorrono sull’istante tutti i contravventori sopra indicati, senza alcun’altra dichiarazione; dalla scomunica nessuno potrà venire assolto se non da Noi o dal Romano Pontefice pro tempore, salvo che si trovi in punto di morte. – Inoltre prescriviamo a tutti, sotto la stessa pena di scomunica, riservata a Noi e ai Romani Pontefici Nostri Successori, l’obbligo di denunciare ai Vescovi, o ad altri competenti, tutti coloro che sappiano aver aderito a questa società o che si sono macchiati di alcuno dei delitti più sopra ricordati. – Infine, per allontanare con più efficacia ogni pericolo di errore, condanniamo e proscriviamo tutti i cosiddetti catechismi e libri dei Carbonari, ove costoro descrivono ciò che si è soliti fare nelle loro riunioni; così pure i loro statuti, i codici e tutti i libri scritti in loro difesa, sia stampati, sia manoscritti. A tutti i fedeli, sotto la stessa pena di scomunica maggiore parimenti riservata, proibiamo i libri suddetti, o la lettura o la conservazione di alcuno di essi; e ordiniamo che quei libri siano consegnati senza eccezione agli Ordinari del luogo o ad altri cui spetti il diritto di riceverli. – Vogliamo inoltre che ai transunti, anche stampati, della presente Nostra lettera, sottoscritti per mano di qualche pubblico Notaio e muniti del sigillo di persona investita di dignità ecclesiastica, si presti quella stessa fede che si concederebbe alla lettera originale se fosse presentata o mostrata. – Perciò a nessuno sia lecito strappare o contraddire con temeraria arroganza questo testo della Nostra dichiarazione, condanna, ordine, proibizione e interdetto. Se qualcuno osasse tentare ciò, sappia che incorrerà nello sdegno di Dio Onnipotente e dei beati suoi Apostoli Pietro e Paolo.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, nell’anno dell’Incarnazione del Signore 1821, il giorno 13 settembre, nell’anno ventiduesimo del Nostro Pontificato”.

7. Poco tempo dopo la promulgazione di questa Costituzione di Pio VII, Noi, senza alcun Nostro merito, fummo elevati alla suprema cattedra di San Pietro, e subito rivolgemmo tutta la Nostra attività a scoprire quale fosse lo stato delle sette clandestine, quale il loro numero, quale la potenza. A seguito di tale inchiesta, agevolmente abbiamo compreso che la loro baldanza era cresciuta soprattutto per l’aumentato numero di nuove sette. Fra esse in primo luogo occorre fare menzione di quella che si chiama Universitaria perché ha sede e domicilio in parecchie Università degli Studi in cui i giovani, da alcuni maestri (intesi non già ad insegnare ma a pervertire), vengono iniziati ai misteri della setta, che correttamente devono essere definiti misteri d’iniquità; pertanto i giovani vengono educati ad ogni scelleratezza.

8. Da ciò hanno tratto origine le fiamme della ribellione accese da tempo in Europa dalle sette clandestine; nonostante le più segnalate vittorie riportate dai potentissimi Principi d’Europa, che speravano di reprimerle, tuttavia i nefasti tentativi delle sette non hanno ancora avuto termine. Infatti negli stessi paesi nei quali i passati tumulti sembrano cessati, qual è il timore di nuovi disordini e sedizioni che quelle sette macchinano incessantemente? Quale lo spavento per gli empi pugnali che di nascosto immergono nei corpi di coloro che hanno destinato alla morte? Quante severe misure non di rado sono stati costretti ad adottare, loro malgrado, coloro che comandano per difendere la pubblica tranquillità?

9. Da qui hanno origine le atroci calamità che affliggono quasi ovunque la Chiesa e che non possiamo ricordare senza dolore, anzi: senza angoscia. Si contestano senza pudore i suoi santissimi dogmi e insegnamenti; si umilia la sua dignità. Quella pace e quella felicità di cui, per suo proprio diritto, essa dovrebbe godere, non sono soltanto turbate, ma del tutto sconvolte.

10. E non è da credere che sia una abbietta calunnia l’attribuire a queste sette tutti questi mali e gli altri che Noi abbiamo tralasciato. I libri che non si sono peritati di scrivere sulla Religione e lo Stato coloro che sono iscritti a queste sette, disprezzano il potere, bestemmiano la regalità, vanno dicendo che Cristo è scandalo e stoltezza; anzi, non di rado insegnano che Dio non esiste e che l’anima dell’uomo muore col corpo. I Codici e gli Statuti in cui rivelano i loro propositi e le loro regole, dimostrano chiaramente che da essi provengono tutti i mali che abbiamo ricordato e che mirano a far cadere i Principati legittimi e a distruggere dalle fondamenta la Chiesa. Questa affermazione deve essere considerata come certa e meditata: le sette, sebbene diverse nel nome, sono però congiunte tra loro dallo scellerato legame dei più turpi propositi.

11. Stando così le cose, Noi crediamo essere Nostro dovere condannare nuovamente queste sette clandestine in modo che nessuna di esse possa vantarsi di non essere compresa nella Nostra sentenza apostolica, e con questo pretesto possa indurre in errore uomini incauti o sprovveduti. Pertanto, per consiglio dei Venerabili Nostri Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa e anche motu proprio, con sicura dottrina e con matura deliberazione Nostra, Noi sotto le stesse pene comminate nelle lettere dei Nostri Predecessori che abbiamo riportato in questa Nostra Costituzione, e che espressamente confermiamo, in perpetuo proibiamo tutte le società occulte (qualunque sia il loro nome), tanto quelle ora esistenti, quanto quelle che forse si costituiranno in seguito e che si propongono le azioni sopra ricordate contro la Chiesa e le supreme potestà civili.

12. Pertanto a tutti e a ciascuno dei fedeli di Cristo di qualunque stato, grado, condizione, ordine, dignità e preminenza, sia laici sia chierici, tanto secolari che regolari, degni anche di specifica, individuale ed esplicita menzione, ordiniamo rigorosamente, e in virtù della santa obbedienza, che nessuno sotto qualsivoglia pretesto o ricercato motivo osi o pretenda di fondare, diffondere o favorire, e nella sua casa o dimora o altrove accogliere e nascondere le predette società comunque si chiamino, come pure di iscriversi o aggregarsi ad esse o di intervenire a qualunque grado di esse o di offrire la facoltà e l’opportunità di convocarle in qualche luogo o di elargire loro qualcosa, o in altro modo prestare consiglio, aiuto o favore palese od occulto, diretto o indiretto, per sé o per altri; e ancora di esortare, indurre, provocare o persuadere altri ad iscriversi, ad aggregarsi o a intervenire in siffatte congreghe o in qualunque grado di esse, o di giovare loro o favorirle comunque. I fedeli debbono assolutamente astenersi dalle società stesse, dalle loro riunioni, conferenze, aggregazioni o conventicole sotto pena di scomunica in cui incorrono sull’istante tutti i contravventori sopra descritti senza alcuna dichiarazione; dalla scomunica nessuno potrà venire assolto se non da Noi o dal Romano Pontefice pro tempore, salvo che si trovi in punto di morte.

13. Inoltre a tutti prescriviamo, sotto la stessa pena di scomunica, riservata a Noi e ai Romani Pontefici Nostri Successori, l’obbligo di denunciare ai Vescovi o ad altri competenti tutti coloro che notoriamente hanno dato il loro nome a queste società o si sono macchiati di qualcuno dei delitti ricordati più sopra.

14. Soprattutto poi condanniamo risolutamente e dichiariamo assolutamente vano l’empio e scellerato giuramento che vincola gli adepti di quelle sette a non rivelare mai ad alcuno tutto ciò che riguarda le sette medesime e a punire con la morte tutti i compagni che si fanno delatori presso i superiori, sia Ecclesiastici, sia Laici. E che dunque? Poiché il giuramento va pronunciato al servizio della giustizia, non è forse delittuoso considerarlo come un legame con il quale ci si obbliga a un iniquo omicidio e a disprezzare l’autorità di coloro che, in quanto governano la Chiesa o la legittima società civile, hanno il diritto di conoscere tutto ciò da cui dipende la sicurezza di quelle istituzioni? Non è forse somma iniquità e turpitudine il chiamare Iddio stesso a testimone e mallevadore di delitti? Giustamente i Padri del terzo Concilio Lateranense affermano:”Non si possono definire giuramenti ma piuttosto spergiuri quelli che sono diretti contro il bene della Chiesa e gl’insegnamenti dei Santi Padri“. Ed è intollerabile l’impudenza, o la follia, di chi tra questi uomini, non nel proprio cuore soltanto ma anche pubblicamente e in pubblici scritti, afferma che “Dio non esiste“, e tuttavia osa pretendere un giuramento da coloro che sono accolti nelle sette.

15. Tali sono le Nostre disposizioni rivolte a reprimere e condannare tutte queste furiose e scellerate sette. Pertanto ora, Venerabili Fratelli Patriarchi Cattolici, Primati, Arcivescovi e Vescovi, non solo chiediamo ma piuttosto sollecitiamo il vostro impegno. Abbiate cura di voi e di tutto il gregge in cui lo Spirito Santo vi pose come Vescovi per governare la Chiesa di Dio. I lupi rapaci vi assaliranno se non avrete cura del gregge. Ma non vogliate temere, e non considerate la vostra vita più preziosa di voi stessi. – Considerate per certo che da voi in gran parte dipende la perseveranza degli uomini a voi affidati nella Religione e nelle buone azioni. Infatti, pur vivendo in giorni “che sono infausti” e in un tempo in cui molti “non difendono la sana dottrina“, perdura tuttavia il rispetto di molti fedeli verso i loro Pastori che a buon diritto sono considerati ministri di Cristo e dispensatori dei suoi misteri. Fate dunque uso, a vantaggio delle vostre pecore, di quella autorità che per immortale grazia di Dio conservate nell’animo loro. Fate loro conoscere le frodi dei settari e con quanta attenzione debbano evitare di frequentarli. Grazie all’autorità e al magistero vostro, abbiano orrore della malvagia dottrina di coloro che deridono i santissimi misteri della Nostra Religione e i purissimi insegnamenti di Cristo, e contestano ogni legittimo potere. E parlerò con voi ripetendo le parole usate dal Nostro Predecessore Clemente XIII nell’Enciclica [A quo die] del 14 settembre 1758, diretta a tutti i Patriarchi, Primati, Arcivescovi, Vescovi della Chiesa Cattolica: “Vi prego: con lo Spirito del Signore siamo pieni di forza, di giustizia e di coraggio. Non lasciamo, a somiglianza di cani muti incapaci di latrare, che i Nostri greggi diventino una preda e le Nostre pecore il pasto d’ogni bestia selvatica; niente Ci trattenga dall’esporci ad ogni genere di combattimento per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Pensiamo attentamente a Colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori. Se ci arrestiamo davanti all’audacia dei malvagi, sono già crollate la forza morale dell’Episcopato e la divina e sublime potestà di governare la Chiesa; e non possiamo più continuare a considerarci, anzi non possiamo neanche più essere Cristiani, se temiamo le minacce e le insidie degli uomini perversi“.

16. Ancora con insistenza invochiamo il vostro aiuto, carissimi in Cristo Figli Nostri Cattolici Principi che apprezziamo con tanto singolare e paterno amore. Perciò vi richiamiamo alla memoriale parole che Leone il Grande (di cui siamo successori nella dignità e, sebbene indegni, eredi del nome) rivolse per iscritto a Leone Imperatore: “Devi senza esitazione comprendere che il potere regale ti è stato affidato non solo per governare il mondo ma soprattutto per proteggere la Chiesa in modo che, reprimendo gli atti di empia audacia, tu possa difendere le sane istituzioni e restituire la pace a quelle sconvolte“. Quanto al presente, la situazione è tale che per difendere non solo la Religione Cattolica ma altresì l’incolumità vostra e dei popoli soggetti alla vostra autorità, dovete reprimere quelle sette. Infatti la causa della Religione, soprattutto in quest’epoca, è talmente congiunta alla salvezza della società, che in nessun modo può essere separata l’una dall’altra. Infatti coloro che aderiscono a quelle sette sono non meno nemici della Religione che del vostro potere. Aggrediscono l’una e l’altro, meditano di abbattere l’una e l’altro. E certo non consentirebbero, potendo, che la Religione o il potere regale sopravvivessero.

17. Tanta è la scaltrezza di questi uomini astuti che quando danno la rassicurante impressione di essere intenti ad ampliare il vostro potere, proprio allora mirano a sovvertirlo. Infatti essi impartiscono molti insegnamenti per convincere che il potere Nostro e dei Vescovi deve essere ridotto e indebolito, e che ad essi devono essere trasferiti molti diritti, sia tra quelli che sono propri di questa Cattedra Apostolica e Chiesa principale, sia tra quelli che appartengono ai Vescovi che sono stati chiamati a far parte della Nostra sollecitudine. Quei settari insegnano tali dottrine non solo per l’odio truce di cui ardono contro la Religione, ma anche perché hanno la speranza che le genti soggette al vostro magistero, se per caso si avvedono che sono violati i confini posti alle cose sacre da Cristo e dalla Chiesa da Lui fondata, facilmente si inducano, con questo esempio, a sovvertire e distruggere anche la forma del regime politico.

18. Anche a voi tutti, o figli diletti che professate la Religione Cattolica, Ci rivolgiamo con la Nostra esortativa preghiera. Evitate con curagli uomini che chiamano luce le tenebre e le tenebre luce. Infatti, quale vera utilità potrebbe a voi derivare dal consorzio con uomini che ritengono di non tenere in alcun conto Iddio né tutte le più alte potestà? Essi, tramando in segrete adunanze, tentano di fare la guerra, e sebbene in pubblico e dovunque proclamino di essere amantissimi del bene pubblico, della Chiesa e della società, tuttavia in ogni loro impresa hanno dimostrato di voler sconvolgere e sovvertire ogni cosa. Essi sono simili a quegli uomini ai quali San Giovanni (2 Gv 10) comanda di non offrire ospitalità né di rivolgere il saluto; a quegli uomini che i Nostri antenati non esitarono a chiamare primogeniti del diavolo. Guardatevi dunque dalle loro lusinghe e dai discorsi di miele con cui cercheranno di convincervi a dare il vostro nome a quelle sette di cui essi stessi fanno parte. Abbiate per certo che nessuno può aggregarsi a quelle sette, senza essere colpevole di gravissima ignominia; allontanate dalle vostre orecchie i discorsi di coloro i quali, pur di ottenere il vostro assenso ad iscrivervi ai gradi inferiori delle loro sette, affermano risolutamente che in quei gradi nulla si sostiene che sia contrario alla Religione; anzi, che nulla vi si comanda o si compie che non sia santo, che non sia onesto, che non sia puro. Inoltre quel nefando giuramento che è già stato ricordato e che deve essere prestato anche per essere ammessi ai gradi inferiori, basta di per sé solo a farvi comprendere che è un delitto anche iscriversi a quei gradi meno impegnativi e partecipare ad essi. Inoltre, sebbene ad essi non siano affidate, di solito, le imprese più torbide e scellerate, in quanto non sono ancora saliti ai gradi superiori, appare però evidente che la forza e l’ardire di queste perniciose società crescono con il consenso e il numero di coloro che vi si sono aggregati. Pertanto anche coloro che non hanno oltrepassato i gradi inferiori, devono essere considerati complici di quei delitti. E anche su di essi ricade quella sentenza dell’Apostolo: “Coloro che commettono tali delitti sono degni di morte, e non solo coloro che li commettono ma anche coloro che approvano chi li compie” (Rm I, 28-29).

19. Infine, con amore profondo chiamiamo a Noi coloro che, dopo aver ricevuto la luce e aver assaporato il dono celeste ed essere fatti partecipi dello Spirito Santo, sono poi miseramente caduti e seguono quelle sette sia che si trovino nei gradi inferiori di esse, sia nei superiori. Infatti, facendo le veci di Colui che dichiarò di non essere venuto per chiamare i giusti ma i peccatori (e si paragonò al pastore che, lasciato il resto del gregge, cerca ansiosamente la pecora che ha smarrito) li esortiamo e li scongiuriamo di ritornare a Cristo. Sebbene si siano macchiati del più grave delitto, non devono tuttavia disperare della clemenza e della misericordia di Dio e di Gesù Cristo Suo Figlio. Ritrovino dunque se stessi, alfine, e di nuovo si rifugino in Gesù Cristo che ha patito anche per loro e che non solo non disprezzerà il loro ravvedimento ma anzi, come un padre amoroso che già da tempo aspetta i figli prodighi, li accoglierà con sommo gaudio. Invero Noi, per incoraggiarli quanto più possiamo e per aprire ad essi una più agevole via alla penitenza, sospendiamo per lo spazio di un intero anno (dopo la pubblicazione di questa lettera apostolica nella regione in cui dimorano) sia l’obbligo di denunciare i loro compagni di setta, sia la riserva delle censure nelle quali sono incorsi dando il loro nome alle sette; e dichiariamo che essi, anche senza aver denunciato i complici, possono essere assolti da quelle censure ad opera di qualunque confessore, purché sia nel numero di coloro che sono approvati dagli Ordinari del luogo ove dimorano. Decidiamo inoltre di usare la stessa condiscendenza verso coloro che per caso si trovano nell’Urbe. Se poi qualcuno di essi a cui è rivolto il Nostro discorso sarà così ostinato (e non lo permetta Iddio, Padre delle misericordie!) da lasciar passare quello spazio di tempo che abbiamo fissato senza abbandonare le sette per ravvedersi davvero, trascorso quel tempo, tosto avrà effetto contro di lui l’obbligo di denunciare i complici e la riserva delle censure, né potrà ottenere l’assoluzione se non da Noi o dai Nostri Successori o da coloro che avranno ottenuto dalla Sede Apostolica la facoltà di assolvere dalle censure stesse.

20. Vogliamo inoltre che ai transunti, anche stampati, della presente Nostra lettera, sottoscritti di pugno da qualche pubblico Notaio e muniti del sigillo di persona investita di dignità ecclesiastica, si presti quella fede stessa che si concederebbe alla lettera originale se fosse presentata o mostrata.

21. Perciò a nessuno sia lecito violare o contestare con temeraria arroganza questo testo della Nostra dichiarazione, condanna, conferma, innovazione, mandato, proibizione, invocazione, ricerca, decreto e volontà. Se qualcuno osasse compiere un simile attentato, sappia che incorrerà nello sdegno di Dio Onnipotente e dei Beati Apostoli Pietro e Paolo.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 13 marzo dell’anno dell’Incarnazione del Signore 1825, nell’anno secondo del Nostro Pontificato.

DOMENICA II DI AVVENTO (2019)

DOMENICA II DI AVVENTO (2019)

Stazione a S. Croce in Gerusalemme.

Semid. Dom. privil. Il cl. – Paramenti violacei.

Tutta la liturgia di questo giorno è piena del pensiero di Isaia, (nome che significa: Domini Salus: Salvezza del Signore), che è per eccellenza il profeta che annuncia l’avvento del regno del Cristo Redentore. Egli predice, sette secoli prima, che «una Vergine concepirà e partorirà l’Emanuele »  — che Dio manderà «il suo Angelo, — cioè Giovanni Battista — per preparare la via avanti a sé (Vang.) e che il Messia verrà, rivestito della potenza di Dio stesso,(I e III antif. dei Vespri) per liberare tutti i popoli dalla tirannia di satana. « Il bue — dice ancora il profeta Isaia — riconosce il suo possessore e l’asino la stalla del suo padrone; Israele non m’ha riconosciuto: il mio popolo non m’ha accolto » (I Dom. 1° Lez,) — « Il germoglio di Jesse — continua — s’innalzerà per regnare sulle nazioni » (Ep.) e « i sordi e i ciechi che sono nelle tenebre (cioè i pagani) comprenderanno le parole del libro e verranno » (Vang.). Allora la vera Gerusalemme (cioè la Chiesa) « trasalirà di gioia » (Com.) perché i popoli santificati da Cristo vi accorreranno (Grad. All). Il Messia — spiega Isaia — « porrà in Sion la salvezza e in Gerusalemme la gloria » — « Sion sarà forte perché il Salvatore sarà sua muraglia e suo parapetto » cioè il suo potente protettore. Così la Stazione è a Roma, nella Chiesa detta di S. Croce in Gerusalemme, perché vi si conservava una grossa parte del legno della Santa Croce, mandata da Gerusalemme a Roma quando fu ritrovata.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

 Introitus

Is XXX: 30.
Pópulus Sion, ecce, Dóminus véniet ad salvándas gentes: et audítam fáciet Dóminus glóriam vocis suæ in lætítia cordis vestri. [Popolo di Sion, ecco il Signore verrà a salvare tutte le genti: il Signore farà udire la gloria della sua voce inondando di letizia i vostri cuori.]
Ps LXXIX:2
Qui regis Israël, inténde: qui dedúcis, velut ovem, Joseph.
[Ascolta, tu che reggi Israele, tu che guidi Giuseppe come un gregge.]

Pópulus Sion, ecce, Dóminus véniet ad salvándas gentes: et audítam fáciet Dóminus glóriam vocis suæ in lætítia cordis vestri. [Popolo di Sion, ecco il Signore verrà a salvare tutte le genti: il Signore farà udire la gloria della sua voce inondando di letizia i vostri cuori.]

Oratio

Orémus.
Excita, Dómine, corda nostra ad præparándas Unigéniti tui vias: ut, per ejus advéntum, purificátis tibi méntibus servíre mereámur:
[Eccita, o Signore, i nostri cuori a preparare le vie del tuo Unigenito, affinché, mediante la sua venuta, possiamo servirti con anime purificate:]

Lectio

Lectio Epístolæ beáti Pauli Apostoli ad Romános.
Rom XV:4-13.
Fatres: Quæcúmque scripta sunt, ad nostram doctrínam scripta sunt: ut per patiéntiam et consolatiónem Scripturárum spem habeámus. Deus autem patiéntiæ et solácii det vobis idípsum sápere in altérutrum secúndum Jesum Christum: ut unánimes, uno ore honorificétis Deum et Patrem Dómini nostri Jesu Christi. Propter quod suscípite ínvicem, sicut et Christus suscépit vos in honórem Dei. Dico enim Christum Jesum minístrum fuísse circumcisiónis propter veritátem Dei, ad confirmándas promissiónes patrum: gentes autem super misericórdia honoráre Deum, sicut scriptum est: Proptérea confitébor tibi in géntibus, Dómine, et nómini tuo cantábo. Et íterum dicit: Lætámini, gentes, cum plebe ejus. Et iterum: Laudáte, omnes gentes, Dóminum: et magnificáte eum, omnes pópuli. Et rursus Isaías ait: Erit radix Jesse, et qui exsúrget régere gentes, in eum gentes sperábunt. Deus autem spei répleat vos omni gáudio et pace in credéndo: ut abundétis in spe et virtúte Spíritus Sancti.

 “Tutte le cose che furono già scritte, furono scritte per nostro ammaestramento, affinché per la pazienza e per la consolazione delle Scritture noi manteniamo la  speranza. Il Dio poi della pazienza e della consolazione vi conceda di avere un medesimo sentimento fra voi, secondo Gesù Cristo. Affinché di pari consentimento, con un sol labbro, diate gloria a Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo. Il perché accoglietevi gli uni gli altri come Gesù Cristo ha accolto voi a gloria di Dio. E veramente io affermo, Gesù Cristo essere stato ministro della circoncisione per la veracità di Dio, per mantenere le promesse fatte ai patriarchi: i gentili poi glorificare Iddio per la misericordia, siccome sta scritto: Per questo io ti celebrerò fra le nazioni e inneggerò al tuo nome. E altrove: Rallegratevi, o genti, col suo popolo. E ancora: “Quante siete nazioni, lodate il Signore, e voi, o popoli tutti, celebratelo. E Isaia dice ancora: Vi sarà il rampollo di Jesse e colui che sorgerà a reggere le nazioni, e le nazioni spereranno in lui. Intanto il Dio della speranza vi ricolmi di ogni allegrezza e pace nel credere, affinché abbondiate nella speranza per la forza dello Spirito santo. ,, (Ai Rom, XV, 4-13). –

L’intenzione di s. Paolo in questa lettera è di far essere certe controversie domestiche, che lo spirito di gelosia aveva suscitate tra i Giudei ed i Gentili convertiti alla fede. Quelli si gloriavano delle promesse che Dio aveva fatto ai lor padri, di dare il Salvatore, che sarebbe della loro nazione; questi rimproveravano ai Giudei la manifesta ingratitudine della quale si eran fatti colpevoli uccidendo il loro Redentore. S. Paolo dimostra agli uni come agli altri che essi devono tutto alla grazia ed alla misericordia del Salvatore.

Perché Dio è chiamato il Dio della pazienza, delia consolazione e della speranza?

Perché fa sua longanimità verso i peccatori lo determina ad aspettare la loro conversione con pazienza; perché  da Lui viene questa consolazione interiore che sbandisce ogni pusillanimità; e fa insieme trovar gaudio nelle croci; perché Egli è che ci dà la speranza di pervenire, dopo questa vita a godere Lui stesso.

Aspirazione. O Dio di pazienza, di consolazione e speranza, fate che una perfetta rassegnazione al vostro santo volere versi la gioia e la pace nei nostri cuori, e che la Fede, la Speranza e la Carità ci rechino, con la pratica delle buone opere, al possedimento del bene a cui fummo creati, e che ci attende nell’eternità, se adempiremo fedelmente le condizioni alle quali ci è stato promesso.

Graduale

Ps XLIX: 2-3; 5
Ex Sion species decóris ejus: Deus maniféste véniet,
V. Congregáta illi sanctos ejus, qui ordinavérunt testaméntum ejus super sacrifícia.
[Da Sion, ideale bellezza: appare Iddio raggiante.
V. Radunategli i suoi santi, che sanciscono il suo patto col sacrificio. Alleluia, alleluia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja,
Ps CXXI: 1
V. Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. Allelúja.
[V. Mi sono rallegrato in ciò che mi è stato detto: andremo nella casa del Signore. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt. XI:2-10

In illo tempore: Cum audísset Joánnes in vínculis ópera Christi, mittens duos de discípulis suis, ait illi: Tu es, qui ventúrus es, an alium exspectámus ? Et respóndens Jesus, ait illis: Eúntes renuntiáte Joánni, quæ audístis et vidístis. Cæci vident, claudi ámbulant, leprósi mundántur, surdi áudiunt, mórtui resúrgunt, páuperes evangelizántur: et beátus est, qui non fúerit scandalizátus in me. Illis autem abeúntibus, coepit Jesus dícere ad turbas de Joánne: Quid exístis in desértum vidére ? arúndinem vento agitátam ? Sed quid exístis videre ? hóminem móllibus vestitum ? Ecce, qui móllibus vestiúntur, in dómibus regum sunt. Sed quid exístis vidére ? Prophétam ? Etiam dico vobis, et plus quam Prophétam. Hic est enim, de quo scriptum est: Ecce, ego mitto Angelum meum ante fáciem tuam, qui præparábit viam tuam ante te. 

Omelia I

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE II.

 “In quel tempo avendo Giovanni udito nella prigione le opere di Gesù Cristo, mandò due de’ suoi discepoli a dirgli: Sei tu quegli che sei per venire, ovvero si ha da aspettare un altro? E Gesù rispose loro: Andate, e riferite a Giovanni quel che avete udito e veduto. I ciechi veggono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, si annunzia ai poveri il Vangelo; ed è beato chi non prenderà in me motivo di scandalo. Ma quando quelli furono partiti, cominciò Gesù a parlare di Giovanni alle turbe: Cosa siete voi andati a vedere nel deserto? una canna sbattuta dal vento? Ma pure che siete voi andati a vedere? Un uomo vestito delicatamente? Ecco che coloro che vestono delicatamente, stanno ne’ palazzi dei re. Ma pure cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico io, anche più che profeta. Imperocché questi è colui, del quale sta scritto: Ecco che io spedisco innanzi a te il mio Angelo, il quale preparerà l a tua strada davanti a te” (Matt. XI, 2-10).

Il divin Figliuolo incarnatosi e fattosi uomo per nostro amore non lasciò di essere vero Dio; e per conseguenza tutti gli insegnamenti, che uscirono dalla sua bocca nel corso della sua vita mortale, sono tutti insegnamenti divini. È questa una delle verità fondamentali di nostra santa Religione, alla quale importa, che noi prestiamo tutto l’assenso della nostra fede, se vogliamo essere veri credenti, figliuoli di Dio e della Santa Chiesa cattolica. E tanto più importa, che noi in questi tempi manteniamo viva e ferma la nostra credenza in questa capitalissima verità, in quanto che anche in questi tempi sciaguratamente abbondano degli empì, i quali, pur facendosi malignamente a lodare l’ingegno, la bontà, la grandezza di Gesù Cristo, si studiano tuttavia in modo veramente diabolico di strappare dalla sua testa la corona della sua Divinità. Ora, a me pare che il Vangelo di questa mattina ci faccia appunto conoscere:

1° quanto importi di credere fermamente nella Divinità di nostro Signor Gesù Cristo e de’ suoi santissimi insegnamenti;

2° quale sia la ragione precipua, su cui si ha da basare questa nostra fede:

3° con quali mezzi riusciremo facilmente a mantenerla ed accrescerla in cuor nostro. State attenti.

1. Qualche tempo prima che il Salvatore uscisse di Nazaret per cominciare la sua vita pubblica, sulle rive del Giordano comparve un uomo straordinario. Egli menava una vita austera; portava un rozzo e grossolano vestimento; non si cibava che di locuste e miele selvatico; e predicava con grande ardore la penitenza. Era S. Giovanni Battista. Aveva egli ricevuto da Dio la missione di preparare gli uomini a ben ricevere il divin Redentore, che stava per dar principio alla sua predicazione, e rendere così, come osserva S. Giovanni Evangelista, testimonianza della Divinità di Gesù Cristo. E molti accorrendo ad udire le sue prediche, commossi e pentiti dei loro peccati, si convertivano e ricevevano il suo battesimo. Anzi non pochi di costoro, animati dalla santità della vita, che S. Giovanni menava, si facevano suoi discepoli, cercando di imitarlo nella sua penitenza. Tuttavia erano ben lungi dall’avere la perfezione del loro maestro. Ed in vero avendo il divin Redentore cominciata la sua vita pubblica, e con la sua predicazione, e co’ suoi esempii, e coi suoi miracoli essendosi ancor Egli guadagnati molti seguaci, i discepoli di Giovanni Battista furono presi da una secreta invidia contro del divin Salvatore, poiché non riconoscendolo ancora per il Messia, avrebbero desiderato che nessuno fosse maggiore e stimato di più del loro maestro. È bensì vero che Giovanni Battista aveva già detto ripetutamente che il Messia era venuto, che desso viveva in mezzo ai Giudei, benché essi non lo conoscessero, che era l’Agnello di Dio, Colui che toglie i peccati del mondo, e che in quanto a lui osava appena chiamarsi l’amico dello sposo e che non era degno di sciogliere i legacci delle sue scarpe. Tuttavia i suoi discepoli non vi prestavano fede. L’austerità della sua vita, la grandezza delle sue virtù, la gagliardìa della sua parola facevano impallidire dinnanzi ai loro occhi la figura di Gesù, che era tanto più dolce e che avevano appena intraveduto di lontano. Ed ecco il perché non potevano sentirne a parlare senza provarne gelosia e persino senza muovere dei lamenti e fare delle critiche sopra di Gesù Cristo e de’ suoi seguaci. Ma in quel tempo S. Giovanni era stato messo in prigione da Erode Antipa, perché aveva avuto il coraggio di rimproverarlo della sua vita peccaminosa. E la prigione, in cui era stato rinchiuso, si trovava in una fortezza assai considerevole, chiamata Machera, costruita all’estremità della Perea. Ivi venivano per trovarlo i suoi discepoli e facilmente ottenevano licenza di vederlo e di intrattenersi con lui. Ora, in una di queste visite avendo essi parlato a Giovanni, forse con non poco astio, delle opere meravigliose. che andava compiendo Gesù Cristo, fu allora che S. Giovanni si decise ad un grande atto, a convincere cioè i suoi discepoli, che Gesù Cristo era veramente il Figliuol di Dio incarnato, il Messia promesso fin dal principio del mondo. E che fece egli a questo fine? Ce lo dice il Vangelo di oggi: In quel tempo avendo Giovanni udito nella prigione le opere di Gesti Cristo, mandò due dei suoi discepoli a dirgli: Sei tu quegli che sei per venire, ovvero si ha da aspettare un altro?  Dalle quali parole non abbiamo neppure menomamente a supporre, che S. Giovanni dubiti egli della missione e della Divinità del Salvatore. Ed invero, poiché egli, avendolo battezzato, aveva pur visto lo Spirito Santo discendere sopra il suo capo; poiché l’aveva egli stesso designato, a parecchie riprese, quale Agnello di Dio, poteva ancora mostrare la menoma esitazione a questo riguardo? Oh per certo vivissima e fermissima era la sua fede in Gesù Cristo! Mai suoi discepoli invece, di questa fede mancavano ancora affatto. Ed erano giovani, ardenti, pieni di entusiasmo per lui, acciecati dall’amore, che gli portavano, tali insomma, che anche dopo la sua morte difficilmente si sarebbero dati a credere nella Divinità di Gesù Cristo ed a seguirlo. Non ignorando adunque S. Giovanni come quanto prima avrebbe perduta la vita, e d’altra parte riconoscendo l’importanza suprema pe’ suoi discepoli e per tutti gli uomini di credere a Gesù Cristo nostro Dio ed ai suoi divini insegnamenti, con un’accondiscendenza piena di carità piglia sopra di sé il dubbio dei suoi discepoli e li manda così al Figliuol di Dio, perché si mettano in relazione con la sua persona, perché ascoltino la sua predicazione, siano testimoni dei suoi miracoli e si convincano, che Egli compie realmente tutte le opere, che deve compiere il Messia: opera Christi; ecredano ancor essi vivamente e fermamente allasua Divinità. Non gli importa punto, che per tal guisa Gesù Cristo cresca ed egli diminuisca nella estimazione del mondo; anzi è tutto ciò, che ardentemente desidera; questa è la consolazione, acui anela sul limitare della sua tomba, vedere tutti i suoi discepoli, senza eccezione alcuna, farsi credenti in Gesù Cristo e discepoli di Lui. Or non è egli vero, o miei cari, che S. Giovanni per tal modo ci apprende l’importanza di raffermarci sempre più nella fede di questa verità capitale di nostra santa Religione, la Divinità di nostro Signor Gesù Cristo e dei suoi santi insegnamenti?

2. Ma il Vangelo di oggi, dopo di averci dato nell’agire del Battista un tale ammaestramento, ci fa pur conoscere, su quale precipua ragione dobbiamo noi basare e raffermare una tal fede. Difatti prosegue nel dire, che a quei due discepoli, inviati da Giovanni a Gesù, egli rispose: Andate e riferite a Giovanni quel che avete udito e veduto. I ciechi veggono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, si annunzia ai poveri il Vangelo. Ed è beato chi non prenderà in me motivo di scandalo. Notate adunque: alla domanda dei discepoli di Giovanni, il divin Redentore, che ben conosceva le sante intenzioni del suo Precursore, non risponde punto direttamente: Sì, Io sono il Messia, da quaranta secoli promesso ed aspettato. E d’or innanzi cessate di desiderare, cessate di sperare; avete in me quel Figliuolo di Dio, che compie tutta la vostra speranza e realizza tutti i vostri desideri. No, il Salvatore non tiene questo linguaggio, che senza dubbio non avrebbe convinto i discepoli a lui spediti; ma per far loro conoscere la verità si appiglia ad un’altra risposta, che fu ad un tempo la più prudente, la più modesta e la più convincente, che loro si potesse dare. Essendo Egli circondato da poveri, da ammalati, da fanciulletti con le loro madri, ed avendo già cominciato, prima ancora che gli inviati di Giovanni arrivassero, a benedire gli uni, a guarire gli altri, a dare a tutti consolazione, continuò dopo l’arrivo e la domanda di quelli, sotto ai loro stessi occhi, ad operare prodigi, risanando molti dalle loro malattie e dalle loro piaghe, cacciando gli spiriti maligni dagli ossessi, donando la vista ai ciechi e l’udito ai sordi, raddrizzando degli storpi e dicendo a tutti i poverelli, che lo circondavano, parole di vita eterna.Compiute queste opere divine, il divin Redentore condusse invincibilmente quei discepoli di Giovanni a questa conclusione: Non v’ha che un Dio, che possa compiere siffatte meraviglie; non v’ha che un Dio, il quale possa agire così, epperò questo Gesù, che così opera, è veramente Dio. Difatti essendo i miracoli un’eccezione all’ordine della natura reclamano per autore l’Autore stesso della natura. Essendo fatti soprannaturali, devono avere per causa un Essere soprannaturale. Essendo operazioni, che trascendono le forze create, esigono una forza increata, onnipotente, che li possa produrre. I miracoli insomma richiedono altamente Iddio per autore, Colui, cioè, « che solo fa grandi meraviglie » (Salm. XXXV, 4) e che, essendo il Signore e Padrone della natura, ne può momentaneamente sospendere ed alterare il corso ordinario. Gesù Cristo pertanto, che di sua propria virtù aveva operato strepitosi miracoli alla presenza di quei discepoli di S. Giovanni Battista, doveva essere dai medesimi riconosciuto e creduto per Dio. Osservate però, almen di passaggio, che dissi i miracoli di Gesù Cristo per confermare la sua Divinità essere stati da Lui operati di sua propria virtù, perché nessuno tragga la falsa conseguenza, che si dovrebbe riconoscere come Dio chiunque operi dei miracoli. Perciocché anche gli Apostoli e molti altri Santi operarono dei miracoli, ma tra i miracoli dei Santi e quelli di Gesù Cristo corre appunto questo divario, che i miracoli del Redentore furono da Lui operati per sua propria virtù e possanza e per provare quello che diceva di se stesso, affermandosi Dio, mentre invece i miracoli degli Apostoli e dei Santi furono e sono operati nel nome di Dio, cioè per l’intervento della sua virtù e possanza divina e per manifestazione della stessa, o per confermare la verità di quello che Gesù Cristo affermò di se stesso ed insegnò agli uomini. Ciò osservato, non vedete adunque, o miei cari, come Gesù Cristo stesso ci apprende, che una delle ragioni principali, su cui dobbiamo raffermare la nostra fede nella sua Divinità, sono propriamente gli strepitosi miracoli, che a tal fine operò Egli e fece in seguito operare da’ suoi Apostoli? Senonchè, domanderà qualcuno di voi, è proprio certo, che Gesù Cristo e gli Apostoli operarono dei miracoli a conferma della Divinità di Lui e dei suoi santi insegnamenti? Certissimo. Basta leggere i Vangeli, gli Atti Apostolici, le storie ecclesiastiche per trovarne in un numero sì grande da restarne meravigliati. Gesù Cristo ne operò di ogni sorta, sugli infermi risanandoli da ogni languore, sui morti risuscitandoli in vita, sul mare e sui venti burrascosi acquietandoli all’istante, su pochi pesci e pochi pani moltiplicandoli per saziare migliaia di persone. E più cospicuo d’ogni altro fece quello della sua risurrezione, che, al dire di S. Paolo, basta da se solo a costituire il fondamento della fede nostra. Gli Apostoli poi, i discepoli di Gesù Cristo e i loro successori fecero ancor essi tali e tanti miracoli da sembrare, come dice S. Agostino, d’aver compiute opere più meravigliose di quelle operate dallo stesso Redentore. E questi miracoli furono così realmente operati e per tal guisa divulgati, che i nemici stessi della fede cristiana, gli ebrei ed i gentili non ardirono di negarli, ma, ammettendoli pienamente, si accontentarono di attribuirli ad arte magica, come fecero, tra gli altri, Giuliano l’apostata, Gerocle, Svetonio, Celso e Porfirio. Epperò ben con ragione Tertulliano poteva dire: Non mi appello ai Vangeli, ma ricorrete pure, o Romani, ai vostri archivi, e voi, o Ebrei, leggete le vostre memorie; a queste m’appello per comprovarvi i miracoli di Gesù Cristo e degli Apostoli.D’altronde la stessa rapidissima propagazione della fede nella Divinità di Gesù Cristo e della sua dottrina è uno dei più invincibili argomenti per attestare, che dopo Gesù Cristo gli Apostoli ancor essi fecero dei miracoli. Se gli Apostoli non ne avessero fatti, dice Origene, il mondo non avrebbe giammai prestato fede alla loro parola, giammai sarebbesi convertito alla loro predicazione. Ed invero gli Apostoli non erano altro che dodici rozzi pescatori giudei, senza ricchezze, senza forza, senza autorità, senza aderenze, contrariati nel loro disegno da principi, sacerdoti pagani e filosofi. Essi predicavano un Dio crocifisso e la sua morale, che intima la guerra alle malvagie passioni; che proclama beati i poveri, i casti, gli umili, coloro, che sono perseguitati e che piangono. Eppure la fede, che predicavano, si stabilì e diffuse con tale rapidità, che Tertulliano nel secondo secolo poteva già esclamare: « Noi non siamo che di ieri e già riempiamo, o Romani, le vostre città, le vostre isole, i vostri castelli, i vostri villaggi, i vostri campi, le vostre tribù, le vostre decurie, i vostri palazzi, il vostro senato, il vostro foro; non vi lasciamo che i vostri templi; se noi ci separassimo da voi, vi puniremmo, tanta è la solitudine, che si farebbe dintorno a voi ». Quindi è che bene a ragione S. Agostino col suo celebre dilemma così stringeva gli assalitori di nostra, fede: « O la fede fu propagata coi miracoli, e per ciò stesso si rivela divina; o fu propagata senza miracoli, e questo sarebbe il massimo dei miracoli ». E Dante (Parad. XXIV), togliendone da lui il pensiero:

Se il mondo si rivolse al Cristianesmo,

diss’io, senza miracoli, quest’uno

È tal, che gli altri non sono il centesmo.

Al cospetto adunque dei tanti miracoli operati da Gesù Cristo e dagli Apostoli, per comprovare la Divinità di Lui e della sua dottrina, devesi raffermare la nostra fede e, benché in Lui e nella sua dottrina vi siano dei misteri per noi incomprensibili, dobbiamo tuttavia prestarvi umilmente e fermamente il nostro assenso, e così meriteremo anche noi l’elogio, che nello stesso Vangelo di oggi Gesù Cristo fece del vero credente: Et beatus est, qui non fuerit scandalizatus in me; ed è beato chi non prenderà in me motivo di scandalo,vale a dire, colui che non solo mi crede Dio nei miracoli, ma ancora in tutto il resto, anche nelle ignominie della mia passione e morte.

3. Finalmente nel Vangelo di oggi Gesù Cristo ci fa conoscere con quali mezzi, ossia con quali virtù, noi possiamo più facilmente riuscire a mantenere e crescere in noi la fede verso di Lui. Partiti che furono i discepoli di Giovanni, cominciò a dire di lui alle turbe: Che cosa siete voi andati a vedere nel deserto? Un canna sbattuta dal vento? Che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito delicatamente? Ecco che coloro che vestono delicatamente, stanno nei palazzi dei re. Ma pure che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico Io, anche piò che un profeta Imperocché questi è colui del quale sta scritto: Ecco che io spedisco innanzi a te il mio Angelo, il quale preparerà la tua strada davanti a te. – Con questo ultimo tratto del Vangelo Gesù Cristo fa spiccare due virtù caratteristiche di S. Giovanni Battista, che sono l’umiltà e la purità; anzitutto l’umiltà nell’esaltarlo, conforme a quello, che Egli disse: Chi si umilia, sarà esaltato (Luc. XIV, 11), ed in secondo luogo la sua purità col chiamarlo col nome di Angelo, non solo per riguardo alla sua missione, ma propriamente ancora per il suo grande amore alla castità, di cui fra breve sarebbe stato il glorioso martire. Ora poiché abbiamo riconosciuto in Giovanni Battista il Santo così sollecito della fede in Gesù Cristo e nei suoi insegnamenti, possiamo dall’elogio che Gesù Cristo ne fece, imparare altresì come le due virtù, che maggiormente ci possono giovare a raffermare e crescere in noi la fede, sono appunto l’umiltà e la purità. Le anime orgogliose non sono capaci di fede. Iddio resiste alle anime superbe, mentre invece comunica con abbondanza le sue grazie agli umili. E gli umili per mezzo dell’abbondanza delle grazie divine potranno sempre più raffermarsi nella fede, poiché una di queste specialissime grazie, che il Signore fa loro è quella di illuminarli sempre di più intorno alle verità della fede, per cui diventi ognor più forte l’adesione della loro anima alle medesime. È quello, che Gesù fece pure intendere in quella breve, ma bellissima preghiera: Confiteor libi, Pater, Domine cæli et terræ, quia àbscondisti hæc a sapientibtis et prudentibus, et revelasti ea parvulis: Io ti ringrazio,o Padre, Signor del cielo e della terra, perché hai tenute occulte queste cose, cioè le grandezze de’ miei misteri, ai sapienti ed ai prudenti del mondo, ele hai invece rivelate a coloro, che per la loro semplicità ed umiltà rassomigliano ai piccolini (Matt. XI, 25). – Ma insieme coll’umiltà ci vuole la purità. Quando un cuore è puro, candido, innocente facilmente si fida: ed è perciò, che un Cristiano di costumi illibati ripeterà mai sempre con una tranquillità e sicurezza ammirabile, la quale trionfa di qualsiasi scherno degli increduli: Scio, cui credidi (2. Tim. I, 12): So bene a chi presto fede. So che presto fede a un Dio, che di certo non si inganna, né inganna giammai. E per soprappiù riceve dalla grazia di Dio il medesimo rinforzo, che si riceve per l’umiltà, giacché Gesù Cristo ha parlato chiaro: Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt(Matt. V, 8): Beati i mondi di cuore, perché vedranno Dio, non solo negli splendori del cielo, ma ancora qui sulla terra, nelle oscurità della fede, divenute per loro come trasparenti. Ma se invece il cuore è guasto, corrotto, impuro, allora la fede, se non lo è ancora del tutto, ne sarà quanto prima sbandita. Eh sì! Un Dio, che vede tutte le azioni e scruta persino le reni e i cuori, un Dio, che, se premia i buoni, castiga pure i cattivi, un Dio, che, se tiene apparecchiato il Paradiso ai primi, ha creato l’inferno per i secondi, sono verità troppo incomode per il sensuale. E per cacciar via i rimorsi, che lo colpiscono nel suo vivere disonesto, comincia dal dirsi: Ma? Ma?..„. Sarà poi vero questo? Sarà poi vero quello? E finisce per dire: No, non è vero, io ho letto…., io ho studiato…., io ho capito, che la fede cattolica non è che un ammasso di favole. Disgraziato!… L’incredulità è un guanciale assai comodo per la disonestà. Guardiamoci adunque, o carissimi, dalla superbia e dalla disonestà: amiamo e pratichiamo con ardore l’umiltà e la castità, ed allora potremo avere la certezza di conservare nel cuor nostro viva e ferma la fede. Al termine della vita avremo la gioia di poter dire a noi stessi: Fidem servavi in reliquo reposita et mihi corona(2. Tim. IV, 8): ho conservato la fede, non mi resta che andare a ricevere la corona della mia fedeltà, e di sentire nel cuore a risuonare la voce divina, che ci dirà: Fides tua te salvum fecit: La tua fede ti ha salvato (Marc. X, 52).

II OMELIA

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

DISCORSO PER LA II DOMENICA DELL’AVVENTO

Sopra la necessità della penitenza.

“Parate viam Domini, rectas facite semitas ejus”. Matth. III.

Preparare le strade del Signore, far conoscere agli uomini il Messia da tanti secoli aspettato a prender loro le disposizioni con cui il dovevano ricevere; tale fu, fratelli miei, il nobile impiego cui la divina provvidenza aveva destinato s. Giovanni Battista, e ch’egli adempì con tutto lo zelo di cui fu capace; fu quest’angelo inviato da Dio che convertir doveva molti de’ figliuoli d’Israele, che doveva precedere il Messia per guadagnargli i cuori e preparargli un popolo perfetto. Ma qual mezzo questo divin precursore insegnò ai popoli che l’ascoltavano, per disporsi a ricevere la grazia di salute che veniva loro presentata? Niun altro che la penitenza; questa era il soggetto ordinario delle sue prediche! Preparate, diceva loro le strade del Signore: rendete diritti i suoi sentieri, fate frutti degni di penitenza: Parate viam Domini, rectas facile semitas eius…, facite fructus dignos pænitentiæ (Matth. 5, Luc. 5). E perché  non ho io in quest’oggi, fratelli miei, la voce e le virtù del santo precursore per esortarvi sì efficacemente, come faceva egli, a disporvi con la penitenza alla venuta del Messia? Ilfigliuolo di Dio è venuto in questo mondo per apportarvi la salute; deve venire ancora per giudicare gli uomini sopra l’abuso che avranno l’atto delle grazie che ha loro meritate. Ora il mezzo di partecipare alle grazie del Salvatore e di preservarvi dai colpi della sua giustizia si è la penitenza; e perciò la Chiesa in questo santo tempo dell’Avvento ci mette innanzi agli occhi le due venute di un Dio Salvatore e di un Dio vendicatore; ci rappresenta S. Giovanni Battista che predica la penitenza ai popoli, ed incarica i suoi ministri di esortarvi ad essa con le medesime parole di cui egli servivasi per predicare questa virtù. Fate dunque penitenza, fratelli miei, preparate le vie del Signore: parate viam Domini, pœnitentiam agite. La penitenza vi è necessaria per uscir dallo stato del peccato: prima parte. Se giusti, avete tuttavia bisogno della penitenza per preservarvi dalla contagione del peccato: seconda parte.

I.° Punto. Se l’uomo avesse avuta tanta gratitudine verso la bontà di Dio per conservar il tesoro dell’innocenza di cui arricchito l’aveva nella sua prima origine, non avrebbe avuto bisogno di far penitenza. Ma avendo perduto quel tesoro col cattivo uso della sua libertà, la penitenza è divenuta per lui un obbligo indispensabile, perché non v’ha che la penitenza che riparar possa il disordine e le conseguenze del peccato. Ed in vero che consiste la malizia del peccato; e quali ne sono le conseguenze? Ogni uomo che trasgredisce la legge del Signore si rende colpevole verso di Lui dell’ingiuria più atroce; porta nello stesso, tempo a sé medesimo il colpo più fatale, si rivolta contro un sovrano cui è debitore di quanto ha, e da cui in tutte le cose dipende: ecco la malizia del peccato. Si priva della grazia del suo Dio, senza la quale gli è impossibile di salvarsi; ecco la conseguenza e l’effetto funesto del peccato. Ora non v’è che la penitenza la quale calmar possa l’ira di Dio e riparar l’ingiuria che gli ha fatto il peccato. Non v’è che la penitenza che possa rimettere l’uomo in grazia con Dio, e guarire la piaga profonda che il peccato ha fatto all’anima di lui: donde io conchiudo che la penitenza è necessaria al peccatore come giustizia, e come rimedio: giustizia per rapporto a Dio, rimedio per rapporto a lui stesso. Rinnovate la vostra attenzione. Essendo Iddio nostro primo Principio, e nostro ultimo fine, ella è cosa indubitata che noi viver non dobbiamo che per Lui; ciascuna delle nostre azioni deve essere un omaggio alla sovranità del suo Essere, e con la più perfetta sottomissione ai suoi ordini riconoscer conviene l’intera dipendenza, che da noi esige. Or che fa l’uomo che offende Dio? Tributa ad un oggetto creato un culto, un incenso, che non è dovuto che a Dio solo, invola a Dio la gloria che ritornar gli deve da tutte le sue azioni e con ciò anche si rende colpevole verso Dio dell’ingiustizia la più rea. Ma Iddio, che comanda di riparar le ingiurie fatte ad altri e risarcirli dei torti da loro sofferti, non obbligherà il peccatore a riparar la gloria e l’onore, che rapito gli ha il peccato? Non esigerà Egli che sia vendicata la sua colpa, o coi rigori di una penitenza volontaria, o coi castighi dell’ira divina? Or io vi chiedo, v’è forse a deliberare? E non torna più a conto punir noi medesimi le ribellioni del nostro cuore, che di sforzar l’Onnipotente a prenderne una strepitosa vendetta? Ah! fratelli miei, ammiriamo la bontà del Dio che noi serviamo. Vuol pure rimettere la sua causa nelle nostre mani, ci stabilisce giudici tra Lui e noi, contento è dei nostri sforzi, se realmente facciamo quando dipende da noi per soddisfare la sua giustizia. Nulla dimeno qualunque cosa fare noi possiamo, la nostra soddisfazione uguaglierà mai quella, che si farebbe Egli stesso, quando ci opprimerebbe del peso delle sue vendette? Mentre e chi può comprendere, dice il Re-Profeta, sin dove giunger può l’ira di Dio? Quis novit potestatem iræ suæ (Ps. LXXXIX)? E che cosa è una penitenza di corta durata, di pochi momenti, in paragone di una penitenza eterna? Che cosa è un dolore leggero in confronto degli orrendi tormenti di un fuoco che non si estinguerà giammai? Che cosa è una lagrima, un sospiro di un cuor contrito ed umiliato in paragone dei rammarichi pungenti ed eterni, in confronto di un mare di lagrime che verseranno i reprobi nell’inferno? Con tutto ciò questa lagrima, questo sospiro di un cuore sinceramente pentito, questa breve penitenza della vita presente cancellar possono i peccati tutti; benché in gran numero moltiplicati, possono disarmare tutto lo sdegno di un Dio vendicatore: laddove tormenti estremi nel loro rigore, eterni nella loro durata, non mitigheranno mai questo divino sdegno; le lagrime dei dannati non cancelleranno mai la minima delle loro colpe. Ah! fratelli miei, e non sareste voi molto ciechi e molto crudeli contro di voi medesimi, se non vi profittaste di un mezzo sì facile che vi presenta nella penitenza per calmare la sua collera, rientrar in grazia con Lui e guarire nello stesso tempo la piaga mortale dal peccato cagionata all’anima vostra? Bisogna per verità che questa piaga sia assai profonda, poiché nell’istante che l’anima pecca, ella muore, vale a dire, ella perde la vita della grazia, l’amicizia del suo Dio, il diritto che aveva alla celeste eredità: Anima quæ peccaverit, ipsa morietur (Ezech. XVIII). Nello stesso momento diventa schiava del demonio, l’oggetto delle vendette eterne. Che grande disgrazia! e qual rimedio vi si può recare? Niun altro, fratelli miei, che la penitenza: essa sola può darvi l’accesso al trono della misericordia ed attirare sopra di voi il dono prezioso della grazia che risana la piaga dei peccati. Se il peccato dà la morte all’anima, la penitenza le dà la vita; se il peccato la rende nemica di Dio, la penitenza la riconcilia con Lui; se il pecca to chiude il cielo al peccatore, la penitenza sola può aprirglielo: dico la penitenza, perché infatti, secondo l’oracolo di Gesù Cristo medesimo, siamo sicuri di eternamente perire, se non cancelliamo della penitenza i nostri peccati. Si pœnitentiam non egeritis, omnes similiter peribitis (Luc. XV). Notate, fratelli miei, col Crisostomo la forza di quelle parole; il Salvatore paragona la necessità della penitenza con quella del Battesimo; siccome ha detto del Battesimo che chiunque non sarà rigenerato nelle sue acque salutevoli non entrerà mai nel cielo: nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu Sancto (Jo. V), allo stesso modo dice della penitenza, che senza di essa non vi è speranza alcuna per il regno eterno: vale a dire che siccome il Battesimo ci è necessario per cancellare il peccato originale, che ci chiude l’entrata del cielo; così la penitenza ci è necessaria per cancellare il peccato attuale, che ci fa perdere il diritto che avevamo alla celeste eredità: cioè che siccome un fanciullo che muore senza Battesimo, quantunque non vi abbia colpa alcuna, non sarà mai salvo; così anche un peccatore, che muoia senza aver fatto penitenza noi sarà giammai, sebbene non abbia potuto far questa penitenza, o per non averne avuto il tempo o per non avervi pensato: il che chiamano i teologi necessità di mezzo, cioè a dire necessità sì grande per la salute che nessun altro mezzo può supplirvi: diversa in ciò dalla necessità di precetto, da cui può uno essere dispensato per qualche legittima ragione. – Se digiunar non potete per debolezza di sanità, se non potete ascoltare la Messa a motivo di qualche legittimo impedimento, voi non sarete riprovati per non avere soddisfatto a tali obbligazioni. Ma se avete peccato, qualunque opera buona possiate voi praticare, se non fate penitenza, non v’ha salute per voi. La sola penitenza è quella che distrugger può il muro di separazione che il peccato ha formato tra Dio e voi; ed essa sola può rimettervi nel numero dei figliuoli di Dio e ristabilirvi nei diritti che avete perduti per lo peccato : Si pœnitentiam non egeritis, omnes etc. – Al contrario, se voi fate penitenza, siete certi di trovar grazia presso il trono della misericordia di Dio; il vostro perdono è affatto sicuro. voi avete per mallevadore la sua divina parola e la sua fedeltà nelle sue promesse. Convertitevi a me, vi dice, ed io mi convertirò a voi: Convertimini ad me, et ego convertar ad vos (Zach. 1) Se l’empio farà penitenza delle sue iniquità, Io lo dimenticherò, fossero pur esse moltiplicate all’infinito. Testimonianze che assai consolano, fratelli miei; mentre facendo sentire al peccatore la necessità della penitenza, gliene fanno conoscere la virtù e l’efficacia; e per rendervi questa verità più sensibile, richiamatevi alla memoria l’esempio dei Niniviti. Sono essi da un profeta minacciati di una prossima rovina: fra giorni quaranta, dice loro, la vostra città sarà distrutta. Ricorrono essi perciò alla penitenza, si coprono di cenere e di cilizio: tutti, giovani e vecchi, si condannano al digiuno più rigoroso e disarmano l’ira del Signore; questa città, che doveva essere distrutta a cagione delle sue iniquità, vien conservata a cagione della sua penitenza. Ah! quanto facilmente tocca il cuore di Dio un peccatore penitente e contrito! Egli ne dispone per così dire a suo grado; e ciò chiaramente ce lo fa vedere la parabola del figliuol prodigo. Un padre, dice Gesù Cristo, aveva due figliuoli: il più giovane, annoiato di vivere nella casa paterna ed in una dipendenza che faceva la sua felicità, domanda al padre la porzione dei suoi beni per andarsene in paese straniero, dove, dopo aver dissipato quanto aveva portato seco, ridotto si vide all’estrema miseria, obbligato di vendere la sua libertà, ed abbandonato in preda alla fame, sino a desiderar il nutrimento dei più vili animali. In questo stato si ricorda degli agi che provava nella casa paterna; la rimembranza delle tenerezze di suo padre gli fece prendere la risoluzione di ritornare a lui e di chiedergli perdono nell’amarezza del cuore. Parte, arriva vicino a suo padre, il quale non aspetta che il figliuolo abbia fatta tutta la strada, ma gli va incontro, l’abbraccia, Io riceve nella sua amicizia e gli fa conoscere con mille segni di tenerezza che non invano ha riposta la sua confidenza in lui; lo fa entrare in casa, gli rende le sue vesti, ordina un banchetto magnifico per rallegrarsi con i suoi amici di avere ritrovato un figliuolo che credeva perduto. – Tale è, fratelli miei, la figura consolante, che ci dà Gesù Cristo della sua bontà nel ricevere il peccatore. Ma qual è il peccatore penitente che, dopo aver imitato il figliuol prodigo nelle sue dissolutezze, lo imiti ancora nella sua conversione? Qual è il peccatore che abbandona le vie dell’iniquità, dove ha traviato, per tornare a Dio e dirgli come il figliuol prodigo coi sentimenti di un cuor contrito ed umiliato: Padre mio, io ho peccato contro il cielo e davanti a voi; Pater, peccavi in cœlum et coram te (Luc. XV). Qual è finalmente il peccatore che ripara con la penitenza e con la fedeltà nell’osservare la legge del suo Dio, i disordini della sua vita passata?

Pratiche. Riconoscete quivi, o peccatori, per frutto di questa prima riflessione, e riconosciamo tutti l’obbligo che abbiamo alla misericordia del nostro Dio, che ci ha preparato nella penitenza un rimedio alle nostre miserie. Imperciocché qual è colui, che non abbia perduta la sua innocenza col cattivo uso che ha fatto della sua libertà? Ne abbiamo la prova nella testimonianza della nostra coscienza. E che saremmo noi divenuti, se Dio, usando dei suoi diritti, come far il poteva, abbandonati ci avesse alla nostra trista sorte? Se, dopo aver irritata la sua giustizia con le nostre offese, ci fosse stato chiuso il seno della sua misericordia? L’inferno dopo questa vita toccato ci sarebbe in porzione di nostra eredità. Ma ritorniamo a Dio prontamente, ritorniamovi sinceramente: ritorniamo prontamente, per tema che, differendo, non abbiamo poi il tempo, né la grazia di far penitenza: ritorniamo sinceramente, rinunciando a quegli oggetti peccaminosi che abbiamo amati in pregiudizio dell’amore che dobbiamo all’Essere Supremo. Ritorniamo a Dio, detestando i nostri peccati con un vero dolore di averli commessi, con una ferma risoluzione di non commetterli più, di lasciarne le occasioni, di svestirne gli abiti. Tali sono gli atti di penitenza, tali gli effetti che essa dee produrre nei peccatori. Vediamo adesso la necessità per i giusti.

II° Punto. L’anima giusta ha ella bisogno di penitenza? Sì, fratelli miei, e perché? Perché in primo luogo, sebbene uno sia realmente giusto, non può tuttavia assicurarsi di aver sempre conservata la sua innocenza o di averla ricuperata con la penitenza, se perduta l’avesse col peccato. Niuno sa se è degno d’odio o di amore; perciò, qualunque precauzione abbia presa l’uomo per rientrar in grazia con Dio, dopo averlo offeso, non deve egli essere senza timore, dice lo Spirito Santo, sopra il peccato perdonato: De propitiato peccato noli esse sine metu. Sarà sempre incerto se egli ha avute tutte le disposizioni necessarie per ottener il perdono. Egli è vero che Dio non ricusa la sua grazia e la sua amicizia a chi fa quanto dipende da sé per averla. Vero è ancora che il peccatore convertito aver può delle congetture consolatrici sopra il suo stato dal testimonio della sua buona coscienza, dal cambiamento de’ suoi costumi e della sua condotta; ma benché favorevoli siano queste congetture, esse non sono segni infallibili del suo perfetto ritorno a Dio. Vi è sempre motivo di temere di non aver forse fatto dal canto suo tutto quello che doveva per ricuperare l’amicizia di Dio. E come può egli esser sicuro che il dolore che concepito ha dei suoi peccati sia stato veramente un dolore soprannaturale nel suo motivo, efficace nel suo proponimento, sufficiente nella sua estensione, tale, in una parola, quale la divina giustizia il richiede per riparare perfettamente la malizia ed il disordine del peccato? Non avrebbe certamente profanato il Sacramento della riconciliazione, avendo creduto di fare tutto quel che necessario era per ben riceverlo. Ma il Sacramento è qualche volta nullo, senza esser profanato con un sacrilegio, allorché il peccatore crede aver tutte le disposizioni necessarie, e realmente non le ha. Or in questa incertezza non dobbiamo noi sempre ricorrere alla penitenza per assicurare la nostra salute? Dio, che è ricco in misericordia e che offre sempre la grazia ai peccatore disposto a riceverla, non permetterà che quest’uomo che geme e fa penitenza del suo peccato resti frustrato di sua speranza; la grazia che non ha avuto in un tempo la otterrà in un altro; se ne ricerca di più per indurre anche i più giusti a far sempre penitenza? Ah! basta l’aver offeso una sola volta Iddio nel corso di nostra vita, dice lo Spirito Santo, per condannarci ad una penitenza sì lunga come questa vita medesima. Ma sia pure stata l’anima giusta assicurata di possedere l’amicizia di Dio, quante colpe leggiere che le sfuggono e che han bisogno d’esser espiate? Quante occasioni di cadute, a cui si trova esposta e contro cui deve stare in guardia? Ora la penitenza è ad un tempo il rimedio, ed il preservativo del peccato. Essa supplisce alla pena temporale dovuta ai peccati perdonati ed allontana la tentazione che potrebbe renderci colpevoli. Ahimè! non evvi alcuno, dice s. Agostino, così regolato nella sua condotta, la cui virtù oscurata non sia da qualche leggieri mancamenti. Una funesta esperienza ci fa pur troppo capire questa verità. Ora benché quelle colpe veniali non ci privino dell’amicizia di Dio, sono nulladimeno offese fatte alla sua divina maestà. Esse assalgono i diritti della sua giustizia, involando a Dio la gloria che rendere gli deve ogni creatura ragionevole con una perfetta obbedienza ai suoi minimi comandamenti: convien dunque riparare con una volontaria soddisfazione questa gloria offesa o aspettarsi di provare nel purgatorio i rigori della divina giustizia: quivi è dove punirà Iddio anche i suoi amici, dove farà loro espiare con un fuoco orribile che diverso non è da quel dell’inferno se non nella durata, farà, dico, loro espiare colpe e mancamenti che le penitenze fatte in questa vita avrebbero cancellati. V’è ancora di più, fratelli miei; benché la misericordia di Dio abbia perdonato il peccato mortale, in quanto alla colpa ed alla pena eterna, la sua giustizia richiede ancora che il peccatore gli porga una soddisfazione e si sottoponga ad una pena temporale, vale a dire che nella riconciliazione del peccatore con Dio la pena eterna si cangia in pena temporale, e per questo motivo s’impongono nel sacro tribunale opere di penitenze ai peccatori. Ma che cosa sono queste soddisfazioni in confronto di quello che essi meritano? Necessario è adunque che vi suppliscano con penitenze volontarie per sottrarsi ai castighi che Dio loro riserba nell’altra vita. Or chi di noi non preferirà le penitenze di corta durata alle pene rigorose che soffriransi nel purgatorio per lo spazio di più anni, prima di essere abbastanza purificati per venir ammessi nel soggiorno della gloria eterna? Fate dunque, o giusti quali voi siate, fate penitenza per liberarvi dai vostri debiti: pregate, digiunate, mortificatevi; meno vi risparmierete, più Dio vi tratterà con dolcezza. Questa penitenza, placando la giustizia di Dio, vi servirà di preservativo contro il peccato. Sono le malattie dell’anima, dice s. Bernardo, come le malattie del corpo. Quantunque una malattia sia risanata, vi resta dopo una certa languidezza che continuamente ci espone a nuove cadute, se pur non si prendono le più esatte precauzioni. Nello stesso modo il peccato, benché rimesso col Sacramento, lascia ciò non ostante dopo di sé una certa debolezza, principalmente quando è peccato d’abito, che deve farci sempre temere di nuovi mancamenti. È una piaga, segue a dire S. Bernardo, da cui è tolta la freccia, ma che conserva ancora una cicatrice pericolosa, capace di comunicare il suo veleno qualora non si applichino rimedi per arrestarlo. Ora il più proprio a preservare l’uomo dal contagio del peccato si è la penitenza: essa è come un regime di vita che sostiene l’anima e la ristabilisce in una santità perfetta. Infatti qual è la sorgente del peccato? Oimè! essa è in noi. É la nostra cupidigia, quella propensione funesta che abbiamo al male che si chiama il fomite del peccato: fomes peccati. È un fuoco che riaccendesi sempre con la presenza degli oggetti che l’irritano e l’infiammano. Bisogna dunque, per estinguerlo, bagnarlo con lagrime di penitenza; bisogna che questa penitenza ci allontani dagli oggetti capaci di trascinare le nostre inclinazioni perverse, che c’interdica non solo i piaceri vietati, ma alcune fiate ancora quelli che leciti sono e permessi. Imperciocché come mai non soccombere sotto il peso della propensione che ci trascina al male, se non vogliamo farci violenza alcuna e vogliam seguire in tutto le nostre inclinazioni, se invece di reprimere, di mortificare le nostre passioni, loro accordiamo tutto quel che domandano? – Perché mai veggonsi sì pochi giusti perseverare nello stato della grazia? Se non perché abbandonano la strada della penitenza. Troppo contenti di sé stessi per alcuni sforzi da loro fatti per uscire dallo stato di peccato, credono nient’altro resti loro a fare che riposarsi, attendendo la ricompensa che il Signore promette ai suoi eletti: invece di continuare a camminare nelle vie della penitenza, di mortificare le loro passioni, nutriscono i loro nemici domestici, che non vogliono più sottomettersi e riprendono ben presto il vantaggio: la carne si rivolta contro lo spirito, e lo spirito contro Dio: incrassatus, impinguatus recalcitravit (Deut. XXXII). Ecco la cagione della loro caduta: la stessa cagione produce i medesimi effetti; i piaceri che avevano cercati, li avevano resi colpevoli. Ritornano essi a quei piaceri, abbandonano la strada della penitenza e per una conseguenza inevitabile la legge del Signore. Ah! non così hanno operato i santi penitenti di cui onoriamo la memoria e che la Chiesa ci propone per modelli di penitenza. Mirate l’esempio del re Davide, il quale, benché assicurato da un profeta della remissione del suo peccato, si rimprovera di continuo le sue infedeltà alla legge del suo Dio; ne è sì penetrato dal dolore che nel tempo medesimo del riposo bagna il suo letto con le sue lagrime: Lavabo per singulas noctes lectum meum, lacrymis meis stratum meum rigabo (Psal. VI). Si offerisce a sopportare tutti i castighi cui vorrà la divina giustizia condannarlo: Ego in flagella paratu sums (Psal. XXXVII). Mirate un S. Pietro Principe degli Apostoli, che ha avuto la debolezza di rinnegare il suo divin Maestro: egli ne è sì fortemente pentito che i suoi occhi divengono fonti di lagrime, i quali non vengono meno che con la sua vita. Mirate una S. Maria Maddalena, quell’illustre penitente, la quale, benché assicurata dalla bocca di Gesù Cristo medesimo del perdono dei suoi peccati, si abbandona incessantemente ai rigori della penitenza, e ne diviene la vittima sino alla morte. Considerate finalmente un S. Paolo, l’Apostolo delle nazioni, il quale malgrado il testimonio della sua buona coscienza, non si crede ancora giustificato … Nihil mihi conscius sum, sed non in hoc iustificatus sum (1 Cor. IV). – Castiga il suo corpo e lo riduce in schiavitù, per la tema che ha di essere nel numero dei reprobi. Il motivo che a ciò lo induce si è il sapere che Dio stesso deve giudicarlo, che è un giudice formidabile cui nulla è nascosto e che punisce sino i desideri contro la sua santa legge formati. E voi, che vi credete giusti o che tali siete in realtà, lo siete voi più di quegli illustri penitenti di cui vi ho fatto menzione? La vostra penitenza uguagliò ella mai quella che essi hanno fatta, o avete voi tanta certezza quanta avevano essi del perdono dei vostri peccati? Perché dunque lascerete voi la via della penitenza, che essi non hanno abbandonata giammai! Siete voi meno interessati di essi ad usar tutti i mezzi possibili per assicurare la vostra predestinazione? Quantunque vi crediate giusti, e realmente lo siate, lo siete voi tanto come Gesù Cristo, il Santo dei santi? Egli ha passato sua vita nei patimenti, si è soggettato ai tormenti più atroci, alla morte più crudele. Era forse obbligato Gesù Cristo a soffrire tutti quei rigori? No, certamente; Egli non aveva alcun peccato da espiare, ma addossato erasi di soddisfare per li nostri peccati, e voleva anche servirci di modello nel far penitenza. Possiamo noi, peccatori come siamo, ricusar di camminare sulle tracce di Gesù Cristo? Non aveva Egli bisogno di far penitenza, eppure lha fatta; come non la faremo noi, cui ella è sì necessaria?

Pratiche. Di più, non troviamo in noi sempre molte cose da riformare; vanità, compiacenze, ricerche della gloria e dei piaceri, certa delicatezza sul punto d’onore, intolleranza dei disprezzi, difetto di attenzione nelle preghiere, tiepidezza, negligenze nel divino servizio, e che si io? Un serio esame ci scoprirà molti motivi di far penitenza. Applicatevi dunque, fratelli miei, a correggere tutto quello che è in voi di difettoso; fate frequenti atti di dolore sui vostri mancamenti; rinnovate di continuo le vostre buone risoluzioni; accostatevi sovente al tribunale della riconciliazione, che serve tanto a santificare i giusti che a riconciliar i peccatori; sopportate con spirito di penitenza tutte le pene annesse al vostro stato, tutte le afflizioni che vi vengono o dalla parte di Dio o dalla parte degli uomini; portate continuamente sopra di voi la mortificazione di Gesù Cristo, con la vittoria delle vostre passioni e col troncare da voi tutto ciò che lusinga i sensi. Siate fedeli a seguir una regola di vita che vi sarete prescritta. La penitenza, è vero, ha qualche cosa di ripugnante alla natura, è una strada ripiena di triboli e spine; ma considerate i vantaggi che l’accompagnano ed il termine cui essa conduce. Ah! che i santi che sono in cielo, ben contenti e soddisfatti si trovano delle penitenze che hanno fatte sulla terra: i loro travagli sono passati, i loro dolori sono finiti; ma la loro gioia non finirà mai. Soffrite dunque come essi, per godere un giorno con essi della felicità eterna. Così sia.

CREDO …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps LXXXIV: 7-8
Deus, tu convérsus vivificábis nos, et plebs tua lætábitur in te: osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam, et salutáre tuum da nobis.
[O Dio, rivongendoti a noi ci darai la vita, e il tuo popolo si rallegrerà in Te: mostraci, o Signore, la tua misericordia, e concedici la tua salvezza.]

Secreta

Placáre, quǽsumus, Dómine, humilitátis nostræ précibus et hóstiis: et, ubi nulla suppétunt suffrágia meritórum, tuis nobis succúrre præsídiis. [O Signore, Te ne preghiamo, sii placato dalle preghiere e dalle offerte della nostra umiltà: e dove non soccorre merito alcuno, soccorra la tua grazia.]

Comunione spirituale: https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Bar V: 5; IV:36
Jerúsalem, surge et sta in excélso, ei vide jucunditátem, quæ véniet tibi a Deo tuo.
[Sorgi, o Gerusalemme, e sta in alto: osserva la felicità che ti viene dal tuo Dio.]

Postcommunio

Orémus.
Repléti cibo spirituális alimóniæ, súpplices te, Dómine, deprecámur: ut, hujus participatióne mystérii, dóceas nos terréna despícere et amáre cœléstia.
[Saziàti dal cibo che ci nutre spiritualmente, súpplici Ti preghiamo, o Signore, affinché, mediante la partecipazione a questo mistero, ci insegni a disprezzare le cose terrene e ad amare le cose celesti.]

Preghiere leonine

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

Ordinario della Messa. https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

MESSA DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE (2019)

MESSA DELL’IMMACOLATA CONCEZIONE (2019)

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Is LXI: 10
Gaudens gaudébo in Dómino, et exsultábit ánima mea in Deo meo: quia índuit me vestiméntis salútis: et induménto justítiæ circúmdedit me, quasi sponsam ornátam monílibus suis. [Mi rallegrerò nel Signore, e l’ànima mia esulterà nel mio Dio: perché mi ha rivestita di una veste di salvezza e mi ornata del manto della giustizia, come sposa adorna dei suoi gioielli.
Ps XXIX: 2
Exaltábo te, Dómine, quóniam suscepísti me: nec delectásti inimícos meos super me. [Ti esalterò, o Signore, perché mi hai rialzato: e non hai permesso ai miei nemici di rallegrarsi del mio danno.]
Gaudens gaudébo in Dómino, et exsultábit ánima mea in Deo meo: quia índuit me vestiméntis salútis: et induménto justítiæ circúmdedit me, quasi sponsam ornátam monílibus suis. [Mi rallegrerò nel Signore, e l’ànima mia esulterà nel mio Dio: perché mi ha rivestita di una veste di salvezza e mi ornata del manto della giustizia, come sposa adorna dei suoi gioielli.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui per immaculátam Vírginis Conceptiónem dignum Fílio tuo habitáculum præparásti: quǽsumus; ut, qui ex morte ejúsdem Filii tui prævísa eam ab omni labe præservásti, nos quoque mundos ejus intercessióne ad te perveníre concédas.

[O Dio, che mediante l’Immacolata Concezione della Vergine preparasti al Figlio tuo una degna dimora: Ti preghiamo: come, in previsione della morte del tuo stesso Figlio, preservasti lei da ogni macchia, cosí concedi anche a noi, per sua intercessione, di giungere a Te purificati.]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ
Prov. VIII: 22-35
Dóminus possedit me in inítio viárum suárum, ántequam quidquam fáceret a princípio. Ab ætérno ordináta sum, et ex antíquis, ántequam terra fíeret. Nondum erant abýssi, et ego jam concépta eram: necdum fontes aquárum erúperant: necdum montes gravi mole constíterant: ante colles ego parturiébar: adhuc terram non fécerat et flúmina et cárdines orbis terræ. Quando præparábat coelos, áderam: quando certa lege et gyro vallábat abýssos: quando æthera firmábat sursum et librábat fontes aquárum: quando circúmdabat mari términum suum et legem ponébat aquis, ne transírent fines suos: quando appendébat fundaménta terræ. Cum eo eram cuncta compónens: et delectábar per síngulos dies, ludens coram eo omni témpore: ludens in orbe terrárum: et delíciæ meæ esse cum filiis hóminum. Nunc ergo, filii, audíte me: Beáti, qui custódiunt vias meas. Audíte disciplínam, et estóte sapiéntes, et nolíte abjícere eam. Beátus homo, qui audit me et qui vígilat ad fores meas quotídie, et obsérvat ad postes óstii mei. Qui me invénerit, invéniet vitam et háuriet salútem a Dómino.

[Il Signore mi possedette dal principio delle sue azioni, prima delle sue opere, fin d’allora. Fui stabilita dall’eternità e fin dalle origini, prima che fosse fatta la terra. Non erano ancora gli abissi e io ero già concepita: non scaturivano ancora le fonti delle acque: i monti non posavano ancora nella loro grave mole; io ero generata prima che le colline: non era ancora fatta la terra, né i fiumi, né i càrdini del mondo. Quando preparava i cieli, io ero presente: quando cingeva con la volta gli abissi: quando in alto dava consistenza alle nubi e in basso dava forza alle sorgenti delle acque: quando fissava i confini dei mari e stabiliva che le acque non superassero i loro limiti: quando gettava le fondamenta della terra. Ero con Lui e mi dilettava ogni giorno e mi ricreavo in sua presenza e mi ricreavo nell’universo: e le mie delizie sono lo stare con i figli degli uomini. Dunque, o figli, ascoltatemi: Beati quelli che battono le mie vie. Udite l’insegnamento, siate saggi e non rigettatelo: Beato l’uomo che mi ascolta e veglia ogni giorno all’ingresso della mia casa, e sta attento sul limitare della mia porta. Chi troverà me, troverà la vita e riceverà la salvezza dal Signore.]

Graduale

Judith XIII:23
Benedícta es tu. Virgo María, a Dómino, Deo excélso, præ ómnibus muliéribus super terram,
[Benedetta sei tu, o Vergine Maria, dal Signore Iddio Altissimo, piú che tutte le donne della terra].

Judith XV:10
Tu glória Jerúsalem, tu lætítia Israël, tu honorificéntia pópuli nostri. Allelúja, allelúja
[Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu l’allegrezza di Israele, tu l’onore del nostro popolo. Allelúia, allelúia]

Cant IV: 7
Tota pulchra es, María: et mácula originális non est in te. Allelúja.
[Sei tutta bella, o Maria: e in te non v’è macchia originale. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam
Luc I: 26-28
In illo témpore: Missus est Angelus Gábriël a Deo in civitátem Galilææ, cui nomen Názareth, ad Vírginem desponsátam viro, cui nomen erat Joseph, de domo David, et nomen Vírginis María. Et ingréssus Angelus ad eam, dixit: Ave, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus.
[In quel tempo: Fu mandato da Dio l’Àngelo Gabriele in una città della Galilea chiamata Nàzaret, ad una Vergine sposata ad un uomo della casa di David, di nome Giuseppe, e la Vergine si chiamava Maria. Ed entrato da lei, l’Àngelo disse: Ave, piena di grazia: il Signore è con te: Benedetta tu fra le donne.]

OMELIA

[G. Perardi, La Vergine Madre di Dio, Libr. del Sacro Cuore, Torino 1908]

L’Immacolata Concezione di Maria

Funestissima fu pel genere umano quell’ora in cui Adamo ed Eva, prestando ascolto alla mendace parola di Satana, stesero, contro il divieto di Dio, la mano al frutto proibito. Dio, prima di ammettere Adamo all’eterna felicità del cielo, volle, — come già prima dagli Angeli, — una prova di fedeltà, prova che sottometteva a Dio la mente e la volontà di Adamo. Il peccato di Adamo, che a tutta prima sembra non altro che una semplice disubbidienza, ci si rivela mostruosa infedeltà quando ne scrutiamo la natura e le circostanze. L’astenersi dal frutto vietato era per Adamo la prova della sua fedeltà a Dio, come l’onore che il militare tributa alla bandiera è prova della sua fedeltà al re ed alla patria.

Adamo fu ribelle a Dio: non mangerai, disse Dio; … mangia, disse il demonio. Adamo non ascoltò Dio, ma ascoltò il demonio; fu infedele: morrai, disse Dio; … non morrai, disse il demonio. Adamo non credette a Dio, credette al demonio; fu superbo della superbia stessa di Lucifero: sarete come dèi, conoscitori del bene e del male, disse il demonio. Per questo il comando di Dio fu trasgredito. Adamo, che era stato da Dio elevato nella creazione all’ordine soprannaturale, col suo misfatto si spogliò di tutti i doni sovrannaturali di cui Dio l’aveva favorito. Perdette la grazia santificante, il diritto al Paradiso; perdette l’immortalità del corpo, soggettandolo alla morte ed a quel cumulo di miserie e di dolori che sono indivisibili dalla morte; rotta l’armonia ch’era si perfetta tra la sua anima e Dio, venne pur meno l’armonia che regnava tra lo spirito e il corpo. Adamo aveva ricevuto quei doni per trasmetterli alla sua posterità, precisamente come un padre che riceva una fortuna da godere e trasmettere ai figli; ma se questi la dissipa, ai figli non trasmette che la povertà. Adamo dissipò quei doni sovrannaturali che avrebbe potuto e dovuto trasmettere ai figli, e questi vengono al mondo privi della grazia santificante, coll’anima macchiata, infetta della colpa del padre. E nessuno sfugge a tanta sventura. Ricchi e poveri, nobili e plebei sono uguali. Venga il bambino, quando apre gli occhi alla luce, raccolto in poveri cenci e in misera culla, o in serici panni e culla dorata, l’anima di lui porta impresso il marchio della sua disgrazia, la colpa originale, e la porterà fino a che ne sia mondato dalle acque rigeneratrici nel Battesimo. – Questa è la comune sventura dei figli d’Adamo dal primo nato, Caino, fino all’ultimo bambino che vagirà sulla terra. La sventura di tutti? Nessuno eccettuato? Oh! la festa che oggi celebriamo mi dice che vi fu nel corso dei secoli una eccezione a favore di Maria, che oggi onoriamo Immacolata nella sua Concezione. Che cosa vuol dire Immacolata Concezione? Chi ci dice che Maria sia Immacolata nella Concezione? Qual frutto dobbiamo ricavare da questa verità? Ecco le tre domande cui mi studierò oggi di brevemente rispondere a comune edificazione e vantaggio.

I. — Che cosa s’intende per Immacolato Concepimento di Maria? Quantunque la divozione e venerazione a Maria Immacolata sia tanto generale nei Cristiani vi sono molti che non solo non saprebbero rispondere ad una tal domanda, ma ne hanno essi stessi un’idea molto confusa. Mentre tanto si coltiva la scienza, si trascura così gravemente la scienza religiosa. Il mondo, che protesta di non volere ignoranti, in materia religiosa lascia poi, anzi procura che regni l’ignoranza più supina. Taluni intendono per Immacolata Concezione la perpetua Verginità di Maria; verità già definita nel V secolo dal Papa S. Siricio. Altri intendono la vita sempre pura e innocente di Maria, per cui non commise mai neppure il più piccolo peccato veniale; verità insegnata dal S. Concilio di Trento. Altri intendono semplicemente che Maria è nata già santificata. Cose tutte vere, ma che nulla hanno a fare con l’odierna festività.Ognun sa che in quell’istante in cui il corpo umano lavorato dalla potenza di Dio è capace delle funzioni vitali, Iddio lo rende animato col creare e nell’atto medesimo infondere in esso l’anima ragionevole, la quale ad esso si unisce così intimamente da formare la persona. La fede insegna che questo istante, felice pel corpo che riceve la vita, è funestissimo per l’anima che riceve la morte per la privazione della grazia. Perocché appena toccato quel corpo corrotto nella natura peccatrice del primo padre, tosto ne contrae l’infezione e la bruttura della colpa; a quella guisa – dice sant’Agostino – che un liquore, benché ottimo, vien guasto dal vaso infetto in cui viene versato. E la medesima fede ci dice che Maria per privilegio unico è per la previsione dei meriti del suo divin Figlio Gesù, Salvatore degli uomini, fu preservata dal contrarre quella colpa, quella macchia, funesta eredità di tutti i figli di Adamo; che quindi Maria in quel primo istante della vita non andò soggetta al naufragio universale, ma, per usare le parole stesse del Pontefice « fu preservata immune da ogni macchia di colpa originale ». Direte: In che cosa consiste questa colpa originale? Dice San Tommaso che la colpa originale in noi « è la privazione della giustizia originale alla quale si congiunge la «concupiscenza ». Per comprendere questo osservate ancora Adamo prima del suo peccato. Iddio l’aveva creato qual Padre di tutto il genere umano. A lui per benefizio gratuito conferì: a) la grazia santificante che elevandolo ad uno stato superiore a tutto l’ordine naturale lo disponeva all’eterna beatitudine; b) vi aggiunse la prerogativa di un intero dominio della ragione sopra i sensi, sicché questi non le si potessero mai ribellare; c) e il corpo stesso, dotò dell’immortalità, perché fosse degno dell’anima, e perciò, mediante la sottomissione a Dio e col frutto dell’albero della vita, non patisse mai danno dal contrasto dei suoi elementi. Questi doni, i quali formavano quella che è detta giustizia originale, dovevano da Adamo trasmettersi ai suoi discendenti, dov’egli si fosse conservato fedele a Dio e sottomesso ai precetti di Lui. Adamo nella sua prevaricazione, perdette i ricevuti tesori e le nobili prerogative, e conseguentemente impoverì e degradò l’umana natura, che allora tutta accoglievasi in lui, perdette i doni della giustizia originale: e noi ereditando da lui la natura umana, la prendiamo tal quale esso l’ha degradata, cioè soggetta alla morte, priva della grazia santificante, priva della sottomissione degli appetiti inferiori alla ragione. Di queste tre cose, la prima, cioè la mortalità e i dolori d’una vita corruttibile (benché siano pena della colpa di Adamo) non hanno in sé alcuna intrinseca reità, e però la vediamo assunta da Gesù Cristo nella sua Persona e non ne andò esente la divina sua Madre. Le altre due, cioè la privazione della grazia e la ribellione dei sensi, ossia la concupiscenza ribelle, costituiscono il peccato originale, con questa differenza però, dice San Tommaso, che l’essenza di questo peccato consiste propriamente nella prima, cioè nella privazione della grazia, per la quale mancanza e per la quale privazione avviene che la nostra volontà non è più sottomessa a Dio, e quindi è priva della debita rettitudine. In questo consiste l’essenza del peccato originale.Direte: si parla tanto di macchia causata nell’anima dal peccato originale. È vero; osservo però che questo si dice non per esprimere che la macchia del peccato originale sia qualche cosa di positivo, ma per adattamento al nostro modo d’intendere, e per esprimere che l’anima è priva di quella bellezza soprannaturale, che dovrebbe avere per l’elevazione allo stato soprannaturale, e di cui invece si trova spoglia per causa del peccato di Adamo. Questa privazione di bellezza è come una macchia nello stesso modo che il silenzio è mancanza di suono, il freddo mancanza di calore: « L’atto del peccato (cioè l’azione peccaminosa in Adamo) produce l’allontanamento da Dio. Al quale allontanamento tien dietro la diminuzione della bellezza, a quel modo che il moto locale importa un locale allontanamento; e come cessato il moto locale non si toglie il locale allontanamento; così cessato l’atto del peccato (di Adamo), non si toglie la macchia e perciò (per il peccato di Adamo) non rimane nell’anima nostra alcunché di positivo, ma solo alcunché di privativo; la privazione cioè dell’unione col lume divino » (S. Tommaso, S. Theol., 1-2, q. LXXXVI, a. 2). Ciò posto ci è possibile farci un’idea del singolare privilegio di Maria Immacolata nella sua Concezione, che si potrebbe esprimere così: la Concezione Immacolata consiste in questo che Maria, per singolare disposizione di Dio e in previsione dei meriti di Gesù Cristo, fu preservata dall’incorrere, come noi incorriamo, nella perdita della grazia santificante e della intera soggezione dei sensi alla volontà ragionevole; il che vuol dire che l’anima benedetta di Maria venne, dal primo istante che fu creata e unita al corpo, adorna della divina grazia, ebbe pieno dominio sul corpo e sulle passioni, di guisa che non vi fu tempo, neppure un istante, in cui non sia stata tutta bella nell’anima, tutta santa, tutta cara a Dio, non vi fu istante in cui le passioni potessero ribellarsi alla ragione. Dicendo questo non si sottrae Maria alla Redenzione, ma si riconosce redenta in modo singolare e, diremmo, più perfetto. La grazia di Gesù, che ha potere di riscattare il genere umano dal peccato originale, ha ben potuto preservare Maria: ha potuto applicare a Lei come antidoto quello che ha amministrato a noi come rimedio. E perciò dobbiamo dire di Maria nella sua Concezione che « raggiante come l’aurora del più bel giorno, bella più che la luna, eletta come il sole, esce dalle mani dell’Eterno, santa, pura, immacolata».

II. — Chi ci assicura che tutto questo sia verità, che Maria sia veramente Immacolata nella Concezione? Ce lo dicono: Dio, l’Arcangelo Gabriele, il Papa e Maria stessa.

Dio. — Dio apparve ai nostri progenitori dopo la caduta per giudicarli e consolarli. Loro strappò dapprima la confessione del loro delitto; poi, volgendosi all’autore di ogni male, che li aveva sedotti, gli disse: « Porrò inimicizia tra te e la donna, e tra il seme tuo e il seme di lei. Ella schiaccerà la tua testa e tu tenderai insidie al calcagno di lei » (Gen. III, 15). Dio è solito fare che le profezie siano tanto men chiare quanto più lontano è il giorno in cui debbono avverarsi, coperte come d’un velo che si va poi rischiarando nel corso dei tempi o con altre profezie o con serie di avvenimenti che ne precorrono il compimento. – Questa regola generale si applica alla profezia di cui trattiamo. Essa è la prima, e non ve n’è altra che abbia ricevuto poi maggior luce e maggiori schiarimenti nel corso dei secoli. Tutte le predizioni dell’antico Testamento che riguardano il Messia e la sua SS. Madre si rappiccano a quella prima promessa, come una lunga catena al suo primo anello. Adamo ed Eva non l’hanno intesa così bene come Abramo, né Abramo così bene come Davide, né Davide così bene come noi. Tuttavia Adamo ed Eva ne hanno compreso il significato generale, ne hanno tratto motivo di speranza per l’avvenire, di conforto e di gratitudine a Dio pel tempo presente. – Siccome il grado d’intelligenza che ne acquistarono serve di base alla esplicazione che ne abbiamo noi oggidì, determiniamo con precisione il senso che le hanno dato, per meglio afferrare il senso che dobbiamo darle noi. Le penose circostanze in cui si trovavano allora dopo la caduta, i pensieri che turbavano la loro mente, l’affanno che opprimeva il loro cuore, ci spiegano l’impressione che la profezia dovette produrre nell’anima loro. – La ribellione di cui si erano resi colpevoli verso Dio, aveva scompigliato la loro esistenza; lo sapevano, lo sentivano. La passata loro felicità era sparita come un sogno e l’avvenire si presenta loro minaccioso. Intorno ad essi le creature che fino a quel giorno li avevano invitati con l’armonia e bellezza loro a lodare il Signore, sembravano rinfacciar ad essi la follia e l’ingratitudine in cui eran caduti. Gli animali, che prima scherzavano vicino ad essi ed ubbidivan loro come a sovrani del mondo, fuggivano quand’essi s’avvicinavano e li minacciavano della loro collera. Il Paradiso, che fino allora era stato per essi luogo di delizie, aveva perduto le sue incantevoli bellezze; non aveva ombra per nascondere la loro onta, nè ritiro da calmare i loro terrori. Il contraccolpo della ribellione di cui si erano resi colpevoli, rimbombava sino al fondo della loro anima, e loro rivelava ad un tratto una guerra intestina di cui non avevano avuto idea. La loro nudità li faceva arrossire, il loro turbamento li copriva di vergogna; la coscienza, torturata dai rimorsi, era diventata per essi un carnefice crudele. I legami d’amore e di riconoscenza che li univano a Dio, si trovavano rotti: da figliuoli amatissimi del Padre celeste erano divenuti schiavi del demonio. Dio appariva ormai loro soltanto qual Giudice irritato. In chi potevano ancora sperare? Ingrati e ribelli, come sollevar lo sguardo a Dio? Erano ridotti alla vergogna, alla disperazione. – E intanto stava a loro dinanzi, per accrescerne il supplizio, il serpente infernale, l’artefice della loro disgrazia. Rallegravasi il demonio della loro rovina, si gloriava del suo trionfo. Aveva gettato nell’opera di Dio, il disordine. Appare il Signore: Adamo ed Eva ne hanno timore e si nascondono. Ma Dio li chiama alla sua presenza, essi ed il serpente, e mentre si aspettavano di udirsi pronunziare la terribile sentenza, che avevano meritato, odono uscire da Dio queste parole indirizzate al serpente: Porrò inimicizia tra te e la donna e tra il seme tuo e il seme di lei. Ella schiaccerà la tua testa. Che cosa intesero Adamo ed Eva di questo linguaggio di Dio? Certamente tre cose: Una Donna prodigiosa col suo Figliuolo suscitato da Dio per vendicare il loro infortunio; un’inimicizia mortale posta tra questa Donna ed il serpente; infine la vittoria totale di questa Donna e del Figlio sul serpente, vittoria che doveva annientare quella che il demonio aveva or ora riportato. Ecco quello che intesero Adamo ed Eva; ecco come nella loro sventura videro subito spiccare benigna la misericordia di Dio. E noi che cosa intendiamo adesso di quelle divine parole? – Studiamole e vi ravviseremo la promessa di Maria, Immacolata nella Concezione. – Iddio annunzia inimicizia tra il demonio e la donna: san Giovanni Grisostomo dice che questa inimicizia deve essere perpetua, perché le parole di Dio sono assolute, che perciò la Donna di cui parla Dio dev’essere perpetua ed irreconciliabile nemica del demonio; cioè dal primo istante della sua esistenza deve odiare il demonio ed esserne odiata. – Iddio dà a tale inimicizia un’importanza capitale. Lascia indeterminato il modo di redenzione, passa sotto silenzio i particolari del suo disegno; ma dice che la riparazione avverrà per l’inimicizia tra la Donna ed il demonio. Questa inimicizia ha carattere di riparazione, in quanto il peccato ha stabilito la schiavitù dell’ uomo sotto il demonio e l’inimicizia dell’uomo contro Dio; mentre l’inimicizia della Donna col demonio deve infrangere i ceppi della schiavitù umana e ristabilire l’amicizia dell’uomo con Dio. È una inimicizia singolare, diversa da quella di qualsiasi Santo, contro il demonio. È inimicizia vendicativa contro il demonio, preannunziata come oggetto di terrore al demonio quattro mila anni prima, per cui il demonio la teme, la detesta. Inimicizia reciproca tra il demonio e la Donna, per cui quella Donna sarà sempre odiata dal demonio, ed il demonio dalla Donna. In una parola è inimicizia riparatrice e vendicativa, che non deve permettere nella persona che ne è strumento ed oggetto nessuna di quelle conseguenze che sono da riparare e vendicare. Ora perché la inimicizia predetta da Dio sia tale, è necessario che Maria sia Immacolata. A questa sola condizione è possibile l’inimicizia quale fu predetta da Dio. – Ma l’inimicizia porta alla lotta, la lotta alla vittoria o alla sconfitta. Ora essendo stabilito che l’inimicizia di essere riparatrice e vendicativa contro il demonio, ne segue che di Maria dev’essere la vittoria, del demonio la sconfitta. È una vittoria predetta da Dio, vendicativa contro il demonio, e quindi il trionfo di Maria dev’essere completo. È una vittoria singolare, ben più straordinaria che non quella dei Santi. È una vittoria che dev’essere per la Donna la riparazione della sua prima sconfitta. Ed anche qui dobbiamo conchiudere che Maria dev’essere, secondo la parola di Dio, Immacolata affinché il suo trionfo sia rivestito di tutti quei caratteri che furono preannunziati da Dio. Perciò appunto Iddio volle figurato il trionfo di Maria nei trionfi di Debora, Giaele, Giuditta, Ester. Quando Ester si presentò ad Assuero per domandare la salute sua e del suo popolo, il re le disse: « Questa legge è fatta per tutti e non per te ». Ed Ester, che non è soggetta alla legge di sterminio, intercede pel suo popolo e lo salva. La legge del peccato originale non è fatta per Maria. Essa, Immacolata, intercede per l’umanità e la salva.

L’Angelo. — Il tratto più spiccante nella vita di Maria è certamente il mistero dell’Annunciazione: la domanda che Iddio per mezzo dell’Angelo fa a Maria di consentire alla divina maternità e di cooperare al più grande prodigio che Iddio si degni di operare: l’Incarnazione del Verbo. Innanzi tutto vediamo l’Angelo inchinarsi a salutare Maria. Appare l’Arcangelo Gabriele in Nazaret a Maria, ed a nome di Dio la saluta: Ave, gratia plena… benedicta tu in mulieribus. Le parole pronunziate dall’Angelo, sono del cielo; e queste parole ancora ci annunziano che Maria è Immacolata nella Concezione. Per natura l’uomo è inferiore all’Angelo, e perciò gli Angeli, apparendo agli uomini, si manifestarono sempre come superiori ad inferiori, venuti non già a recare, ma a ricevere omaggi. Qui avviene il contrario: l’Angelo s’inchina a Maria, la onora. La saluta dicendola piena di grazia. Che significano queste parole? L’Angelo non dice: « Maria, diventerai piena di grazia »; ma la saluta già piena di grazia. Quando e come Maria diventò piena di grazia? Nella sua Concezione Immacolata. L’Angelo parla di una pienezza unicaA nessuno mai è stato recato un sì prezioso annunzio. È una pienezza prodigiosa come ci dirà più tardi Maria sulle montagne di Ebron: Fecit mihi magna qui potens est. È una pienezza illimitata e pel tempo e per l’estensione. Pel tempo, e perciò dobbiamo riconoscerla piena di grazia fin dall’istante della sua Concezione. Per l’estensione: una pienezza che non ha limiti. Come potremmo noi dire a Maria: Sì, sei piena di grazia, ma non avesti la grazia d’essere Immacolata? Con qual diritto potremmo noi porre una limitazione a tale pienezza? Noi dobbiamo almeno riconoscerla piena di tutte quelle grazie che non debbono negarsi a Maria quale Madre di Dio; almeno di quelle che era conveniente fossero in Maria destinata ad essere Madre di Dio. Ora io domando: Può dirsi pienezza di grazia quella che incomincia dal peccato? quella che manca della grazia prima e principale?L’Angelo ha soggiunto: Benedetta tu fra le donne. Potreste voi ancora chiamare Maria benedetta fra le donne, quand’Ella non fosse immacolata nella sua Concezione? No, perché almeno Eva, prima del peccato, avrebbe meritato maggiori benedizioni di Maria, perché allora Eva era tutta pura, tutta santa. E ciò non potrebbe dirsi di Maria. Perché la parola dell’Angelo sia vera (e dev’essere vera perché l’Angelo l’ha pronunziata, e non come parola sua, ma di Dio di cui era messaggero), è necessario che riconosciamo Maria Immacolata.

Papa. — Gesù Cristo ha costituito la sua Chiesa affinché ci sia maestra di verità. La Chiesa è edificata sul Papa, come sua pietra fondamentale, secondo la parola di Gesù Cristo. Ora se mi domandate chi sia il Papa, vi rispondo: Il Papa è l’oracolo di Dio in terra, è il portavoce di Dio, quando c’insegna quello che dobbiamo credere o praticare per salvarci. Ascoltate: Gesù Cristo è presente nella sua Chiesa in due modi: di presenza personale, reale nell’Eucarestia. Quando noi ci prostriamo innanzi al divin Sacramento, ci prostriamo innanzi a Gesù, parliamo a Gesù, adoriamo Gesù. È pur presente di presenza d’autorità, come maestro e capo, nel Papa. Gesù nell’Eucarestia è nostra forza e nostro conforto, nostro cibo, ma non maestro. Se volete la sua parola, dovete udirla dal Papa [… il Papa “vero”, naturalmente! -ndr.-]. Egli parla in nome e con l’autorità di Gesù; o meglio: Gesù parla, insegna, ammaestra per mezzo del Papa. La parola del Papa è parola di Gesù. Il Papa c’insegna che Maria è stata Immacolata nella sua Concezione. Lo insegnò sanzionandone la festa istituita a celebrare questo mistero, incuorando alla pratica di tale divozione, solennizzandone la festività con ottava, intimando silenzio agli oppositori di tale verità, e finalmente, per bocca di Pio IX, proclamando, riconoscendo dogma di fede l’Immacolato Concepimento di Maria. – Il Papa non ha creato una verità nuova. Con la sua suprema Autorità ha riconosciuto verità di fede la dottrina della Concezione Immacolata di Maria rivelata da Dio, affermata dalle generazioni cristiane.

Maria. — E Maria fa eco alla parola del Papa. Ascoltate: Era circa il mezzodì dell’11 febbraio 1858 ed a Lourdes, una fanciulla di 14 anni, Bernardina Soubirous, aggiravasi, con due altre compagne, presso le rocce di Massabielle, in cerca di rami secchi. Le compagne passarono a guado un piccolo torrente ed essa si disponeva ad imitarle quando udì un forte rombo, come di temporale. Guardò meravigliata attorno, ma non vide nulla. Si chinò di bel nuovo per levarsi le scarpe ed entrar nell’acqua, ma fu scossa da nuovo rombo simile al primo. Ancor più sorpresa si alza e volge gli sguardi verso una vicina grotta e li posa sopra una nicchia che v’era aperta nella viva roccia. Il rosaio selvatico che tappezzava il basso di quella coi lunghi rami brulli di foglie era leggermente agitato dal vento. Ma tosto la nicchia s’illumina d’un chiarore celeste e una bellezza incomparabile risplende in mezzo a quella luce in forma di graziosa Signora, vestita d’una veste candidissima, coi fianchi cinti d’una fascia celeste, la quale, annodata sul davanti a mezzo il corpo, pendeva fino ai piedi duplicata. Avvolgevale il capo un bianco velo, il quale, svolto, copriva le spalle e scendeva giù lungo tutta la persona. Sotto la candida veste apparivano i piedi, che posavano leggermente sui rami del rosaio selvatico senza farli piegare, e sopra ciascuno di essi fioriva una rosa d’oro. Una corona da Rosario, i cui grani erano bianchi come gocce di latte e la croce d’oro, pendeva dalle sue mani fervorosamente congiunte. Dopo questa, ben altre diciassette volte ebbe Bernardina la stessa apparizione. Il 25 marzo Bernardina, che più volte aveva domandato alla Signora chi fosse, fu esaudita: Io sono, disse la Signora, l’Immacolata Concezione. La fontana scaturita ad un suo cenno, la splendida basilica ivi innalzata, i milioni di pellegrini accorsi a Lourdes sono splendide prove della verità della parola di Maria. Gli innumerevoli infermi d’ogni specie (ciechi, sordi, zoppi, paralitici, tisici, ecc.) che ogni anno guariscono con l’uso dell’acqua di Lourdes, sono l’eco continua della parola del Papa: Maria è Immacolata nella sua Concezione; sono l’ininterrotta acclamazione alla parola di Maria; Io sono l’Immacolata Concezione. Maria, con le sue grazie, coi suoi favori, coi miracoli che opera a pro dell’umanità sofferente si proclama Immacolata. E noi, con le nostre virtù, con le nostre opere buone dobbiamo proclamarci figli dell’Immacolata.

III. — La conclusione pratica ci è data dalla parola con cui Dio ci annunzia Maria Immacolata: l’inimicizia di Lei col demonio. Dio anzi annunziò l’inimicizia della progenie di Maria col demonio. Questa progenie non è solamente Gesù Redentore, ma sono ancora i Cristiani, i devoti dell’Immacolata. L’odio col demonio, e quindi una lotta continua, incessante, ecco il frutto che dobbiamo ricavare dall’odierna considerazione. L’inimicizia nostra col demonio deve quindi essere perpetua, assoluta. Tra noi ed il demonio non vi deve mai essere né tregua né pace. I sentimenti del cuore di Maria contro il demonio debbono essere i nostri. Ma non è nemico del demonio, non ha in cuore i sentimenti di Maria chi commette il peccato. Il peccato è opera del demonio. E noi lo dobbiamo fuggire. Fuggite, temete il peccato, qualunque peccato: a questa sola condizione sarete devoti dell’Immacolata e continuerete nella vostra vita l’inimicizia di Maria contro il nostro capitale nemico, il demonio. E notate che la parola profetica di Dio ha un’estensione così ampia da abbracciare di necessità tutti i Cristiani, tutti i devoti di Maria. Difatti disse Iddio al demonio: Porrò inimicizia tra te e la donna e tra il seme tuo ed il seme di Lei (Gen. III, 15). “Seme” è generalmente interpretato per progenie, ossia tutti i figli a qualunque distanza abbiano a trovarsi dalla prima Madre. E noi, come Cristiani, come devoti e perciò figli di Maria siamo progenie di Lei. Dio quindi ha posto pure come doverosa questa inimicizia tra noi e il demonio. – Oh! sentiamo tutti che il demonio è nostro nemico. E perciò siamo noi pure sempre nemici del demonio. Non è progenie di Maria chi non è nemico del demonio; cessa di essere progenie di Maria, chi cessa di essere nemico del demonio; e cessa di esser nemico del demonio chi commette il peccato. Ricordatevene!

FIORETTO. — Innanzi ad un’immagine dell’Immacolata reciteremo tre Ave, con l’invocazione: Gloria Patri, ecc, e con la giaculatoria: O Maria, concepita senza peccato, pregate per noi, che ricorriamo a voi. Di più prometteremo all’Immacolata di compiere sempre, d’or innanzi, mattina e sera, quest’ossequio e, inoltre, di portare sempre al collo la medaglia della Immacolata.

ESEMPIO. — Alfonso Ratisbone. — Alfonso Ratisbone, giovine ebreo di una delle più ricche famiglie dell’Alemagna, nemico acerrimo del Cristianesimo, recossi l’anno 1812 per diporto in Roma. Quivi crebbe il suo odio contro la Religione cristiana, e l’ardor suo per l’ebraismo. Era ormai sul punto di partire dall’eterna citta, quando andò a prendere congedo dal barone di Russiere, uomo pio e dotto, da qualche tempo di protestante convertitosi al Cattolicismo. Tento egli di condurre Alfonso alla vera Religione; ma, trovatolo ostinatissimo nell’ebraismo, lo pregò, almeno per cortesia, di lasciarsi mettere al collo la medaglia di Maria; al che egli, pur protestandosi alieno dal Cattolicismo, acconsenti. – Era il 20 gennaio 1812: Alfonso, condottovi da un amico, entra nella Chiesa di S. Andrea delle Fratte: quando ad un tratto ecco scomparirgli dagli occhi l’edificio, ed una piena di luce riversandosi sopra di lui, riempire il luogo, ove si trovava. Di mezzo a quello splendore vede, ritta in pie sull’altare, piena di maestà e di dolcezza la Vergine Maria, come sta appunto sulla medaglia miracolosa di cui parleremo domani, medaglia che è un monumento del dogma dell’Immacolata. Con la mano gli fa segno che si inginocchi, ed una forza irresistibile lo trae verso di Lei. In quel fortunato istante Alfonso apre gli occhi alla verità: e, illuminato dalla Fede, rompe in dirotto pianto. Il cuor suo non trova conforto che nello sfogarsi in caldi ringraziamenti, e domandare con le più vive istanze il Battesimo. Vi si apparecchiò per undici giorni: ed il 31 gennaio veniva rigenerato a Gesù Cristo, e Maria Santissima numerava un figliuolo di più. Tale conversione è stata dalla Santa Sede, dopo diligente esame, dichiarata miracolosa. Ogni anno si fa una festa in Roma in memoria di tanto prodigio nella Chiesa di S. Andrea delle Fratte, ove accadde il miracolo. Siamo devoti dell’Immacolata, e saremo sempre i nemici dichiarati del demonio, lo terremo sempre lontano dal nostro cuore, la grazia di Gesù abiterà sempre in noi, e Maria Immacolata ci riguarderà sempre con occhio materno, sarà sempre nostra madre e nostra DIFESA.

Preghiera di consacrazione:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/07/consacrazione-di-se-stesso-a-gesu-cristo-sapienza-incarnata-per-le-mani-di-maria/

CREDO …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Luc 1: 28
Ave, María, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, allelúja.

[Ave, o Maria, piena di grazia, il Signore è con te, tu sei benedetta fra le donne. Allelúia].

Secreta

Salutárem hóstiam, quam in sollemnitáte immaculátæ Conceptiónis beátæ Vírginis Maríæ tibi, Dómine, offérimus, súscipe et præsta: ut, sicut illam tua grátia præveniénte ab omni labe immúnem profitémur; ita ejus intercessióne a culpis ómnibus liberémur.

[Accetta, o Signore, quest’ostia di salvezza che Ti offriamo nella solennità dell’Immacolata Concezione della beata Vergine Maria: e fa che, come la crediamo immune da ogni colpa perché prevenuta dalla tua grazia, cosí, per sua intercessione, siamo liberati da ogni peccato].

Præfatio de Beata Maria Virgine

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubique grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Conceptióne immaculáta beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Coeli coelorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admitti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes: Sanctus …

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Conceptióne immaculáta della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo: Santo …]

COMUNIONE SPIRITUALE

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps LXXXVI: 3, Luc I: 49
Gloriósa dicta sunt de te, María: quia fecit tibi magna qui potens est. [Cose gloriose sono dette di te, o Maria: perché grandi cose ti ha fatte Colui che è potente].

Postcommunio

Orémus.
Sacraménta quæ súmpsimus, Dómine, Deus noster: illíus in nobis culpæ vúlnera réparent; a qua immaculátam beátæ Maríæ Conceptiónem singuláriter præservásti.

[I sacramenti ricevuti, o Signore Dio nostro, ripàrino in noi le ferite di quella colpa dalla quale preservasti in modo singolare l’Immacolata Concezione della beata Maria].

PREGHIERE LEONINE

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

ORDINARIO DELLA MESSA

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LO SCUDO DELLA FEDE (89)

LO SCUDO DELLA FEDE (89)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA.

CAPITOLO XII 

QUARTA CAUTELA. PRATICARE ESATTAMENTE LA RELIGIONE CATTOLICA

Le cautele che vi ho insinuate fin qui consistono principalmente nello schermirsi dai colpi degli avversari! L’ultima che ora vi additerò e per sentimento di tatti i savi la più efficace vi renderà impenetrabile a tutti i loro dardi avvelenati. In che sta essa riposta? nella pratica fervorosa di tutto quello che si appartiene alla Religione Cattolica.Imperocché tanto questo esercizio ci rimuove dal Protestantismo, quanto la mancanza di esso più ce ne ravvicina. Si meravigliano alcuni quando sentono parlare delle cadute che avvengono in certi paesi, dove alcuni hanno abbandonata la S Fede. Or quella meraviglia è al tutto fuor di proposito, poiché (cosa terribile, ma pur vera) la meraviglia sarebbe se certuni si fossero preservati dall’errore. Che cosa hanno più della Religione Cattolica certi Cattolici? Nulla, nulla. Spirito di preghiera non ne hanno più, non più divozione, non più pietà. I Sacramenti non li frequentano affatto, o se pure vi vanno per Pasqua, vi vanno con una indifferenza., una svogliatezza, che mai la maggiore, e faccia Dio che non per cerimonia e con sacrilegio. Non vi è più nulla nella loro vita che li mostri Cattolici. Si vergognano di parer tali al discorso, all’osservanza dei digiuni e delle astinenze, alla professione esteriore di tutta la Fede. Nulla è più in essi dell’operosità Cattolica, nulla della purezza dei costumi, nulla dell’onestà del tratto, nulla della vita e del sentimento Cattolico. Han confinata la Religione a sentire l’ultima Messa nei dì festivi in una qualche Chiesa di gran concorso, per mostrar se sono donne il loro abbigliamento, per molestare l’altrui pietà e divozione se sono uomini. Ora è questa vita Cattolica? Ma questi non sono più nulla. Si potrebbero chiamare Cattolici per Geografia, cioè Cattolici non perché conoscano la Fede di Gesù Cristo, la sommissione alla S. Chiesa e perché esercitino l’una e l’altra, ma sono Cattolici perché son nati a tanti gradi di longitudine e tanti di latitudine cioè in paese che fa professione di Fede Cattolica: ma disposti nel loro cuore ad essere egualmente scismatici con gli scismatici, Turchi coi Turchi, se fossero nati qualche grado più o meno distanti dal polo o dall’equatore. – A persone che sono in questo stato non sarà difficile il fare abbracciare il Protestantismo. L’abbracceranno perché esso è una protesta contro le pratiche che già disprezzano della Chiesi Cattolica, e perché presso di chi li riprende della loro condotta possono poi scusarsi col dire che tralasciano per convincimento quello che non vogliono praticare per negligenza e malizia. L’abbracceranno perché il Protestantismo, per quelli che dal Cattolicismo vi passano, è il morto di liberarsi dalla noia di un culto qualunque. Nel che vi è una gran differenza tra quelli che sono nati Protestanti e quelli che hanno apostatato dalla Fede Cattolica. Imperocché quelli che sono nati tali, spesse volte vivono in esso di buona fede. Non fanno tutto quel che dovrebbero senza dubbio, ma fanno almeno quello che sanno. Mantengono quelle poche pratiche che hanno portate con sé i loro Padri, quando si sono dipartiti dalla Chiesa Cattolica, hanno qualche sorta di riunione, di preghiere, di riti e di cerimonie. Come leggono se non tutta, almeno una parte della S. Scrittura, da quella, soprattutto gli Anglicani che non si abbandonano totalmente alla privata interpretazione, ne attingono mista agli errori anche qualche verità. Laddove quei Cattolici che apostatano, come né sono né possono essere di buona fede, così non possono sottomettersi a niuna sorta di Religione. – Non hanno più la Fede Cattolica, perché vi hanno rinunziato; non hanno la credenza Protestante, perché mai giungeranno a stimarla vera nel fondo del loro cuore, cosi a nulla si attengono e vivono in gustare interiormente quel che apporta di soavità e di consolazione lo spargere il proprio cuore dinanzi a Dio nell’orazione, il sollevare la propria coscienza dal peso dei peccati nel Sacramento di Penitenza, l’unirsi strettamente a Gesù nella S. Eucaristia, avere il testimonio segreto della buona coscienza, il sapere di avere la SS. Vergine ed i Santi che intercedono per loro presso Dio, e di essere nella comunione dei giusti che sono sulla terra, e di quelli che regnano in cielo: e così sono sempre più animati a pregiare cotesti beni ed a procurare di non perderli. – La trovano perché tutti gli esercizi detta pietà Cattolica riescono di mirabile efficacia ad ordinare tutta la vita cristianamente: ad essere cioè padri di famiglia amorosi, padroni discreti e caritatevoli, servi obbedienti e sottomessi, contadini fedeli e laboriosi, signori umili e giusti. La trovano perché il buon Cattolico in essi rinviene la forza di combattere tutte le sue passioni, di debellare tutti i suoi nemici, di sopportare tutte le sue fatiche, di non cedere in veruna delle sue sventure e di camminare con piè costante le vie dei divini comandamenti. Di che è incredibile a dirsi, quanto rimanga sempre più affezionato ad una Religione che lo arricchisce di tanti beni. – La trovano finalmente perché nell’esercizio della Fede è riposto un aumento continuo della stessa Fede, la quale illustra interiormente l’anima e la rende sempre più paga e tranquilla del suo stato, e rimovendone anche i più leggerissimi dubbi sempre più l’assicura. Con la Fede più viva si congiunge una speranza più ferma di dovere arrivare ai beni eterni i quali vagheggia più chiaramente e spera più fiduciosamente: il che è la maggior consolazione che abbiamo in questa vita. E finalmente la Fede più viva e la speranza più ferma germinano la carità più accesa, la quale cacciando lontano, come sta scritto, il timore, dà fiducia a presentarci al Signore, a stringerlo amorosamente, e ad anticipare in qualche modo in questa valle di lacrime quel che speriamo di fare eternamente nel cielo, siccome ultimo frutto pieno e compito della nostra Fede. – Il perché a chiunque desidera di tenersi lontano da qualunque rischio di perdere il tesoro ineffabile della Fede che gli ha da procurare tanti beni al presente e tanti nell’avvenire, io qui sull’ultimo stringendo ogni cosa in poco, col più vivo affetto dell’anima darò per consiglio d’imprendere una vita da Cattolico fervoroso. Non vi mettete in dispute, non entrate con chicchessia in questione di Religione: non soffrite che sotto verun pretesto altri si brighi di ammaestrarvi, ma rispondete con la pratica costante e fervorosa della Religione a tutte le obiezioni e difficoltà. Se disprezzano il tempio di Dio, e voi frequentatelo: se motteggiano la Confessione e la Comunione, e voi accostatevi il più spesso che potete: deridono alla vostra presenza i digiuni e le astinenze, e voi osservatele senza celare che le osservate: biasimano dinanzi a voi la Chiesa ed il Pontificato, e voi non arrossite di celebrarne le lodi e di dichiararvi in loro favore: insultano dinanzi a voi i Sacerdoti ed i Religiosi, e voi non vi peritate di assumerne la difesa e di palesare che al tutto non siete del loro avviso. In una parola essi dicono e voi fate, e con questo modo di risposta la vostra Fede non correrà pericolo. – Conducendovi in questa guisa avrete subito l’approvazione di tutti i buoni, che sono quelli da cui è pregevole l’essere stimati ed amati, dopo qualche spazio di tempo avrete ancora l’ammirazione dei malvagi, i quali (cosa incredibile, ma pur vera non fanno concetto se non di quelli che li calpestano; ma poi dove ogni altra cosa vi venisse meno, avrete  l’amore di Colui che vi ha da giudicare tra poco, Gesù Cristo. Il mondo passa e col mondo passano le sue fole, le sue vanità, i suoi storti giudizi, le sue passioni. Passano eziandio tutte le sette che hanno infestata la S. Chiesa. Come noi vediamo essere scomparsi gli Ebioniti, i Cerintiani, gli Ariani, gli Eutichiani ecc. ecc. così scompariranno i Protestanti; quella che non passerà mai è la Chiesa di Gesù Cristo. Questa fondata sopra una rocca immobile ha Gesù Cristo che la regge, e durerà fino alla fine dei secoli. Né allora verrà meno, ma trasferita da questa valle di lacrime e di combattimenti e cessate tutte le sue lotte, regnerà gloriosa e trionfante per tutta l’eternità nel cielo. Beati coloro che saranno trovati del numero di quelli che le hanno appartenuto e non solamente col nome, ma eziandio con le opere. Lettore cortese, io auguro io auguro con tutto l’affetto dell’animo mio una sì bella sorte, come io la desidero ardentemente per me. Preghiamo scambievolmente il Divin Salvatore che non permetta che te nostre passioni ci velino il giudizio, che ci corrompano il cuore, che ci strappino dalla S. Chiesa, per non perdere il trionfo della Beata eternità.

Così sia.

SALMI BIBLICI: “DEUS IN ADJUTORIUM MEUM INTENDE” (LXIX)

SALMO 69: “DEUS IN ADJUTORIUM, meum intende”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 69

In finem. Psalmus David in rememorationem, quod salvum fecerit eum Dominus.

[1] Deus, in adjutorium meum intende;

Domine, ad adjuvandum me festina.

[2] Confundantur, et revereantur, qui quærunt animam meam.

[3] Avertantur retrorsum, et erubescant, qui volunt mihi mala; avertantur statim erubescentes qui dicunt mihi: Euge, euge!

[4] Exsultent et lætentur in te omnes qui quærunt te; et dicant semper: Magnificetur Dominus, qui diligunt salutare tuum.

[5] Ego vero egenus et pauper sum; Deus, adjuva me. Adjutor meus et liberator meus es tu; Domine, ne moreris.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXIX

Orazione di Cristo, che dalla croce prega per la sollecita risurrezione del proprio corpo, e per la salute dei fedeli, suo corpo mistico. L’argomento di questo Salmo è identico a quello del Salmo XXXIX, del quale si ripetono qui gli ultimi sei versetti.

Per la fine: salmo di David in memoria della liberazione ottenuta dal Signore.

1. Muòviti, o Dio, in mio soccorso; Signor affrettati a darmi aita.

2. Sieno confusi e svergognali coloro che cercano l’anima mia;

3. Sieno posti in fuga e svergognati coloro che si pascono dei miei mali; sien volti in fuga subitamente e svergognati coloro che a me dicono: Bene sta, bene sta.

4. Esultino in te, e si rallegrino tutti coloro i quali te cercano; e coloro, che amano la salute che vien da te, dican mai sempre: Glorificato sia il Signore.

5. Io però son povero e mendico; aiutami o Dio.

6. Tu se’ mio aiuto e mio liberatore; Signore, non tardar più.

Sommario analitico

In questo salmo, che è quasi identico alla fine del salmo XXXIX, Davide, figura di Gesù-Cristo, si vede circondato da nemici.

I. – Implora il soccorso di Dio e Lo supplica di venire in suo aiuto:

1° Con questa attenzione vigilante che esigono i pericoli ai quali è esposto; 2° Con tutta la celerità  e la prontezza del suo amore per lui (1).

II. – Egli espone a Dio le ragioni che motivano ed appoggiano la sua preghiera

1° I suoi nemici che a) cercano di togliergli la vita (2), b) nutrono nei loro cuori i disegni più ostili, c) si beffano di lui e lo mettono in derisione (3);

2° I giusti che a) si rallegreranno vedendo le sue vittorie, b) e loderanno Dio per la sua liberazione (4);

3° egli stesso, la sua povertà e la sua miseria;

4° Dio, che è suo aiuto, suo sostegno e suo liberatore (5).

Spiegazioni e Considerazioni

I. – 4.

ff. 1. – Si domandi il soccorso di Dio, perché ci è necessario. – Lo si chieda incessantemente, perché ne abbiamo incessantemente bisogno. – Lo si domandi con grande istanza, poiché si tratta di tutto per noi. – Si preghi Dio affinché si degni di soccorrerci, perché il bisogno è pressante in quanto i nostri nemici si propongono di attaccarci. (Dug.). – Con questo versetto iniziamo ogni ora dell’Ufficio ecclesiastico: 1° noi facciamo così una professione solenne dell’impotenza in cui ci troviamo nel lodare il Signore come si deve senza la grazia ed il soccorso di Dio; 2° noi dichiariamo con questo che il soccorso del cielo ci è necessario in ogni ora del giorno e per ciascuna delle nostre azioni. Riconosciamo così che Dio è l’Autore, il principio, il mezzo ed il fine di ogni bene. Dio – dice San Bernardo – ama essendo carità; Egli conosce come scienza; Egli siede come la sovrana equità; Egli domina come maestà suprema; Egli ci governa come nostro principe, ci protegge come nostra salvezza, non cessa di operare come potenza illimitata, si rivela a noi come verità, ci assiste e ci aiuta come forza (S. Bern., De Consid. Lib. V, c. 1). 

II. — 2-5.

ff. 4. – Ci sono due generi di persecutori, quelli che accusano e quelli che lusingano: una lingua adulatrice è più dannosa che una mano assassina, ecco perché la Scrittura la chiama una fornace ardente. È manifesto essenzialmente che la Scrittura, parlando delle persecuzioni ha detto dei martiri messi a morte: « Dio li ha provati nella fornace come l’oro, e li ha resi come vittime offerte in olocausto » (Sap. III, 6). D’altra parte, notate – secondo un altro passaggio – che la lingua degli adulatori produce gli stessi effetti: « l’argento e l’oro sono provati dal fuoco, e l’uomo è provato dalla bocca di coloro che lo lodano » (Prov. XXVII, 21). La persecuzione è un fuoco, l’adulazione è un fuoco; bisogna che usciate sani e salvi dall’uno e dall’altra (S. Agost.).

ff. 5. – « Che il Signore sia glorificato sempre »; non solo che « il Signore sia glorificato », ma « che sia sempre glorificato ». Voi siete persi, siete lontano da Lui, Egli vi ha chiamato: « … che il Signore sia glorificato ». Egli vi ha ispirato di confessare i vostri peccati, voi li avete confessati, Egli vi ha perdonato: « … che il Signore sia glorificato ». Ma ora voi cominciate a vivere nella giustizia, e vi sembra giusto di glorificarvi a vostra volta. In effetti, quando eravate persi, ed il Signore vi chiamava, voi dovevate glorificarlo; quando avete confessato i vostri peccati ed il Signore ve li ha rimessi, voi dovete glorificarlo; ma ora che, avendo ascoltato la sua parola, voi cominciate ad avanzare, ora che siete giustificati, ora che siete giunti ad un certo grado di eccellenza nella virtù, ed è conveniente senza dubbio che siate anche voi glorificati. No, essi dicono: « che il Signore sia sempre glorificato ». Voi siete peccatori, … che sia glorificato nel chiamarvi; voi confessate i vostri peccati, … che sia glorificato nel perdonarvi; voi vivete secondo giustizia, … sia glorificato nel dirigervi, voi perseverate fino alla fine, … che sia glorificato nel coronarvi. « Che il Signore dunque, sia sempre glorificato ».  Che i giusti lo dicano. Chiunque non lo dice non cerca il Signore. Si: « che il Signore sia glorificato! Che tutti coloro che Lo cercano siano portati da allegria e gioiscano, e coloro che amano la salvezza che viene da Lui dicano: « che il Signore sia glorificato sempre » (Ibid.). in effetti la loro salvezza viene da Lui e non da se stessi. La salvezza inviata dal Signore nostro Dio, è il Salvatore, il Signore Nostro Gesù-Cristo. Ogni uomo che ama il Salvatore confessa di essere stato guarito; ma ogni uomo che si dichiara guarito, dichiara di essere stato malato. « Coloro che amano la salvezza, vengano da Voi, o mio Dio, dicano dunque: che il Signore sia glorificato sempre ». Quale salvezza dunque? Quella che Voi date, e non la loro salvezza, come se salvassero se stessi, né la salvezza che verrebbe da un uomo, come se un uomo potesse salvarli (S. Agost.).

ff. 6. – « Che il Signore sia dunque glorificato », ma voi non lo sarete mai? Non lo sarete in alcuna parte? In Lui io sono qualcosa; in me io non sono nulla; ma se io sono qualcosa in Lui è Lui che è qualcosa e non io. Cosa siete dunque? « … Io sono povero ed indigente ». È Lui che è ricco, è Lui che ha tutto in abbondanza, è Lui che non ha bisogno di niente (S. Agost.). – Quale povertà più grande e più santa che la povertà di colui che, riconoscendo di non avere alcuna forza, alcuna risorsa, è obbligato ad implorare tutti i giorni i soccorsi di una liberalità straniera, e che, comprendendo che la sua vita, la sua esistenza, dipende in ogni istante dal soccorso divino, confessa altamente ed a giusto titolo che egli è il povero di Dio, e grida umilmente ogni giorno con il Re-Profeta; « Io sono povero ed indigente, mio Dio, venite in mio soccorso »? (CASS. Coll. X, c. 11).

SACRO CUORE DI GESÙ (25): “Il Sacro Cuore di GESÙ e gli effetti dell’Eucaristia”

[A. Carmagnola: IL SACRO CUORE DI GESÙ. TORINO, S. E. I. – 1920]

DISCORSO XXV

IL SACRO CUORE DI GESÙ E GLI EFFETTI DELL’EUCARISTIA

Gesù Cristo, o miei cari, nel suo amore infinito per noi colla SS. Eucarestia non solo ha perpetuato quaggiù la sua reale presenza, ma ci ha ancora somministrato un cibo divino, confaciente alla vita divina che vi è in noi. E questo cibo è Lui stesso, vivo e reale quale è in cielo. Senza dubbio nel leggere la vita di certi Santi noi ci sentiamo presi come da una santa invidia riconoscendo la singolar fortuna che essi ebbero durante la loro vita di vedere talvòlta e vagheggiare tra le loro braccia il Bambino Gesù. Ma ravviviamo la fede, esclama il grande Gersone, ed essa nell’Eucarestia ci mostrerà una fortuna assai maggiore. Perciocché per mezzo dell’Eucarestia, sempre che ci piace, noi possiamo anche ogni giorno ricevere, stringere, possedere nel nostro cuore Gesù, immedesimarci con lui, vivere della sua vita. Ed in vero, qual è l’unione che Gesù Cristo fa con noi in questo Sacramento? Essa è più intima, che non sia l’unione di due gocce d’acqua, fatte cadere l’una sopra dell’altra, più intima che non sia l’unione di due stille di cera fusa colate l’una sopra dell’altra, più intima che non sia l’unione di due liquori versati dentro un medesimo vaso. Questa unione è così intima, così stretta, così perfetta, che possiamo paragonarla a quella che avviene tra noi e il cibo che prendiamo, il quale, anche senza che noi ce n’avvediamo, tramuta nella nostra carne, nel nostro sangue, nelle nostre ossa, con questo divario immensamente per noi vantaggioso che nella Santa Comunione, valendo la legge che nel concorso di due sostanze la più attiva trasforma in sé quella che lo è meno, non siamo noi che trasformiamo il pane vivo di G. Cristo nel nostro essere, ma è lo stesso Gesù Cristo che ci trasforma in Lui. Cibus sum grandium, diceva Gesù dal tabernacolo a S. Agostino, cresce et manducabis me: Io sono il cibo delle anime grandi, cresci e potrai mangiarmi: Nec tu mutabis me in te, sicut cibum carnis tuæ, sed tic mutaberis in me: ma tu non cangerai me in te, come il nutrimento della tua carne, tu bensì sarai cangiato in me. Non già, o miei cari, che la Carne di Gesù Cristo si identifichi con la nostra carne ed il suo Sangue si mescoli col sangue nostro. No, la Carne e il Sangue di Gesù Cristo entrando nel nostro petto non fanno altro fisicamente che posarsi per breve tempo sul nostro cuore. Ma benché questa unione fisica non duri che pochi istanti, perché le specie sacramentali, dalle cui sorti essa dipende, scompaiono ben presto nel cieco lavoro dei nostri organi, tuttavia l’unione morale è così stretta e così intima, che Gesù Cristo impossessandosi per amore della nostra vita, del nostro cuore, di tutto il nostro essere, ciascuno di noi può esclamare con l’Apostolo: sembra che sia ancor io che viva, ma no, non son più io, è Gesù Cristo che vive in me: Vivo ego, iam non ego, vivit vero in me Christus. (Galat.,II, 20) Quale unione adunque è questa mai! È propriamente l’unione indicata nel libro dei Cantici, in quella espressione così bella e così forte della sacra sposa: Dilectus meus mihi et ego illi: (Gant. II, 16) il mio diletto appartiene a me, ed io appartengo a lui; il mio Cuore è suo, ed il cuor suo è mio: Cor Iesu meum est. (S. Bern.) Ora, tale essendo l’unione che Gesù Cristo fa con noi per mezzo della SS. Eucarestia, potrà essere che non operi in noi degli effetti corrispondenti? Ciò è impossibile. L’alimento divino, il fuoco divino, la vita divina sono “dinami” divine, che producono le più grandi meraviglie. E sono appunto oneste grandi meraviglie, questi portentosi effetti dell’Eucarestia, che io vi invito oggi a considerare perché comprendiate sempre più quanto sia stato grande l’amore del Cuore di Gesù nel trarre fuori dalla sua ferita il Sacramento dell’Eucarestia.

I. — Miei cari, ciò che vale ad operare la nostra santificazione è la grazia di Dio. E per mezzo dell’Eucarestia, nella Santa Comunione noi ne siamo riempiuti. O sacrum Convivium – canta la Chiesa – in quo Christus sumitur… mens impletur gratia! Ma qual è propriamente la grazia di questo Sacramento? Quali sono gli effetti che esso produce in coloro che lo ricevono? Risponde S. Tommaso: Ogni effetto che l’alimento materiale produce nella nostra vita corporale, lo produce l’Eucarestia nella vita spirituale, vale a dire ripara, sostiene, aumenta e diletta. Ed anzitutto ripara. Come il nostro corpo va soggetto aperdite per le forze deleterie, che agiscono in lui, così l’anima nostra. Il peccato opera in essa delle alterazioni analoghe a quelle che le malattie producono nel nostro corpo: e sebbene se ne sia guariti per mezzo di una santa confessione, rimangono tuttavia le sue conseguenze, una debolezza, una prostrazione di forze, una facilità a ricadervi come chi si trova nello stato di convalescenza. Or bene non è certo ufficio proprio della Eucarestia di restituirci la vita perduta per il peccato, anzi in colui, che osasse cibarsene in istato di peccato, renderebbe sempre più profondo il sonno della morte, perché il peccatore, mangiando la carne di Gesù Cristo, mangia il suo giudizio e la sua condanna; ma se il peccatore si è purificato nel lavacro della Penitenza e si accosterà alla mensa eucaristica, questo pane divino, venendo in lui, riparerà le perdite di grazia e di forza spirituale a cui fu assoggettato per il peccato, lo rinforzerà e gli renderà sempre più remoto il pericolo di ricadere nella colpa grave. Ma non è la colpa grave soltanto, che cagioni in noi delle perdite; anche le colpe veniali, che con tanta facilità commettiamo ogni giorno e più volte al giorno, sebbene non distruggano in noi la divina carità, ne scemano tuttavia l’ardore e ci dispongono a poco a poco alla colpa grave. Ebbene l’Eucarestia compie anche qui la sua opera di riparazione. Questo pane, afferma S. Ambrogio, è il rimedio alle quotidiane infermità. Iste panis quotidianus sumitur in remedium quotidianæ infirmitatis.Ma con ciò rimangono pur sempre presso di noi e con noi medesimi i nemici dell’anima, che sempre ci assaltano pertogliercene la vita. Il demonio nostro implacabile nemico sempre si aggira d’intorno a noi, cercando di divorarci. Il mondo con le sue vanità, con le sue massime e persino con le sue minacce porge, ahi! troppo valido aiuto all’opera di satana. E sventura vuole che a questi nemici esterni si aggiungano dei nemici interni, vale dire le nostre passioni, che a guisa di furie si scagliano continuamente contro di noi per cooperare con satana e col mondo a far la nostra rovina. Ora, contro queste tre sorta di nemici, sempre congiurati ai nostri danni, dove troveremo noi la forza per resistere e vincere? Nella Santissima Eucaristia. La carne ed il sangue di Gesù Cristo – dice S. Giov. Crisostomo – mette in fuga ed allontana da noi il demonio, poiché al solo vedere nelle anime nostre Colui, che atterrò il suo impero, si sente ripieno di sgomento. Oh! la Comunione ci tramuta in leoni spiranti fiamme d’un coraggio divino, sicché non è più il demonio che sia terribile a noi, ma noi siamo terribili al demonio. La SS. Eucaristia ci sostiene nella lotta contro il mondo.Venga pure contro di noi con le sue vanità, con le fragili bellezze delle creature, con le lusinghe dei suoi amori caduchi! Se l’Eucaristia ciba di spesso le anime nostre, il nostro cuore non pena e non tarda a dissipare le illusioni, e a togliere anzi argomento da questi assalti mondani a stringersi sempre più fortemente al suo unico vero bene. Venga pure il mondo contro di noi con le sue massime e con le suo derisioni, ma dall’Eucaristia scenderà nell’anima nostra tale una forza che ci farà respingere sdegnosamente quelle sue perversi massime e ci indurrà benanche a sfidare il mondo tutto, se con le sue dicerie varrà a distoglierci dall’operare il bene. Venga infine contro di noi con le stesse minacce e con le persecuzioni e con le violenze. Temeremo perciò? Non appena si cominciò a predicare e spargere per il mondo la nostra santa Religione, i potenti della terra si scagliarono tosto contro di lei per farla perire. E per il corso di tre secoli sparsero rivi di sangue. Il Cristiano scoperto nella professione della sua fede veniva tratto davanti ad un preside, che così l’interrogava: Chi sei tu? — Sono Cristiano.— Qual è il tuo nome? — È quello di Cristiano. — Qual èil Dioche adori? — Gesù Cristo, morto sulla croce per la salvezza degli uomini. — L’imperatore ti comanda di adorare gli dèidella Patria. — Ma io non adoro che Gesù Cristo. — Folle, se non ubbidisci ti farò morire. — Sia pure: potenza della terra,tu potrai bene qualche cosa sopra questo mio corpo di terra, ma nulla potrai sopra dell’anima mia, la quale libera dagl’inciampi di questa creta se ne volerà diritta in seno al suo Dio. — E il Cristiano veniva condannato a morire. Talora lo si decapitava senz’altro, ma il più delle volte era fatto passare prima fra i più atroci tormenti. Taluni erano distesi e legati sopra di un cavalletto ed ivi battuti con verghe di ferro fino a che le carni saltassero loro via; a tanti altri così distesi le carni si strappavano a brani a brani con tenaglie infuocate; a tali altri si apriva il ventre e se ne estraevano a poco a poco le viscere che si andavano avvolgendo attorno ad una ruota. Tali altri erano gettati in caldaie di olio, di pece bollente, o di piombo fuso. Tali altri racchiusi dentro un toro arroventato; tali altri distesi sopra graticole infuocate; tali altri rivestiti di pelle di animali erano gettati nella campagna in pasto ai cani; tali altri venivano lanciati nel circo ad essere divorati dalle belve feroci; tali altri caricati sopra una nave senza cibo di sorta erano spinti in alto mare a morire di fame; tali altri altrimenti ancora erano fatti perire. Ma pure in mezzo a patimenti così atroci imprecavano forse ai loro persecutori, o per lo meno si lamentavano delle loro pene? Ah! tutt’altro: essi erano lieti e sorridenti sino all’ultimo istante, e talora trovavano persino la forza di scherzare coi loro persecutori; come un S. Lorenzo, che disteso sopra una graticola infuocata ad un certo punto si volge al tiranno e gli dice: « Da questa parte sono già arrostito abbastanza; di grazia, fammi voltare dall’altra. E poi di lì a non molto: Ora sono un arrosto bell’e fatto: se vuoi cibarti di me, lo puoi fare. »Ebbene, o miei cari, donde mai i martiri, talora vecchi cadenti, tal altra deboli donzelle, tal altra teneri fanciulli, traevano tanta forza, tanto coraggio? Ah! miei cari, anche presentemente si possono visitare in Roma, e in altre città, le catacombe, o luoghi sotterranei, dove essi di nottempo si recavano per assistere ai santi misteri. Ivi sulle tombe dei martiri, divertite in are sacrosante, un Sacerdote, un Vescovo, un Pontefice, celebrava il santo Sacrificio della Messa. Ed arrivato il momento solenne della Comunione, all’invito che ne ricevevano, avreste veduto quei Cristiani sfilare a due a due, andarsi ad inginocchiare davanti al ministro di Dio e ricevere devotamente il pane dei forti. Qualche volta ne avreste veduto altresì qualcuno, che dopo d’aver ricevuto la comunione stendeva ancora dinnanzi al sacerdote un candido lino. Era undirgli: « Padre santo, a casa vi sono degli Infermi, dei vecchi che qui non han potuto venire; in fondo alle prigioni stanno stivati i nostri fratelli nella fede, e tutti costoro bramano ancor essi di ricevere questo Pane: deh! datelo qui a noi che noi lo porteremo anche a loro, per renderli contenti, per farli felici. » E perciò appunto si costumava allora di lasciare che i Cristiani portassero alle loro case l’Eucaristia, perché potendo da un momento all’altro essere catturati e condotti al martirio avessero in pronto questo cibo di fortezza, giacché, come nota S. Cipriano, nessuno era riputato abile al martirio, se prima non era stato armato dalla Chiesa di questo Pane dei forti. Ecco, o miei cari, donde i primitivi Cristiani traevano l’eroico coraggio per vincere i più aspri tormenti e confessare col loro sangue la fede di Gesù Cristo. E d ecco dondelo trarremo anche noi per combattere vittoriosamente il mondo, le sue lusinghe, le sue insidie, i suoi scherni, le sue battaglie, le sue persecuzioni. O giovani, che mi ascoltate, è a voi che in questo istante rivolgo massimamente la parola, perché siete voi i più combattuti dal mondo. Ricordatevi bene, che è nella Comunione soprattutto che sta riposto il gran mezzo e il gran segreto della vittoria. Se voi vi ciberete sovente e bene di questo Pane Eucaristico, mentre il mondo con lo scherno tenterà di commuovervi, di abbattervi, di calpestarvi, voi con la forza meravigliosa, che vi verrà da questo Pane, sarete voi che commoverete, abbatterete, calpesterete il mondo. Fu un giovane della vostra età che nella forza di questo Pane, ottenne sopra il mondo una delle più splendide vittorie. Tarcisio, con l’Eucaristia serrata al cuore, piuttosto che cedere agli eccitamenti dei compagni, che lo invitavano al gioco, alla brutalità dei pagani che volevano scrutare i sacri misteri, si lasciò togliere la vita. Ma perdendo la vita del tempo egli guadagnò quella dell’eternità. Deh! o giovani, che la progenie dei Tarcisii tra di voi rifiorisca. Ma oltrochè da questi nemici esterni, siamo noi travagliati dalle nostre prepotenti passioni, dal nostro orgoglio, dalla nostra cupidigia, dalla nostra carne? S. Cirillo Alessandrino c’insegna che stando Gesù Cristo dentro di noi per la S. Comunione, raffrena il loro ardore corroborando contro di esse la nostra pietà. E come non fiaccare la nostra superbia davanti ai prodigiosi abbassamenti di Gesù nella SS. Eucaristia? Come non distaccare il cuore dai beni terreni nel possesso del vero ed unico bene? Come non castigare e mondare la nostra carne nel mangiare il frumento degli eletti e nel bere il vino che germina i vergini ? O Giovanni, Apostolo prediletto, come mai ti conservasti così puro se non toccando la carne di Gesù Cristo, posando la tua testa sopra del suo Cuore? E tu, o Maddalena, che eri pure lo scandalo della Palestina, come altrimenti ti sei purificata cotanto da diventare l’oggetto delle speciali attenzioni di Cristo, se non toccando la sua carne, baciando i suoi piedi puri e sacri? Ma queste meraviglie, operate durante la vita di Gesù, non hanno cessato dopo. Abbandonando il mondo, Egli ci ha lasciato la sua carne, tutta satura dei profumi dell’umiltà, della povertà, della castità e di qualsiasi altra cristiana virtù. E chi vuol rialzarsi dall’abisso, in cui è caduto sotto l’impero delle passioni, chi vuol resistere ad esse sempre vincitore, si accosti alla sacra mensa, e nel cibarsi della carne di Gesù Cristo si adergerà e si rafforzerà. Questo è il sublime convegno dove le Maddalene piangenti non potranno temere di essere respinte e guardate con disprezzo dai Giovanni innocenti, dove tutti castiticheremo il nostro corpo, angelizzeremo il nostro spirito, informeremo tutto il nostro essere a sentimenti verginali e celesti. Anzi, cosa mirabile a dirsi! La carne di Cristo unendosi alla carne nostra ed avvivandola di sé, ne suggellerà gli elementi e nel giorno supremo ricomponendola spirituale e gloriosa, attraverso di lei fatta più chiara di terso cristallo risplenderà, divenuto la sua vita, la sua gloria, la sua felicità in eterno! Ma Gesù Cristo divenuto cibo delle anime nostre non vuol essere da meno del cibo dei nostri corpi; epperò riparando le nostre perdite, sostenendoci contro i nostri nemici, accresce ancora in noi la vita spirituale, spronandoci efficacemente a far passi da gigante nella via della giustizia e della santità. La legge del Cristianesimo è per eccellenza legge di perfezione. Gesù Cristo ha parlato chiaro: « Siate perfetti, Egli ha detto, come è perfetto il mio Padre Celeste. » E quando l’Apostolo S. Paolo ha soggiunto: « Questa è la volontà di Dio, che vifacciate santi; » non è stato che l’eco fedele del divin Maestro. Ora sapete voi quali siano tra i Cristiani coloro che attendono seriamente a praticare questa legge? Coloro, i quali si cibano sovente, e bene della SS. Eucaristia. Sì, sono essi, a ciascun dei quali si possono applicare le parole del Salmista: Beatus vir, cuius est auxilium abs te; ascensiones in corde suo disposuit: beato l’uomo che da te, o Signore, riceve l’aiuto, anzi il generatore dell’aiuto, perciocché è desso che ha stabilito di salir sempre più in alto. Sì, sono essi che se ne vanno di virtù invirtù. Ibunt de rirtute in virtutem, (Ps. LXXXIII, 6) che sifanno sempre più umili, sempre più pazienti, sempre più mortificati, sempre più casti, sempre più caritatevoli, sempre più ardenti nell’amor di Dio, sempre più santi. È la forza arcana dell’Eucaristia che li spinge, che dice a ciascun di loro con tutta l’efficacia: Ascende superius; più in alto, più in alto sempre. – E finalmente il cibo della SS. Comunione arreca alle anime nostre un ineffabile spirituale diletto. Ah! io so bene che se fossero qui ad ascoltarmi certi uomini al tutto mondani e miscredenti, a questa asserzione sogghignerebbero di compassione, dicendo: E che razza di diletto può mai recare quella particola di pane che si va lì a ricevere nella vostra Comunione? Ma qui sarebbe propriamente il caso di ripetere le parole dell’Apostolo: Animalis homo non percipit ea quæ sunt spiritus Dei; l’uomo animalesco, che non vive che in mezzo!alle cose del mondo e ai piaceri del senso, del tutto ignaro e dimentico delle cose di Dio, no, non capisce che vi possa essere uno spirituale diletto nel ricevere la Santa Comunione! Ma se noi ne domandassimo qualche cosa ai Santi, che con tanta frequenza e con tanto fervore vi si accostavano, ben ci risponderebbero che non vi ha sulla terra maggior diletto di questo, e che qui nella Santa Comunione si prova davvero il paradiso anticipato. Ma anche senza rivolgerci ai Santi, certo che se nel corso della nostra passata vita abbiamo fatto delle buone Comunioni, noi medesimi potremo rendere testimonianza di questa certissima verità, perciocché allora anche noi abbiamo provate tali dolcezze da dover esclamare fuori di noi per la felicità, in cui ci trovavamo immersi: O Signore quanto è dolce, quanto è soave il vostro spirito: O quan suavis est, Domine, Spiritus tuus!Napoleone invitati un giorno taluni de’ suoi generali a indovinare quale fosse stato il giorno più bello della sua vita; dicendo uno quello della vittoria dellePiramidi, e un altro quello della vittoria di Marengo, e un terzo quello della vittoria di Austerlitz; no, soggiunse egli, nessuno di voi ha indovinato; il più bel giorno di mia vita è stato il giorno della mia prima Comunione. Ecco adunque la grazia efficacissima, che il Cuore di Gesù arreca nell’anima nostra per mezzo dell’Eucaristia. E considerando una tal grazia non dobbiamo dire un’altra volta: Sì, il Cuore di Gesùci ha dato qui una prova suprema dell’amor suo?

II. — Ma Gesù Cristo non pago di operare per mezzo dell’eucaristia queste meraviglie individuali, nello stesso Sacramento ci anima alla pratica delle più belle virtù sociali. O carità cristiana, che aneli a formare un cuor solo ed un anima sola di tutti gli uomini del mondo non è propriamente lì nel Sacramento dell’amore che si accendono le tue vampe? Non è lì che ingeneri la vera uguaglianza, la fraternità, la pazienza, il perdono, la compassione, il sacrifizio, l’eroismo? Non è lì che fai emettere questo grido sublime: Impendam et super impendar ipse prò animabus. (II Cor. XII, 15) Io darò tutto il mio, e per di più sacrificherò me stesso per la salute delle anime? Sì, è lì anzitutto dove si genera la vera eguaglianza e la fraternità cristiana. Indarno si grida nel mondo: Abbasso le distinzioni! in quel giorno che la dinamite le avesse atterrate, sorgerebbero più forti e più manifeste di prima. Ma qui nel Sacramento dell’Eucaristia, senza che si emetta questo grido, tutte le distinzioni scompaiono: principi e sudditi, capitani e soldati, padroni e servi, ricchi e poveri, tutti sono eguali, tutti sono fratelli, tutti sono figli di un medesimo padre e si cibano ad una medesima mensa. Il celebre Turenna si accostava in un giorno di festa alla Comunione insieme col suo servo. Il quale attentissimo all’etichetta, giunto da presso alla balaustra, fatto un inchino al suo padrone gli disse: « Vossignoria, passi. » Ma Turenna gli rispose con prontezza: « Vossignoria è rimasto alla porta: qui dinnanzi al Signore che stiamo per ricevere non c’è né prima dopo; va innanzi a me. » Ah! miei cari, questa parola: « Va innanzi a me » talora così turpe in bocca ad un signore e ad una signora, quando la dicono al servo od alla fantesca per coprire qualche grave fallo che stanno per compiere, o che già hanno compiuto; questa parola qui in bocca a questo eroe è sublime, ma pur non è altro che la conseguenza della vera e fraterna eguaglianza che regna al banchetto Eucaristico. E lì, dove si ingenera la pazienza, che per amor della pace induce a soffrire i più gravi affronti, i trattamenti più duri. O mariti inumani e spergiuri! Voi vi meravigliate di vedere quelle mogli che da voi tradite, da voi oltraggiate e persino da voi spietatamente battute, pure tentano in mille modi di nascondervi le lagrime, di cui esse hanno il cuore pieno e di parere dinnanzi a voi liete, serene, tranquille ; voi vi meravigliate di saperle a tutta prova sempre amanti, sempre fedeli, sempre generose, non ostante che conoscano i vostri tradimenti. Ma volete voi sapere il segreto di questa loro longanimità? Eccolo: il Sacramento d’amore. È qui che vengono a piangere e a sfogarsi; qui dove vengono a chiedere che si alleggerisca la loro croce, qui dove vengono a pregare per voi, dove dicono a Gesù con tutto l’impeto della loro anima straziata, che vi tocchi il cuore, qui fino a che un giorno questo vostro cuore si spezzi, e veniate a questa stessa mensa a frammischiare le vostre lagrime di pentimento con le loro lagrime di consolazione; ma è di qui per intanto, che esse si alzano con una forza ch’esse medesime non sanno spiegare e che fa loro ripetere : «Andiamo, andiamo allegramente a soffrire. » O uomini miscredenti e malvagi, non arrivate almeno a tale stoltezza da proibire alle vostri mogli di recarsi in chiesa! In quel giorno in cui esse non verranno più dinnanzi a questi altari cominceranno a pensare se non sia meglio compensarsi altrimenti del vostro abbandono e delle vostre infedeltà. Ma andiamo innanzi. – È lì nella Santa Eucaristia, dove si ingenera la generosità del perdono. Spinti forse da umani riguardi voi vi siete recati ai piedi di un confessore col cuore tuttora pieno di astio, di odio, di bramosia di vendetta contro di chi aveva ferito il vostro onore e commesse in vostro danno le più gravi ingiustizie. Il ministro di Dio ha dovuto far prova di tutta la forza persuasiva della sua parola per indurvi al perdono: vi ha minacciati pur anche di mandarvi inassolti delle vostre colpe. E solo allora, benché a stento, avete promesso di perdonare. Ma in seguito vi siete recati alla Comunione: avete ponderato alla generosità dell’amore di un Dio per voi, che da voi tante volte villanamente offeso, non solo vi ha perdonati, ma vi ha abbracciati, compenetrati di se medesimo, colmati di grazie e di benedizioni celesti, ed allora sotto l’azione potente del Sacramento dell’amore avete detto con maggior risolutezza e con tutta la padronanza sul vostro onore oltraggiato: Sì, perdono anch’io, e se oggi troverò il mio nemico, gli muoverò incontro e gli bacerò la fronte. È lì, nell’Eucaristia, dove si ingenera la compassione per i sofferenti, ma non quella compassione sterile che fa dare uno sguardo alle altrui miserie e poi lascia tirare innanzi, ma quella compassione efficace, operosa, sollecita che fermandosi sul luogo del bisogno fa cercare prontamente il soccorso. Un giorno un povero prete camminando per le strade di Parigi s’imbatte in poveri bambini esposti, vicini a morire: ed egli li piglia in grembo, li porta a casa, trova loro delle madri. È il B. Vincenzo de Paoli che animato dal fuoco dell’Eucaristia fonda l’istituto delle Figlie della carità. Un giorno un giovane di mondo, convertito a Dio nell’ascoltare una predica, trova per istrada giacente nell’abbandono un povero infermo ricoperto di piaghe, ed egli se lo carica sulle spalle, lo porta all’ospedale, e lo cura con amore paterno. È S. Giovanni di Dio che animato dal fuoco dell’Eucaristia fonda l’istituto dei Fatebenefratelli. Un giorno un umile frate si commuove alla vista degli orfanelli, che son lasciati in abbandono per le strade, e dei moretti che se tengon nero il corpo, sono capaci d’esser fatti candidi nell’anima e stabilisce di rivolgere ad essi i palpiti del suo cuore. È Lodovico da Casoria, che animato dal fuoco dell’Eucaristia fonda l’istituto dei frati Bigi. Un giorno un buon canonico vede per via dei vecchi, che tremanti per età e per malattia a stento si reggono sul bastone, stendendo la mano ai passanti, ed egli se li piglia con sè e li ricovera a casa sua. È il beato Cottolengo, che animato dal fuoco dell’Eucaristia fonda la Piccola ossia l’immensa Casa della Divina Provvidenza. Un giorno un giovane prete si reca a confessare nelle prigioni di Torino, e si avvede con pena che non pochi delinquenti sono giovanissimi di età, e là sono andati a finire perché non ebbero chi si pigliasse cura di loro, ed egli risolve d’impiegare la sua vita a pro della gioventù. È il servo di Dio D. Giovanni Bosco che animato dal fuoco dell’Eucaristia fonda la Congregazione Salesiana. Un giorno… ah! miei cari, io non la finirei così presto, perché questo un giorno, che segua le più grandi creazioni della carità cristiana, è un giorno che dura da diciannove secoli e che è cominciato in quel giorno così memorando, in cui Gesù Cristo ha detto: Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo; prendete e bevete, questo è il mio Sangue: inebriatevi di amore. » Sì, inebriatevi di amore, perché se non sarete ebbri dell’amore che si beve nell’Eucaristia come fareste voi, o giovani! e delicate donzelle, a rinunziare alla casa, ai parenti, alle caste gioie della famiglia, alle comodità, per andarvi a rinchiudere negli ospedali, negli asili, negli ospizi, nei maniconi, nelle prigioni ad essere per venti, per trenta, per quarant’anni per tutta la vita le tenere madri dei bambini, dei trovatelli, degli orfani, dei poveri, dei vecchi, degli infermi, degli appestati, dei sordomuti, dei ciechi, degli epilettici, dei mentecatti, dei carcerati? Come mai vi aggirereste sempre liete, sempre sorridenti, sempre felici in mezzo a tante miserie, a tanti gemiti, a tante piaghe, a tanto sozzure, a tanti rantolìi di morto, e non di rado in mezzo a tante imprecazioni, a tanti insulti, a tanti oltraggi lanciati contro di voi stesse? In un ospedale uno di questi Angeli terreni si accosta al letto di un infermo, e giusta le prescrizioni del medico gli offre per cibo un uovo. — Come? esclama infuriato l’infermo, a me un uovo soltanto? — e trattolo dalle mani di chi glie l’offriva glielo sbatte in faccia. E la donzella china il capo, si asciuga e tutta umile si ritira. Ma di lì a pochi istanti, come se nulla fosse stato, ritorna all’infermo, e credendolo rabbonitogli offre un uovo una seconda volta. Ma una seconda volta l’uomo villano ripete la scena di prima. Povera suora! che farà ella a questo ripetuto insulto? Come la prima volta china la testa, si asciuga e va senza dir parola. E passata una breve ora appena, già sì ritorna tutta sorridente dallo stesso infermo, quale tosto che la scorge, avvampa di sdegno, digrigna i denti e tratto dal letto il braccio lo scuote in segno di minaccia. Ma la donna non impaurita si avanza e in accento supplichevole: Figliuolo, si fa a dirgli, là al tuo paese, in Turchia, non hai una madre? non hai una sorella? ebbene io ti voglio bene come una sorella; ti voglio bene come una madre… A queste parole, al vezzo di compassione, con cui le accompagna, il turco si leva su, si poggia sul gomito… e i malati attorno già gridano che si vada a liberare la suora, ma l’infermo come stordito la fissa da capo a piedi e grida: Pel Dio di Maometto! tu non sei una creatura: tu sei un angelo. E chi ti ha insegnato a fare così? La donna gli mostra il Crocefisso che aveva sul petto. Ma se avesse potuto più ancora che l’immagine gli avrebbe mostrato la realtà, che la mattina alla Comunione, aveva albergato dentro al petto. S. Vincenzo de Paoli glie l’aveva detto: « Figlia mia, per essere caritatevole bisogna mangiare la carità. » E la Signora Le Gras se ne cibava ogni giorno. – Finalmente, per tacere di altro, è lì nell’Eucaristia che si ingenera l’eroismo dell’apostolato. Ecco quel giovane sacerdote! Egli dice addio alla patria, ai parenti, agli amici, sale sopra una nave e parte. Dove vai, o generoso? Dove vado? Vado a sacrificarmi per amore di Gesù Cristo in prò’ delle anime. Al di là dei mari, nelle terre più lontane, in alcune isole perdute in mezzo all’oceano vi sono ancora dei popoli che giacciono nelle tenebre e nelle ombre di morte. Essi mi stendono le mani, mi chiamano con voci supplichevoli, ed io vado. Impendam et super impendar ipse prò animabus. Ma non sai che i più gravi pericoli ti attendono? Pericoli nei viaggi, pericoli nei fiumi, pericoli nelle foreste, pericoli nei monti, pericoli nelle solitudini, pericoli nei deserti, pericoli nelle città, pericoli da per tutto? E dunque andrai innanzi? – Sì, io vado innanzi, perché mi sprona la carità di Gesù Cristo, ed io confido che questa carità non si estinguerà mai nell’anima mia: perché io porto meco un altare ed una croce. E nell’alto del mare, in mezzo alle foreste, sulle sabbie del deserto, io ergerò questo altare, vi pianterò sopra la croce e colla virtù della parola divina vi farò scendere il Corpo e il Sangue di Cristo, mangerò quel Corpo, beverò quel Sangue… ed allora griderò con. S. Paolo: Omnia possum in eo qui me confortat!Oh meraviglie! Oh portenti! Oh effetti dell’unione di Gesù Cristo con noi nella S. Comunione. Io so bene che gli avversari della fede cattolica si fanno qui a gridare all’esagerazione e per far vedere che tutto ciò non è il frutto salutare dell’Eucaristia, fra l’altro mettono pure innanzi delle donne buone e benefiche come la suora di carità ed anche più, senza che pure frequentino la Comunione; dei ministri protestanti che vanno anch’essi in lontani paesi per portarvi la parola della Bibbia. Ma, miei cari, pare a voi la stessa cosa la bontà esterna, apparente, ipocrita, e la bontà interna, vera, reale del cuore? Pare a voi la stessa cosa la beneficenza, l’elemosina, la carità legale, fatta per vanità e talvolta come frutto d’un veglione in maschera, e la carità cristiana, santa, perfetta, scaturita dall’abnegazione e dal sacrificio? Pare a voi la stessa cosa il missionario protestante, che coperto dalla bandiera britannica, pagato dalle società bibliche di belle sterline, accompagnato dalla moglie, provveduto di tutti i conforti della vita dà ai selvaggi delle bibbie, e il missionario cattolico, che bisognevole sempre della carità cristiana, in mezzo ai più gravi pericoli e disagi, dà agl’infedeli se stesso? Ah! si dica quel che si vuole, si adoperino ben anche le menzogne e le calunnie, ma sarà pur vero sempre che gli spettacoli di eroismo che si hanno nella Chiesa Cattolica dove vi è l’alimento, il fuoco, la dinamo eucaristica, non si veggono altrove; e che questi spettacoli, no, non sono immaginazioni, non sono finzioni oratorie, ma realtà palpabili, che durano da diciannove secoli, e che a volerle negare, sarebbe lo stesso come negar la luce del sole in pien meriggio.

III. — Ma da ultimo, o miei cari, Gesù Cristo nell’Eucaristia, oltre all’averci dato la grazia per operare la nostra santificazione, oltre all’averci animati a praticare le più belle virtù sociali, ci ha dato per soprappiù un pegno sicurissimo della eterna gloria. Udite ancora per poco. Uno fra i doni più grandi ed ammirabili, che Iddio ci ha fatto, è senza dubbio quello della parola. Per mezzo della parola l’uomo si mette in intima relazione col suo prossimo; manifesta agli altri i suoi pensieri, i suoi affetti, i suoi desiderii. Per mezzo della parola l’uomo insegna, persuade, convince. Per mezzo della parola l’uomo consiglia, eccita, sprona, accende. Per mezzo della parola l’uonmo consola, rianima, conforta. Oh quante cose buone e belle l’uomo può compiere per mezzo della parola! Ma fra tutte ve n’ha una che è la più grande, la più importante, la più solenne di tutte, ed è quella che si chiama per eccellenza dar la propria parola: ciò che vuol dire attestare altrui che la propria parola è verace e che si manterrà certamente la promessa che si è fatto altrui per salvare l’onore della propria parola. Con tutto ciò io domando: si accetta da tutti indistintamente per prova di una qualsiasi promessa l’altrui parola? Ed accettandolo anche solo da quelle persone che per la relazione e la conoscenza che ne abbiamo fatto, crediamo non vengano meno alla parola data, ne restiamo noi del tutto sicuri? No, o miei cari, ed ecco il perché nell’umana società la parola non essendo il più delle volte sufficiente a rendere altrui sicuro dell’adempimento di una promessa, si è istituito quel contratto che si chiama pegno, quella donazione cioè che si fa altrui di un oggetto prezioso ad assicurarlo quanto più è possibile che si manterrà la promessa fatta. Or bene, anche Gesù Cristo ha fatto agli uomini delle promesse, delle grandi promesse. E tutte queste grandi promesse che Gesù Cristo ha fatto all’uomo, per quanto possano parere molteplici e varie, si compendiano poi e si riducono tutte ad una sola, espressa in quelle parole indirizzate un giorno da Dio al suo servo Abramo: Ego merce tua magna nimis. (Gen. XV, 1) Io sarò un giorno la vostra grande mercede. Senza dubbio la promessa di Gesù Cristo, essendo la promessa di un Dio, è una promessa indefettibile. Non eravi dunque bisogno che Egli ne desse sicurtà per mezzo di un pegno. Tuttavia Egli, nella sua bontà infinita per noi, credette di darcelo. E qual è questo pegno che ci assicura dell’eterna gloria del cielo, dell’eterno possedimento di Dio, se saremo quaggiù ossequenti al suo divino volere? Cantiamolo ancora allegramente con S. Tommaso, o dirò meglio con la Chiesa, che ha fatto sue le parole di S. Tommaso: O sacrum Convivium in quo Christus sumitur… et futuræ gloriæ nobis pignux datur. O sacro Convito, nel quale si riceve un pegno della futura gloria. Si, l’Eucaristia è il pegno della nostra futura gloria. Ed oh quale pegno! L’oggetto medesimo che ci è promesso: Gesù Cristo, il suo Corpo, il suo Sangue, la sua Anima, la sua Divinità; il Padre, il Figliuolo, lo Spirito Santo, Iddio; con questo solo divario, che ora nell’Eucaristia come pegno si dona sotto il velo delle specie sacramentali, mentre in cielo si darà a noi e noi lo possederemo disvelatamente. Dubitate voi forse che l’Eucaristia sia questo gran pegno della nostra futura gloria? Temete che la Chiesa nel chiamarla: pignus futuræ gloriæ, si sia lasciata trascorrere ad un eccesso di linguaggio in qualche momento di religioso entusiasmo? Via, via questi dubbi, via questi timori. La Chiesa nel dirci che l’Eucaristia è il pegno della nostra futura gloria non ha fatto altro che dirci quello che aveva già detto Gesù Cristo medesimo: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno.» Oh amore veramente infinito del Cuore di Gesù per noi! E che altro mai di più grande poteva Egli darci, che non ci abbia dato nella S. Eucaristia? E quale eccitamento maggiore di questo potremmo noi avere a corrispondere ad un sì gran dono? – Ci racconta la sacra Scrittura come il profeta Elia essendo perseguitato a morte dall’empia Gezabele, si salvò fuggendo nel deserto. Ma ivi, stanco del cammino ed annoiato della vita, si gettò per terra e si addormentò. Allora Iddio per consolarlo, gli mandò un Angelo, il quale messogli daccanto del pane ed un vaso di acqua, lo svegliò o gli disse: Elia, sorgi e mangia: Surge et comede. Elia mangiò e bevette, ma adagiatosi ripigliò sonno. Se non che l’Angelo nuovamente destatolo, gli ordinò che mangiasse di bel nuovo, perché gli restava ancora a fare un lungo cammino. Il profeta alzatosi mangiò una seconda volta e fortificato da quel pane camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio Oreb: Ut ambulavit in fortitudine cibi illius quadraginta diebus et quadraginta noctibus, usque ad montem Dei Horeb. (III Reg. XIX) Oh noi fortunati,se a somiglianza di Elia, in questo travaglioso deserto delmondo, assecondando gli amorosi inviti di Gesù Cristo stessoe del suo angelo visibile, la Chiesa, mangeremo di frequentee bene il pane dell’Eucaristia. Nella fortezza di tal cibo cammineremo anche noi con sicurezza al monte santo di Dio, alla gloria eterna del cielo!E voi, o Cuore Sacratissimo di Gesù, siate lodato, ringraziato e benedetto le mille volte per l’amore immenso, che ci avete dimostrato nel darci per cibo spirituale delle nostre anime il vostro medesimo Corpo. Deh! che vi abbiamo sempre a ricevere con fede viva, con ferma speranza, con ardente carità! Che abbiamo sempre a provare gli effetti meravigliosi di un tanto Sacramento, affinché per mezzo di esso vivendo ora della stessa vostra vita, possiamo poi un giorno godere della vostra felicità.