DIO IN NOI (7)
[Versione p. f. Zingale S. J. –
L. I. C. E. – Berruti & C. – Torino, 1923; imprim. Torino, 7 aprile 1923
Can. Francesco Duvina]
LIBRO QUINTO
Pratica
dell’intimità
con Dio in noi
Abbiamo visto quale sia il nostro tesoro. Esso diventerà veramente nostro, se ci sforzeremo di:
Desiderarlo,
Proteggerlo,
Acquistarlo.
CAPO I.
Desiderare il
nostro tesoro.
L’Olier, narrano i suoi biografi, spesso sentiva una voce interna mormorargli con una soavità imperiosa: « Vita divina, vita divina! ». Dalla sua seconda conversione, che fu un’oblazione assoluta di se stesso, « … la sua esistenza rassomiglia a una solennità ». La bruttezza delle apparenze svanisce dietro la grandezza delle realtà. Tutta la sua vita è espressa in questa preghiera che rivolgeva a Dio: « La vostra luce sia la sola luce che mi guidi e mi faccia vedere tutte le cose, tali quali sono in se stesse » (E. HELLO: Le Siecle, p. 400. — Alla sua volta l’Olier faceva del P. de Condren questo elogio: « Si vedeva in lui una semplice apparenza ed una scorza di ciò che mostrava essere in realtà: al di dentro era invece tutto un altro, essendo come l’interiore di Gesù Cristo, e la sua sacra vita; di modo, che piuttosto era Gesù Cristo vivente nel P. de Condren che il P. de Condren vivente in se stesso. Era come un’ostia dei nostri altari: al di fuori si vedono gli accidenti e le apparenze, ma al di dentro vi è Gesù Cristo). Abbiamo noi pure bisogno d’una voce, simile a quella che si faceva sentire all’Olier, per adottare queste due parole: « Vita divina » come nostra regola abituale? No; basta ricordare gl’insegnamenti della fede. Bisogna inoltre, essere « dotali di perspicacia », per sapere « coltivare accuratamente il proprio Battesimo » (La vie spirituelle e l’oration, di Madre CÉCILE De Solesmes, c. V). – Quando il patriarca Giacobbe scorse in una visione la scala misteriosa che dalla terra giungeva al cielo, per la quale gli Angeli salivano e discendevano, si svegliò in preda a un terrore soprannaturale e disse: «Certamente il Signore è qui, e io non lo sapevo! Questo luogo è in verità la casa di Dio e la porta del cielo » (Gen. XXXIII, 16, 17). Accadrebbe lo stesso a noi, dice il cardinale Manning, se ci svegliassimo e avessimo il sentimento intimo che lo Spirito Santo ci sta vicino, ci circonda, vive in noi, « che è tutto orecchi per ascoltare ogni palpito del nostro cuore, che è attento a ogni pensiero, che penetra la nostra immaginazione, che tutto l’essere nostro gli è manifesto ». Ma per nostra sciagura, la maggior parte degli uomini vive come se non avesse un’anima… Anche la maggior parte di coloro che più o meno hanno il sentimento del prezzo dell’anima loro, che possono salvarsi o perdersi eternamente, vivono come se Dio non dimorasse in loro. « Non pensano punto alla presenza divina, non voglio dire in tutto l’universo… parlo per adesso della presenza di Dio nell’anima. Quegli stessi che sono Cristiani per la loro fede e per i lumi spirituali, che sanno e ripetono di avere un’anima da salvare, vivono senza avere il sentimento abituale o giornaliero di non essere mai soli (Il Manning non vuol dire conoscenza sentita, ma conoscenza « effettuata » vivente): che cioè Dio abita nell’anima come l’anima nel corpo. Questa è la verità ». « Senza provarlo, noi siamo il Paradiso di Dio; bisogna pensare e agire in maniera che Dio sia, alla sua volta, il nostro Paradiso » (SERTILLANGES: « La Vie en présence de Dieu » R. des Jeunes, 10 mai 1918).Questo programma che potrebbe sembrare ambizioso, dovrebbe essere quello di ogni battezzato.« Il vero Cristiano si definisce, diceva Newman, allorquando lo si chiama un uomo imbevuto dal sentimento della presenza di Dio dentro di sé …, che vive del pensiero che Dio è là, nel cuore del suo cuore…, un uomo la cui coscienza è illuminata da Dio in modo che viva nell’impressione abituale che tutte le sue pene, tutte le fibre della sua vita morale, tutti i suoi motivi e desideri, sono spiegati dinanzi all’Onnipotente» (H. BRÉMOND: « Sermons choisis de Newman » sotto Il titolo: La Vie chrétienne, p. 236). Ohimè! se bisogna attenersi a questo modello, quanto pochi sono i « veri Cristiani »! Nostro Signore se ne lamenta. Non rivelava difatti, ultimamente, a un’anima santa: «Io sono in molti cuori come un tesoro infruttuoso; mi possiedono perché hanno la grazia, ma non sanno valersi di me: supplisci a questo »? (Benigna Consolata Ferrero, visitandina di Como). Come pervenire alla conoscenza pratica dell’abitazione continua di Dio in noi, mediante la grazia? In primo luogo scegliendo questa dottrina come soggetto frequente di meditazione. (Alle anime che si sentono attratte dall’argomento dell’Abitazione divina, indichiamo la nostra piccola Imitazione: Vivere con Dio, raccolta di pensieri rapidi ed atti a farci riflettere sul grande tesoro nascosto dentro di noi). È manifesto che se, volontariamente e con uno sforzo coraggioso, ogni mattina o almeno in circostanze frequenti, ci studiamo di fissare il nostro pensiero al centro dell’anima nostra, dove è il grande tesoro, subito, con l’intervento della grazia e in virtù della buona abitudine, il ricordo involontario, spontaneo, senza sforzo, di Dio presente in noi ci diventerà familiare. « Gli uomini vivono alla superficie dell’anima, senza mai penetrarne il contenuto profondo. Oh se sapessimo raccoglierci, veder chiaro in noi stessi, e capire » (ELISABETTA LESEUR) (Nel suo « Journal », p. 298). « Dio abita in noi, quale accoglienza facciamo a quest’ospite? Io mi confondo al pensiero che non appena Egli entra in me, io mi volgo e l’abbandono per attendere a bagatelle » (PAOLINA REYNOLDS). – Citiamo espressamente due persone che vissero nel mondo, l’una durante tutta la sua vita, l’altra fino all’età di cinquanta anni (Poi entrata al Carmelo. Due volumi dal titolo: Paoline Reynolds, dell’abate PICOT, Beauchesne Paris, 1916). Si crede troppo che la dottrina dell’Abitazione di Dio in noi appartenga al dominio esclusivo dei chiostri. Ma in realtà, poche anime fra lo strepito generale delle cose che passano, consentono a imporsi il silenzio necessario per ascoltare lo strepito misterioso che fanno in noi le cose divine. Dio si tiene nascosto: Deus absconditus. Si rivela nella calma, non mai fra lo strepito; non in commotione Dominus. « Io lo sento: la prima disposizione che debbo portare, scrive ancora Paolina Reynolds, è il silenzio secondo la parola di Taulero; il Padre ha una sola parola, è il suo Verbo e suo Figliuolo. Egli la pronunzia in un silenzio eterno, e l’anima la riceve e l’ascolta nel silenzio». E continua: «Silenzio, adunque, o anima mia, per ascoltare Dio. Silenzio per ricevere il Verbo; silenzio per permettere che ti parli, che si faccia capire da le e viva in te. Silenzio e preghiera! ». Per disavventura, « quello di cui più difetta la nostra generazione, è il raccoglimento». Ognuno avrà potuto fare la stessa osservazione di Elisabetta Leseur. – Il P. Gratry pensava un giorno che cosa diventerebbe il mondo se consentisse a osservare quella mezzora in silenzio, di cui parla la Scrittura; se tutti gli uomini, durante mezz’ora, consentissero ad occuparsi insieme dei loro privilegi eterni. Che cosa diventerebbe il mondo? È facile indovinarlo. Ma dove trovare questa solitudine in cui Dio, nascosto nell’interno dell’anima, si manifesterà? Un soldato, Psichari, nipote di Renan, si convertì mediante il contatto prolungato col deserto. Lo strepito scompiglia e corrompe: « Il deserto è una terra benedetta. Nostro Signore vi risiede; centinaia di religiosi ne hanno compreso la santità. Sarei per dire che le Tebaidi esistono ancora, ma mancano le anime pronte per ascoltarvi la voce di Dio ». Le Tebaidi esistono tuttora. Il deserto non difetta alle anime che non si spaventano alla vista « degli spazi infiniti », e che sono stimolate dal desiderio di esplorarli, perché sospettano anticipatamente dinanzi a quali scoperte conduce la loro pia carovana. Dovunque siano, queste anime solerti e audaci, sanno trovare un angolo silenzioso a loro vantaggio. « La solitudine non difetterà mai a coloro che ne sono degni » (Non sarebbe conveniente, con la pratica della meditazione giornaliera, consigliare qui l’uso dei « Ritiri » e specialmente dei « Ritiri chiusi »?). Il desiderio di conoscere meglio « l’interno » dell’anima nostra, genera l’amore della preghiera e del raccoglimento. L’uso della preghiera e del raccoglimento, alla sua volta, produce un desiderio più intenso per penetrare ognora più, fino al cuore « del nostro interno ». Si ha, come effetto, che ogni giorno si scoprono nuove ricchezze e il grido degli Apostoli corre alle labbra: « Qui si sta bene. Rimaniamo qui. Spieghiamo qui una tenda». Quel grido, del resto, è l’eco del grido di Dio, la cui misericordia, avendo scorto l’abitazione meschina del cuore umano, ha voluto farne la sua dimora prediletta, un succedaneo del Paradiso. « Donum est nos hic esse, ha detto la Trinità divina. Qui si sta bene. Mansionem apud eum faciemus, noi vi resteremo ! ». Ciò spiega l’ambizione invincibile di alcune anime. L’una di esse fece questo proposito:« Voglio essere continuamente la piccola occupata del grande Dimenticato ». « Quante cose possono raccontarsi, quando si vive sempre insieme, osserva la medesima anima, quando siama infinitamente, e l’uno dei due è Dio! ». Aveva scritto nel suo programma: «Sfruttare particolarmente la solitudine, è per me come un sacramento. Egli è sempre là » (Questo programma è quello di tutti i santi. La vita di S. Gregorio Magno fu riassunta dal suo biografo in una sola parola: « Secum vivebat. Era un uomo ” interiore ,, ». — S. Girolamo scriveva a Eustochio: « Semper te cubiculi fui secreta custodiant, semper tecum Sponsus ludat intrinsecus, Oras, loqueris ad Sponsum; legis, Vie tibi loquilur, ecc. ». Chiudete dietro a voi la porta della vostra cella e vivete « interiormente » là dove lo Sposo abita familiarmente con voi ». — È superfluo ricordare che « vita interiore» non significa esame scrupoloso, ricerca continua e morbosa dei più piccoli difetti, con incessanti e inutilissimi richiami sul passato. Ciò è molto lontano dalla vera devozione. Quanto più il raccoglimento è sorgente di vita, così come l’abbiamo descritto, e perviene a trovare Dio; altrettanto il ritorno febbrile su se stessi, e gli esami di coscienza indefiniti, sono sterili, se non pericolosi, per la pietà). – Dio è sempre là; ma noi non possiamo esservi sempre; altrimenti non saremmo più in terra, ma in cielo. Possiamo, nondimeno, sforzarci di essere là il più spesso che ci sia possibile. – Per molti, un’immensa lacuna separa il tempo della preghiera da quello delle occupazioni quotidiane. Quanti Cristiani, anche non alieni dalla pietà, quante anime devote e ferventi, la cui vita è spezzata da una strana interruzione! Alcuni momenti, più o meno lunghi, sono consacrati, al mattino, alla preghiera, alla meditazione e all’orazione, se si vuole; tutto il resto del giorno si trascorre poi senza punto ricordarsi della meditazione o preghiera fatta all’aurora. Un’esistenza spezzata in due parti. Pochi minuti per pensare a Dio, tutti gli altri trascorsi senza più pensarvi. « Non confinare Gesù nelle mie comunioni e orazioni. Dirgli: non vi lascerò partire » (T. II, p. 336). Proposito fatto da Paolina Reynolds, e che tutti dovremmo fare nostro. Ella aggiungeva (T. II, p. 22): « L’uso della preghiera nelle minime occasioni, ci aiuta a effettuare la prossimità del mondo invisibile ». Diciamo meglio. Senza l’abitudine della preghiera, nelle più piccole occasioni, è impossibile ottenere la prossimità del mondo invisibile — che pertanto è una condizione indispensabile della vita « interiore ». Allorquando Marta va a chiamare Maddalena per prevenirla che il Maestro è là e aspetta, non trattasi di un’ora determinata. Dentro di noi il divino Maestro è presente. Ci chiama, ci chiama perpetuamente, dice S. Paolo. Magister adest et vocat. Egli chiama. Risponderemo noi? Perché chiama proprio noi. Vocat te. –Al pozzo di Giacobbe, quando Gesù conversa con la Samaritana, l’Evangelo riferisce: «Era l’ora di sesta ». Nostro Signore è presente alla sesta, alla prima, all’undecima, a tutte le ore. Lungo tutto il giorno — durante la vita intera — il Maestro ci aspetta. Siamo sempre in tempo per andare a Lui. Noi invidiamo la sorte della Samaritana. La Samaritana siamo noi. È l’ora sesta. Gesù sta al pozzo di Giacobbe. Ci aspetta. L’orlo del pozzo su cui il Salvatore riposa, aspettando, è l’orlo del nostro cuore. Non può fare a meno di noi. Vuole che siamo là dove Egli abita. Egli non abita all’orlo del cuore, ma nel mezzo; ecco il santuario preferito da Lui, ma poiché non possiamo stare continuamente prostrati ai piedi dell’altare, Egli si degna fare dei nostri cuori altrettanti tabernacoli. Dal fondo di essi ci invita, e perché desidera moltissimo che noi desideriamo Lui, vuole sapere se viviamo nel bisogno di Lui, o se ne siamo soddisfatti. – Quanto poche sono le anime che cercano con avidità qualche cosa, allorquando hanno bisogno del soprappiù. Si direbbe che noi abbiamo tutto quello che ci occorre. Creature singolari che ci contentiamo del nulla, che il nulla basta a colmare. Bisogna aver prima visto passare il Maestro per rivolgere la domanda: « Dove abita il Messia? ». Bisogna amarlo molto, per dire come Maddalena al pseudo ortolano del mattino di Pasqua: «Oh! Ditemi, ditemi dov’è ». Del resto chi così cerca, come Maddalena al sepolcro, lo possiede già. S. Francesco Saverio non poteva capire che vi fossero tanti mercanti, in cerca di pepe e altre droghe dell’Oriente. Noi stessi non giudichiamo forse troppo l’ardore degli scavatori d’oro fra i ghiacci dell’Alaska? Perché non sarebbe maggiore il numero di quelli che amano unicamente la perla preziosa, e che, per quanto dipende da loro, studiano i mezzi per trarre vantaggio dal tesoro che possiedono costantemente? Psichari diceva: « Si trema a scrivere in presenza della Santa Trinità ». Premettiamo a ogni nostra azione, come egli faceva, un intervallo di tempo, affine di ricordarci della presenza di Colui che vive dentro di noi. Un soldato diceva: « Non ho chiesa. Rientro in me stesso, dove si trova Dio ». Si cita anche l’esempio di un ammiraglio, morto poco tempo fa, che per vivere «interiormente», si esercitava a non perdere il sentimento della presenza di Dio. « Egli è in me, e io non vi penso. Mi porta nel suo cuore, e io duro fatica a portarlo un momento nel mio spirito », confessava, più che per conto proprio, per utilità nostra, il Padre De Gonnelieu, in un trattato suggestivo sulla Presenza di Dio. « Ogni battezzato, secondo il consiglio che dà con espressione felice il P. Sertillanges, dovrebbe fare di tutto un’aspirazione, una preghiera, una cerimonia rituale, un’azione salvatrice, un amore; della casa un oratorio, della tavola, del letto, del banco, dello scrittoio, del fornello domestico o della officina, un altare; fare della vita, dal mattino alla sera e dalla sera al mattino, del sonno, del riposo, del giuoco, della conversazione, del lavoro a un tempo e della preghiera, un avvenimento religioso, un rito d’eternità in un tempo provvisorio. Ecco il pensiero cristiano, ed anche lo sforzo di coloro che lo capiscono a dovere; nessuno può dirsi Cristiano se non nella misura in cui vi si adatta ». « Formare di tutto un’aspirazione ». Noi ripetiamo qui l’ideale di cui dicevamo al principio di questo capitolo: «Condurre una vita che rassomigli a una solennità ». Altro, in realtà è possedere Dio, per la grazia, al fondo dell’anima; altro penetrare tutte le fibre del proprio essere della grazia di Dio. È diverso il caso di chi vive abitualmente in grazia e di chi vive in grazia in un modo sempre attuale. – Sempre attuale, che cosa vuol dire? Possiamo aspirare a trascorrere la vita col pensiero costante di Dio presente? No, e non bisogna ingannarsi, per evitare gli scrupoli o i malintesi. Senza una grazia molto rara e meramente gratuita, è psicologicamente impossibile pensare a Dio costantemente. « Sempre » significa dunque non assoluta interruzione, ma continuità morale, cioè desiderio di dimenticare, il meno che ci riesca possibile, il nostro ospite divino, applicandoci ad andare a Lui, non con eccessiva costrizione della mente, ma per inclinazione consueta del cuore. E questo modo non deve sembrare a nessuno troppo rudimentale: « La pena costante di non aver Dio sempre presente, è già una presenza continua di lui » (BAUDRAND: L’Ame intérieure, p. 199).
CAPO II.
Proteggere il
nostro tesoro.
Depositum custodi! Custodite con cura il vostro deposito. Il semplice desiderio di vivere « interiormente » non basta per creare tra noi e il tesoro che portiamo l’intimità che ci vuole. Una perla così ricca ha molti invidiosi e bisognerà custodirla con molte precauzioni. Il soldato in trincea non si appaga della sola attenzione. Per evitare le sorprese moltiplica i mezzi accessori di difesa, come rovi artificiali, razzi e altro. L’anima nostra, scrigno di Dio, dovunque deve vegliare sulle sue ricchezze, e passare,come Tarcisio, in mezzo ai giocatori di dischi e di piastrelle, respingendo gl’indiscreti e i noiosi. – Un principe dell’impero romano, abitualmente portava appesa al collo una piccola palla d’oro con quest’incisione: « Ricordati che sei di Cesare ». Noi potremmo dire assai meglio: « Ricordati che Cesare è tuo! ». Ma questo porta con sé alcune esigenze. Dobbiamo vivere in mezzo agli uomini. L’autore dell’Imitazione di Cristo, che senza dubbio ne aveva fatto l’esperienza, giudica il suo soggiorno «all’esterno» assai severamente: « Ogni volta che sono andato in mezzo agli uomini, egli dice valendosi di una parola di Seneca, ne sono tornato meno uomo ». E noi possiamo aggiungere: « Ne sono tornato meno “Dio”, meno penetrato della presenza del divino Maestro in me. Dunque eviteremo i passatempi e le occupazioni inutili, le amicizie, le intimità e le riunioni inutili. Non diciamo indispensabili ovvero utili, né dannose; ma inutili. E ciò comprende tante, tante circostanze! « La vostra conversazione, dice San Paolo, dev’essere con Gesù Cristo in Dio: Societas vestra cum Cristo in Deo». Non parla di alcun’altra. Avremo così la « conversatio in cœlis», la sola che possa permettersi in una « cappella » e vicino al « tabernacolo ». Che se la carità, lo zelo, gli obblighi del nostro stato ci ingiungono o ci invitano ad abbandonare l’«interiore», è allora il caso di non parlare se non per dire qualcosa che valga più del silenzio. Siamo più pronti ad ascoltare, e più difficili a parlare. Questo è il consiglio di S. Giacomo. Chi parla molto, ha poche occasioni di ascoltare. – S. Alfonso Rodriguez osservava: «Bisogna parlare poco con gli uomini, e molto con Dio. Avere sempre Dio presente nel fondo del cuore e stabilirvi una specie di ritiro… Non fare, né dire cosa alcuna, senza avergli chiesto consiglio ». Consiglio di un santo, dirà qualcuno, buono per i santi, o d’un religioso per religiosi! — No, ma avviso che serve a tutti, e molto più utile per coloro che non sono protetti dalla regola del silenzio contro le invasioni che vengono dall’esterno. « Ci formiamo un’idea falsa della vita soprannaturale. Quanto a me, la vita cristiana è interamente legata alla fedeltà con cui si pratica questa massima: Vivere a ogni momento la propria vita con Gesù Cristo. Sapere che Lui, l’amico, il confidente, il Maestro, sta accanto a noi e in noi ». Chi parla così? Un avvocato, presidente della Gioventù cattolica. E il direttore di un nostro grande oratorio festivo dà questo avviso: « Non tutti saremmo capaci di vivere in un chiostro o la vita sacerdotale; e tuttavia ciascuno deve vivere della vita interiore, la vita della grazia, la vita divina ». – E a coloro, cui una vita troppo esteriore impedisce di raccogliersi, consiglia il libretto dell’Imitazione. « La dottrina dell’Imitazione è in realtà la vera dottrina cattolica della rinunzia di se stesso, della vita intima con Dio. Il Cattolico di oggi non è esonerato dal praticare simile vita, benché ad alcuni sembri fuori moda, ad altri impraticabile » (E. MONTIER, direttore dei Filippini di Rouen: La culture catholique, 1913, cap. IV, p. 61).Quanto più la vita esteriore è attiva, altrettanto il consiglio di « rientrare in se stessi ». s’impone. Le Catholique d’action (Del P. GABRIEL PAPAU, Tr. Lebessou-Jury (Casterman). nota molto bene:« Se vuoi gustare le dolcezze dello spirito,ritirati in disparte, in luogo dove tu possa conversare con me liberamente.« Sii persuaso di non aver fatto nulla per Dio, finché non avrai appreso quanto sia dolce abitare da solo con me. – « Non dire: non posso raccogliermi; non ne ho il tempo; se questo fosse vero, sarebbe un motivo di più per isolarti e riposarti un poco» (Il P. DE RAVIGNAN diceva: « Nei giorni in cui sono sovraccarico di lavoro e non so donde cominciare, fo in primo luogo mezz’ora di meditazione come supplemento »). Questo ideale non è chimerico. Il Maze-Sencier, facendo l’elogio di un soldato, Pietro de Morel, vittima della guerra, lo dipingeva come un’anima profonda che sapeva « raccogliersi, cioè ricercarsi, scrutarsi, ritrovarsi ». – Abbiamo già parlato di Pietro Poyet, giovine studente della rue des Postes, della sua conoscenza della « vita interiore ». « Ascoltare in se stesso la voce interna di Dio, e conformarvisi senza indugio », era il suo programma. Faceva sue le parole di S. Paolo: « Gratia Dei urget nos, la grazia di Dio ci stimola », rendendosi conto che l’acqua delle sorgenti divine agisce nell’anima come una gora sopra una chiusa; e che dipende da noi, dai nostri sforzi, di lasciarci invadere dal torrente. Quante precauzioni quindi non usava, per non perdere occasione alcuna di lasciarsi penetrare dalla grazia! Nella sua regola di vita sta scritto che per mezzo di segni convenzionali spingeva se stesso a frequenti aspirazioni verso Dio. – Il Maestro interiore risiede effettivamente, a ogni istante, nell’anima nostra, in grazia; ma la sua presenza è rivelata solo a colui che Lo cerca e si mette nelle condizioni richieste per trovarlo; sempre presente, ma sempre invisibile. E il giovine studente si applicava a rappresentarsi al pensiero, per mezzo di richiami preveggenti e di una lunga « ginnastica di ricordi », Colui verso il quale il suo cuore e la sua fede gli suggerivano di andare (Notice, dell’abate Rouzic, pp. 23-29). Lo strepito delle conflagrazioni recenti fa apparire più chiara che mai l’opportunità, la necessità della vita « interiore » : « Per riprendere vita occorre in primo luogo che la Nazione si raccolga. Vi sono molti che io chiamo nel fondo del loro cuore e che non ascoltano il mio appello » (Journal spirituel de Lucie Christine, pubblicato dal P. POULAIN, p. 85). La salvezza del mondo non è affidata allo strepito delle armi, né al fragore delle macchine; meno ancora ai fiumi della parola: « la discesa di Dio nelle sue creature con la santificazione individuale, ecco ciò che procura la salvezza dei popoli, moltiplicando gli eletti » (M.gr Moneslès, nella sua lettera d’approvazione dei Souvenirs de Soeur Elisabeth). – Forse nessuno ha dimostrato meglio di Elisabetta Leseur come praticamente si possa conciliare l’attività della vita esteriore con l’attività di quella interiore. Essa non ignora il conflitto: «Tenere l’anima sempre semi-aperta alle anime che vorrebbero confidarsi a lei; ma non aprirla interamente; riservarne sempre la parte più intima a Dio solo» (pag. 174 e seg.). «Divenire affabile… Riservarmi intanto alcuni minuti di raccoglimento più lunghi che mi sia possibile, per dare all’anima mia l’alimento che la renda più forte, più pacifica, più ripiena di vita soprannaturale ». Il primo apostolato sarà quello del raccoglimento, l’apostolato dell’esempio: « Intorno a me vi sono molte anime che io amo profondamente e ho una grande missione da compiere attorno a loro… Bisogna che attraverso all’anima mia si possa intravedere il mio Ospite adorato… Tutto in me deve parlare di Lui … Non voglio essere una chiacchierona spirituale » — oh quanto è bella questa risoluzione! — « e salvo il caso in cui la carità me ne faccia un dovere, voglio conservare questo grande silenzio dell’anima, questo solo a solo con Dio, che è il custode della forza e della virilità interna. Non bisogna dissipare nulla, — l’anima soprattutto! — ma concentrarla interamente in Dio, affinché essa mandi i suoi raggi più lontano » (pp. 61 e 139). – Quindi nell’ordine dei valori, Dio da custodire al di dentro, in primo luogo; e solo in seguito, Dio da dare agli altri; ordine che spesso è purtroppo invertito! (Leggansi le pagine penetranti di D. CHAUTARD, in L’anima di ogni apostolato: le opere senza vita interiore). – Quanti potrebbero rivolgere a se stessi il rimprovero che si rivolgeva il Cardinale Du Perron nell’atto di morire, quello di aver cercato, durante la vita, di perfezionare l’intelligenza, per mezzo dello studio, piuttosto che la volontà con l’esercizio della vita interiore! – Che regola d’oro questa: « Dare di sé unicamente quello che può riceversi con profitto dagli altri; custodire il resto gelosamente, come l’avaro fa del suo tesoro, negli angoli più reconditi dell’anima, ma con l’intenzione di sacrificarlo allorché l’ora sarà arrivata » (p. 287). « Riassumendo, notava Elisabetta alla fine di un ritiro, riservare a Dio il fondo dell’anima mia e la mia vita interiore e cristiana. Dare agli altri incanto, serenità, bontà, parole ed opere utili » (p. 147). E nel dono di sé agli altri, lasciare Dio il meno possibile, ciò che riassume il miglior modo di dare Dio. « Fare del Cristo, sempre vivo e presente in mezzo a noi, il modello della nostra vita e l’amico di ogni ora, dolorosa o benedetta. Domandargli di farsi amare da altre anime per mezzo nostro, ed essere, secondo un paragone che mi piace, il vaso rustico che racchiude una luce brillante, attraverso il quale questa luce rischiara e riscalda tutto ciò che la circonda» (p. 291). I direttori della vita spirituale non parlano altrimenti. « Imitate l’esempio, dice il P. Nouet (La Grandeur du chrétien danx ses rapports avec la Trinitè, p. 236), del Padre Eterno che continuamente si contempla nel suo Verbo e che lo manda nel mondo, ma in tal maniera da ritenerlo nel suo seno. Il vostro Verbo è la considerazione di Dio in voi, e di voi in Dio, che non dovete mai abbandonare.Se qualche volta la trasportate ad altri oggetti, dovete subito richiamarla. Sì, a volte si allontana, ma non bisogna mai permettere che si separi da voi: il suo progresso non dev’essere mai un’uscita; ovvero se esce, non deve abbandonarvi». – S. Francesco di Sales unisce al consiglio un doppio paragone: « Un uomo che abbia ricevuto, in un recipiente di bella porcellana, un liquore di molto valore, per portarlo a casa cammina a passi lenti: non guardando mai di lato, ma ora innanzi a sé per non urtare contro una pietra e non fare un passo falso, ora lo stesso vaso, per impedire che s’inclini da un lato qualunque. Al termine delle vostre pratiche di devozione, voi dovete fare lo stesso. Non dovete distrarvi ad ogni momento, ma guardare semplicemente davanti a voi; e se vi occorre d’incontrare qualcuno a cui siete tenuti di parlare o siete costretti di ascoltare, non potendo fare altrimenti, adattatevi, ma in maniera che possiate guardare anche il vostro cuore, affinché il liquido prezioso della preghiera sfugga il meno possibile ». Così nell’Introduzione alla vita devota, nel libro VI dell’Amore di Dio si legge (cap. X):« Come il fanciullo che sollevata la testa dal grembo di sua madre per vedere dove ha i piedi, la rimette subito, perché si sente vezzeggiato, così noi, accorgendoci di distrarci dalle pratiche devote a causa della curiosità, dobbiamo subito rimettere il nostro cuore nell’attenzione soave della presenza di Dio, dalla quale ci eravamo sottratti ».Dio concede favori speciali ai suoi privilegiati. – C’insegnano gli storici di S. Teresa che lungo i suoi viaggi non perdeva mai, per dir così, un sol momento la vista dell’Ospite interiore. Possedeva nel più intimo dell’anima sua le tre Persone divine; sentiva in modo meraviglioso la loro presenza, e se ne vedeva accompagnata sempre. Quindi non si dava mai, per la Santa, un momento in cui le mancasse la solitudine. Avrebbe desiderato di non dover mai parlare con gli uomini. Confessiamo francamente che i Santi non ci rassomigliano affatto! (nella settima dimora del Castello Interiore, la Santa descrive così le operazioni dell’ammirabile Trinità nell’anima sua: « Avendo Dio introdotto l’anima nella sua dimora, le tre Persone della Trinità Santa si comunicano a lei, le parlano e le fanno capire il senso delle parole che nostro Signore dice nell’Evangelo: Se qualcuno mi ama osserverà i miei comandamenti, e mio Padre l’amerà, e verremo a lui e stabiliremo in lui la nostra dimora. Oh, mio Dio, quanto si è lontani dall’avere l’orecchio colpito da queste parole, di vederle anche, di capirne la verità nel modo in cui ho detto! Dal momento in cui quest’anima ha ricevuto un tal favore, prova uno stupore che aumenta ogni giorno, perché le pare che le tre Persone divine non l’abbiano mai abbandonata: vede chiaramente che sono nell’interno dell’anima e nel posto più recondito, e come in un abisso molto profondo; questa persona non saprebbe dire che cosa sia quest’abisso cosi profondo, dove sente in sé stessa questa divina compagnia »). – Nella vita di alcune anime molto interiori, si nota che Dio, per ricompensare senza dubbio la loro buona volontà e il desiderio che hanno di vivere unicamente «nel loro interno», si compiace di concedere loro, in circostanze in apparenza meno favorevoli al raccoglimento, una facilità singolare a raccogliersi. – Santa Margherita Maria prova, in modo speciale, il benefizio del raccoglimento al refettorio, non ostante le letture di regola. Ed Emilia d’Oultremont, che fondò l’Istituto di Maria Riparatrice, sul più bello della danza, sente un primo attraente appello di Nostro Signore, e fa questo proposito irrevocabile: «Maestro, voi solo nella mia vita! ». Teodolinda Dubouché (Fondatrice dell’Istituto dell’Adorazione Riparatrice) un giorno è costretta ad andare al teatro dell’Opera. Durante l’intera serata, continua a tenersi unita con Dio. Privilegi speciali questi che non possiamo pretendere. – La vita divina nell’anima in grazia non implica in sé nulla di simile. E se, come accade, cerchiamo le distrazioni, aspetteremo invano l’aiuto di Dio per raccoglierci. Ma anche in mezzo allo strepito non potrebbe ognuno di noi imitare la piccola venditrice ambulante che nella sua baracca, inginocchiata in un angolo, nei giorni di comunione, diceva: «Signore Gesù, io non dimentico che voi siete in me » (Alcune giaculatorie possono aiutarci molto: « Dominus tecum. — Noi due soli. — Per ipsum, cum ipso, et in ipso. Per Lui con Lui, in Lui ». — E quante altre simili!). Con un po’ di sforzo, si acquisterà l’uso di valersi delle occasioni, anche le meno atte in apparenza, per rientrare « dentro di noi ». Dobbiamo conversare col prossimo? Tre regole s’impongono. Parlare con discrezione: io sono un tabernacolo. Parlare con sincerità:parlo a un tabernacolo, o a qualcuno che Dio destina a divenire tale. Parlare con carità: colui del quale parlo è anch’egli un tabernacolo, ovvero può divenirlo (Spontaneamente le anime di fede hanno questo rispetto, questa deferenza cristiana, questa cortesia santa per gli altri. I Superiori domandarono a San Luigi Gonzaga che limitasse le manifestazioni di rispetto verso i suoi compagni. L’Olier, quando passava accanto alla cella del P. de Condren, suo secondo superiore dopo il Card, de Berulle, soleva fare una genuflessione e a chi gliene domandava la ragione, rispondeva: « Dentro non c’è il P.de Condren, ma Dio nel P. de Condren »). – E se la voce che ci chiama fuori è quella dell’apostolato, del bene che dobbiamo fare alle anime, è regola impreteribile che occorre perdere Dio di vista il meno possibile. In ogni Messa il sacerdote si rivolge ai fedeli parecchie volte, per ricordare che Dio è con loro: Dominum vobiscum. Ciò non indica forse che parecchie volte al giorno il fedele dovrà rientrare in se stesso e ripetere: Dominus tecum? Se sapesse farlo anche a ogni Ave che recita! Da vera discepola della sua Santa Madre,Suor Elisabetta scrive che « per raggiungere la vita ideale dell’anima, bisogna vivere nel soprannaturale, avere coscienza che Dio è nel più intimo di noi e portarsi dovunque insieme con Lui; allora non si agisce in modo comune, pur facendo cose molto ordinarie, giacché non si vive in esse, ma si sorpassano. Un’anima soprannaturale non tratta con le cause seconde, ma semplicemente con Dio ».E aggiunge: « Nell’azione, allorché si compie in apparenza l’ufficio di Marta, l’anima può sempre dimorare, come Maddalena, assorta nella contemplazione, tenendosi a questa sorgente come un’assetata. Io non so concepire altrimenti l’apostolato » (In ogni pagina di Santa Teresa si trova un invito. Ecco un passo fra i molti: « Voi potreste credere che allorquando le occupazioni necessarie vi sottraggono a questo ritiro interno del cuore, facciate una larga breccia al raccoglimento; disingannatevi. Purché in seguito siate fedeli a rientrarvi, il divino Maestro disporrà tutto a benedell’anima vostra. Allorquando l’occupazione ha interrotto il raccoglimento, non vi è altro rimedio che ricominciare a raccogliersi ». – Castello Interiore, seconda dimora, cap. I— Forse degni di nota particolare sono i capitoli XXIX e XXX del Cammino della Perfezione). – L’apostolato così compreso, facile per una carmelitana, non è meno indispensabile a tutti, perché apporti vantaggio. Al di fuori di questa regola, potrà essere clamoroso, ma non mai fecondo. – Monsignor Gay raccoglieva il suo pensiero in una frase che nello stesso tempo è un riassunto e un richiamo: « Voi siete un tempio: mettetele cose nel vestibolo, gli uomini nella navata; ma riservate a Dio il santuario ».
C A P O III.
Conquistare il
nostro tesoro.
La difensiva non è mai stata la grande regola dei popoli, né delle anime che vogliono regnare. Non basta proteggere il nostro interno dove Dio alberga. Affinché quest’ « interno » ci appartenga, diventi nostro veramente, bisogna conquistarlo e spesso a forza di lotte dure e perseveranti. I maestri della vita spirituale sono unanimi nel dire, e in mancanza loro, l’esperienza personale più elementare lo attesta che allora solo si trova Dio, quando si è decisi a perdere se stessi. Sarebbe un mero sogno credere che il viaggio dalle cose esteriori all’intimo di se stesso, possa farsi in « sleeping-car », o in vettura imbottita di seta! Se aprite il libretto dell’Imitazione, il Combattimento spirituale, gli Esercizi di S. Ignazio, S. Teresa, S. Francesco di Sales o qualsiasi autore ascetico di qualche importanza, troverete ripetute le stesse espressioni: vincersi, andare contro il proprio capriccio, distruggere, sacrificare, agere contra, ut homo vincat seipsum; tutto questo annunzia la lotta. Ogni libro di devozione che non è un manuale sul modo di combattere, non sarà mai un vero libro di pietà. Ma per non avere esaminato la ragione intima di questo combattimento contro se stesso, molti si scoraggiano, inciampano, esitano. Fin dal principio risalta la parola: « vincersi », parola che è scritta in rilievo sul frontone, e che fa spavento. «Vincersi»…. bisognerà dunque combattere? arrischiare qualcosa… E poi « vincere se stesso », vi sarà quindi in me una parte che resterà vinta; sarò diminuito, amputato proprio di quanto io stimo di più! Dal punto di vista di una buona accoglienza, è meglio entrare subito nel cuore dell’edificio; svelare là dentro tutte le ricchezze contenute, l’intimità possibile, certa… e uscendone, mostrare — allora solamente — le parole terribili scritte sul frontone. È semplice questione di metodo, ma che ha il suo valore. Ho bisogno di un parafuoco tra il dolore e la paura: — l’amore — un riparo tra il legno dell’olocausto e la mia timidezza — il divin Salvatore — di un risultato garantito e importante, tra gli sforzi miei e la mia oppressione supposta, premeditata, voluta — l’intimità col mio Dio. — Allora io cammino. Se ho presenti gli scopi di guerra, mi batterò finché sarà necessario! Il posto — e con esso — lo scopo della battaglia so quale è: entrare in possesso di questo « interiore » che porto in me, e dove Dio stesso abita. Tre stadi fisseranno la storia della conquista. Il primo lavoro consisterà nel ritrovare me stesso. Pervenire fino a me. In me, rendermi conto che non sono solo, siamo due: l’Ospite divino e io. Ciò verificato, capire che dei due uno è superfluo. Sforzarmi di rimpicciolire il mio posto per lasciare a Dio tutto il regno. – Riassumendo:
Io solo;
Lui ed io;
Lui solo.
[7- Continua …]
https://www.exsurgatdeus.org/2020/01/02/dio-in-noi-8/