DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE (2019)

DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE (2019)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Jer XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.
[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Oratio

Orémus.
Absólve, quǽsumus, Dómine, tuórum delícta populórum: ut a peccatórum néxibus, quæ pro nostra fraglitáte contráximus, tua benignitáte liberémur.
[Perdona, o Signore, Te ne preghiamo, i delitti del tuo popolo: affinché dai vincoli del peccato, contratti per lo nostra fragilità, siamo liberati per la tua misericordia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses.
Phil III: 17-21; IV: 1-3

Fratres: Imitatóres mei estóte, et observáte eos, qui ita ámbulant, sicut habétis formam nostram. Multi enim ámbulant, quos sæpe dicébam vobis – nunc autem et flens dico – inimícos Crucis Christi: quorum finis intéritus: quorum Deus venter est: et glória in confusióne ipsórum, qui terréna sápiunt. Nostra autem conversátio in cœlis est: unde etiam Salvatórem exspectámus, Dóminum nostrum Jesum Christum, qui reformábit corpus humilitátis nostræ, configurátum córpori claritátis suæ, secúndum operatiónem, qua étiam possit subjícere sibi ómnia. Itaque, fratres mei caríssimi et desideratíssimi, gáudium meum et coróna mea: sic state in Dómino, caríssimi. Evódiam rogo et Sýntychen déprecor idípsum sápere in Dómino. Etiam rogo et te, germáne compar, ádjuva illas, quæ mecum laboravérunt in Evangélio cum Cleménte et céteris adjutóribus meis, quorum nómina sunt in libro vitæ.

OMELIA I

LA MORTIFICAZIONE CRISTIANA

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

“Fratelli: Siate miei imitatori, e ponete mente a coloro che si diportano secondo il modello che avete in noi. Poiché ci sono molti dei quali spesse volte vi ho parlato; e adesso vene parlo con lacrime, i quali si diportano da nemici della croce di Cristo: la loro fine è la perdizione; il loro Dio è il ventre: si vantano in ciò che forma la loro confusione, e non han gusto che per le cose terrene. Noi, invece, siamo cittadini del cielo, da dove pure aspettiamo, come Salvatore, il nostro Signor Gesù Cristo, il quale trasformerà il nostro miserabile corpo, rendendolo conforme al suo corpo glorioso; per quella potenza che ha di poter anche assoggettare a sé ogni cosa. Pertanto, miei fratelli carissimi e desideratissimi, mio gaudio e mia corona, continuate a star così fermi nel Signore, o amatissimi. Prego Evodia ed esorto Sintiche ad avere gli stessi sentimenti nel Signore. E prego anche te, fedel compagno, di venir loro in aiuto: esse hanno combattuto con me per il Vangelo, insieme con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita”. ( Fil. III, 17 – 1, 4, 3).

S. Paolo, prima di chiudere la lettera ai Pilippesi, li esorta a conseguire la perfezione cristiana. Per raggiungere questo ideale, cerchino di imitare lui e quelli che vivono seguendo il suo esempio; e non badino a quei Cristiani che tengono una condotta affatto contraria alla mortificazione, che ci è predicata dalla croce di Gesù Cristo. Non si dimentichino, che la fine di costoro è la morte eterna. Noi dobbiamo tenere tutt’altro contegno. Centro dei nostri pensieri e dei nostri affetti è il cielo: là dev’essere la nostra vita. Di là aspettiamo Gesù Cristo, che verrà a renderci perfettamente beati, trasformando il nostro vile corpo sul modello del suo corpo glorioso. – Stiamo, dunque, uniti fortemente a Dio. Raccomanda poi la concordia tra Evodia e Sintiche, e prega un suo collaboratore d’aiutarle a questo scopo. – La mortificazione, che ci è predicata dalla croce di Cristo:

1°) è propria dei Cristiani che voglion praticar la virtù,

2°) Non esser nemici della croce,

3°) Non scambiare l’esilio con la patria.

1.

Fratelli: Siate miei imitatori e ponete mente a coloro che si diportano secondo il modello che avete in noi.

Questo invito di S. Paolo era molto importante per i Filippesi, perché non mancavano esempi di cattivi Cristiani, i quali facevano loro Dio il ventre, e si vantavano in ciò che formava la loro confusione, col condurre una vita sontuosa e lussuriosa. L’avvertimento vale anche per tutti noi. Ci sono tanti Cristiani, che al solo pensiero di condurre una vita mortificata, come era quella di S. Paolo e dei suoi seguaci, si spaventano. Non è più comoda la vita di coloro, che mangiano e bevono lautamente, e si godono tutti i piaceri? Sarà una vita più comoda; ma poco cristiana. Niente è più discorde dalla vita cristiana che consumare il tempo nei banchetti, o nel dolce far nulla, e godersi i piaceri. – Gesù Cristo da coloro che vogliono essere suoi seguaci chiede qualche cosa di diverso. A chi vuol portare il suo nome, ed essere suo discepolo chiede la mortificazione. E S. Paolo ci dice molto chiaramente di che mortificazione si tratta : « Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la loro carne coi vizi e con le concupiscenze » (Gal. V, 24). Non è questa la mortificazione che, in alcune circostanze e per certi motivi, ammette anche il mondo: mortificare gli eccessi della gola quando potrebbero essere nocivi: ma finché non sono nocivi, passino: mortificare la sensualità quando ne va di mezzo la salute; reprimere l’ira e soffocare i sentimenti di vendetta, quando ci possono portare ad azioni che incorrono nel codice, ecc. La mortifìcazione cristiana è assai più estesa e parte da motivi ben più nobili. Il Cristiano deve percorre la via delle virtù: la mortificazione gli serve per togliere gli ostacoli, che cercano di impedirgli questo cammino, come insegna Gesù Cristo: «Se il tuo occhio destro ti scandalizza, devi cavartelo e gettarlo lontano da te; è molto meglio che perisca un solo tuo membro, piuttosto che venga buttato nella Gehenna l’intero tuo corpo. E se la tua mano destra ti scandalizza, tagliala e gettala via; è meglio per te perdere un solo membro che esser buttato nella Gehenna con tutto il tuo corpo» (Matt. V, 29-30). – Base delle virtù è l’umiltà. Ma la pratica dell’umiltà non è altro che la mortificazione dell’amor proprio, della suscettibilità, della boria ecc. Chi vuol esser generoso verso i poveri deve mortificare la brama delle ricchezze. Chi vuol essere casto deve mortificare i propri occhi, le proprie orecchie, la propria carne. Non si può esser pazienti, senza reprimere i moti d’ira, di sdegno, di ribellione, che ci assalgono per un’ingiuria ricevuta, una contrarietà, una disgrazia. Non si può perdonare ai nemici senza combattere lo spirito di risentimento e di vendetta. Non si può lavorar seriamente al servizio di Dio, senza vincere l’accidia. Le passioni cercano di aver il dominio sulla volontà; il seguace di Gesù Cristo mortifica le passioni per poter sottometterle alla volontà. Chi non sa domare un focoso puledro sarà da lui sbattuto a terra, calpestato, trascinato. Trattandosi delle pretese della nostra corrotta natura, o calpestarle o lasciarsi da esse calpestare. Non potremo mai essere virtuosi senza calpestare i vizi opposti alle virtù. Perciò è assolutamente necessaria al Cristiano la mortificazione, con la quale « s’indice la guerra ai vizi, s’aumenta il progresso d’ogni virtù » (S. Leone M. Serm. 40, 2).

2.

Di quei cattivi Cristiani che conducevano una vita larga, la quale era di scandalo agli altri, dice S. Paolo che si diportano da nemici della croce di Cristo: « poiché se amassero la croce, procurerebbero di condurre una vita crocifissa » (S. Giov. Crisost. In Epist. ad Philipp. Hom, 13, 1). – Gesù Cristo per espiare i nostri peccati mortifica la propria volontà. « Padre mio, — dice incominciando la passione — se è possibile, passi da me questo calice! Tuttavia, non come voglio Io, ma come vuoi Tu» (Matth. XXVI, 39). Fa il sacrificio del suo onore. Tutto sopporta: contraddizioni, ingiurie, calunnie. Il suo corpo è assoggettato alle veglie, ai digiuni, alle fatiche continue dell’apostolato, alle privazioni. Egli può dire: « Le volpi hanno delle tane, e gli uccelli dell’aria hanno dei nidi, ma il Figliuolo dell’uomo non ha dove posare il capo » (Matth. VIII, 20). Alla fine è percosso, ferito, trafitto sopra una croce, Da quel momento la croce è il simbolo dell’espiazione, delle privazioni, del sacrificio, delle rinunce. Ora, chi non sa imporsi un limite nel mangiare e nel bere; chi non sa moderare la sua gola, chi non sa allontanare i suoi sensi da ciò che potrebbe essere materia di peccato, è necessariamente nemico della croce. Chi non sa reggere i moti dell’animo, dominandolo nei turbamenti, negli impeti dell’ira, nella brama di sovrastare agli altri, nella tristezza pel bene altrui, nella contentezza per l’altrui male, è necessariamente nemico della croce. Chi non sa sottoporre la propria volontà alla volontà di Dio, è nemico della croce. – I santi compresero molto bene l’importanza di questa crocifissione corporale e spirituale. Chi fugge dalla croce, fugge la via della salute. Ed essi che ci tenevano tanto alla eterna salute propria e a quella del prossimo, si stimavano felici di poter imitare Gesù Cristo nelle opere di mortificazione interna ed esterna; di poter, per mezzo della mortificazione, raffinarsi nella virtù, espiare le proprie colpe e quelle di tanti infelici, che si dimenticano di essere seguaci di Gesù Cristo. – La vita dei gaudenti anziché far loro invidia, era motivo di grande pena. L’apostolo, parlando di costoro, dice: ve ne parlo con lacrime. La croce di Cristo è loro offerta come mezzo di salvezza, ed essi la rigettano. Che diremmo di uno che, caduto in un burrone, rifiuta di attaccarsi alla corda che gli viene calata; che, travolto dalle onde, respinge la mano che tenta di afferrarlo; investito dalle fiamme, si divincola dalle braccia che l’hanno raccolto per portarlo in salvo? La carne con le sue concupiscenze, il nostro interno con tutte le sue debolezze ci investono, ci travolgono, ci portano alla morte spirituale: la croce delle mortificazioni può liberarcene, e noi la respingiamo. «Si accettano volentieri croci d’oro e d’argento; ma le altre ordinariamente si disprezzano», diceva Santa Maria Maddalena Postel (Mons. Arsenio Maria Legoux. Vita di S. Maria Maddalena Postel. Tradotta dal francese. Roma 1925).  La croce della mortificazione è una delle più disprezzate. Le anime buone hanno ben ragione di piangere, come S. Paolo, sullo stato di coloro che pospongono la croce ai godimenti.

3.

Noi siamo cittadini del cielo. Quaggiù non siamo in casa nostra, siamo esiliati in una valle di lacrime. Il godimento pieno che renderà pago il nostro cuore e felice tutto il nostro essere l’avremo in cielo. Non dobbiam dimenticarci che quaggiù non è il luogo dei godimenti, ma il luogo in cui si meritano i godimenti. Chi si dimentica di questo, non pensa a contrastare e a combattere le tendenze della corrotta natura, e alla fine si accorgerà di aver operato da stolto. Quelli che odiano la mortificazione in questa vita, non faranno mai passaggio dall’esilio alla patria celeste: la loro fine è la perdizione. «Ogni cosa ha il suo tempo stabilito» (Eccles. III, 1). Per i Cristiani il tempo dell’esilio terreno è il tempo stabilito per la propria santificazione, che non si acquista senza una mortificazione continua. Quindi, come osserva S. Agostino, « la nostra occupazione in questa vita è questa: dar morte con lo spirito alle azioni della carne, che dobbiamo affliggere, indebolire, frenare, mortificare» (Serm. 156, 2). Vi è «tempo di guerra e tempo di pace» (Eccles. III, 8). Il tempo del nostro esilio terreno è tempo di guerra continua contro la concupiscenza. Guerra che S. Bernardo chiama « una specie di martirio… più mite di quello in cui vengono tagliate le membra, quanto all’orrore; ma più molesto quanto alla durata » (In Cant. Serm. 30, 11). È una durata che ha termine; è una durata brevissima, se la paragoniamo alla durata della vita celeste; ma la nostra condizione, fin che la vita dura rimane la medesima: una lotta molesta contro le nostre cattive inclinazioni. – Mortificare il proprio corpo, non vuol dire renderlo infelice; tutt’altro. Vuol dire impedirgli la sorte destinata ai corpi dei gaudenti, i quali «fioriscono nel secolo, disseccano nel giudizio, e, dissecati, sono gettati nel fuoco eterno» (S. Agostino. En. in Ps. LIII, 3.). S. Paolo, dopo tanto lavoro per la gloria di Dio e la salvezza delle anime dichiara: «Affliggo il mio corpo e lo riduco in servitù, perchè non avvenga che dopo aver predicato agli altri, io stesso sia reprobo» (I Cor. IX, 27). – Mortificare il proprio corpo vuol dire prepararlo a essere circonfuso di splendore e di gloria quando verrà il nostro Signor Gesù Cristo, il quale trasformerà il nostro miserabile corpo, rendendolo conforme al suo corpo glorioso. Questo però avverrà quando l’esilio terreno sarà finito per noi e per tutti i viventi. Finché siamo quaggiù, nostra cura dev’essere questa, di crocifiggere la carne con le sue concupiscenze. Quando gli Ebrei, nell’Egitto, crebbero di numero e di forza, Faraone ne ebbe paura. «Ecco — dice ai suoi — che il popolo dei figli d’Israele è numeroso e più forte di noi. Venite, opprimiamolo con saggezza, affinché non si moltiplichi più». E quando Mosè e Aronne, in nome del Signore, gli chiesero che lasciasse libero il popolo ebreo, risponde: «E quanto si moltiplicherà se date loro qualche sollievo dai lavori?» E dispone di non lasciare, agli Ebrei neppur un momento di respiro (Es. I, 9-10, V, 5 e segg.). È quello che dobbiamo far noi in questa vita: mortificare con saggezza le azioni della carne, perché non prendano il sopravvento; mortificarle sempre appena si manifestano, non lasciando loro un momento di respiro.

 Graduale

Ps XLIII: 8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.
[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]
In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula. Allelúja, allelúja. [In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno..]

Alleluja

Allelúia, allelúia

Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja. [Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt IX: XVIII, 18-26
In illo témpore: Loquénte Jesu ad turbas, ecce, princeps unus accéssit et adorábat eum, dicens: Dómine, fília mea modo defúncta est: sed veni, impóne manum tuam super eam, et vivet. Et surgens Jesus sequebátur eum et discípuli ejus. Et ecce múlier, quæ sánguinis fluxum patiebátur duódecim annis, accéssit retro et tétigit fímbriam vestiménti ejus. Dicébat enim intra se: Si tetígero tantum vestiméntum ejus, salva ero. At Jesus convérsus et videns eam, dixit: Confíde, fília, fides tua te salvam fecit. Et salva facta est múlier ex illa hora. Et cum venísset Jesus in domum príncipis, et vidísset tibícines et turbam tumultuántem, dicebat: Recédite: non est enim mórtua puélla, sed dormit. Et deridébant eum. Et cum ejécta esset turba, intrávit et ténuit manum ejus. Et surréxit puélla. Et éxiit fama hæc in univérsam terram illam.

OMELIA II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE LI.

 “In quel tempo, mentre Gesù parlava alle turbe, ecco che uno de’ principali se gli accostò, e lo adorava, dicendo: Signore, or ora la mia figliuola è morta; ma vieni, imponi la tua mano sopra di essa, e vivrà. E Gesù alzatosi, gli andò dietro co’ suoi discepoli. Quand’ecco una donna, la quale da dodici anni pativa una perdita di sangue, se gli accostò per di dietro, e toccò il lembo della sua veste. Imperocché diceva dentro di sé: Soltanto che io tocchi la sua veste, sarò guarita. Ma Gesù rivoltosi e miratala, le disse: Sta di buon animo, o figlia; la tua fede ti ha salvata. E da quel punto la donna fu liberata. Ed essendo Gesù arrivato alla casa di quel principale, e avendo veduto i trombetti e una turba di gente, che faceva molto strepito, diceva: Ritiratevi; perché la fanciulla non è morta, ma dorme. Ed essi si burlavano di lui. Quando poi fu messa fuori la gente, Egli entrò, e la prese per una mano. E la fanciulla si alzò. E se ne di volgo la fama per tutto quel paese” (Matth. IX, 18-26).

Il divin Redentore durante la sua vita pubblica, come osserva S. Giovanni Grisostomo, andava alternando le istruzioni coi miracoli ed i miracoli colle istruzioni, sanando dopo di aver istruito ed istruendo dopo aver sanato. Ora Egli aveva avuto un importante trattenimento coi discepoli di Giovanni Battista. Questi erangli stati spediti dai Farisei per domandargli, perché essi digiunavano sovente, mentre i suoi discepoli non digiunavano. E nel momento che il Salvatore parlava ancora, un principe della sinagoga lo pregò a recarsi presso di lui per operarvi un miracolo in favore di sua figlia. Gesù si arrese alla sua preghiera, e strada facendo guarì una povera donna, che da dodici anni era inferma. Sono questi due miracoli operati dal Salvatore a Cafarnao, sulla fine del primo anno di sua predicazione, che riferisce oggi il Santo Vangelo e che noi brevemente considereremo.

1. In ogni città della Giudea v’erano più sinagoghe, e ciascuna di esse aveva un capo od un principe incaricato di presiedere alle religiose adunanze, e di regolare tutto quanto riguardava la lettura e l’interpretazione dei Libri sacri. Ora mentre Gesù predicava alle turbe, uno di costoro (chiamato Giairo) se gli accostò e lo adorava dicendo: Signore, or ora la mia figliuola è morta; ma tu vieni, imponi la tua mano sopra di essa e vivrà. Ecco adunque come questo padre si mostra dolente per la morte della sua figlia e sollecito per ottenere da Gesù che ella ritorni a vita. Oh se questo dolore e questa sollecitudine fossero imitati da coloro, che hanno avuto la sventura di perdere la vita dell’anima loro! S. Giovanni Crisostomo nota, che Iddio ci ha dato due occhi, duo orecchie, due mani, due piedi, affinché se veniamo a perderne uno dei due, possiamo servirci di quello che abbiamo ancora. Ma, dice questo Padre, Iddio non avendoci data che una sola anima, il nostro dolore dovrebbe essere senza misura, quando ne perdiamo la vita a cagione del peccato mortale! Ma invece quanti vi sono, che si affliggono tanto dei mali del corpo e nulla si affliggono della morte dell’anima! Quanti poi rimangono in questo stato di morte spirituale i giorni, le settimane, i mesi e persino gli anni, senza darsi alcuna sollecitudine di uscirne! Ma perché, o miei cari, perché prolungare le vostre torture, i vostri rimorsi, i vostri travagli? Perché  ritardare il ritorno della pace, dell’innocenza e dell’amore! E non potrebbe da un istante all’altro colpirvi la morte e farvi andare eternamente perduti? E quand’anche Iddio vi risparmiasse in vita, poiché un abisso chiama un altro abisso, non potreste cadere in un altro peccato e colmare così la misura di quelli, che Iddio ha stabilito di perdonarvi? – È sentenza comune di molti santi Padri, di S. Basilio, di S. Gerolamo, di S. Ambrogio, di San Cirillo Alessandrino, di S. Giovanni Grisostomo, di S. Agostino, e d’altri, che siccome Iddio tiene determinato il numero per ciascun uomo dei giorni di vita, dei gradi di sanità e di ingegno, che vuol dargli, così ancora tiene a ciascuno determinato il numero dei peccati che vuol perdonargli; compìto il quale, non perdona più. E questi Padri non han parlato a caso, ma fondati sulle divine scritture. In un luogo disse il Signore, che tratteneva la ruina degli Amorrei, perché non era compìto ancora il numero delle loro colpe. In altro luogo disse: Io non avrò più compassione alcuna d’Israele. Mi hanno tentato per dieci volte, non vedranno la terra promessa. In altro luogo più chiaramente dice la sacra Scrittura: Il Signore aspetta pazientemente a punire venuto che sia il dì del giudizio, colmata già la misura dei loro peccati. Sicché Dio aspetta sino al giorno in cui si riempia la misura de’ peccati, e poi castiga. Di tal castigo poi vi sono molti esempi nella Scrittura, e specialmente di Saulle, che avendo l’ultima volta disubbidito a Dio, Dio l’abbandonò talmente ch’egli pregando Samuele, che avesse interceduto per lui: Sopporta, di grazia, il mio peccato, e torna indietro con me, affinché io adori il Signore; Samuele gli rispose: Non tornerò indietro con te, perché tu hai rigettata la parola del Signore, e il Signore ha rigettato te. Vi è l’esempio di Baldassarre, il quale stando a mensa profanò i vasi del tempio, ed allora vide una mano, che scrisse sul muro: Mane, Thecel, Phares. Venne Daniele, e spiegando quelle parole, tra l’altro disse: Sei stato pesato sulla stadera, e sei stato trovato scarso. Dandogli ad intendere che il peso dei suoi peccati già aveva fatto calar la bilancia della divina giustizia. Ma qualcuno di voi andrà dicendo: Io sono giovane. Sei giovane? Ma Iddio non conta gli anni, conta i peccati. E questa tassa de’ peccati non è uguale per tutti; ad alcuni Iddio perdona cento peccati, ad un altro mille, ad un altro al secondo peccato lo manderà all’inferno. Quanti il Signore ve ne ha mandati al primo peccato? Narra S. Gregorio che un fanciullo di cinque anni, in dire una bestemmia fu mandato all’inferno. Rivelò la SS. Vergine a quella serva di Dio Benedetta di Fiorenza, che una fanciulla di 12 anni al primo peccato fu condannata. Un altro figliuolo di 8 anni anche al primo peccato morì e si dannò. Dicesi nel Vangelo di S. Matteo, che il Signore la prima volta che trovò quell’albero di fico senza frutto subito lo maledisse, e quello seccò. Forse alcun temerario vorrà chiedere ragione a Dio, perché ad uno vuol perdonare tre peccati e quattro no? In ciò bisogna adorare i divini giudizi, e dire coll’Apostolo: O profondità delle ricchezze della sapienza e scienza di Dio; quanto incomprensibili sono i suoi giudizi e imperscrutabili le sue vie! E con S. Agostino: Ei ben conosce cui perdona e cui non perdona; quando Egli usa con qualcheduno misericordia, la usa gratuitamente; e quando la nega ciò fa con giustizia. Figliuolo, dice adunque lo Spirito Santo, hai tu peccato? non peccar più, ma fa orazione per le colpe passate, affinché ti siano rimesse.

2. Intanto Gesù cedendo alla preghiera di quell’ufficiale, benché dimostrasse di avere in lui poca fede, alzatosi gli andò dietro co’ suoi discepoli. Quand’ecco una donna, la quale da dodici anni pativa una perdita di sangue, se gli accostò per di dietro, e toccò il lembo della sua veste. Imperocché diceva dentro di sé: Soltanto che io tocchi la sua veste sarò guarita. Che fede mirabile, o miei cari, troviamo in questa povera donna del Vangelo! Da dodici anni l’Emorroissa è inferma d’una inveterata malattia. Questa la fa crudelmente soffrire, e per procurarsi qualche sollievo, ella ha preso tutti i suoi mezzi e si è ridotta alla povertà. E lungi dall’ottenere un favorevole risultato, ha veduto crescere il suo male; le sue forze sono esaurite, ella languisce miserabilmente, aspettando l’ora della tomba. Povera donna! Voi la compiangete, non è vero? Sì, umanamente parlando ella è a compiangersi. Ma ella possiede un tesoro più prezioso della sanità, delle ricchezze, dello scettro dei re e degli imperatori… Ella ha la fede!… E questa fede è sì viva, che dice fra sé: Eh! se potessi soltanto toccare il lembo della sua veste, io sarei guarita. Ma Gesti rivoltosi, e miratala, le disse: Sta di buon animo, o figlia; la tua fede ti ha salvata. E da quel punto la donna fu liberata. Il Signore aveva detto per uno de’ suoi profeti: Volgetevi a me ed io mi rivolgerò a voi (Zac. I, 3). Qui si realizza in modo mirabile questa promessa. Quella povera donna mercé la viva sua fede si è rivolta al Salvatore con la speranza della propria guarigione; e quand’ebbe toccato il vestimento del buon Maestro, quando Gesù sentì che una segreta virtù da Lui emanava, si volge verso quella, donna, e la mira con bontà, e le parla con tenerezza: Figliuola mia, abbi fiducia. Avventurata donna che ha meritato di raccogliere dalle labbra del Salvatore parole così dolci! Fede preziosa ch’è stata celebrata da Colui, che è la verità istessa! E chi è tra noi, o miei cari, che non vorrebbe aver ricevuto questo magnifico attestato da parte del nostro Signor Gesù Cristo? Sforziamoci pertanto di meritarlo. Anche noi andiamo al Salvatore; portiamo in cuore l’ardente desiderio di guarire dalle nostre infermità spirituali; tocchiamo Gesù col fervor delle nostre preci; tocchiamo le sue carni immacolate nella Santa Comunione, ed allora uscirà dal Cuore di Gesù una virtù sanatrice anche per noi. Oh sì, tocchiamo Gesù sopra tutto Gesù con la frequente Comunione, ed allora non solo guariremo dalle nostre infermità spirituali, ma ne saremo anzi preservati, perché il tocco di Gesù Cristo in questo SS. Sacramento è per eccellenza tocco di vita. – Dicesi che Mitridate, re del Ponto, avendo inventato il Mitridato, contravveleno così detto dal nome dell’inventore, rinvigorisse con quello il suo corpo in tal modo, che, tentando poi d’avvelenarsi per sfuggire alla servitù dei Romani, non gli fosse più possibile. Il Salvatore ha istituito l’augustissimo Sacramento dell’Eucarestia, che realmente contiene la sua carne ed il suo sangue, affinché chi lo mangia, viva in eterno. Per la qual cosa, chiunque ne fa uso con divozione, talmente corrobora la sanità e la vita dell’anima sua, che è quasi impossibile, che sia avvelenato da alcuna sorta di affetto cattivo. Chi si nutre di questa carne di vita, non può cadere in potere della morte. Epperò resteranno senza difesa, o miei cari, quei Cristiani che andranno dannati, allorché il giusto Giudice farà loro vedere quanto erano inescusabili nel morire spiritualmente, avendo un mezzo sì facile per conservare la vita e la santità col cibarsi del suo corpo, che Egli aveva loro lasciato per questo fine. Miseri! dirà loro, perché siete morti avendo in vostro potere il frutto e il cibo di vita? Un’altra ragione poi per cui la SS. Eucarestia regge e sostenta la vita dell’anima, acciocché non perisca, si è perché ne allontana il peccato veniale, che dispone insensibilmente alla morte dell’anima. E ciò lo insegna chiaramente il Concilio di Trento, che chiama la santissima Eucarestia antidoto, con cui siamo preservati dal peccato mortale, e rimedio con cui veniamo liberati dal veniale. Oh dunque siano rese grazie a Dio, che ci ha provveduto di questo cibo di paradiso, che liberandoci dai peccati veniali, riaccende il fervore della carità e rende la vita dell’anima più forte e più robusta che mai per correre la via della cristiana perfezione! Sia sempre benedetta la bontà del Signore, che ci ha provveduto un cibo sì vantaggioso! Ma noi intanto procuriamo di servircene coll’accostarci a riceverlo con la massima frequenza e con le dovute disposizioni, e specialmente con quella viva fede, con cui la Emorroissa si accostò a toccare la veste di Gesù Cristo.

3. Finalmente essendo Gesù arrivato alla casa di quel principale, e avendo veduto i trombetti e una turba di gente che faceva molto strepito, diceva: Ritiratevi, perché la fanciulla non è morta, ma dorme. Ma essi si burlavano di lui, non comprendendo nulla del perché Gesù parlasse in tal modo. Quando poi fu messa fuori la gente, egli entrò e la prese per mano. E la fanciulla si alzò. E se ne divulgò la fama per tutto quel paese. E qui per ben intendere questo ultimo tratto del Santo Vangelo bisogna sapere che gli Ebrei avevano preso dai pagani l’usanza d’invitare al letto funebre dei suonatori, che con lugubri arie stimolassero il dolore, e dei piangenti che con lamentevoli singhiozzi eccitassero il popolo a versar lacrime. Quali stranezze e gofferie, non è egli vero? E perché mai valersi di questi mezzi ad eccitare un dolore, che deve naturalmente trovarsi nel cuore nei giorni di duolo e di separazione? E poi perché accontentare tanto la vanità in quel lusso funebre spiegato intorno ad una bara? Ma pur troppo anche oggidì noi vediamo stranezze simili ai funerali dei nostri morti! Inviti, corone di fiori, gran corteo di gente, e simili cose, che valgono ad esaltare l’orgoglio dei vivi, ma che nulla giovano ai morti. Oh come alcune preci sarebbero più utili ai poveri defunti, che tutti quegli ornamenti moltiplicati con grandi spese! Ma lasciando da parte queste riflessioni, consideriamo come Gesù disse che la fanciulla non era morta, ma dormiva. Per il che, secondo l’opinione comune dei Santi Padri, la fortunata figliuola di Giairo ha figurata la morte dei giusti. Imperciocché ogni giusto che muore senza rimorso del passato, senza affanno del presente, senza tema dell’avvenire, comincia a riposarsi e dormire in seno a Dio, potendo dire con ferma speranza: In pace in idipsum dormiam et requiescam. Sì, la morte dei giusti è un felicissimo addormentarsi nelle mani di Dio, perché se Iddio, come dice la S. Scrittura tiene strette nelle sue mani le anime dei giusti, chi mai potrà strapparle dalle sue mani? È vero che l‘inferno non lascia di tentare ed assalire anche i Santi nella loro morte, ma Dio non lascia di assisterli e di accrescere gli aiuti ai suoi servi fedeli, dove cresce il lor pericolo, dice S. Ambrogio. Quando il servo d’Eliseo vide la città circondata dai nemici, restò atterrito; ma il Santo gli fece animo dicendo: Non temere, perocché abbiam più gente con noi che non ne hanno quelli. E poi gli fece vedere un esercito d’Angeli mandati da Dio in loro difesa. Così al punto della morte del giusto verrà bene il demonio a tentarlo, ma verrà anche l’Angelo custode a confortarlo: verranno i Santi avvocati: verrà il protettore dei moribondi, S. Giuseppe, verrà S. Michele, ch’è destinato da Dio a difendere i servi fedeli in quell’ultimo contrasto con l’inferno: verrà la divina Madre a discacciare i nemici con porre il suo devoto sotto il suo manto: verrà sopra tutti Gesù Cristo a custodire dalle tentazioni quella sua pecorella innocente o penitente, per salvar la quale ha data la vita: Egli le darà la confidenza e la forza, che in tal combattimento le bisognano, onde ella fatto coraggio dirà: Il Signore si fece mio aiuto. Il Signore è la mia luce e mia salute, ho io da temere? – Forse direte: Certi Santi sono morti con gran timore della loro salute. Ed io vi rispondo: Pochi sono gli esempi di questi tali, che han menata buona vita, e poi siano morti con questo timore. Tuttavia il Signore ciò permise e permette in alcuni per purgarli in quel punto estremo di certe loro piccole macchie e renderli degni coi meriti di quelle vittorie d’entrar subito in Paradiso. Del resto i giusti muoiono nella pace e persino nell’allegrezza. Il padre Suarez esclamava: No, non credeva che fosse così dolce il morire. San Luigi andava ripetendo: Mi son tutto rallegrato al dolce annunzio che mi fa intendere la mia prossima entrata nella casa di Dio. Il cardinale Roffense, quando, condannato dall’iniquo Enrico VIII, andò a morir per la fede, volle vestire le più belle vesti, dicendo che andava alle nozze. Quando poi fu a vista del patibolo buttò il suo bastoncello e disse: Via su, piedi miei, presto camminate, poco ci è lontano il Paradiso. E prima di morire intonò il Te Deum in ringraziamento a Dio che lo faceva morir martire della sua fede; e così tutto allegro pose la testa sotto la mannaia. S. Francesco d’Assisi cantava morendo, ed invitava gli altri al canto. Padre, gli disse fra Elia, morendo bisogna piangere, non cantare. Ma io, rispose il santo, non posso fare a meno di cantare, vedendo che tra breve ho da andare a goder Dio. Una religiosa teresiana, morendo giovinetta, e stando le altre monache a piangerle d’intorno, loro disse: Oh Dio! Perché piangete? io vado a ritrovare il mio caro Gesù: rallegratevi meco, se m’amate. E il Padre Granata narra che un certo cacciatore trovò un solitario lebbroso, che si stava morendo e cantava. Come, disse quegli, stando così puoi cantare? Rispose il romito: Fratello, fra me e Dio non si frappone che il muro di questo mio corpo; ora io lo vedo cadere ed è perciò che mi consolo e canto. Tale riesce la morte ai santi, e tale riuscirà pure, o miei cari Cristiani e cari giovani, la morte nostra, se ci metteremo con impegno a menar una santa vita. Anche per noi in quel punto vi sarà la pace e l’allegrezza, so adesso ameremo davvero Gesù e fuggiremo costantemente il peccato. Il Padre La Colombière teneva per moralmente impossibile che faccia una mala morte chi è stato fedele a Dio in vita. E prima lo disse S. Agostino: Non può fare una mala morte colui che ha vissuto bene. Chi sta apparecchiato a morire non teme qualunque morte, benché improvvisa. – Coraggio, adunque, viviamo in modo che anche di ciascuno di noi al termine di nostra vita si possa dire: Il tale non è morto, ma dorme, si è cioè addormentato nel bacio del Signore.

Credo… 

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Offertorium

Orémus
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta

Pro nostræ servitútis augménto sacrifícium tibi, Dómine, laudis offérimus: ut, quod imméritis contulísti, propítius exsequáris. [Ad incremento del nostro servizio, Ti offriamo, o Signore, questo sacrificio di lode: affinché, ciò che conferisti a noi immeritevoli, Ti degni, propizio, di condurlo a perfezione.]

Comunione spirituale https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis. [In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.]

Postcommunio

Orémus.
Quǽsumus, omnípotens Deus: ut, quos divína tríbuis participatióne gaudére, humánis non sinas subjacére perículis.

Preghiere leonine  https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

Ordinario della Messahttps://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (86)

LO SCUDO DELLA FEDE (86)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA

CAPITOLO IX

PRIMA CAUTELA PER NON PERDER LA S. FEDE: BANDIRE L’IGNORANZA.

Chi possiede un tesoro prezioso non si contenta che non gli venga rapito, ma fa quanto può perché non gli sia neppure insidiato. E così dovrebbero fare i Cattolici rispetto al dono mai non abbastanza pregiato della S. Fede. Epperciò se vi è cautela possibile ad adoperarsi a questo fine, non dovrebbero trascurarla. Il perché  io ve ne suggerirò qui alcune efficacissime a mio credere allo scopo. – La prima è sbandire dalla vostra mente l’ignoranza. Imperocché è osservazione fatta da vari autori, che fino dai primi tempi di Santa Chiesa tutti quelli che più conobbero la S. nostra Religione, che più la penetrarono, furono anche quelli che vi si attennero più strettamente, che più l’amarono e più ferventemente la praticarono. Il che mentre è una prova novella della sua verità, indica pure il modo con cui mantenerla nel nostro cuore. Di fatto chi conobbe a fondo la Religione più di S. Giustino, di S. Cipriano, di S. Epifanio, di S. Agostino, di S. Giovanni Grisostomo, di S. Gregorio, di S. Atanasio, di S. Tommaso e di tutti i Padri e Dottori della S. Chiesa, i quali tanto la meditarono e tanto di lei scrissero? Or tutti questi appunto perché la conoscevano così a fondo, tanto ancora l’ebbero in pregio ed amore. Se però ai nostri giorni tanti la trascurano, la disprezzano fino ad essere tentati di abbandonarla, qual ne sarà la cagione? Ah molte volte è che al tutto non la conoscono, oppure la travisano, tingendosela quello che non è. Io ben più d’una volta mi sono incontrato in alcuni che riprendevano altamente alcune dottrine che essi dicevano insegnate iniquamente dalla Chiesa: ma facendo poi loro toccare con mano, che la Chiesa non le aveva neppure mai sognate, restavano a guisa di smemorati. Certo se tutti costoro conoscessero la Religione, non bestemmierebbero, come dice S. Giacomo, quello che ignorano. – Saprebbero che la Chiesa Cattolica è divina nella sua fondazione, è divina nella sua propagazione, è divina nella sua conservazione: che nelle verità che ci propone a credere, nei dommi, nei misteri essa contiene tanta sublimità di cognizioni, tanta profondità, tanta armonia e conserto che chi una volta la ha anche per poco intravveduta, non può non andarne in estasi di ammirazione. La sua dottrina poi riguardo ai costumi è così pura, cosi immacolata, che tutti i suoi nemici, per quanto il vogliano, non possono appuntarla in nulla. Non vi dico del suo culto il quale risponde con tanta giustezza alla maestà del Signore non meno che alle nostre debolezze e meschinità. Non vi dico nulla dei suoi riti e delle sue cerimonie le quali sonopiene di misteri così profondi e di allusioni così sante che al tutto sono uno stupore. Non vi parlo neppure della sua costituzione ammirabilissima, della Gerarchia dei sacri pastori, della certezza che ha delle sue dottrine, dei tesori che possiede nei suoi Sacramenti, del congiungere che essa fa insieme la misericordia e la giustizia, la maestà di Dio e la miseria dell’uomo, il cielo colla terra, la nostra felicità spirituale ed eterna con quei beni temporali che è possibile godere quaggiù. Ma chi è tra i semplici Fedeli, che ponga mente a tante profondità sublimi, a tanti doni interiori, a tanti beni superni di grazia, sì che se ne formi in mente un concetto chiaro, e così dia conto a sé stesso di quel che crede, di quel che spera e di quel che ama? – Bisognerebbe conoscere quanto saldamente sia fondata la Chiesa Cattolica, come si appoggi sulle Sacre Scritture, come sulla Tradizione e come le prestino il suffragio suo la ragione coi discorsi, i sapienti con l’autorità. Bisognerebbe conoscere quanto al contrario siano luride tutte le sette divise dalla Chiesa Cattolica. – L’origine schifosa che esse ebbero, come incapparono tosto in ogni sorta di contraddizioni, come si divisero, lacerarono, sbranarono, scomunicarono fra di sé: che non hanno nulla di certo, nulla di vero, nulla di sodo nelle loro credenze: come sono abbandonate da tutte le grazie più preziose di Dio, dalla sua protezione, dai suoi doni anche esterni di santità quali sono le profezie, i miracoli, le guarigioni degl’infermi, l’interpretazione della Scrittura e andate dicendo. – Bisognerebbe conoscere sopra qual debole fondamento sta appoggiato tutto l’edifizio del Protestantismo e quanto è facile il dissolvere tutti i sofismi onde si arma e mantiene. – Con tutte queste cognizioni il Cattolico sarebbe così illuminato interiormente e così fortificato, che al sentirsi mettere in questione la sua Fede ne proverebbe orrore ed indignazione. Invece che cosa fa il più dei Cristiani, che cosa fate voi? I più ignorano affatto tutte queste verità. non le hanno mai neppur sospettate. Della Religione, se ne togliete quelle cognizioni scarse. Imperfette, superficiali clic ne hanno avuto nell’infanzia, non ne sanno altro. Dite la verità, non è questo il vostro caso? E qual meraviglia poi che ad ogni leggera difficoltà che vi muovano non sappiate più che rispondere, e che giungiate talvolta fino a credere che la Religione Cattolica non abbia risposta da dare alle costoro difficoltà? Ah se volete essere più saldo, più fermo nella vostra Fede, procurate di conoscerla un po’ meglio. – Non vi vergognate d’intervenire alla Chiesa, di ascoltare la spiegazione della Dottrina e del S. Vangelo, ed invece di leggere quei libracci che vi mettono di soppiatto nelle mani, procurate un qualche libro di soda pietà, per ammaestramento del vostro spirito e pascolo del vostro cuore. Quello che talvolta cagiona maggiore scandalo ai popoli della campagna è che a sparlare della Religione Cattolica siano an che alcuni che vengono dalla città e che hanno fama di dotti, perché sono stati agli studi. Miei cari, volete che io vi parli con sincerità? Ascoltate. Non tutti quelli che vengono a villeggiare presso di voi dalla città, sono molto più dotti di voi in fatto di Religione. Ve ne ha certamente di quelli che sanno più, ma questi tanto non disprezzano la Religione, che anzi l’hanno a cuore e per sé e pei loro dipendenti. Questi si sforzano anzi di aprire delle Cappelle e di mantenere le Chiese acciocché tutti abbiano comodità di giovarsene. Ma se ve ne ha di questi, ve ne sono poi molti altri che hanno il capo scarico ed il cervello vuoto ed il cuore guasto non si può dir quanto, che non hanno studiata la Religione punto più di voi: signori discoli ed irreligiosi, i quali pare che non siano sulla terra se non se all’alto fine di divertirsi e cercare gli spassi ed i sollazzi perfino nelle cloache: giovani leggeri e pieni d’ogni bruttura, che per levarsi un capriccio vituperoso rinnegherebbero e Padre e Principe e con tutta la terra ancor tutto il cielo. Saranno stati se volete alcuni di loro anche alle Università, avranno imparato a tastare il polso, a trarre sangue, ad impastare un cerotto, a trappolare un cliente, ma poi fuori di queste cose che hanno studiate il più delle volte poco e male, il tempo loro l’hanno logorato nei caffè, nei bagordi, nelle bestemmie, nel giuoco, nei teatri ed in qualche altra cosa più vituperosa ancora: ed in fatto di Religione sono ignoranti al pari di voi, se non anche peggio di voi; in quanto alla ignoranza aggiungono l’errore che hanno bevuto in mille libracci infami ed irreligiosi. Non vi fate dunque le meraviglie, che costoro parlino così, non toglietene scandalo, quasi son persone dotte che sparlino della Religione, perché son tutt’altro che dotte. Così avessero la vera dottrina, così conoscessero a fondo la Religione, che non potrebbero fare altro che quello che hanno fatto sempre i veri dotti, che fu il rispettare, amare e praticare la S. Religione Cattolica. Il celebre Laharpe fu sulle prime un empio, un incredulo, e peggio che Protestante; più tardi si convertì e divenne zelantissimo della S. Chiesa Cattolica. Perciò un empio che era stato suo antico compagno, tolse un giorno a burlarlo. Ma egli rispose queste sentite parole: Anch’io sventuratamente beffai un tempo la Religione, ma l’ho studiata poi, l’ho conosciuta e non posso più non amarla. Studiatela anche voi e vedrete se avrete poi il coraggio di deriderla e la forza di resisterle. Sia dunque la prima cautela di nostra Fede, la cognizione di essa.