LO SCUDO DELLA FEDE (82)

LO SCUDO DELLA FEDE (82)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA.

CONSEGUENZE DEL PERDERE LA S. FEDE E MODI DI PREVENIRLE

CAPITOLO V.

COME SI DEBBANO DIPORTARE QUELLI CHE SONO TENTATI DAI PROTESTANTI CON BEI DISCORSI.

Abbiamo detto il gran male che sarebbe dove un Cattolico, fatto gettito del dono preziosissimo della S. Fede, si recasse ad abbracciare il Protestantismo. Resta ora a dire una parola ai Cattolici, i quali possono trovarsi tra pericoli di seduzione, oppure che fossero sventuratamente già stati sedotti. Il primo pericolo è quello che si corre dal vivo discorso dei ministri d’errore. Imperocché l’Apostolato diabolico che pur si fa per mezzo dei libri o del denaro non si può praticar tanto alla scoperta, né si può egualmente con tutti, ma ben si può con tutti impiegare il discorso e la persuasione: ed ecco in qual modo si procede da questi seduttori. Sulle prime testano il terreno solamente per vedere come risponde e si guardano bene dal manomettere le verità più riverite della Religione e dal profferir con che possa dannarsi come manifesta empietà. Fanno come il falco che vuol rapire i pulcini, prendono le volte larghe prima di avventarsi sopra la preda. Si contentano, per esempio, di intaccare la vita dei sacri ministri, di mettere in vista i falli, di cui come uomini non vanno esenti, di esagerarli, affermando che sono comuni a tutti egualmente e Sacerdoti e Religiosi. Poi passano a criticare le cerimonie del culto esterno, la sontuosità delle Chiese, la ricchezza degli apparati e degli ornamenti, a deridere le pratiche di pietà onde si nutrela divozione, burlando e beffeggiando come pinzochere e bacchettoni quelli che si esercitano in esse. Trovano sempre che dire sulla S. Chiesa. sui suoi diritti, sulle pretensioni come essi parlano della Corte Romana. e la mirano e ne parlano come di una tigre che sia sempre in atto di avventarsi sopra il Principato per usurparsene l’autorità. Di tutto che è religioso prendono noia o scandalo, e non possono patire che altri lodi ed esalti con fervore di devozione le cristiane osservanze, la gloria ed i trionfi di S. Chiesa. – Ora quando voi udite alcuno che parla a questo modo, e non una qualche volta di rado e per passione, ma parla così frequentemente ed a sangue freddo, e voi abbiatelo per un indizio sicuro che costui, sel sappia o no, è infetto di Protestantismo e maestro d’errore: epperò fuggitelo e non vogliate con lui mai trattenervi in conversazione, né averlo per amico, poiché a lungo andare vi contaminerebbe. Che se poi fosse di quelli che non solo tagliano i rami dell’albero della Fede, ma danno risolutamente al tronco mettendo in dubbio o condannando i dommi più sacrosanti della Fede, come la verità del Sacrifizio, la Confessione, la Comunione, il valore delle Indulgenze, l’autorità del Sommo Pontefice e simili, come allora non vi sarebbe più nessun dubbio che questi è un eretico Protestante, così allora non vi sarebbe abominio che fosse tanto al bisogno. – Nella Chiesa di Dio i Santi Apostoli ci ammaestrarono a fuggire come dal serpente ogni eretico. Tu fuggi, dice S. Paolo, dopo una o due riprensioni lo eretico (Tit. III, 10). – S. Giovanni Apostolo della carità non volle entrare in un bagno dove vi era un eretico per tema di contaminarsi. Il S. Vescovo Policarpo imbattutosi un giorno nell’eretico Marcione su una pubblica piazza, ed interrogato da lui se lo conoscesse: sì – rispose il Santo con ferma voce – sì io conosco il primogenito del diavolo: tanto era l’orrore che quel gran Santo aveva dicoloro che guastano la Fede. – Né i primi Fedeli ammaestrati da loro pensavano od operavano altrimenti. Nelle storie ecclesiastiche si legge di Sante Matrone, che non vollero più riconoscere i loro sposi, poiché questi avevano rinnegato la Fede, di mariti che non vollero riconoscere le spose per la stessa cagione, di sorelle che rinnegarono i fratelli i quali avevano disconosciuto Gesù. Come al contrario S. Cecilia riconobbe solo allora Tiburzio per suo cognato, quando questi ebbe abbracciata la Fede di Gesù Cristo: tanto era l’amore che queste grandi anime portavano alla S. Fede, che non sapevano e non potevano amare chi non la conoscesse e chi non l’amasse. Né questo amore era poi così raro e proprio solo di alcune anime più generose: i popoli interi Cattolici non volevano aver che fare per nulla con gli Eretici. Teodoreto narra che i Samosateni avendo risaputo che l’eretico Eunomio si era lavato nel pubblico bagno della loro città, non vollero più accostarsi a quello, finché levata tutta quell’acqua e condotta a perdersi in una fogna, non ne fu ivi rimessa dell’altra pura. Perfino i fanciulli Cattolici avevano orrore degli eretici, e negli Annali Ecclesiastici si legge che in Samosata, giocando a palla certi fanciulli sulla pubblica piazza e sfuggita loro di mano ed intrigatasi tra pie del giumento sopra cui cavalcava l’Eretico Lucio, quei fanciulletti Cattolici ne ebbero tanto orrore che non ardirono più toccarla se non dopo di averla purificata col fuoco. E di S. Francesca di Chantal è noto che ancor fanciulletta di poca età gettò prontamente sul fuoco un dono offertole da un signore eretico che frequentava la casa sua, dicendo con gran sentimento, che così brucerebbero nell’Inferno quei che non avessero la vera fede di Gesù Cristo. – Non mancherà alcuno a cui parrà soverchio quest’orrore e che crederà di esser tanto saldo nella sua fede da poter entrare in discorso con chicchessia senza pericolo. Se vi fosse alcuno che pensasse così, mostrerebbe di conoscer poco qual sia l’umana debolezza e quanto sia vero che chi si mette nel pericolo, rovina poi nel pericolo. Io vi darò solo un esempio di quel che può la seduzione, perché vi valga di ammaestramento. Margherita di Valois sorella di Francesco I, Re di Francia era donna, come scrive il Raimbourg, di eccelsi spiriti, di animo grande, di mente retta e salda, di ottimo cuore e di straordinaria accortezza negli affari. I Protestanti avendo fermo di trarla al loro empio partito, s’insinuarono cautamente nella sua corte, celati sotto l’apparenza di filologhi, letterati e filosofi, e col pretesto di zelare la purità della Religione, vennero a poco a poco scemando nel cuore di lei con critiche intemperanti il rispetto dovuto ai ministri e riti della Chiesa. Indi aggiungendo alle artificiose parole libricini non meno velenosi che leggiadri, e adoperandole intorno le già sedotte sue damigelle, fecero sull’animo dell’incauta principessa sì gagliarda impressione, che in breve l’ebbero non solo tutta loro, ma zelantissima a propagare le ree dottrine ed a proteggerne gli autori. E ben lo seppe il Bearn per lei ribellato alla Chiesa, anzi tutta la Francia col favore suo infettata sì largamente dall’eresia. Vero è che dopo più anni di errori accortasi dell’inganno in che era precipitata, se ne ritrasse ed amaramente lo pianse. Ma le sue lacrime, se valsero ad ottenerle pietà da Dio, non valsero certo ad estinguere il funesto incendio per lei massimamente acceso in Francia, né a cessarne le ree conseguenze, le quali furono trent’anni di guerra feroce, quattro grandi battaglie campali, da trecento sanguinose fazioni, il saccheggio o la distruzione delle migliori città, la ruina d’innumerabili Chiese, la violazione dei sepolcri dei re e dei Santi, e più di un milione di Francesi sgozzati senza processo (Pellicani I Compagni). – Andate adesso a fidarvi anime care, se potete, di voi medesime, mentre rovinano tanti grandi uomini. No no, chi ama il pericolo perirà in esso, dice lo Spirito Santo, e l’esperienza ogni dì lo conferma. Fate che non debba aggiungervi il tristo esempio della vostra persona.

PREGHIERE AL CUORE DI GESÙ

PREGHIERE AL CUORE DI GESÙ

[Enchir. Indulg.; Typis pol. Vaticanis MCMLII]

CORONCINA AL CUORE DI GESÙ

“Deus, in adiutorium, etc. Gloria Patri, etc.”

I. Amorosissimo mio Gesù, al riflettere sul vostro buon Cuore e vederlo tutto pietà e dolcezza per i peccatori, mi sento rallegrare il mio e colmare di fiducia d’essere da Voi ben accolto. Ahimè! quanti peccati ho commessi! Ma ora qual Pietro e qual Maddalena dolente li piango e detesto, perché sono offesa di Voi, sommo Bene. – Sì, sì, concedetemene il perdono; ed oh! muoia io, vel chieggo per il vostro buon Cuore, muoia prima che offendervi, e certo viva solo per riamarvi.

Un Pater e cinque Gloria.

Dolce Cuor del mio Gesù, fa’ che io ti ami sempre più.

II. Benedico, Gesù mio, l’umilissimo vostro Cuore e vi ringrazio che, nel darmelo per esemplare, non solo con forti premure mi eccitate ad imitarlo, ma a costo pur di tante vostre umiliazioni me n’additate ed appianate la via. Folle che fui ed ingrato! Ah quanto traviai! Perdonatemi. Non più superbia, ma con umil cuore tra umiliazioni seguir voglio voi, e conseguire pace e salute. Avvaloratemi Voi, e benedirò in eterno il vostro Cuore.

Un Pater e cinque Gloria.

Dolce Cuor, ecc.

III. Ammiro, Gesù mio, il pazientissimo vostro Cuore e vi ringrazio di tanti meravigliosi esempi d’invitta sofferenza a noi lasciati. Mi dispiace, che indarno mi rimproverano la strana mia delicatezza insofferente d’ogni piccola pena. Ah! Gesù mio caro, infondetemi nel cuore fervido e costante amore alle tribolazioni, alle croci, alla mortificazione, alla penitenza, acciocché seguendovi al Calvario giunga con voi alla gioia in paradiso.

Un Pater e cinque Gloria.

Dolce Cuor, ecc.

IV. Innanzi al mansuetissimo vostro Cuore, caro Gesù, io m’inorridisco del mio sì diverso dal vostro. Purtroppo io ad un’ombra, ad un gesto, ad una parola in contrario m’inquieto e lamento. Deh! perdonate i miei trasporti e datemi grazia d’imitare nell’avvenire in qualunque contrarietà l’inalterabile vostra mansuetudine, e così godere perpetua santa pace.

Un Pater e cinque Gloria.

Dolce Cuor, ecc.

V. Si cantino pur lodi, o Gesù, al generosissimo vostro Cuore vincitore della morte e dell’inferno, che ben se le merita tutte. Io resto più che mai confuso al vedere il mio sì pusillanime, che teme di qualunque diceria ed umano rispetto; ma non sarà più così. Da voi imploro sì coraggiosa forza, che combattendo e vincendo in terra, trionfi poi lieto con voi in cielo.

Un Pater e cinque Gloria.

Dolce Cuor, ecc.

Volgiamoci a Maria consacrandoci vieppiù a lei, e confidando nel materno suo Cuore diciamole: Per gli alti pregi del vostro Cuore dolcissimo impetratemi, o gran Madre di Dio e Madre mia, Maria, vera e stabile devozione al sacro Cuore di Gesù vostro Figliuolo; onde io in esso racchiuso coi miei pensieri ed affetti adempia tutti i miei doveri, e con alacrità di cuore serva sempre, ma specialmente in questo giorno, a Gesù,

V. Cor Iesu, flagrans amore nostri,

R. inflamma cor nostrum amore tui.

Oremus.

Illo nos igne, quæsumus Domine, Spiritus Sanctus inflammet, quem Dominus noster Iesus Christus e penetralibus Cordis sui misit in terram, et voluit vehementer accendi: Qui tecum vivit et regnat in unitate eiusdem Spiritus Sancti Deus per omnia sæcula sæculorum. Àmen.

Indulgentia septem annorum. [7 anni]

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidiana coronæ recitatio in integrum mensem producta fuerit [indulgenza plenaria se recitata per un mese] (S. C. Indulg., 20 mart. 1815; S. Pæn. Ap., 10 mart. 1933).

VII

ACTUS REPARATIONIS ET CONSECRATIONIS

256

Actus reparationis

Iesu dulcissime, cuius effusa in homines caritas, tanta oblivione, negligentia, contemptione, ingratissime rependitur, en nos, ante altaria tua (1) provoluti, tam nefariam hominum socordiam iniuriasque, quibus undique amantissimum Cor tuum afficitur, peculiari honore resarcire contendimus. – Attamen, memores tantae nos quoque indignitatis non expertes aliquando fuisse, indeque vehementissimo dolore commoti, tuam in primis misericordiam nobis imploramus, paratis, voluntaria expiatione compensare flagitia non modo quæ ipsi patravimus, sed etiam illorum, qui, longe a salutis via aberrantes, vel te pastorem ducemque sectari detrectant, in sua infidelitate obstinati, vel, baptismatis promissa conculcantes, suavissimum tuæ legis iugum excusserunt. – Quæ deploranda crimina, cum universa expiare contendimus, tum nobis singula resarcienda proponimus: vitæ cultusque immodestiam atque turpitudines, tot corruptelae pedicas innocentium animis instructas, dies festos violatos, exsecranda in te tuosque Sanctos iactata maledicta atque in tuum Vicarium ordinemque sacerdotalem convicia irrogata, ipsum denique amoris divini Sacramentum vel neglectum vel horrendis sacrilegiis profanatum,  publica postremo nationum delicta, quæ Ecclesiæ a te institutae iuribus magisterioque reluctantur. – Quæ utinam crimina sanguine ipsi nostro eluere possemus! Interea ad violatum divinum honorem resarciendum, quam Tu olim Patri in Cruce satisfactionem obtulisti quamque cotidie in altaribus renovare pergis, hanc eamdem nos tibi præstamus, cum Virginis Matris, omnium Sanctorum, piorum quoque fidelium expiationibus coniunctam, ex animo spondentes, cum præterita nostra aliorumque peccata ac tanti amoris incuriam firma fide, candidis vitæ moribus, perfecta legis evangelicæ, caritatis potissimum, observantia, quantum in nobis erit, gratia tua favente, nos esse compensaturos, tum iniurias tibi inferendas prò viribus prohibituros, et quam convocaturos. Excipias. quæsumus, benignissime Iesu, beata Virgine Maria Reparatrice intercedente, voluntarium huius expiationis obsequium nosque in officio tuique servitio fidissimos ad mortem usque velis, magno ilio perseverantiæ munere, continere, ut ad illam tandem patriam perveniamus omnes, ubi Tu cum Patre et Spiritu Sancto vivis et regnas in sœcula sæculorum.

Amen.

(1) Extra ecclesiam vel oratorium, loco: altaria tua, dicatur: conspectum tuum.

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria, additis sacramentali confessione, sacra Communione et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitatione, si quotidie per integrum mensem reparationis actus devote recitatus fuerit.

Fidelibus vero, qui die festo sacratissimi Cordis Iesu in qualibet ecclesia aut oratorio etiam (prò legitime utentibus) semipublico, adstiterint eidem reparationis actui cum Litaniis sacratissimi Cordis, coram Ssmo Sacramento sollemniter exposito, conceditur:

Indulgentia septem annorum;

Indulgentia plenaria,

dummodo peccata sua sacramentali pænitentia expiaverint et eucharisticam Mensam participaverint (S. Pæn. Ap., 1 iun. 1928 et 18 mart. 1932).

NOTA. — Quoad versiones aliquas cfr. Ada Ap. Sedis,an. 1928, pag. 179 ss.

Atto di Consacrazione

Mio amabilissimo Gesù, io mi consacro oggi nuovamente e senza riserva al vostro divin Cuore. Vi consacro il mio corpo con tutti i suoi sensi, l’anima mia con tutte le sue facoltà, e interamente tutto il mio essere. Vi consacro tutti i miei pensieri, le mie parole ed opere; tutte le mie sofferenze e travagli; tutte le mie speranze, consolazioni e gioie; e principalmente vi consacro questo mio povero cuore, affinché esso non ami che voi e si consumi come vittima nelle fiamme del vostro amore. Accettate, o Gesù, mio amabilissimo Sposo, il desiderio che ho di consolare il vostro Cuore divino e di appartenervi per sempre. Prendete in tal maniera possesso di me, che d’ora in poi io non abbia altra libertà, che quella di amarvi, né altra vita che quella di soffrire e morire per voi. Metto in voi la mia illimitata fiducia e spero dalla vostra infinita misericordia il perdono dei miei peccati. Rimetto nelle vostre mani tutte le mie cure e principalmente quella della mia eterna salute. Vi prometto d’amarvi e di onorarvi fino all’ultimo istante della mia vita e di propagare, quanto più potrò, il culto del vostro sacratissimo Cuore. Disponete di me, o mio Gesù, secondo il vostro beneplacito; non voglio altra ricompensa che la vostra maggior gloria ed il vostro santo amore. – Concedetemi la grazia di trovare nel vostro divin Cuore la mia abitazione; qui voglio passare ogni giorno della mia vita; qui voglio dare il mio ultimo sospiro. Stabilite Voi pure nel mio cuore la vostra dimora, il luogo del vostro riposo, per rimanere così intimamente uniti; finché un giorno io vi possa lodare, amare e possedere per tutta l’eternità lassù in cielo, ove canterò per sempre le infinite misericordie del vostro sacratissimo Cuore.

Indulgentia quingentorum dierum semel in die (Leo XIII, Audientia 11 deC. 1902; S. C. Indulg., 7 ian. 1903; S. Pæn. Ap., 9 lui. 1935).

258

Actus consecrationis

a) Je N . N . me donne et consacre au sacre Cœur de Notre Seigneur Jésus-Christ, ma personne et ma vie, mes actions, peines et souffrances, pour ne plus vouloir me servir d’aucune partie de mon étre que pour l’honorer, aimer et glorifler. C’est ici ma volonté irrévocable que d’ètre tout à lui et faire tout pour son amour, en renonçant de tout mon cœur à tout ce qui lui pourrait déplaire. – Je vous prends donc, ò sacre Cœur, pour l’unique objet de mon amour, le protecteur de ma vie, l’assurance de mon salut, le remède de ma fragilité et de mon inconstance, le réparateur de tous les défauts de ma vie, et mon asile assuré à l’heure de ma mort. -Soyez donc, ò Cœur de bonté, ma justification envers Dieu votre Pére, et détournez de moi les traits de sa juste colere. O Cœur d’amour, je mets toute ma confiance en vous, car je crains tout de ma malice et de ma faiblesse, mais j’espère tout de votre bonté. Consommez donc en moi tout ce qui vous peut déplaire ou resister, que votre pur amour vous imprime si avant dans mon cœur que jamais je ne vous puisse oublièr, ni ètre séparé de vous, que je conjure, par toutes vos bontés, que mon nom soit écrit en vous, puisque je veux faire consister tout mon bonheur et toute ma gloire à vivre et à mourir en qualité de votre esclave.

(Ste Marguerite M. Alacoque).

Indulgentia trium annorum.

Indulgentia plenaria

suetis conditionibus, si consecrationis actus quotidie in integrum mensem devote repetitus fuerit (S. C . Indulg., 1 iun. 1897, 13 ian. 1898 et 21 apr. 1908; S. Pæn. Ap., 25 febr. 1934).

SALMI BIBLICI: “QUID GLORIARIS IN MALITIA” (LI)

SALMO 51: “QUID GLORIARIS IN MALITIA”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME PREMIER.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 51

In finem. Intellectus David, cum venit Doeg Idumæus, et nuntiavit Sauli: Venit David in domum Achimelech.

[1] Quid gloriaris in malitia, qui potens es in iniquitate?

[2] Tota die injustitiam cogitavit lingua tua; sicut novacula acuta fecisti dolum.

[3] Dilexisti malitiam super benignitatem; iniquitatem magis quam loqui æquitatem.

[4] Dilexisti omnia verba præcipitationis, lingua dolosa.

[5] Propterea Deus destruet te in finem; evellet te, et emigrabit te de tabernaculo tuo, et radicem tuam de terra viventium.

[6] Videbunt justi, et timebunt; et super eum ridebunt, et dicent:

[7] Ecce homo qui non posuit Deum adjutorem suum; sed speravit in multitudine divitiarum suarum, et prævaluit in vanitate sua.

[8] Ego autem, sicut oliva fructifera in domo Dei; speravi in misericordia Dei, in æternum et in sæculum sæculi.

[9] Confitebor tibi in sæculum, quia fecisti; et exspectabo nomen tuum, quoniam bonum est in conspectu sanctorum tuorum.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LI (1)

Riprensione a Doeg Idumeo, che calunniò Davide e Achimelech Sacerdote presso il re Saulle, e divenne con ciò causa della strage dei sacerdoti di Nobe. (Vedi lib. 1 Reg., c. 21).

Per la fine: salmo d’intelligenza di David, quando Doeg Idumeo andò a dar avviso a Saul, dicendo: David è stato a casa di Achimelech.

1. Perché fai tu gloria della malvagità, tu che sei potente a far male?

2. Tutto il dì la tua lingua ha meditato l’ingiustizia; quale affilato rasoio hai fatto tradimento.

3. Hai amato la malizia più che la bontà; il parlare iniquo, piuttosto che il giusto.

4. Hai amato tutte le parole da recar perdizione, o lingua ingannatrice.

5. Per questo Iddio ti distruggerà per sempre; ti schianterà, e ti scaccerà fuori del tuo padiglione; e ti sradicherà dalla terra dei vivi.

6. Vedran ciò i giusti, e temeranno, e di lui rideranno, dicendo:

7. Ecco l’uomo, il quale non ha eletto Dio per suo protettore; ma sperò nelle sue molte ricchezze, e si fece forte nei suoi averi.

8. Ma io, come ulivo fecondo nella casa di Dio, ho sperato nella misericordia di Dio per l’eternità e per tutti i secoli.

9. Te loderò io pei secoli, perché hai fatta tal cosa e aspetterò l’aiuto del nome tuo, perché buona cosa è questa nel cospetto dei santi tuoi.

Sommario analitico

In questo Salmo, il cui titolo fa sufficientemente conoscere l’occasione ed il soggetto, ed in cui c’è Doeg, traditore di Davide e del gran sacerdote, per i suoi interessi temporali, c’è un’immagine viva di Giuda che tradisce e vende il suo divino Maestro.

I. – Davide mostra tutta l’iniquità e la malvagità delle calunnie di Doeg e ne descrive i caratteri principali:

– 1° la sua ostinazione nell’iniquità, della quale si glorifica (1), – 2° la sua malizia premeditata e continua (2); – 3° la sua affezione al male (3); – 4° i suoi discorsi che non hanno come scopo se non la rovina del prossimo (4);

II.Egli descrive il castigo che lo attende sotto la figura di un albero abbattuto e sradicato:

– 1° egli sarà divelto, abbattuto, sradicato (5); – 2° i giusti, testimoni della sua rovina, applaudiranno e rideranno di lui, a) perché egli non ha riposto la sua forza il Dio, b) si è affidato alle moltitudini delle sue ricchezze, c) e si è raffermato nella sua malvagità (6, 7).

III Egli descrive in opposizione la sua felicità e quella dei giusti, sotto l’emblema di un ulivo verdeggiante:

– 1° Che produce frutti abbondanti, – 2° che è piantato in un luogo ameno, la casa di Dio (8); – 3° i cui rami che si estendono in lontananza sono: a) la speranza in Dio (8); b) la lode di Dio; c) la longanimità; d) la contemplazione e la carità della comunione dei santi (9).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-4.

ff. 1. – Glorificarsi delle proprie buone opere, è commettere una grave ingiustizia verso Dio, perché è come prendergli ciò che Gli appartiene come proprio, la sua gloria, che Egli stesso dichiara di non cedere a nessuno. Ma glorificarsi nella propria malizia, è fare a Dio l’oltraggio più sensibile, poiché è dichiararsi suo nemico. – « Perché colui che è potente si glorifica della propria malvagità? » Vale a dire, perché colui che è potente nel male si glorifica? L’uomo ha bisogno di essere potente, ma nel bene, e non nel male. È dunque qualcosa di grande glorificarsi della propria malvagità? Il costruire una casa è affare di pochi; nel distruggerla, ogni ignorante può venirne a capo. È concesso ad un piccolo numero di persone il saper seminare il frumento, coltivare le messi, attendere la maturazione del grano, e raccogliere con gioia il frutto di questo lavoro; ma il primo venuto può con una semplice fiammella, incendiare tutta una messe. Far nascere un bambino, nutrirlo, allevarlo, condurlo fino all’età della giovinezza, è un grande compito, ma non c’è nessuno che non possa ucciderlo in poco tempo. Tutto ciò che non tende che a distruggere è dunque molto facile. Colui che si glorifica, si glorifichi nel Signore (1 Cor. I, 31); colui che si glorifica, si glorifichi nel bene; voi vi glorificate perché siete potenti nel male; cosa farete dunque o potenti con tutta la vostra iattanza? Voi ucciderete un uomo? Uno scorpione fa altrettanto; una febbre fa altrettanto, un fungo velenoso fa altrettanto. Tutta la vostra potenza è così ridotta ad eguagliare quella di un animale o di una pianta velenosa? (S. Agost.).

ff. 2. – Il cuore del giusto è interamente nella legge di Dio, che egli medita giorno e notte (Ps. I, 2). Il cuore del malvagio è interamente nell’ingiustizia, e la sua lingua è sempre occupata a produrre all’esterno i suoi tristi frutti (Dug.). – Come spiegare ciò che qui dice il profeta, che la lingua pensa e medita l’ingiustizia, allorché i pensieri escono dal senso ragionevole dell’anima vivente, mentre la lingua non è che lo strumento materiale del pensiero? Un altro scrittore ispirato ci fa comprendere la giustezza di questa espressione: « il cuore degli insensati – egli dice – è nella loro bocca » (Eccl. XXI, 29), perché essi non fanno niente con il consiglio della ragione e secondo le deliberazioni della loro intelligenza, ma al contrario si lasciano andare allo scorrere precipitoso della loro lingua, e tengono i discorsi più sconsiderati e più temerari. Ecco perché l’autore sacro dice che il loro cuore è nella loro bocca, perché essi non dicono affatto quel che hanno pensato, ma ciò che hanno pensato e che hanno detto. Il salmista parla tutt’altrimenti della lingua del saggio: la lingua del giusto, egli dice, mediterà la saggezza (Ps. XLIV, 2), perché la lingua si forma ed è diretta sulla meditazione del suo cuore (S. Hil.). – Quanta pena ci si prende per aguzzare un rasoio, quanta cura per affilarlo, quante volte lo si fa passare sulla pietra? E questo per radere quanto più profondamente i peli della barba, e dare al viso tutta la sua pulizia, tutta la sua nettezza. Ma se in luogo di tagliare la barba, il rasoio taglia la pelle della persona, esso porta un colpo ingannatore e perfido, perché invece di contribuire alla bellezza del viso, produce una ferita. (S. Hilar.).

ff. 3. –  « Voi avete preferito la malvagità alla bontà » Uomo ingiusto, uomo senza regole, voi volete, nella vostra perversità, mettere l’acqua sopra l’olio; l’acqua sarà sommersa, e l’olio emergerà. Voi volete nascondere la luce sotto le tenebre, ma le tenebre saranno dissipate, e la luce sussisterà. Voi volete mettere la terra al di sopra del cielo, ma la terra, con tutto il suo peso, cadrà sul suo luogo naturale. Voi sarete sommersi dunque per aver preferito la malvagità alla bontà; poiché mai la malvagità avrà la meglio sulla bontà. « Voi avete preferito la malvagità alla bontà, ed il linguaggio dell’iniquità a quello della giustizia ». Davanti a voi è la giustizia e davanti a voi vi è pure l’ingiustizia: voi avete una lingua, la muovete come vi pare; perché dunque la volgete piuttosto dal lato dell’ingiustizia e non dal lato della giustizia? Voi non sapete dare al vostro stomaco un nutrimento amaro, e date alla vostra lingua un nutrimento d’iniquità? Come scegliete il vostro nutrimento, così scegliete anche le vostre parole. Voi preferite l’ingiustizia alla giustizia; voi la preferite, è vero, ma chi la spunterà, se non la bontà e la giustizia? (S. Agost.).

II. — 5 – 7.

ff.5. – La giusta retribuzione dovuta al peccato, spesso è esercitata sui peccatori in questa vita, e sempre nell’altra. – Essi cercano di distruggere gli altri e non vi riescono che troppo spesso; ma saranno essi stessi distrutti, saranno scacciati dai luoghi ai quali si erano attaccati più tenacemente, le loro dimore, ove si erano stabiliti come se non ne dovessero mai uscire e mai sradicarsi con la loro morte dalla terra dei viventi. (Dug.). – Ogni anno, per un gran numero di uomini, il tempo fugge rapido come il fulmine, ed allora, dopo effimeri successi, c’è lo sterminio assoluto; ed allora dopo una vana affermazione di potenza e di grandezza, arriva lo schiacciamento senza pietà: … l’espulsione e l’esilio in luogo delle superbe dimore; l’annientamento della discendenza in luogo di una numerosa posterità; ecco ciò che Dio riserva ai malvagi, ecco come punisce l’insolenza e l’orgoglio con cui avevano preteso di lottare contro di Lui (Rendu). – Noi dobbiamo dunque avere la nostra radice nella terra dei viventi. La radice è in un luogo nascosto: se ne possono vedere i frutti, non la radice: occorre che le nostre opere procedano dalla carità, ed allora la nostra radice è nella terra dei viventi (S. Agost.). – Ah, io comprendo Signore, che la buona radice è il vostro amore, e che quella dell’empio è il suo criminale attaccamento alle cose della terra. Voi strappate questa radice perversa dalla terra dei viventi, e ricacciate l’empio lontano dal vostro tabernacolo. Cosa diventerò io, Signore, se agite così con me? Come potrò vivere lontano da Voi? Lontano dalla terra dei viventi, e lontano dal tabernacolo dove si impara ad amarvi? Radicatemi, Signore, nel vostro amore, ai piedi del Tabernacolo eucaristico (Mgr. De La Bouil. Symb., p. 279). – Quando i giusti avranno timore? Quando rideranno? Comprendiamo e discerniamo questi due tempi nei quali sia utile temere o ridere. Mentre siamo in questo mondo, non è ancor tempo di ridere, per paura di avere poi da piangere. Coloro dunque che sono i giusti ora e che vivono della fede, vedono questo Doeg e ciò che gli debba accadere, e temono per se stessi la stessa sorte; essi sanno in effetti cosa sono oggi, ma non sanno cosa saranno domani. Ora, dunque « i giusti verranno e temeranno », ma quando rideranno di lui? Quando l’iniquità sarà trascorsa; quando sarà tolta, come è già tolta, in gran parte, questo tempo incerto; quando saranno dissipate le tenebre di questo mondo, in mezzo alle quali noi non camminiamo ora che alla luce delle sante Scritture, ciò che fa che noi temiamo come se fossimo nella notte (S. Agost.).

ff. 7. – Il Profeta non ha detto: ecco quest’uomo che era ricco, ma: « ecco quest’uomo che non ha cercato il suo appoggio in Dio, e che ha messo la sua speranza nella moltitudine delle sue ricchezze ». Non è perché ha posseduto ricchezze, ma perché vi ha riposto le sue speranze, non mettendo le sue speranze in Dio, che egli è condannato, ed è per questo che egli è punito; è per questo che è cacciato dalla sua tenda, non essendo che terra e movimento, come la polvere che il vento alza sopra la superficie della terra; è per questo che la sua radice è divelta dalla terra dei viventi (S. Agost.). – I giusti, così sensibili quaggiù alle calamità dei propri fratelli, così ingegnosi nello scusare le loro colpe, a coprirle con un velo di carità, e ad addolcirle agli occhi degli uomini, quando non possono trovare scuse apparenti; i giusti, spogliati nel giorno del giudizio, sull’esempio del Figlio dell’uomo, di questa indulgenza e di questa misericordia che essi avevano esercitato verso i propri fratelli sulla terra, sibileranno sui peccatori, dice il profeta, l’insulteranno e divenendo essi stessi i suoi giudici, diranno loro beffandoli. « … ecco dunque quest’uomo che non aveva voluto mettere il suo soccorso e la sua fiducia nel Signore, e che aveva amato meglio confidare nella vanità e nella menzogna ». Ecco questo insensato che si credeva il solo saggio sulla terra, che riguardava la vita dei giusti come follia, e che si compiaceva nel favore dei grandi, nella vanità dei titoli e delle dignità, nell’estensione delle terre e dei possedimenti, nella stima e nelle lodi degli uomini, degli appoggi del fango che doveva perire con lui » (Massil., Jug. Univ.).

III. — 8, 9.

ff. 8. – L’olivo sterile, come il fico del Vangelo che non produce nulla, è l’immagine del peccatore. Essi non sono buoni, l’uno e l’altro, che ad essere tagliati e gettati nel fuoco. L’olivo fertile, al contrario, che porta frutto in abbondanza, è l’immagine del giusto che merita un posto nella casa del Signore. Fondamento solido della salvezza eterna, è la speranza nella misericordia di Dio. Quale differenza con la speranza che il peccatore pone nelle sue ricchezze, nella vanità e la menzogna! – « Io ho messo la mia speranza nella misericordia del Signore ». Ma non sarebbe solo per il presente? Perché talvolta gli uomini si ingannano su questo punto. In verità essi adorano Dio; ma benché abbiano confidenza in Dio, non è che in vista della loro prosperità temporale che essi dicono: io adoro il mio Dio che mi renderà ricco sulla terra, che mi darà dei figli, una sposa. Questi beni, in effetti non li dà se non Dio, ma Egli non vuole che Lo si ami a causa di questi medesimi beni. Egli li dà spesso anche ai malvagi, per far comprendere ai buoni di chiedergli ben altri beni. In che senso allora voi dite: « io ho messo la mia speranza nella misericordia di Dio? » … non è per caso onde acquisire dei beni temporali? No, « per l’eternità, e per i secoli dei secoli » (S. Agost.).

ff. 9. – « Io vi glorificherò per sempre, per quanto Voi avete fatto ». È una confessione completa del Nome di Dio con queste parole « per quanto avete fatto ». Cosa avete fatto se non ciò che si sta dicendo, che cioè, grazie a Voi, io sono come un ulivo fertile nella casa del Signore, e che ho messo la mia speranza nella misericordia divina per l’eternità e per i secoli dei secoli? Questo Voi lo avete fatto. Io non mi glorifico per ciò che ho, come se non avessi ricevuto nulla, ma io me ne glorifico in Dio. « Ed io confesserò per sempre che Voi lo avete fatto »; vale a dire, in ragione della vostra misericordia e non in ragione dei miei meriti; perché per me, io cosa ho fatto? Se voi cercate nel passato, io sono stato un bestemmiatore, un persecutore, un calunniatore. E Voi cosa avete fatto? Per Voi io ho attenuto misericordia, perché avevo fatto il male per ignoranza (1 Tim. I, 13). – Il Nome di Dio è Dio stesso, così aspettare il suo santo Nome, è come aspettare la manifestazione di Dio, il momento in cui Egli scoprirà la sua essenza eterna. Noi tutti siamo sulla terra in attesa di questo momento; noi non vediamo il santo Nome di Dio che in enigma e per fede. Quando si rivelerà a noi senza mezzi e senza veli, noi sapremo pienamente ciò che Egli è, e saremo perfettamente felici (Berthier). « Ed io aspetterò il vostro Nome perché è pieno di dolcezza ». Il mondo è pieno di amarezza, ma il vostro Nome è pieno di dolcezza, e se pure nel mondo vi è qualcosa di dolce al gusto, la digestione ne è amara. Il vostro Nome è l’oggetto delle mie preferenze, non solo a causa della sua grandezza, ma a causa ancor più della sua dolcezza. In effetti « gli ingiusti mi hanno raccontato le delizie delle quali godono, ma esse, Signore, non erano dolci come la vostra legge » (Ps. CXVIII, 86). Se in effetti non ci fosse stata qualche dolcezza nelle sofferenze dei martiri, essi non avrebbero sopportato con tanta costanza le amarezze di queste sofferenze, ma non era facile per tutti gli uomini gustare la dolcezza che esse racchiudevano. Il Nome di Dio è dunque – per coloro che amano Dio – di una dolcezza che sorpassa tutte le altre dolcezze, « io attenderò il vostro Nome, perché è pieno di dolcezza ». E a chi dimostrare la dolcezza di questo Nome? Datemi un palato al quale questo Nome sia stato dolce, lodate il miele finché volete, esagerate la sua dolcezza con tutte le espressioni che potete trovare, un uomo che non sa ciò che il miele sia, non comprenderà quel che direte, finché non l’avrà gustato. C’è un altro salmo in cui il Profeta invita particolarmente a sperimentare questa dolcezza e vi dice: « Gustate e vedete come è dolce il Signore » (Ps. XXXIII, 8). Voi rifiutate di gustarlo e dite: Egli è dolce! (S. Agost.).

SALMI BIBLICI. “AUDITE HÆC, OMNES GENTES” (XLVIII)

SALMO 48: Audite hæc, omnes gentes

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 48 (1)

In finem, filiis Core. Psalmus.

[1] Audite hæc, omnes gentes;

auribus percipite, omnes qui habitatis orbem:

[2] quique terrigenæ et filii hominum, simul in unum dives et pauper.

[3] Os meum loquetur sapientiam, et meditatio cordis mei prudentiam.

[4] Inclinabo in parabolam aurem meam; aperiam in psalterio propositionem meam.

[5] Cur timebo in die mala? Iniquitas calcanei mei circumdabit me.

[6] Qui confidunt in virtute sua, et in multitudine divitiarum suarum gloriantur.

[7] Frater non redimit, redimet homo: non dabit Deo placationem suam,

[8] et pretium redemptionis animae suæ. Et laborabit in æternum;

[9] et vivet adhuc in finem.

[10] Non videbit interitum, cum viderit sapientes morientes. Simul insipiens et stultus peribunt; et relinquent alienis divitias suas;

[11] et sepulchra eorum domus illorum in æternum, tabernacula eorum in progenie et progenie; vocaverunt nomina sua in terris suis.

[12] Et homo, cum in honore esset, non intellexit. Comparatus est jumentis insipientibus, et similis factus est illis.

[13] Haec via illorum scandalum ipsis; et postea in ore suo complacebunt.

[14] Sicut oves in inferno positi sunt: mors depascet eos. Et dominabuntur eorum justi in matutino; et auxilium eorum veterascet in inferno a gloria eorum.

[15] Verumtamen Deus redimet animam meam de manu inferi, cum acceperit me.

[16] Ne timueris cum dives factus fuerit homo, et cum multiplicata fuerit gloria domus ejus;

[17] quoniam, cum interierit, non sumet omnia, neque descendet cum eo gloria ejus.

[18] Quia anima ejus in vita ipsius benedicetur; confitebitur tibi cum benefeceris ei.

[19] Introibit usque in progenies patrum suorum; et usque in æternum non videbit lumen.

[20] Homo, cum in honore esset, non intellexit. Comparatus est jumentis insipientibus, et similis factus est illis.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XLVIII (1)

Esortazione a seguir la virtù e scampar dal vizio.

Per la fine; ai figliuoli di Core.

1. Udite queste cose, o nazioni quante voi siete; porgete le vostre orecchie, tutti voi abitatori della terra;

2. E voi di stirpe oscura, e voi di nobil lignaggio: il povero insieme ed il ricco.

3. La mia bocca parlerà sapienza, e la meditazione del mio spirito parole di prudenza.

4. Terrò intente le orecchie alla parabola; esporrò sul salterio il mio tema.

5. Per qual ragione sarò io timoroso nel cattivo giorno? l’iniquità dell’opere mie mi premerà d’ogni parte.

6. Cosi quelli che si confidano nella loro potenza, e si gloriano dell’abbondanza dì ricchezze.

7. Il fratello non riscatta, e un altr’uomo riscatterà? nessuno darà a Dio cosa atta a placarlo,

8. Né il prezzo di riscatto per l’anima sua: ed ei sarà eternamente nell’afflizione,

9. E tuttavia vivrà perpetuamente.

10. Non vedrà egli la morte, mentre ha veduto che muoiono i saggi? L’insensato e lo stolto perirà egualmente.

11. E lasceranno le loro ricchezze ad estranei; e i loro sepolcri saranno le loro case in eterno. E i loro tabernacoli per tutte le generazioni; diedero essi i loro nomi alle loro terre.

12. E l’uomo, posto in nobile condizione, ha avuto discernimento; è stato paragonatp ai giumenti senza ragione, ed è divenuto simile ad essi.

13. Questo far di costoro è per essi uno scandalo, e quelli che vengono dopo, si compiaceranno de’ lor dettati.

14. Sono stati messi nell’inferno a gregge, come le pecore; saran pascolo della morte. E i giusti, al mattino, avran dominio sopra di essi; e dopo la loro gloria ogni soccorso verrà meno per essi nell’inferno.

15. Iddio pero riscatterà l’anima mia dal potere dell’inferno, quando egli mi prenderà.

16. Non ti faccia specie, quando un uomo sia diventato ricco e sia cresciuta in gloria la casa di lui.

17. Imperocché, morto che sia, non porterà nulla seco, e non andrà dietro lui la sua gloria.

18. Imperocché sarà benedetta l’anima di lui, mentre ei viverà; ti loderà quando tu gli avrai fatto del bene.

19. Andrà fin laggiù a trovare la progenie dei padri suoi, e non vedrà lume in eterno.

20. L’uomo, posto in nobile condizione, non ha avuto discernimento; è stato paragonato ai giumenti senza ragione ed è divenuto simile ad essi.

(1) – Questo salmo molto difficile secondo il giudizio di tutti gli interpreti, sarebbe secondo M. Le Hir (Les Psaumes, etc.), uno di quelli della vulgata che si allontana in più punti dal testo ebraico. Noi non di meno siamo rimasti fedeli alla traduzione della Vulgata, ed il senso che essa presenta è stata la sorgente delle idee più belle e delle più serie considerazioni, come si potrà giudicare dagli estratti dei Santi Padri che noi qui riportiamo.

Sommario analitico

Il Profeta considerando la breve durata della potenza degli empi, il loro giudizio e la loro rovina eterna,

I. – Propone il soggetto che vuol trattare:

1° invita tutti gli uomini, di ogni nazione, di ogni classe, ad intenderlo (1);

2° eccita l’attenzione del corpo e dello spirito – a) per la natura del soggetto che sta per trattare: egli è pieno di saggezza e di prudenza e avviluppato da una oscurità misteriosa (3); – b) per la maniera con cui lo tratterà; egli lo propone dopo averlo meditato ed aver prestato orecchio a Dio che lo istruisce (4).

II. – Mostra che i ricchi empi debbano temere:

– 1° a causa della morte, a) quando i loro peccati li circonderanno e li accuseranno (5); b) quando le speranze che avevano riposte nelle loro ricchezze saranno annientate (6); c) quando nessuno prenderà le loro difese, né i loro parenti o i loro amici, né Dio irritato, né le loro ricchezze, ed occorrerà necessariamente subire l’impero della morte (7-11). 

– 2° A causa delle sequele della morte: – a) le loro ricchezze perdute (10); – b) i loro corpi vittime della corruzione della tomba (11); – c) le loro case passate ad altri proprietari; – d) il loro nome caduto nell’oblio con le loro terre (11).

3° A causa dei castighi che li attendono nell’inferno: – a) essi riceveranno la giusta punizione per i crimini enormi che hanno commesso: 1) privando il loro spirito della luce della ragione; 2) turbando la loro volontà e corrompendo le loro azioni (12); 3) glorificando la loro condotta criminale (13). – b) Essi saranno rigorosamente castigati: 1) dai demoni che li precipiteranno negli inferi come un vile capro; 2) dalla morte di cui saranno preda e che li divorerà (14).

III. – Egli dimostra come gli empi non siano da temere:

1° Né nell’altra vita, ove a) il dominio degli empi farà posto a quelli dei giusti (14); ove b) i giusti saranno liberati e riuniti a Dio (15);

2° Né in questa vita, ove: – a) essi hanno beni ed onori in abbondanza, ma dei quali non gioiranno a lungo e non oltre la tomba (16, 17); – b) essi riceveranno quaggiù gli elogi e le lodi degli adulatori, ma questi elogi e queste adulazioni non li salveranno né dalla morte né dalla dannazione, e non li eleveranno al di sopra degli animali ai quali sono divenuti simili (18-20).

Spiegazioni e Considerazioni

I. – 1-4.

ff. 1, 2. – Il Re-Profeta sta per darci in questo salmo delle grandi e misteriose lezioni; egli infatti non inviterebbe il mondo intero per venire ad ascoltarlo, non sceglierebbe l’universo come teatro, se non avesse da farci conoscere delle grandi ed importanti verità, degne di essere insegnate ad una sì vasta assemblea. Non solo ai Giudei egli parla come Profeta, ma si indirizza come Apostolo, come Evangelista, all’intero genere umano. La legge non indirizzava i suoi insegnamenti che ad una sola nazione, in un solo angolo della terra; ma la predicazione evangelica si è diffusa su tutta le superficie del pianeta, si è estesa fino alle estremità del mondo abitato ed ha percorso tante contrade quante il sole ne ha illuminato con i suoi raggi. La lezione è solenne, l’insegnamento è grave: Dio raduna la terra intera, tutte le fortune, tutte le condizioni devono egualmente ascoltare (S. Bas.; S. Chrys.). – Dopo questo richiamo, egli reprime l’orgoglio che la vista della loro grande moltitudine poteva ispirare. E come reprime la loro vana sufficienza? Con il ricordo della loro comune natura. « Voi tutti che abitate la terra », e che nei vostri sogni orgogliosi, misconoscete la vostra origine, la vostra vita effimera, la vostra morte sempre pronta, le forme mortali della polvere alla quale devono rapidamente ritornare, senza distinzioni di onore e di fortuna: considerate cosa sia la vostra madre, e questa considerazione smorzi in voi ogni sentimento di orgoglio. Abbassate ed umiliate questi pensieri superbi, considerate che « … voi siete polvere e tornerete nella polvere » (Gen. III, 49), e così stornerete da voi ogni arroganza, ed ecco l’uditore che mi abbisogna. Io vorrei ispirarvi sentimenti di moderazione, per rendervi più idonei a comprendere le mie parole, « ricchi e poveri ». Voi vedete qual sia la nobiltà e la generosità della Chiesa. E come negare questa nobiltà, quando la differenza di condizione non è punto per essa un motivo di eccezione di persona tra i suoi discepoli, ma che noi vediamo spandere indistintamente la sua dottrina sul povero e sul ricco, per farli sedere entrambi ad una tavola comune? Dopo aver mostrato il legame che li unisce, cioè l’aver mostrato la terra come origine comune, l’essere tutti figli degli uomini ed avere una medesima natura, occorre vedere che la distinzione che fuoriesce dalla differenza delle condizioni sociali sia nulla, chiamati come sono tutti indistintamente ad ascoltare le sue parole. Io vi invito tutti in generale, poiché noi abbiamo tutti una comune natura, perché la terra intera è la nostra comune città. Voi avete introdotto ancora un’altra distinzione, e con questa, un’altra ineguaglianza, fondata sulla povertà e la ricchezza; io le respingo ugualmente: io non ammetto che i ricchi respingano i poveri, e non ammetto affatto che i poveri respingano i ricchi, io li convoco tutti senza distinzione, e nel richiamo che faccio loro, non c’è né primo né ultimo: tutti sono chiamati nello stesso tempo. L’assemblea, il discorso, gli uditori, tutto è comune. Voi siete ricco, ma non siete uscito che dallo stesso fango, ed avevo avuto lo stesso ingresso nel mondo, la stessa origine del povero: voi siete figlio degli uomini, egli lo è ugualmente. Dappertutto allora io cerco inutilmente questa uguaglianza tra il ricco ed il povero: essa non esiste né nei tribunali, né nei palazzi, né nelle riunioni politiche, né nei banchetti; qui il ricco è onorato, il povero non raccoglie che disprezzo; l’uno ha ogni libertà, l’altro è coperto di onta. In questa assemblea non è affatto così: io non voglio queste distinzioni insensate, e propongo a tutti una dottrina comune (S. Chrys.). – Tutti sono semplicemente chiamati, perché la sorgente della saggezza è aperta abbondantemente a tutti; non la si compra affatto col denaro, perché essa è senza prezzo, superiore a tutti i tesori della terra. Così il ricco non è allontanato, il povero non è escluso; poiché la saggezza non distingue lo stato di fortuna, ma le volontà; essa non dà preferenza che a colui che è primo per l’afflizione del cuore e più vicino per la regolarità della vita (S. Ambr.).

ff. 3, 4. – Dopo aver detto: « la mia bocca pronuncerà delle parole di saggezza », per farvi comprendere che ciò che esce dalle sue labbra prende origine nel suo cuore, egli aggiunge: « … e dalla meditazione del cuore uscirà l’intelligenza » (S. Agost.). – Secondo la dottrina dell’Apostolo, « bisogna credere col cuore per ottenere la giustizia, e confessare con la bocca per ottenere la salvezza » (Rom. X, 10), e questi due atti uniti formano la perfezione. È per questo che il salmista aggiunge qui l’azione della bocca alla meditazione del cuore; perché se il bene non esiste dapprima in fondo all’anima, come colui che non possiede il buon tesoro nel segreto del suo cuore, potrà produrlo all’esterno con la sua bocca? (S. Bas.). – Il dottore che insegna agli altri non deve essere che l’organo della sapienza di Dio. Egli non deve dire niente che non abbia a lungo meditato nel fondo del suo cuore, e prima che scopra loro quel che vuole proporre, deve aver cura di rendere egli stesso le sue orecchie attente alle lezioni dello Spirito Santo, cioè a tutti i misteri della sua verità, coperti dai veli dell’allegoria (S. Bas.). – « … Io presterò orecchio alle parabole ». Ma dov’è il legame con ciò che precede? In luogo di un dottore, io vedo ora un discepolo. Voi ci chiamate per venire a ricevere degli insegnamenti utili e, quando abbiamo tutti risposto al vostro appello e siamo tutti riuniti intorno a voi, dopo averci promesso di farci ascoltare le parole di saggezza, in luogo di tenerci questo linguaggio, voi lasciate l’ufficio di dottore per prendere quello di discepolo: « Io presterò – egli dice – l’orecchio per ascoltare le parabole. » Cosa significano queste parole? Esse sono perfettamente in rapporto con ciò che le precede. Io voglio – egli ha detto – farvi intendere il linguaggio della sapienza, ma non immagini nessuno che sia un linguaggio umano, e che questa meditazione del mio cuore sia un’invenzione personale. Le parole che state per ascoltare sono divine; io non dirò nulla da me stesso e non vi trametterò se non gli insegnamenti che io stesso ho ricevuto. Io ho inclinato il mio orecchio per intendere le parole di Dio, e sono queste parole discese dal cielo nella mia anima che devo fare intendere tutte a mia volta. È ciò che Isaia esprimeva in questi termini: « Il Signore mi ha dato un linguaggio sapiente per distinguere il tempo in cui io devo parlare, ed ha preparato il mio orecchio per ascoltarlo » (Isai. L, 4; S. Chrys.). – Non siate dunque sorpresi da questa espressione. « La meditazione del mio cuore ». Il Re-Profeta meditava continuamente gli insegnamenti che aveva ricevuto dallo Spirito-Santo, e li ripassava nella sua anima, e solo dopo lunga meditazione li trasmetteva agli altri. (S. Chrys.). – Il predicatore può raccogliere qui delle lezioni molto importanti: – 1° Egli deve predicare la saggezza di Dio contenuta nelle sante Scritture, e non negli insegnamenti di una saggezza tutta umana. – 2° Se egli vuole che Dio lo riempia di questa saggezza, occorre che la distribuisca al popolo. Una sorgente che non si spande si corrompe e si esaurisce, ma al contrario più essa si espande, più diviene abbondante e pura. – 3° La meditazione è la madre della prudenza: essa è indispensabilmente necessaria al predicatore per riempire il suo spirito di luce divina, e fare che non gli sfugga alcuna parola imprudente o temeraria nel corso dei suoi insegnamenti.

II. — 5-14.

ff. 5. – Il giorno del giudizio: « giorno di collera, giorno di tristezza e di spasimi del cuore, giorno di afflizione e di miseria, giorno di tenebre ed oscurità, giorno di nubi e di tempeste »; in una parola: « Giorno cattivo », particolarmente per « coloro che si trovano avvolti nell’iniquità delle loro vie » (Dug.). Nei giudizi degli uomini, si può temere la seduzione, la frode, l’insidia, ma nel giudizio di Dio la sola cosa che sia spaventevole, è il trovarsi invischiati nel peccato. E perché il peccato è così terribile in questo momento? È perché esso condanna il peccatore alle pene eterne dell’inferno. (S. Chrys.). – Questo cattivo giorno, è il giorno della morte, il giorno del giudizio, nel quale ciascuno sarà come circondato dai suoi pensieri e dalle sue azioni. Se il dire spesso: « verrà per me un giorno cattivo nel quale alla mia apparente tranquillità della vita presente succederanno il dolore e l’angoscia, in cui il mondo sparirà tutto ad un tratto dai miei occhi, con tutte le sue illusioni che hanno così spesso abusato del mio spirito, e mi lascerà da solo di fronte alla morte. Che avrò allora da temere? Le tracce dell’iniquità che si sono attaccate alle mie vie. Durante questa vita essa mi seguiva, si nascondeva sotto le mie vie. In questo giorno funesto essa si svelerà e diventerà per la mia anima una veste che la circonderà da ogni parte. Non si presenterà alcun accusatore se non le opere della vostra vita, ciascuna con il proprio carattere e con le circostanze distintive » (S. Bas.).

ff. 6. – Il profeta non biasima qui il possesso della potenza e delle ricchezze, ma soltanto la falsa fiducia dei potenti e dei ricchi del secolo, che non conoscono come veri beni se non quelli della vita presente, come vere gioie, se non quelle dei piaceri della terra, che immaginano che le loro ricchezze siano sufficienti, che non serva loro nessun’altra redenzione, che la loro gioia sarà interminabile ed il loro avvenire assicurato. Il salmista ci insegna di conseguenza ad intravedere, nell’acquisizione ed nel possesso dei beni temporali, la fine dei nostri giorni, alfine di non dare a questi beni l’importanza che essi non meritano. Colui che pensa alla morte arricchisce senza ambizioni e possiede senza orgoglio; egli sa che un giorno lo splendore inseparabile dall’opulenza svanirà, e ricorda l’esempio di tanti ricchi che sono entrati nella notte della tomba, e hanno portato con sé se non ciò che non è stato rifiutato al più miserabile dei mortali, un sudario, una bara e sei piedi di terra. Il ricco pieno di questi pensieri cerca di osservare i precetti dell’Apostolo (Tim. VI, 17-19): di non essere orgoglioso, di non porre la sua fiducia nelle ricchezze incerte, ma nel Dio vivente, che ci dà con abbondanza ciò che è necessario alla vita; di essere caritatevole e benefattore, ricco in buone opere, di dare di buon cuore, di far parte dei propri beni i poveri, a farsi così un tesoro ed un fondamento solido per l’avvenire al fine di abbracciare la vera vita (Berthier).

ff. 7, 9. – Ci sono di coloro che presumono dei loro amici, di coloro che presumono dei loro fratelli, ed altri delle loro ricchezze. È la presunzione di ogni uomo che non mette in Dio solo la sua fiducia. Ciò che è detto della forza personale, quello che è detto delle ricchezze, è detto egualmente degli amici: « … se il fratello non redime suo fratello, un uomo forse lo redimerà? » Aspettate forse che un uomo vi riscatti dalla collera che giungerà? Se non vi riscatta un vostro fratello, vi potrà riscattare mai un uomo? (S. Agost.). – Dov’è qui la sequenza delle idee? Essa non potrebbe essere più stretta e lampante. Il Re-Profeta parlava del giudizio, del terribile conto che dobbiamo rendere, e di questa sentenza che niente può corrompere. Ora, come nei giudizi della terra ci sono molti che hanno corrotto la giustizia e che sono sfuggiti al supplizio comprando i giudici in cambio di denaro, egli proclama che la giustizia divina è inaccessibile ad ogni corruzione, ed accresce il timore che ha cercato di inspirare dimostrando di aver avuto ragione nel dire che non c’era che una sola paura legittima: quella che viene dal peccato! Perché davanti a questo tribunale, la giustizia non può essere corrotta al prezzo di denaro, le regalie non possono liberare dai supplizi dell’inferno, e non c’è protezione, né eloquenza, né alcun altro mezzo capace di salvarci. Sia che siate ricco, potente, o conosciuto da personaggi influenti, tutto questo sarà inutile: solo le vostre opere saranno qui la causa del vostro castigo o della vostra ricompensa (S. Chrys.). – Nessuna creatura è capace di riparare l’ingiuria infinita che è stata fatta a Dio con il proprio crimine. I teologi lo provano molto bene con ragioni invincibili; ma è sufficiente dirvi che è una legge pronunziata in cielo e resa nota a tutti i mortali dalla bocca del santo salmista: « nessuno può riscattare se stesso, né rendere a Dio il prezzo della propria anima! ». Egli può sottomettersi alla sua giustizia, ma non può ritirarsi dalla sua servitù (Bossuet, II Serm. Pour le Vendredi-Saint). – Il pensiero del Profeta è lo stesso di Gesù-Cristo nel suo Vangelo: « … Che darà l’uomo in cambio della sua anima? » Il mondo intero stesso non sarà sufficiente a suo riscatto (S. Chrys.). – In questo momento decisivo per la nostra eternità, nessuna protezione, nessun favore, nessuna opulenza, nessuna sapienza puramente umana potranno costituire un prezzo di riscatto. Solo l’uomo arricchito dalle buone opere potrà comparire con sicurezza presso il tribunale del Giudice sovrano (Berthier). – Dopo che l’anima sarà separata dal corpo, essa continuerà a vivere, perché essa non perirà con il corpo, ma le sarà conservata la vita per soffrire, fino a che, riunita di nuovo al suo corpo, essa sarà sprofondata con esso nei tormenti eterni. (S. Agost. – S. Girol.).

ff. 10. – Egli non comprenderà ciò che è la morte quando vedrà il saggio morire. Egli dice in effetti a se stesso: colui che era saggio, nel quale abitava la saggezza e che praticava la pietà verso Dio, non è forse morto? Allora io mi tratterò bene finché vivrò, perché se coloro che avevano altri gusti possedevano qualche potere, essi non sarebbero morti. Egli vede morire il saggio, e non vede ciò che cosa sia la sua morte (S. Agost.). – È l’accecamento deplorevole, ma ordinario dei ricchi attaccati ai beni di questo mondo. Essi vedono tutti i giorni i giusti, che sono i veri saggi, morire davanti a loro, e non credono che questa morte li riguardi. Essi la guardano in qualche modo, senza vederla, e così non lasceranno di perire per l’eternità (Duguet). – « L’imprudente e l’insensato periscono insieme ». Chi è l’imprudente? Colui che non sa provvedersi per l’avvenire. Chi è l’insensato? Colui che non comprende il cattivo stato in cui si trova. Quanto a voi, cercate di comprendere in quale posizione cattiva vi trovate, e sappiate per l’avvenire portarvi verso una posizione più felice. Comprendendo il vostro stato spiacevole, non sarete più insensato; prevedendo il vostro avvenire, non sarete più imprudente (S. Agost.). – Sembra che il Profeta consideri maledetti coloro i cui beni passano in mane estranee: quindi è felice colui che li lascia ai propri figli. Io vedo in effetti morire molti malvagi che hanno come successori i loro figli, e la scrittura non ha potuto eliminare, nelle sue parole, ogni idea di sofferenza da coloro dei quali riprova la vita; così, non pensate che ritenga che ogni malvagio lasci le proprie ricchezze a degli estranei? Come i figli di un uomo possono essere degli estranei per lui? I figli dei malvagi sono degli estranei per essi; perché noi troviamo che un estraneo sia divenuto il prossimo di un uomo solo per essergli stato utile. Se una dei vostri non vi serve a nulla, egli è un estraneo per voi. Perché il Profeta dice « … a degli estranei », benché siano dei figli ed eredi naturali? Perché questi eredi non possono essere utili in nulla, anche nelle cose che sembrano essergli utili (S. Agost.).

ff. 11. – Il Profeta dà alle loro tombe il nome di « case », perché esse sono dei veri edifici; infatti voi sentite il ricco dire: … io ho una casa di marmo che dovrò lasciare, e non penso a costruirmi la casa eterna che non lascerò mai. Quando egli pensa di costruirsi una tomba marmorea, riccamente scolpita, la concepisce come una dimora eterna, come se in essa dovesse abitarvi. Se egli vi restasse, non sarebbe bruciato negli inferi. Bisogna pensare al luogo ove dimora lo spirito di colui che fa il male, e non al luogo ove si depone il corpo materiale (S. Agost.). – In effetti il nome degli empi non è scritto nel libro dei viventi, non è contato nell’assemblea dei primogeniti che sono scritti nei cieli; ma siccome essi hanno preferito in questa vita breve e passeggera i tabernacoli eterni, i loro nomi dimorano nelle loro terre. Non vedete dunque che coloro che costruiscono città, piazze pubbliche, edifici, acquedotti, che tracciano strade, dànno i loro nomi a queste costruzioni? (S. Bas.). – « Essi hanno dato i loro nomi alle loro terre perché le loro opere erano corruttibili e terrestri »; i loro nomi sono dunque iscritti là dove essi hanno preferito vivere (S. Ambr.). – « Essi hanno dato i loro nomi alle loro terre », essi dànno i loro nomi e i loro titoli alle loro dimore, alle loro proprietà, ai loro luoghi. Questa vana soddisfazione è per essi di gran consolazione, e perseguono così l’ombra, invece della verità. Se volete immortalare il vostro ricordo, o uomo, non iscrivete il vostro nome o i vostri titoli sulle vostre case, ma elevate trofei composti dalle vostre buone opere, che preserveranno quaggiù il vostro nome dall’oblio, e vi meriteranno nella vita futura un riposo eterno. Questi monumenti al contrario, non solo non vi daranno alcuna celebrità, ma faranno di voi l’oggetto di risate generali e perpetueranno, nel corso dei tempi, il ricordo della vostra avarizia (S. Chrys.). – Gli adoratori delle grandezze umane saranno forse soddisfatti della loro fortuna quando vedranno che in un momento la loro gloria passerà al loro nome, i loro titoli alle loro tombe, i loro beni a degli ingrati e le loro dignità forse a coloro che li invidiano? (Bossuet, Or. fun. de la Duch. D’Or.).

ff. 12. – Che parole sanguigne contro gli uomini che non hanno compreso l’uso che dovevano fare delle loro ricchezze durante la loro vita, e si credevano felici per sempre, possedendo come dimora eterna una ricca tomba di marmo, e se i loro figli, eredi dei loro beni, avessero dato il loro nome alle loro terre. Il loro nome è iscritto sulle loro terre, ma è un nome senza calore e senza vita. Essi dovevano al contrario prepararsi, con le loro buone opere, una casa eterna, acquistare una vita immortale, farsi precedere dalle loro ricchezze, non entrare nella loro eternità se non con le buone opere. Ciò che non ha compreso l’uomo elevato da onori, cioè fatto ad immagine e somiglianza di Dio, l’uomo elevato ad un rango molto superiore a quello degli animali (S. Agost.). – Ecco dunque che è così che Dio punisce l’infedeltà di coloro che, essendo stati rigenerati dal Battesimo cristiano, essendo investiti dalla luce rivelata, avendo conosciuto infine Dio mediante il Vangelo del Figlio suo Gesù-Cristo, non vogliono di conseguenza glorificarlo…  Troppo spesso, dei gaudenti orgogliosi, dalla ragione fiera ed indipendente, cadono fino a grossolane voluttà. Non volendo slanciarsi fino alle regioni pure e serene alle quali li conduce la fede, essi scivolano nella direzione in pendenza, il preteso saggio cede alle passioni dell’ignominia; e colui che in pubblico proclama le massime più severe nell’ordine morale, ricadendo su se stesso, sporca il proprio corpo con il peccato, la sua anima con i cattivi desideri, ed a volte la mani con l’iniquità. E così si compie la parola del Salmista: « … l’uomo costituito in gloria, non ha compreso la propria dignità »; egli è caduto e nella propria caduta non ha potuto arrestarsi in una regione intermedia impossibile da abitare: « … egli è caduto fino al livello delle bestie che non hanno intelletto, ed è divenuto simile a loro », ed avendo vissuto della vita dei sensi, è stato trovato degno di morte, che consiste anche nella pena eterna del senso colpevole (Mgr. Pie, Inst. sur. les princip. erreurs, etc., t. II, p. 441). – L’uomo, l’immagine di Dio, quest’uomo marchiato dal sigillo di Dio, quest’uomo al di sopra della bestia per il dono dell’intelligenza e per il raggio della luce che Dio gli ha comunicato, dimenticando il carattere della sua grandezza, si è vergognosamente degradato da sé medesimo; si è ridotto al rango dei bruti insensati, e come? Per un vergognoso asservimento alla carne! (Bourd., Sur le Temp. chrét.). – Quando l’uomo si fa prendere dall’ambizione, è un uomo che pecca, ma pecca come un Angelo, e perché? Perché l’ambizione è un peccato tutto spirituale e di conseguenza, è proprio degli Angeli. Quando egli soccombe all’avarizia ed alla tentazione dell’interesse, è un uomo che pecca, che pecca da uomo, perché l’avarizia è uno sconvolgimento della lussuria che non riguarda che l’uomo. Ma quando si abbandona ai desideri della carne, egli pecca da bestia, perché segue il movimento di una passione predominante nelle bestie. Ora, se pecca da bestia, non ha più la luce dello spirito che lo distingue dalle bestie, è degradato dalla sua condizione, ed è anche al di sotto della condizione delle bestie, perché tra le bestie e lui non c’è alcun’altra differenza, se non che egli è criminale nel suo comportamento, cosa che le bestie non possono essere. È il ragionamento di San Bernardo, e l’esperienza lo giustifica tutti i giorni, perché noi vediamo questi uomini schiavi della loro sensualità, nel momento in cui la passione li sollecita, chiudere gli occhi a tutte le considerazioni divine ed umane. Non convengono più di cose di cui essi erano precedentemente persuasi, non credono più in ciò in cui essi credevano, non credono più in niente di ciò che temevano, non sono più capaci di rimostranze. Agire senza regole e senza condotta, è divenire brutali ed insensati (Bourd., Sur l’impur). – Il Re-Profeta dice che il peccatore si porta al livello delle bestie senza intelligenza. Ma, diciamolo con forza, per certi eccessi di crimini ai quali l’uomo si abbandona, l’espressione è troppo debole. Sì, egli è ancora più in basso, in un abisso più oscuro, in un fango più ignominioso, e discende più in basso del bruto, tenuto dal suo istinto nei limiti che la sua destinazione e le sue funzioni gli hanno fissato.

ff. 13. – Questa strada per la quale essi marciano, queste cure frettolose, questi vani lavori, questa passione insensata per le ricchezze, questo amore insaziabile di gloria e di piaceri, ecco che, prima dei castighi dell’altra vita, divengono per essi quaggiù, occasione di scandalo e di rovina; « … questa via è per essi occasione di scandalo », cioè si incatenano da se stessi e creano degli ostacoli che impediscono loro di avanzare (S. Chrys.). – Questi attaccamenti eccessivi ai beni ed ai godimenti della terra è pietra d’inciampo per essi, perché questo attaccamento fa loro compiere delle cadute continue. Un ricco stordito dalla sua opulenza, non si rifiuta nessuna soddisfazione, e piomba in tutti gli eccessi che la passione gli suggerisce (Berthier). « … E non tralasciano di compiacersene ». Ecco per essi il colmo del dolore e la causa di ogni altro male. Coloro che si rendono colpevoli di questi vizi, si proclamano felici e degni di invidia, si compiacciono delle loro azioni malvagie, si gloriano dei loro smarrimenti e si vantano di ciò di cui dovrebbero umiliarsi (S. Chrys.). La loro indifferenza è ai loro occhi quasi una grandezza d’animo, la loro incredulità una prova di forza di spirito. La follia del loro linguaggio eguaglia la follia della loro condotta, « … Essi si compiacciono nelle loro parole » (S. Chrys.).

ff. 14. – « Essi sono come le pecore poste nell’inferno; la morte sarà il loro pastore ». Di chi la morte è il pastore? Di coloro che non hanno voluto Gesù-Cristo come pastore (S. Ambr.); di coloro per i quali la vita è occasione di caduta. Di chi ancora? Di coloro che non si preoccupano che del presente ed affatto dell’avvenire; di coloro che non curano che questa vita, la quale a buon diritto è chiamata col nome di morte. Non è dunque senza ragione che, simili a pecore rinchiuse nell’inferno, essi hanno la morte come pastore (S. Agost.). – Essi sono divenuti simili alle bestie, e saranno trattati come bestie. Essi saranno precipitati nell’inferno con la stessa facilità con la quale un pastore fa entrare le sue pecore nell’ovile; la morte li divorerà con la stessa facilità con cui un lupo affamato divora una pecora; essi saranno la preda eterna della morte, senza essere mai consumati, essendo, secondo la parola del Figlio di Dio (Marco, IX, 47), salati con questo fuoco come vittime eterne della divina giustizia (Duguet). – « … Essi saranno avviati come pecore ». Quale caduta per questi uomini così arroganti, sì fieri, sì dominatori. Essi regnano, essi sono opulenti, occupano i posti elevati, le loro volontà sono leggi, tutto si inchina davanti alla loro parola, tutto cede al loro potere assoluto; poi tutto ad un tratto, la morte li sconvolge, la morte diventa loro pastore; essa li caccia, li conduce senza resistenza, li dirige con tutti gli altri nella tomba. « Ed i giusti domineranno su di essi, quando sarà venuto il mattino »; questo vuol dire che la morte non sarà sola a dominarli: i giusti li domineranno prontamente e per sempre, e non avranno perciò bisogno né di tempo, né di sforzi, né di attesa; perché è nella natura delle cose che il vizio subisca l’impero della virtù che teme e da cui è terrorizzato, malgrado il trucco da cui è ricoperto ed i suoi numerosi camuffamenti, e quand’anche la virtù sarà spogliata dalle sue brillantezze esterne e ridotta alle sue proprie forze (S. Chrys.). – « I giusti saranno i loro dominatori, quando sarà giunto il mattino ». Lasciate passare la notte con pazienza, desiderate il mattino. Non crediate che la notte possegga la vita, e che il mattino non la possegga. I giusti ozieranno ancora nella loro sofferenza, ma perché? Perché è ancora notte. Che vuol dire: è notte? Il meriti dei giusti non appaiono, e non si parla per così dire che della felicità degli empi. L’erba sembra più bella dell’albero finché dura l’inverno. In effetti l’erba cresce durante l’inverno, mentre l’albero è come disseccato; ma quando al ritorno dell’estate, il sole produce il suo calore, l’albero che in inverno sembrava arido, si copre di foglie e produce i suoi frutti, mentre l’erba risecca; allora vedrete l’albero in tutta la sua bellezza, mentre l’erba è arida. Così i giusti soffrono finché non arriva l’estate. La vita è rinchiusa nella radice, e non sembra apparire nei rami. Ora la nostra radice è la carità. È notte, non si vede ancora cosa possediamo. Le nostre mani non siano dunque inattive nelle buone opere … il nostro lavoro apparirà al mattino, e con lui, al mattino, appariranno i frutti di questo lavoro, di modo che coloro che soffrono ora avranno allora il riposo, e coloro che ora si vantano e si inorgogliscono, saranno allora nella dipendenza (S. Agost.). –

« Ed il loro supporto invecchierà nell’inferno », cioè sarà ridotto all’estrema debolezza. Non solo saranno facilmente vincibili, in assenza di ogni soccorso ed appoggio, e saranno esposti ai colpi di tutti i loro nemici, ma non troveranno nessuno che li difenda, che porti loro soccorso, che tenda loro una mano e li consoli in mezzo alle sofferenze (S. Chrys.). – « … E la forza che era il loro soccorso invecchierà nell’inferno, dopo la gloria di cui avranno goduto ». Ora essi possiedono la gloria, ma invecchieranno nell’inferno. E qual era questa forza che faceva loro da soccorso? Il soccorso del loro denaro, dei loro amici, della loro potenza (S. Agost.).

III. 15-20.

ff. 15. – Ascoltate la voce di colui che spera nell’avvenire: « … ma Dio riscatterà la mia anima ». Forse è la voce di un uomo che desidera essere liberato dall’oppressione? Un uomo chiuso in prigione grida: « Dio riscatterà la mia anima ». E che dice ancora un uomo esposto ai pericoli del mare, sballottato dai flutti e da una tempesta furiosa? Dio riscatterà la mia anima. La liberazione che essi chiedono non concerne che questa vita. Tale non è il pensiero del Profeta: « Dio, egli dice, riscatterà la mia anima dalle potenze dell’inferno, quando mi avrà ricevuto ». Egli parla della redenzione di Cristo (S. Agost.). – « Il fratello non riscatta suo fratello, ha detto in precedenza, l’uomo estraneo forse lo riscatterà? » Ma Gesù-Cristo ci ha riscattato veramente dalla maledizione della legge (Gal. III, 13). Noi abbiamo la redenzione dal suo sangue, e con essa la piena remissione dei peccati (Efes. I, 7). Ecco dunque il fatto positivo, effettivo, della redenzione del genere umano in Gesù-Cristo: liberazione, guarigione, riscatto e remissione del peccato con il suo Sangue. – Io so, dice il Profeta, che il mio corpo dovrà entrare nella tomba, e che non ci sarà in questo nessuna differenza tra i peccatori e me; ma io so che il Signore salverà la mia anima, questa parte così essenziale di me e che la prenderà sotto la sua protezione. Io so che essa ha meritato la morte eterna allontanandosi dalle vie della giustizia; ma io ho un Redentore che ha pagato la mia cambiale, ed è in questo prezzo inestimabile che metto la mia speranza (Berthier).

ff. 16. – Perché dirvi: « non temete? » – « Perché quando egli morirà non porterà con sé tutti i suoi beni ». Voi lo vedete mentre egli vive; pensate a ciò che sarà quando morirà. Voi notate ciò che ora possiede, ma rimarcate anche ciò che porterà con sé. Cosa porterà con sé? Egli ha molto oro, molti soldi, molte terre e molte aziende; egli muore e lascia tutti i beni senza sapere a chi; perché se li lascia a chi vuole, non li conserva a chi vuole. Tutte queste cose restano dunque e cosa porta con sé? Egli porta con sé, direte voi, elevare una ricca tomba di marmo, destinata a perpetuare la sua memoria; ecco cosa porta con sé. Ed io gli rispondo: neanche questo porta con sé, perché queste cose sono date ad un essere insensibile … l’uomo alla morte non porta con sé tutti i suoi beni, e non porta nemmeno ciò che è dato alla sua sepoltura; perché dove c’è sensibilità, là c’è l’uomo; ove non c’è sensibilità, non c’è l’uomo. A terra è steso il vaso che conteneva l’uomo, la casa che racchiudeva l’uomo. Noi possiamo chiamare il corpo la casa dell’uomo e lo spirito l’abitante della casa. Lo spirito è tortutato negli inferi; a cosa gli serve il corpo avvolto in preziose lenzuoli, che riposa su profumi ed aromi? (S. Agost.). – La fortuna dei ricchi ispira spesso terrore, quasi sempre la gelosia, ma è un’illusione. Aspettate, dice S. Crisostomo, la morte viene, taglia fino alla radice e l’albero cade con tutti i suoi rami. Allora colui che aveva ammassato tanti tesori, che aveva tanti domestici a suo servizio, che possedeva tanti terreni, tante case, se ne va solo, nessuno lo accompagna; egli non porta neanche gli abiti di cui era coperto, e lascia ai vermi un cadavere ripugnante come cibo (S. Chrys.). – Meditate la forza di questa espressione: « la sua gloria non scenderà con lui ». La gloria del secolo non discende con il peccatore, ma la gloria della virtù sale con l’innocente. E per riassumere, la gloria dell’uomo sale con colui che sale e non discende con colui che scende. Quanto è il frutto della grazia e della virtù sale. Si sale in paradiso, si discende nell’inferno (S. Ambr.).

ff. 17. – È a coloro che lo spettacolo dell’ineguale distribuzione dei beni di questa vita scandalizza e fa talvolta dubitar questa potenza e del governo provvidenziale di Dio, particolarmente a coloro che quaggiù hanno come porzione le privazioni e la povertà, che il Salmista si indirizza qui: « non temete se vedete un uomo divenuto ricco ». I poveri in effetti, hanno soprattutto bisogno di consolazione e di incoraggiamento per non temere coloro che sono ricchi e potenti. Queste ricchezze, questa potenza non saranno loro di nessuna utilità, poiché non potranno portarle con essi; il solo beneficio che ne ricaveranno, sarà quello di essere considerati felici quaggiù dai loro adulatori. Ma alla morte lungi dal portare con sé tutta questa opulenza, avranno con sé appena un sudario per coprire il loro cadavere, ed ancora saranno alla mercè dei servitori che li seppelliranno. Sarà già molto per essi se si accorda loro un piccolo pezzo di terreno, per una commiserazione e per un certo ripetto per la nostra comune natura. Non abbiate dunque timore alcuno alla vista di queste cose presenti, ma attendete la vita eterna e felice. Allora vedrete la povertà, l’ignominia e la privazione delle gioie di questa vita, divenute per il giusto una fonte di felicità; voi sentirete il Signore dire al ricco: « voi avete ricevuto i beni durante la vostra vita » (Luc. XVI, 25), mentre voi poveri non avete che ricevuto male ed ora voi sarete consolati ed il ricco tormentato (S. Bas.).

ff. 18. – I ricchi cercheranno con alacrità gli applausi del popolo, gli sguardi e le attenzioni della moltitudine, le lodi del pubblico, gli elogi mentitori della folla. Essi stimano essere al colmo del benessere quando sono applauditi al loro ingresso in teatro, ai banchetti, ai tribunali; quando sentono il loro nome ripetuto da bocca a bocca, quando sono considerati oggetto di invidia. Ma vedete ancora come il Re-Profeta tolga ogni valore a queste gioie, a causa della loro breve durata. Durano la sua vita, egli dice, vale a dire che questo sguardi, queste lodi non vanno al di là di questa vita; esse spariscono con tutti gli altri beni, anch’essi di natura passeggera e deperibili. Ma ancora, a questi elogi puramente gratuiti succedono spesso dei sentimenti completamente opposti, quando la morte ha fatto cadere la maschera del terrore: “egli vi loderà quando gli farete del bene”. Vedete come ol Re-Profeta condanna finanche i loro benefici. Voi li lusingate, prodigate loro ogni sorta di onori, affettando per tempo sguardi esteriori e menzogneri. Essi ve ne saranno riconoscenti, compreranno da voi ben caro, il diritto di dettarvi ciò che a loro aggrada. Tale è il senso di queste parole: « egli vi loderà quando voi gli avrete fatto del bene ». Egli non dice: quando avrete per lui qualcosa di utile, quando gli avrete reso un servizio, ma: quando avrete fatto quel che a lui aggrada; azione che rende doppiamente colpevole e le testimonianze menzognere di riconoscenza ed i servizi pericolosi che ne sono la causa (S. Chrys.). « Perché la sua anima riceverà la benedizione durante la sua vita ». Finché è vissuto è stato bene. Tutti gli uomini parlano così, ma non è vero. Questo bene era nel pensiero di colui che credeva di trattarsi bene, ma non era così! Cosa dite in effetti di questo ricco? Che egli ha mangiato ed ha bevuto, che ha fatto tutto ciò che ha voluto, che si è compiaciuto nei suoi splendidi festini; che di conseguenza è vissuto bene? Io invece dico: egli si è fatto del male, e non sono io che lo dico ma il Cristo. Egli si è fatto del male. In effetti, questo ricco, ogni giorno si compiaceva dei suoi ricchi festini, credendo di farsi del bene; ma quando ha cominciato a bruciare negli inferi allora ha trovato che quel che credeva essere un bene, era al contrario del male … perché ciò che aveva mangiato sulla terra, lo doveva digerire negli inferi. Io parlo dell’iniquità che egli mangiava, dalla bocca del suo corpo, egli mangiava dei cibi di grande valore; dalla bocca del suo cuore, mangiava l’iniquità. Ciò che aveva mangiato sulla terra con la bocca del suo cuore, egli lo digerisce ora nei supplizi dell’inferno; e ciò che aveva mangiato in modo tutto passeggero, lo doveva digerire con dolori atroci in eterno (S. Agost.).

ff. 19, 20. –  « Egli entrerà nei luoghi della dimora dei suoi padri » ; vuol dire che egli imiterà i suoi vizi e riceverà l’eredità della loro perversità, come ha ricevuto da essi l’eredità della vita (S. Chrys.). – « Egli prenderà posto nella discendenza dei suoi padri », cioè imiterà i suoi padri. I malvagi di oggi hanno dei fratelli e dei padri; i malvagi dei secoli passati sono i padri del malvagi di oggi, e coloro che oggi sono i malvagi, saranno i padri dei malvagi avvenire (S. Agost.). – Razza di empi e riprovati che si saldano l’un l’altro e spesso cieca. Queste guide cieche cadono alfine dopo essi negli abissi delle tenebre (Dug.). – « E per tutta l’eternità non vedrà la luce ». Anche quando viveva quaggiù egli era nelle tenebre, ponendo la sua gioia nei falsi beni, non avendo amore per i veri beni, ed è per questo che, all’uscita da questo mondo, andrà nell’inferno, e dalle tenebre di questo sonno, passerà nelle tenebre dei supplizi. Perché questa sorte spaventosa? Il profeta ridice qui, alla fine del salmo, ciò che aveva già detto prima. « L’uomo nella prosperità non comprende, etc. » (S. Agost.).

ESAME DI COSCIENZA (2) – S. Alfonso Rodriguez

TRATTATO VII. (2)

CAPO VI.

Che non si deve mutar facilmente la materiadell’esame particolare; e quanto tempo starà bene il farlo sopra la stessa cosa.

Bisogna qui avvertire, che non abbiamo da mutar facilmente la materia dell’esame, prendendo ora una cosa ed ora un’altra; perché questo è un andare, come si suol dire, raggirandosi, e non far viaggio; ma abbiamo da procurare di proseguir una cosa sino al fine, e poi mettersi dietro ad un’altra. – Una delle cagioni per cui alcuni cavano poco frutto dall’esame particolare, suol essere questa; perché non fanno altro, per così dire, che dare certi furiosi assalti, facendo l’esame sopra una cosa per otto o quindici giorni, o per un mese, e subito si straccano e se ne passano ad un’altra, senza aver conseguito quello che pretendevano nella prima: e così danno un impetuoso assalto, e poi un altro. Siccome uno che pigliasse per impresa il tirar su per le coste d’un monte fino alla cima di esso una pietra grossa, e dopo averla tirata su un pezzo si straccasse, e libera la lasciasse rotolare sino al basso, e di poi tornasse una e più altre volte a fare l’istesso; giammai, per molto che s’affaticasse, non finirebbe di collocare la pietra nel luogo preteso; così avviene a coloro i quali cominciano a far l’esame d’una cosa, e prima di condurla al fine e di conseguire il primo intento, la lasciano, e ne pigliano un’altra e poi un’altra. Questo è straccarsi e non finir mai: Semper dìscentes, et numquam ad scientias veritatis pervenientes (II. ad Tim. III, 7). Questo negozio della perfezione non si acquista per via di certi impeti furiosi che presto finiscono; ma bisogna con molta perseveranza insistere e pigliare a petto prima una cosa e poi l’altra, facendo sforzo sino a riuscire con essa, ancorché ci costi assai. Il beato S. Gio. Crisostomo (D. Chrys. hom. 5 sup. Gen.) dice: Siccome quei che scavano cercando qualche tesoro, o qualche miniera d’oro o d’argento, non lasciano di scavare, di buttar fuori la terra, e di levare via tutti gl’impedimenti che trovano, e di affondar otto o dieci pertiche, sino al trovare il tesoro che cercano; così noi altri, che cerchiamo le vere ricchezze spirituali e il vero tesoro della virtù e perfezione, non abbiamo da riposarci sino ad averlo trovato, vincendo tutte le difficoltà, senza che da cosa alcuna ci lasciamo impedire. Persequar inimicos meos, et comprehendam illos, et non convertar, donec deficiànt (Psal. XVII, 38) : Perseguiterò i miei nemici, dice il Profeta, e non mi straccherò né ritornerò indietro fino a che non abbia riportata vittoria di essi. Questa santa e forte perseveranza è quella che vince il vizio e acquista la virtù, e non già il dare quegl’impetuosi assalti, e poi ritirarsi. – Facciamo ora i nostri conti. Di quante cose hai tu fatto l’esame particolare, da che ti sei dato a questo esercizio? Se sei riuscito in tutte, sarai già perfetto; ma se non riuscisti neppure in una di esse, perché la lasciasti? Mi dirai, che in quel particolare la cosa non ti riusciva bene: ma per questo non ti riesce bene perché vai mutando materia e non hai perseveranza nel condurre una cosa a fine. Se facendo esame di quella cosa e standovi su con particolar attenzione e vigilanza, dici, che non ti riusciva; peggio andrà il negozio, non facendo più esame sopra di essa. Perché, siccome dice quel Santo, se colui che propone, manca molte volle; che farà colui che tardi, o non mai, propone? Quel proporre la mattina, al mezzo giorno e la sera, ti servirà pure di qualche freno per non cader tante volte. E benché ti paia, di non finir mai d’emendarti, né di far cosa alcuna, non ti perder d’animo per questo, né lasciar l’impresa, ma umiliati e confonditi nell’esame, e torna a proporre e a cominciar di nuovo: che perciò permette Dio le cadute e che resti qualche Jebuseo nella terra dell’anima tua, acciocché finisca di conoscere, che non puoi niente colle tue forze, ma che ogni cosa ti ha da venire dalla mano di Dio, e così abbi ricorso a Lui e stii sempre dipendente da Lui. Molte volte con questo ha uno più fervore e usa più diligenza nel suo profitto, che se subito il Signore gli desse quello che desidera. Ma mi dirà qualcuno; quanto tempo sarà bene far l’esame particolare sopra una cosa? S. Bernardo ed Ugo di S. Vittore (D. Bern., Hugo de S. Vict, locis citatis, c. 1) trattano questa questione; quanto tempo sarà bene combattere contra un vizio? E dicono, che sin a tanto che il vizio stia tanto in declinazione, che subito che ricomincia a farsi vedere, tu lo possa facilmente reprimere e soggiogare colla ragione. Di maniera che non bisogna aspettare, che tu non senta più la tale o tal altra passione, la tale o tal altra ripugnanza; che questo sarebbe un non finir mai: ed Ugo di S. Vittore dice, che questa è più cosa da Angeli che da uomini. Basta che quel vizio, o passione, non ti sia più molesto né ti dia molto che fare; ma che subito che si muove tu la getti per terra e la scacci da te facilmente: allora potrai passar oltre a combattere e a far l’esame sopra qualche altra cosa. Per fin Seneca disse colà: Contra vìlia pugnamus, non ut penitus vincamus, sed ne vincamur (Seneca ad Lucili). Non è necessario, che giungiamo a non sentire più il vizio di sorta alcuna: basta che sia vicino ad esser vinto; sicché non ci sia d’impedimento né di disturbo per quello che ci conviene. Per affrontar meglio in questo particolare, il mezzo più espediente è, comunicarlo ciascuno col suo Padre spirituale; essendo questa una delle cose principali nelle quali fa bisogno di consiglio. Perciocché vi sono alcune cose sopra delle quali basta far l’esame poco tempo, come abbiamo detto di sopra (cap. 3); ed altre ve ne sono nelle quali è bene impiegato l’esame di un anno ed anche di molti. Se ogni anno, dice quel Santo, estirpassimo un vizio, presto diventeremmo uomini perfetti (Thomas a Kempis 1. c. 11, n. 5). E vi sono altre cose rispetto alle quali tutta la vita sarà molto bene impiegata in una di esse; quando questa è tale, che sola potrebbe bastare ad uno per acquistare la perfezione. E cosi abbiamo conosciuto alcuni i quali si presero a petto una cosa, e sopra di quella fecero esame particolare quasi tutta la vita loro, e con ciò diventarono insigni in essa; chi nella virtù della pazienza; chi in una profondissima umiltà; chi in una gran conformità alla volontà di Dio; chi in far tutte le cose puramente per Dio. Ora in questa maniera ancora abbiamo da procurare noi altri di farci eminenti in qualche virtù, insistendo e perseverando in quella sino ad averla perfettamente conseguita. Né questo toglie l’interrompere alcune volte questo esame; anzi conviene far così, tornando a far esame per otto o quindici giorni sopra il silenzio, sopra il far bene gli Esercizi spirituali, sopra il dir bene di tutti, sopra il non dir parola che possa offender alcuno in nessuna maniera, e sopra altre cose simili che sogliono tornare a germogliare e a rinverdirsi in noi altri, e poi ritornarcene subito all’esercizio di prima, e proseguir il nostro intento principale, sino a riuscire con quello che pretendiamo.

CAPO VII.

Come si ha a fare l’esame particolare.

La seconda cosa principale che abbiamo proposto di trattare, è, come s’ha da fare questo esame. Ha l’esame particolare tre tempi (D Ign. lib. Exerc. spirit. in prim. hebdom. titul. Exam.Partic.), benché poi l’esaminarsi si abbia a fare solo due volte. Il primo tempo è, subito che ciascuno si leva la mattina, e allora ha da proporre di guardarsi con ispecial diligenza da quel vizio, o difetto particolare, del quale si vuol correggere ed emendare. Il secondo tempo è al mezzo giorno, nel quale s’ha da fare il primo esame che contiene tre punti. Il primo è, domandar grazia al Signore di ricordarsi quante volte si è caduto in quel difetto del quale si fa l’esame particolare. Il secondo è, dimandar conto all’anima sua di quel difetto, o vizio, pensando da quell’ora in cui ciascuno si levò, e in cui fece quel particolare proposito, sino all’ora presente, quante volte è caduto in esso: e si hanno a far tanti punti in una linea d’un quadernuccio o librettino, che a quest’effetto ha da avere presso di sé, quante volte troverà esservi caduto. Il terzo punto è concepire un gran dolore d’esser caduto e domandarne perdono a Dio, proponendo di non cadervi più, particolarmente in quel resto del giorno, colla grazia del Signore. Il terzo tempo è la sera, prima di andare a letto, e allora si ha da far l’esame la seconda volta, né più né meno che al mezzo giorno, tenendo i medesimi punti, e riflettendo come sieno andate le cose dall’ultimo esame passato sin a quell’ora; e notando in un’altra seconda linea tanti punti, quante volte troverassi che si è caduto. E per poter estirpare più facilmente e più presto quel difetto, o vizio, sopra del quale facciamo l’esame particolare, il nostro S. Padre mette quattro avvertimenti ch’egli chiama Addizioni. La prima, che ciascuna volta che l’uomo cade in quel vizio, o difetto particolare, se ne penta, mettendosi la mano al petto ; il che si può fare ancorché si stia in presenza d’altri, senza che s’accorgano di quello che si fa. La seconda è, che la sera dopo fatto l’esame, confronti i punti dell’esame della mattina con quelli dell’altro esame della sera, per vedere se vi è stata qualche emendazione. La terza e quarta, che confronti anche il giorno d’oggi con quello di ieri, e la settimana presente con la passata per lo medesimo effetto. Tutta questa dottrina è cavata da’ Santi. Il beato Antonio abbate, come si riferisce nell’Istoria Ecclesiastica, dava per consiglio, che si notassero in iscritto i mancamenti che nell’ esame trovavansi di essere stati commessi; acciocché in questo modo l’uomo si vergognasse più, e più si impegnasse per l’emendazione, vedendo e considerando i suoi mancamenti. Il medesimo dice S. Giovanni Climaco (D. Jo. Clim. c. 4), il quale non solamente la sera e nel tempo dell’esame, ma a tutte le ore vuole che vada ciascuno notando il mancamento che commette subito che cade in esso, acciocché così possa far meglio l’esame: in quella guisa che il buon banchiere, o mercatante, e il buono spenditore, subito nota in un quadernetto di memorie quello che vende, o compera, acciocché non resti dimenticata cosa alcuna e la sera possa far meglio i suoi conti. S. Basilio e S. Bernardo espressamente notano e consigliano il confrontare un giorno coll’altro; acciocché in questo modo possa la persona conoscer meglio il profitto, o scapito, che fa, e procuri con diligenza di diventar ogni giorno migliore e più simile agli Angeli (2). S. Doroteo dà per consiglio il confrontare una settimana coll’altra e un mese coll’altro (D. Dorot. doc. 10). È il modo che ci propone il nostro S. Padre di farci a procurare l’emendazione del nostro mancamento e difetto, a tratto a tratto, e a poco a poco, da mezzo giorno a mezzo giorno, e non più, è un mezzo che mettono ancora S. Gio. Crisostomo, S. Efrem e S. Bernardo (D. Chrys. Berm. contra concubinarios; D. Bern. in quadam formula bene vivendi Canonico et Vicar. e 24.), come efficacissimo per isradicare qualsivoglia vizio, o difetto che abbiamo: e lo mette anche colà Plutarco (Plutarc. in dìal, de cohib. iracundia.), apportando l’esempio di colui il quale essendo per natura molto collerico e sentendo grandissima difficoltà nel ritenersi, si mise all’impegno di non adirarsi per un giorno, e così passò un giorno senza che si adirasse: e il dì seguente disse: Neanche oggi mi voglio adirare, l’osservò, perché nemmeno quel giorno s’adirò: il medesimo continuò a fare un altro e poi un altro giorno, sinché divenne molto mansueto e piacevole. Or questo è il modo che c’insegna e il disegno che ci propone il nostro S. P. nell’esame particolare, acciocché il combattere e vincere qualunque vizio ci riesca più facile. All’infermo che sta con nausea si dà il cibo a poco a poco, acciocché possa mangiarlo: se gli fosse posta innanzi tutta intera la gallina, gli parrebbe impossibile l’aver a mangiare tutta quella roba, e non potrebbe mandar giù boccone; ma gliene tagli un pochetto alla volta, e glielo porgi, tenendo nascosto il resto fra due piatti; e in questo modo, a poco a poco, bocconcino a bocconcino gli fai mangiare quanto gli basta. Nell’istessa maniera ci vuol guidare il nostro S. P. nell’esame particolare, come infermi e deboli, a poco a poco, da mezzo giorno a mezzo giorno, acciocché lo possiamo tollerare: perché, se pigliassi la cosa tutta insieme, dicendo, non voglio parlare in tutto l’anno, in tutta la vita mia voglio andare cogli occhi bassi, tanto raffrenato e con tanta modestia, solo a pensarvi potrebb’essere che ti straccassi, e ti paresse di non poterlo tollerare, e che sarebbe una vita mesta e malinconica; ma per un mezzo giorno, per una mattina, sin all’ora del pranzo, chi sarà quegli che non vada composto e tenga la lingua a freno? Di poi a mezzo giorno proponi solamente sino alla sera, perché il giorno seguente sa Dio quel che sarà: e che sai tu se vi arriverai? e quando bene vi arrivi, non sarà più d’un giorno, e non ti rincrescerà domani di esser proceduto oggi con questo riguardo, né ti troverai stracco per essere stato oggi accurato e diligente; anzi ti troverai di ciò molto allegro e più disposto a farlo tuttavia meglio e con maggiore facilità e soavità. Credo, che alle volte alcuni manchino in non far bene tutta la forza in questo, proponendo solamente per questo mezzo giorno; che se ciò facessero, molto ciò gli aiuterebbe a proporre con maggior efficacia. Nelle Cronache di S. Francesco (P. 2, lib. 6, c. 38 hist. Min.) si racconta di fraGiunipero, che, sebben egli parlava sempre molto poco, nondimeno una volta per sei mesi continui osservò perpetuo silenzio in questa maniera: il primo giorno propose di non parlare, e di farlo ad onore del divin Padre; il secondo ad onore del Figliuolo; il terzo ad onore dello Spirito santo; il quarto per amore della santissima Vergine: e così scorreva per tutti i Santi, osservando ogni giorno il silenzio con nuovo fervore e divozione per amore di alcuni di essi. In questa maniera la persona si anima maggiormente ad emendarsi di quella cosa sopra della quale fa l’esame particolare, e si vergogna anche e confonde più de’ mancamenti ed errori che commette; poiché per così poco tempo non ha potuto metter in esecuzione il suo proponimento. E così per ogni banda ci aiuterà assai questo mezzo.

CAPO VIII.

Che nell’esame abbiamo da insistere e trattenerciprincipalmente nel dolore e nel proponimentodell’emendazione.

Quel che in particolare si deve grandemente avvertire circa il modo di far l’esame, si è, che de’ tre punti che ha, i due ultimi sono i principali; cioè il dolerci e pentirci delle nostre colpe e negligenze, e il far fermo proponimento di emendarcene, secondo quello che diceva il Profeta: In cubilibus vestris compungimini ( Psal. IV, s. 5): Compungetevi nei vostri letti. In questa compunzione e pentimento, e in questo fermo proponimento di non tornare a cadere, sta tutta la forza e l’efficacia dell’esame per emendarci: onde in questo s’ha da spendere la principal parte del tempo. Una delle cagioni principali per cui molti fanno poco frutto e poco si emendano cogli esami, è, perché tutto quel tempo se la passano nell’andare cercando quante volte sono caduti ne’ mancamenti e negli errori, e appena hanno finito questo punto, che finisce ancora il tempo dell’esame e fanno il resto superficialmente, né si trattengono nel dolore e pentimento delle lor colpe, né nel confondersi e chiederne perdono a Dio, né in far fermi proponimenti d’emendarsi la sera, o il dì seguente, né in domandare a Dio grazia e forze per farlo. Di qua procede, che quante volte sei caduto oggi, tante altre cadi domani; perché nell’esame non hai fatto altro che pensare e ridurti a memoria quante volte sei caduto: e questo non è mezzo per emendarti; ma è il primo punto dell’esame e il fondamento sopra del quale hanno da cadere gli altri due punti principali. Il mezzo efficace per emendarti è il dolerti e pentirti molto da vero delle tue colpe e il proporre fermamente l’emendazione con chiedere al Signore grazia per farlo: e se non fai questo non ti emenderai. Stanno tanto affratellate fra di sé queste due cose, dolor del passato ed emendazione nell’avvenire, che al passo che cammina una cammina anche l’altra: perché è cosa certa, che quando abborriamo una cosa da vero, usiamo diligenza per non incontrarci in essa. Ogni giorno diciamo e predichiamo questo a’ secolari: sarà cosa ragionevole, che lo pigliamo anche per noi medesimi. Qual è la cagione, diciamo noi, che quelli del mondo così facilmente tornano a ricadere ne’ medesimi peccati dopo tante confessioni? sapete qual è? questa comunemente, che non gli hanno odiati e abborriti da vero, né vengono alle confessioni con proponimenti fermi di non tornar mai più a peccare: e siccome il cuor loro non finisce mai di rivolgersi totalmente a Dio, ma solamente a mezza faccia, come suol dirsi; così facilmente ritornano a quello che non hanno mai lasciato affatto. Che se da vero fosse lor dispiaciuto e avessero avuto in odio e in abbominazione il peccato, e fatto avessero un fermo proponimento di non tornare mai più a peccare; non vi sarebbero tornati così facilmente subito usciti dalla confessione, come se non si fossero confessati. Or per questo ancora voi altri incorrete la sera ne’ medesimi mancamenti ed errori ne’ quali siete incorsi la mattina, e oggi nei medesimi di ieri, perché non avete avuto vero dolore di essi: non gli avete odiati di cuore: non avete fatto fermo proponimento di emendarvene: né vi siete trattenuti in questo: che se ciò aveste fatto, non sareste ritornati ad essi così facilmente né così presto: perciocché non siamo soliti noi altri di far tanto facilmente quelle cose che abbiamo abborrite, e che ci ha recato dolore e dato pena l’averle fatte. – Il dolore e il pentimento de’ peccati, quando è vero, non solo toglie via i peccati passati ma è anche medicina preservativa per l’avvenire, come abbiamo detto di sopra (Vide supra tract. 5, c. 5): perché chi sta odiando il peccato, sta anche lontano da ricader in esso. Per sin quel Filosofo (Da Demost. ref. Aulus Gollius; lib. 1, c. 8) colà conobbe l’efficacia e la forza di questo mezzo per non cader in peccato; poiché domandandogli una donna di mala vita certo prezzo eccessivo per peccare con essa, egli rispose: Ego tanti pœnitere non emo: Io non compro tanto caro il pentirmi e il dolermi. Notisi questa ragione, poiché è degna non solo di un Filosofo, ma anche d’un uomo Cristiano e Religioso. Mi metto alcune volte a considerare la sciocchezza e lo sproposito di quelli che ardiscono di peccare, con dire: Mi pentirò poi, e Dio mi perdonerà. Come e in qual cervello può mai entrare, che per soddisfar ora al tuo appetito e per ricevere un brevissimo gusto che passa via in un momento, ti elegga e ti compri per tutta la vita un perpetuo dispiacimento e pentimento d’aver soddisfatto ad esso? – Perché sebben è vero, che Dio ti perdonerà poi questo peccato, pentendoti tu di esso; nondimeno, acciocché ti perdoni, bisogna pur alla fine che tu ti penta e senta gran dolore d’averlo commesso. Ha gran forza questa ragione, anche di qua parlando, come suol dirsi, dal tetto in giù, benché non vi fosse di mezzo l’amor di Dio che ha poi sempre ad essere il motivo principale che ci ha a ritenere; ma solamente il nostro gusto e amor proprio. Non voglio far quello che so che dopo m’ha da cagionare gran dispiacere e gran dolore d’averlo fatto: il gusto di farlo passa via in un momento; e il dispiacere e il dolore di averlo fatto ha da durare per tutta la vita; di maniera che già mai non ne posso più avere né gusto né compiacimento: Ego tanti pœnitere non emo. Grande sciocchezza è eleggersi un sì grave e diuturno dispiacimento per un sì piccolo e momentaneo piacere. Lo disse anche meglio l’Apostolo : Quem fructum habuistis tunc in illis, in quibus nunc erubescitis (Rom. VI, 21)? Che frutto cavaste voi da quelle cose delle quali ora v’arrossite e vi vergognate? Che ha che fare quel gusterello che v’avete preso col disgusto e dispiacere che vi rimane ad avere di poi? Questo si ha da considerare innanzi tutto, prima di cadere; quando viene la tentazione, allora hai da far questo conto e dire: Non voglio far una cosa della quale mi ho poi da vergognare e a pentire per tutta la mia vita. Anche di qua, quando vuoi persuadere ad uno, che non faccia una qualche cosa, gli dici, Guarda, che poi ti pentirai d’averla fatta; e colui risponde: Non me ne pentirò: perché se pensasse, che se n’avesse a pentire, egli stesso vedrebbe, che sarebbe uno sproposito far quello che sapesse che dipoi gli avesse a dispiacere e a dar gran dolore. Ho detto questo, acciocché si vegga quanto efficace mezzo sia per non tornar a cadere nelle colpe il dolore e vero pentimento di esse, e acciocché si conosca quanto importi trattenersi in questo quando si fanno gli esami. È vero, che può uno aver dolore e proponimento vero d’emendarsi, e con tutto ciò tornar di poi a cadere; perciocché non siamo Angeli, ma uomini deboli e di creta, la quale si può rompere e disfare, e subito tornarsi a rifare: ma siccome quando uno, finito che ha di confessarsi, ritorna subito ai medesimi giuramenti e ai medesimi desideri e peccati poco prima confessati, siamo soliti comunemente di dire, che non ne dovette avere né vera contrizione, né vero dolore, né fermo proponimento d’emendarsene, poiché così presto è tornato a cadervi; così anche è grand’indizio e argomento, che a te non è dispiaciuto da vero quando hai fatto l’esame al mezzo giorno, o la sera, l’aver rotto il silenzio, e che non hai avuto fermo proponimento d’emendartene, il vedere, che subito la sera, o il giorno seguente, lo rompi nell’istesso modo come se non avessi fatto esame. E l’istesso dico degli altri mancamenti, errori e difetti, sopra dei quali fai l’esame. Anche alla presenza de’ tuoi fratelli hai vergogna di dire una colpa, o di essere per essa ripreso e penitenziato, quando l’hai già detta tre o quattro altre volte; quanto maggiormente avresti vergogna di comparire recidivo avanti di Dio, se da vero avessi detestata la tua colpa avanti di lui, pentendotene di cuore, chiedendogliene perdono, e promettendone l’emendazione, non tre o quattro volte, ma più di tre o quattro dozzine di volte. Non è dubbio, che ci emenderemmo d’altra maniera, e faremmo altro profitto, se ci pentissimo ed avessimo vero dolore, e facessimo fermo proponimento di emendarci.

CAPO IX

Che aiuta grandemente l’aggiungere all’esamequalche penitenza.

Né anche si contentava il nostro S. Padre del dolore, del pentimento e dei proponimenti interiori; ma di più, acciocché la persona possa riuscir meglio in quel che desidera, leggiamo nella sua Vita (Lib. 5, c. 10 Vitæ P. N. Ign.), che consigliava l’aggiungere all’esame particolare qualche penitenza, imponendoci da noi stessi certa pena ed eseguendola in noi tutte le volte che cadremo in qualche mancamento, o errore, sul quale facciamo l’esame. Il padre fraLuigi di Granata apporta esempi di ciò in alcuni servi di Dio che egli conobbe: d’uno dei quali dice, che quando nell’esame della sera trovava, che avesse ecceduto in qualche parola sconcia, si metteva una morsa alla lingua per penitenza di essa; e di un altro, che faceva una disciplina sì per questo come per qualsiasi altro difetto nel quale fosse caduto. Si dice del santo abbate Agatone, che per lo spazio di tre anni portò in bocca un sasso per acquistare la virtù del silenzio (Befert Bollaterr. lib. 1, Autroph.). Siccome usiamo di portare un cilicio per mortificar la carne, e perché ci serva di svegliatoio per conservare la castità; così portava quel Santo un sassetto sotto la lingua, acciocché fosse il suo cilicio, e gli servisse di ricordo e di svegliatoio per non parlar più di quel che era necessario. E del nostro S. Padre leggiamo (Lib. 5, c. 10 Vita P. N. Ign.), che essendo nel principio della sua conversione molto tentato di riso, vinse quella tentazione a forza di replicate discipline, dandosi ogni notte tante sferzate, quante volte aveva riso in giorno, per leggiero che fosse stato il riso. E suol essere di gran giovamento questo ingiungere qualche penitenza all’esame; perché con la penitenza l’anima resta castigata o intimorita di maniera, che non ardisce di commettere un’altra volta quella colpa. Collo sprone la bestia cammina, per pigra e lenta che siasi. Giova tanto lo sprone, che solo l’accorgersi ella, che v’è, benché non la pungano con esso, la fa camminare. – Se ciascuna volta che uno rompe il silenzio avesse da fare una disciplina in pubblico, ovvero avesse per tre giorni da star solamente a pane ed acqua, che era la penitenza che anticamente veniva ingiunta nelle Regole a quei che rompevano il silenzio, al sicuro che questo ci ritrarrebbe molto dal parlare. – Oltre di ciò, ed oltre il merito e la soddisfazione che suol essere in questa cosa, v’è un altro gran bene, ed è, che Dio Signor nostro veggendo la penitenza colla quale uno si castiga ed affligge, suol esaudire la domanda e il desiderio suo. E questo è uno degli effetti della penitenza e mortificazione esteriore che notano i Santi, e l’apporta il nostro S. Padre nel libro degli Esercizi (D. Ign. lib. Exerc. spir. in Addit.). Disse l’Angelo a Daniello: Ex die primo, quo posuisti cor tuum ad intelligendum, ut te affligeres in conspectu Dei tui, exaudita sunt verba tua (Dan. X, 12): Dal primo giorno che ti deliberasti d’affliggerti dinanzi al Signore, fu esaudita la tua orazione. Aggiunse il profeta Daniello all’orazione il digiuno e la mortificazione della sua carne, e così impetrò la libertà del suo popolo, e che Dio gli manifestasse misteri grandi, e gli facesse altri benefizi molto particolari. Onde vediamo, che ò ed è stato sempre molto usato nella Chiesa di Dio questo mezzo per impetrare e conseguire il favore di Dio nei travagli e nelle necessità. Quando il fanciullino chiede alla madre il latte del quale ha necessità, e lo chiede solamente col desiderio significato per mezzo di qualche segno, molte volte la madre glielo nega, o differisce il darglielo; ma quando lo chiede piangendo e affliggendosi, non si può la madre contenere dal darglielo subito. Così quando l’uomo chiede a Dio la virtù dell’umiltà, della pazienza, della castità, ovvero la vittoria di qualche tentazione, o altra cosa simile, se chiede orando solamente col desiderio e con le parole, molte volte non ottiene quel che domanda, ovvero gli è differito assai: ma quando con l’orazione si congiunge la penitenza e la mortificazione della nostra carne, e ci affliggiamo ancora nel cospetto di Dio, allora otteniamo molto meglio quello che domandiamo, e con maggior certezza e prestezza. Ama Dio grandemente i giusti, e vedendogli afflitti ed in pena per conseguir quello che chiedono, li compatisce e usa loro maggior misericordia. Dice la Scrittura divina del patriarca Giuseppe, che non si poté contenere, vedendo l’afflizione e le lacrime dei fratelli, ma si scoprì loro e li fece partecipi di tutti i suoi beni : Non se poterat ultra cohibere Joseph…. et dixit fratribus suis: Ego sum Joseph (Gen. XLV, 1). Che farà quegli che ci ama più di Giuseppe, e che è più che un nostro fratello, vedendo l’afflizione e il dolor nostro? Per ogni banda ci aiuterà grandemente questo mezzo. – S’accorda molto bene con questo quello che dice Cassiano (Cass. coll. 5, abb. Serap. c. 14), trattando dell’accuratezza e diligenza con cui abbiamo da procedere in questa guerra ed esame particolare. Se l’esame e il combattimento particolare ha da essere, come abbiamo detto (sup. cap. 2), in riguardo a quella cosa della quale abbiamo maggiore necessità; se ha da essere di sradicare quella passione, o cattiva inclinazione, che regna più in noi altri, e ci tira più dietro a sé, ci mette in maggiori pericoli, e ci fa cadere in maggiori mancamenti ed errori; se ha da essere di vincere qualche vizio, il quale ove sia vinto, resteranno vinti tutti gli altri; o d’acquistare quella virtù colla quale avremo fatto acquisto di tutte le altre; quanta sollecitudine e diligenza vorrà la ragione che usiamo in una cosa che tanto c’importa? Sai quanta? dice Cassiano: Adversus illud arripiat principale certamen, omnem curam mentis ac sollicitudinem erga illius impugnationem observationemque defigens, adversus illud quotidiana iejuniorum dirìgens spicula, contra illud cunctis momentis cordis suspiria crebraque gemituum tela contorquens, adversus illud vigiliarum labores ac meditationem sui cordis impendens, indesinentes quoque orationum ad Deum fletus fundens, et impugnationes sua; extinctionem ab illo specialiter ac jugiter poscens (Cass. ubi sup.). Non abbiamo da contentarci d’usar questa sollecitudine e diligenza solamente nell’esame; ma dobbiamo anche usarla nell’orazione: e non solamente nell’orazione mentale della mattina, ma molte volte fra giorno abbiamo da alzar il cuore a Dio Signor nostro con orazioni giaculatorie e con sospiri e gemiti del cuore: Signore, umiltà: Signore, castità: Signore, pazienza. A questo effetto abbiamo da visitare spesso il santissimo Sacramento, chiedendo al Signore con grande istanza, che ci conceda grazia di acquistare una cosa che tanto c’importa. Abbiamo ancora da ricorrere alla beatissima Vergine e ai Santi, acciocché siano nostri intercessori. – A questo abbiamo da indirizzare i nostri digiuni, i nostri cilicci, le nostre discipline, e aggiungervi alcune divozioni e offrire alcune mortificazioni particolari. Sempre abbiamo da portar quella cosa fitta nel cuore, poiché c’importa tanto. Se procedessimo in questo modo e usassimo questa sollecitudine e diligenza nell’esame particolare, ne sentiremmo presto il frutto; perché il Signore vedrebbe la nostra afflizione, esaudirebbe la nostra orazione e soddisferebbe al desiderio del nostro cuore. E si deve notar bene tutto questo, per valercene anche in altre tentazioni e necessità gravi che occorrono. S. Bonaventura dice, che la Madonna santissima disse a S. Elisabetta d’Ungheria, che nessuna grazia spirituale viene all’anima, regolarmente parlando, se non per mezzo dell’orazione e delle afflizioni del corpo (D. Bonav. in Vit. Christ. c. 3).

CAPO X.

Dell’esame generale della coscienza.

L’esame generale della coscienza ha cinque punti. Il primo è ringraziar Dio dei benefizi ricevuti. – Si mette nel primo luogo il ricordarci dei ricevuti benefizi, acciocché contrapponendo a questi i mancamenti e i peccati che abbiamo fatti noi in contraccambio di tanti benefizi, pigliamo da ciò motivo di maggiormente confonderci e di sentirne maggior dolore. Così Natan profeta rappresentò a David i benefizi che Dio gli aveva fatti, per fargli maggiormente conoscere e comprendere la bruttezza del peccato che aveva commesso. – Il secondo punto è, chiedere grazia al Signore di conoscere i mancamenti e i peccati nei quali siamo caduti. – Il terzo domandar conto all’anima nostra di quanto ha fatto, cominciando dall’ora in cui proponemmo di guardarci da ogni mancamento, ed esaminare come siano andate le cose, discorrendo primieramente per i pensieri, secondariamente per le parole, e terzo per le operazioni. .- Il quarto punto è, chiedere al Signore il perdono dei mancamenti ed errori che troveremo aver fatti, dolendocene e pentendocene. – Il quinto, far proponimento di emendarci con la grazia del Signore, e finire con un Pater noster. –Questo esame generale s’ha da far sempre insieme col particolare: perché subito che la mattina ci leviamo, abbiamo da offerir al Signore tutto quello che faremo quel giorno. Siccome dice il nostro S. Padre dell’esame particolare, che subito che ci leviamo abbiamo da far proponimento di guardarci da quel vizio particolare del quale ci vogliamo emendare, e questo è il primo tempo dell’esame particolare; così ancora abbiamo allora da offerire a Dio tutti i pensieri, parole e operazioni di quel giorno, che tutto sia a gloria sua, proponendo di non offenderlo, e chiedendogli grazia per questo: ed è ben conveniente, che tutti abbiano per costume il fare così. Di poi due volte il giorno, al mezzo dì e alla sera, abbiamo da fare l’esame generale insieme col particolare. E tale è l’usanza della Compagnia fondata nelle nostre Costituzioni, e l’abbiamo espressamente nella prima delle Regole comuni: Ciascuno dia ogni giorno con ogni diligenza nel Signore ai due esami di coscienza quel tempo che gli sarà ordinato (4 p. Const. c. 4, § 3 et 4, et reg. 1 com.). Siccome s’accomoda l’oriuolo e s’alzano i suoi contrappesi due volte il giorno, la mattina e la sera, acciocché vada giusto; così abbiamo da accomodare l’oriuolo del nostro cuore con l’esamela mattina e la sera, acciocché vada sempre concertato e ben ordinato. Di maniera che siccome al mezzo giorno ci esaminiamoe a noi stessi domandiam conto di quante volte abbiamo mancato in quella cosa sopra della quale facciamo l’esame particolare, cominciando da quell’ora che proponemmo di non fare mancamenti circa essa, che fu subito che ci levammo dal letto, sino a quell’ora del mezzo dì in cui ci esaminiamo; così ancora abbiamo da esaminarci e domandar conto a noi stessi di quello che abbiamo mancato, o errato, circa i nostri pensieri, parole ed opere, d’allora che ci levammo sino a quella, in cui facciamo l’esame; e indi abbiamo da confonderci e pentirci di tutto quello in cui troveremo di aver mancato, o errato, tanto circa la materia dell’esame particolare, quanto circa la materia del generale; e di tutto insieme abbiamo a fare fermi proponimenti di emendarcene per tutto il rimanente di quel giorno sino alla sera. Allo stesso modo dobbiamo la sera fare l’esame generale insieme col particolare, cominciando però questo nuovo scrutinio di noi medesimi solamente dall’esame precedente del mezzo giorno.La principal cosa che si ha d’avvertire circa il modo di far questo esame generale, è l’istessa che abbiamo detta del particolare, cioè, che tutta la forza ed efficacia di esso sta in quei due ultimi punti; l’uno di pentirci e confonderci delle colpe nelle quali siamo caduti, l’altro di far fermo proponimento dell’emendazione per la sera, o per la mattina. E in questo consiste il far bene l’esame e il cavarne frutto. Il P. Maestro Avila (M. Avil. c. 62 de Audi filia), trattando di questo esame, dice così: Hai da far conto, che ti sia stato dato in governo il figliuolo d’un principe, acciocché tu abbia continua cura di esso, e di educarlo nei buoni costumi, e tenerlo lontano dai cattivi, con fargli ogni giorno i conti addosso. Se tu avessi questo carico, è cosa chiara, che la forza per la sua emendazione non la metteresti nel dirti egli quante volte sia oggi caduto e quante abbia errato; ma nel suo errore e mancamento, nella riprensionee nei ricordi che gli daresti, e nel ricavare da lui fermi proponimenti, procurando, che ti desse parola, da quel figliuolo che egli è, di emendarsi. Or in questo modo hai da aver cura dell’anima tua, come di cosa della quale Dio ti ha dato il carico, e così hai da procedere con essa nel domandarle conto dei suoi portamenti: in questo hai da mettere la forza del tuo esame e della tua emendaizione, non in ridurti a memoria gli errori e i mancamenti commessi, e quante volte sei caduto; ma in confonderti, e in pentirtene, e riprendertene, come riprenderesti un’altra persona della quale tu avessi cura; e in fare fermi proponimenti di non tornare a cader più in quelle colpe. E per ciò fare molto ci gioverà il riflettere, che l’esame generale è la disposizione e preparazione propria e legittima per la confessione: e questo è il titolo che gli dà il nostro S. Padre nel libro degli Esercizi spirituali: Examen conscientiæ generale ad purgationem anima; et ad peccatorum confessionem utilissimum (In lib. Exerc. spir. hebd. 1, timi. Exam. conscient.). E la ragione è manifesta; perché due sono le cose principali che si ricercano per la confessione: la prima è l’esame delle colpe; la seconda il dolor di esse: e queste si fanno compiutamente nell’esame della coscienza; onde se faremo bene questo esame, faremo anche bene la confessione. E bisogna avvertire, che il dolore necessario per la confessione, siccome dicono il Concilio di Trento (Sess. XIV, c. 4) e quello di Fiorenza, include due cose; dispiacere e pentimento di quel che è passato, e proponimento di non tornar più a peccare; e o l’una o l’altra che manchi, non vi sarà bastante disposizione per la confessione. Si pensano alcuni, che solamente quando lasciano di confessar qualche peccato per vergogna non sono ben confessati; ma io credo, che siano molto più le confessioni mal fatte, sacrileghe e nulle, per mancamento di vero dolore e di vero proponimento dell’emendazione. Ecco quanto è necessaria questa preparazione, e quanto importa l’assuefarci e far bene l’esame, e l’esercitarci e il trattenerci in questo dolore delle colpe, e in questo proponimento di non tornar più a cadere in esse. E così dico, che di tre punti principali che sono nell’esame, che gli altri sono come preamboli: la principal parte del tempo l’abbiamo da spendere nei due ultimi, cioè nel chiedere perdono a Dio, pentendoci e confondendoci delle nostre colpe, e nel fare proponimenti di emendarci; e la minor parte s’ha da spendere nel discorrere e ridurci a memoria i mancamenti ne1 quali siamo caduti. Per questo, che è uno dei tre punti, basta la terza parte del tempo dell’esame; e le altre due parti siano per questi altri due punti; poiché sono i principali e nei quali sta la forza ed efficacia dell’esame, e il frutto di esso. – Ma mi dirà qualcuno, come potremo in tanto poco tempo, quanto è la terza parte d’un quarto d’ora, discorrere pel numero delle volte che siamo caduti nella materia dell’esame particolare, e anche per i mancamenti ed errori commessi nelle materie del generale, co’ pensieri, parole ed opere, che anche tutto il quarto d’ora per ciò fare par poco? Il miglior mezzo per questo è portarsi già fatto il primo punto quando andiamo all’esame. Si dice del nostro santo P. Ignazio (Lib. 5, c. 5 Vita P. N. Ign.), che ciascuna volta che mancava in quella materia della quale faceva l’esame particolare, faceva un nodo in una coreggiuola che per questo effetto portava attaccata alla cintura; e di poi dal numero dei nodi sapeva il numero delle volte che aveva mancato, senza aversi a trattenere in questo più che tanto: e per quel che toccava l’esame generale, non lasciava passar ora del giorno nella quale non si raccogliesse entro di sé ed esaminasse la sua coscienza, licenziando ogni altra cosa. E se per sorte gli occorreva qualche negozio tanto grave, o qualche occupazione tanto urgente, che in quell’ora non gli concedesse di poter soddisfare a questa sua divozione, suppliva nella seguente, ovvero subito che l’occupazione glielo permetteva. Molto buona divozione sarebbe questa di dare un’occhiata alla nostra coscienza ogni volta che l’oriuolo suona l’ora. Alcuni ancora sogliono esaminarsi dopo ciascuna loro operazione. Ma se parrà troppo il far questo a ciascuna ora, o dopo ciascuna operazione, sarà bene farlo almeno dopo ciascuna delle principali operazioni che facciamo tra giorno; e di alcune già abbiamo ordine, che subito che le abbiamo finite, ne facciamo l’esame, come abbiamo detto di sopra (Vide enpra tract. 5, c. 27). – S. Bonaventura dice, che il servo di Dio s’ha da esaminare sette volte il giorno. E se nell’esame particolare osserveremo quell’Addizione di metterci la mano al petto ciascuna volta che facciamo mancamento, o errore, facilmente ci ricorderemo per questa via quante volte saremo caduti. Sebbene il nostro S. Padre non mette quest’Addizione, acciocché ci ricordiamo dei mancamenti, ma acciocché subito ci pentiamo di essi: e perciò vi pone questo segno, di mettersi la mano al petto, che è quanto dire: Signore, ho peccato. Ma in fine se osserveremo quest’Addizione, ci aiuterà assai a poterci poi ricordar facilmente quante volte siamo caduti. S’aggiunge a questo, che quando uno ha buona cura di se stesso, ed è sollecito in quel che tocca il suo profitto, subito che fa qualche mancamento, o errore, sente un certo rimorso di coscienza, che è il migliore svegliatoio che possa avere per ricordarsene. – Con questo si è risposto a due sorta di persone: perché ve ne sono alcune alle quali par anche poco tempo tutto il quarto d’ora per ricordarsi delle colpe nelle quali sono cadute; e a queste già abbiamo dato il rimedio di portarsi quasi fatto questo primo punto; acciocché così facendo resti loro tempo da occuparsi negli altri due ultimi. Altre poi al contrario ve ne sono alle quali par lungo il quarto d’ora dell’esame, e non trovano in che spenderlo; e a queste possiamo più facilmente soddisfare. Perché già abbiamo detto, che sì al mezzo giorno, come la sera, s’ha da far l’esame generale insieme col particolare, e dopo aver veduti i mancamenti e gli errori nei quali siamo caduti sì nell’uno come nell’altro esame, ci abbiamo da trattenere in confonderci e pentirci di essi, in chiederne perdono, in far fermo proponimento d’emendazione, e in domandar al Signore grazie per questo: nel che quanto più ci tratterremo, tanto meglio sarà. – Aggiunge qui S. Doroteo un ricordo molto giovevole, dicendo, che nell’esame non solo si ha da tener conto dei mancamenti ed errori nei quali cadiamo; ma anche, e molto più, della radice di essi, esaminando le cagioni e occasioni delle cadute, per istar avvertiti e guardarcene per l’avvenire (D. Doroth. serm. 12). Come sarebbe, se per uscir della mia stanza io ruppi il silenzio, o mormorai; ho da proporre di non uscirne più nell’avvenire senza necessità; ed allora uscirne coll’andar sull’avviso e preparato: e così di altre cose simili. Perché altrimenti ci avverrà come a colui che inciampa in un sasso, e perché passa oltre senza far riflessione nell’occasion dell’inciampo, vi inciampa anche domani; o come a colui che si pensasse di rimediar ad un albero guasto con levar solamente da esso alcuni rami e i frutti marci e verminosi. Se faremo in questo modo gli esami, non ci parrà lungo, ma corto, il tempo assegnato per essi.

CAPO XI.

Che l’esame della coscienza è mezzo per metterein esecuzione tutti gli altri mezzi, ricordi eavvertimenti spirituali: e che la cagione dinon far profitto è il non far l’esame comesi deve.

Il beato S. Basilio dopo aver dato ai Monaci molti ricordi e avvertimenti spirituali, conchiude con questo: che ogni sera, prima d’andar a dormire, facciano l’esame della coscienza, parendogli, che questo lor basterebbe per osservar tutto quello che avea detto loro e per perseverare in esso (D. Basii, homil. 5 de instit. Mon.). Ora con questo vorrei anch’io conchiudere questo trattato, raccomandando a tutti grandemente questo esame; perocché questo solo, con la grazia del Signore, basterà per mettere in esecuzione tutti gli altri ricordi e avvertimenti spirituali, e per rimediare a tutti i nostri difetti. Se allenterai nell’orazione, se ti trascurerai, o sarai negligente nell’obbedienza, se ti dissiperai nel parlare, se comincerai a pigliarti un poco di libertà; subito, mediante il favor del Signore, con l’esame si troncherà e si rimedierà a tutto questo. Chi farà ogni giorno quest’esame della coscienza ben fatto, potrà far conto d’aver seco un aio, un Maestro de’ Novizi, un Superiore, che ciascun giorno e in ciascun ora gli stia domandando conto e avvisandolo di quello che ha da fare, e riprendendolo subito che erra in qualche cosa. Il padre maestro Avila (M. Avila de Audi filia, c. 62) dice così: Non potranno durar molto i tuoi difetti, se durerà in te quest’esame, e questo rivedere i tuoi conti, e riprenderti ogni giorno e ogni ora: e se i difetti durano, e a capo di molti giorni, e forse anche anni, ti trovi tanto mal mortificato, e tanto vivo e risentito nelle tue passioni, quanto al principio; la cagione, perché non usi come devi questi mezzi che abbiamo per nostro profitto: perché se da vero pigliassi a petto il voler levar da te un difetto, o il voler acquistare una virtù, e procedessi in ciò con sollecitudine e diligenza, facendo buoni proponimenti tre volte il giorno almeno, la mattina, il mezzodì e la sera, confrontando ogni giorno i mancamenti e gli errori della sera con quelli della mattina, e quei d’oggi con quelli di ieri, e quei di questa settimana con quelli della passata, pentendoti e confondendoti d’esser tante volte caduto, e chiedendone aiuto a Dio e ai Santi per emendarti; come sarebbe possibile, che a capo di tanto tempo non ti fosse riuscito il migliorarti in qualche cosa? Ma se la persona se ne va all’esame per usanza o per complimento, senza aver vero dolore delle sue colpe, e senza far fermi proponimenti d’emendarsi, questo non è esame, ma cerimonia e trattenimento. Quindi è, che gli stessi vizi e gli stessi mali abiti e le male inclinazioni che uno portò seco dal secolo, ritiene anche per molti anni dopo. Se era superbo, superbo è adesso; se era impaziente e iracondo, il medesimo è adesso; se era avvezzo a dir parole aspre e mortificative, le dice anche adesso: di così mala natura è al presente, come il primo giorno: tanto voglioso, tanto capriccioso e tanto amico delle sue comodità; e piaccia a Dio, che anche in cambio di profittare e di crescere in virtù, non sia cresciuta in alcuni la mala natura; e che con l’anzianità non sia cresciuta la libertà; e che dovendo esser più umili, non abbiano maggior presunzione e non cadano in quella perversità che dice S. Bernardo: Quodque perversum est, plerique in domo Dei non patiuntur haberi contemptui, qui in sua nonnisi contemptìbiles esse potuerunt (D. Bern. hom. 4 sup. Missus est.): vi sono molti dei quali colà nel mondo non si sarebbe fatto conto alcuno, e qui vogliono essere stimati;  e i quali colà non avrebbero avute le cose necessarie, e qui cercano le delicate. – Da quello che si è detto si può ancora vedere quanto frivola scusa sia quella che allegano alcuni dei loro mancamenti e difetti, dicendo, tal essere il lor naturale. Anzi questa è cosa degna di maggior riprensione, che sapendo uno d’aver questa, o altra cattiva qualità naturale, quando dovrebbe aver applicata ogni sua sollecitudine e diligenza in corroborare questa parte debole, acciocché non s’abbia da perder per essa, se ne stia in quella a capo di tanto tempo così vivo e immortificato come il primo giorno. Rientri dunque in sé chiunque tratta di servir Dio; che con tutti parliamo qui; e cominci come di nuovo e da capo, procurando per l’avvenire di far tanto bene l’esame della coscienza, che se ne possa vedere in lui il frutto. Siamo uomini e abbiamo de’ difetti, e n’avremo finché staremo in questa vita: ma abbiamo da procurar con l’esame tre cose. La prima, che se i difetti erano assai, per l’avvenire sian pochi. La seconda, che se erano grandi, siano minori. La terza, che non siano sempre i medesimi: perché il reiterare molte volte un istesso difetto, o errore, arguisce gran trascuraggine e negligenza. – Narra Eugenio in un libro che fa della conversazione e degli esercizi corporali dei Monaci, che un santo Monaco diceva: Io non so che i demonii m’abbiano colto due volte in una medesima colpa (Refertur in Hist. Eccles. p. 2, lib. 6, c. 1). Costui faceva bene l’esame della coscienza, si pentiva da vero, e faceva fermi proponimenti di emendarsi: or così abbiamo da fare noi altri. Per questo mezzo Dio guidò il nostro santo padre Ignazio e l’alzò a tanta perfezione. Leggiamo di lui nella sua Vita (Lib. 5, cap. 1 Vitæ S. Ign.), che confrontando egli il giorno di ieri con quello d’oggi, e il profitto presente col passato, andava ogni giorno profittando più, e guadagnando terreno, o per dir meglio, cielo, in tal grado, che in sua vecchiaia venne a dire, che quello stato nel quale visse in Manresa e il quale nel tempo de’ suoi studi egli soleva chiamare la sua primitiva Chiesa, era stato come il suo noviziato; e che ogni giorno andava Dio nella sua anima colorendo, abbellendo e perfezionando quel disegno di cui in Manresa non aveva fatto altro che in lui tirarne i primi lineamenti. Usiamo dunque noi altri come dobbiamo questo mezzo che il Signore in sì particolar modo ci ha dato; e abbiamo gran fiducia, che per esso ci condurrà alla vera perfezione che desideriamo.

[Fine]

SALMI BIBLICI: “MAGNUS DOMINUS, ET LAUDABILIS NIMIS” (XLVII)

SALMO 47: Magnus Dominus, et laudabilis nimis

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 47

Psalmus cantici. Filiis Core, secunda sabbati.

[1] Magnus Dominus et laudabilis nimis,

in civitate Dei nostri, in monte sancto ejus.

[2] Fundatur exsultatione universæ terræ mons Sion; latera aquilonis, civitas regis magni.

[3] Deus in domibus ejus cognoscetur cum suscipiet eam. (1)

[4] Quoniam ecce reges terræ congregati sunt, convenerunt in unum.

[5] Ipsi videntes, sic admirati sunt, conturbati sunt, commoti sunt.

[6] Tremor apprehendit eos; ibi dolores ut parturientis:

[7] in spiritu vehementi conteres naves Tharsis. (2)

[8] Sicut audivimus, sic vidimus, in civitate Domini virtutum, in civitate Dei nostri: Deus fundavit eam in æternum.

[9] Suscepimus, Deus, misericordiam tuam in medio templi tui.

[10] Secundum nomen tuum, Deus, sic et laus tua in fines terræ; justitia plena est dextera tua.

[11] Lætetur mons Sion, et exsultent filiæ Judæ, propter judicia tua, Domine.

[12] Circumdate Sion, et complectimini eam; narrate in turribus ejus. (3)

[13] Ponite corda vestra in virtute ejus, et distribuite domos ejus, ut enarretis in progenie altera. (4)

[14] Quoniam hic est Deus, Deus noster in æternum, et in sæculum sæculi; ipse reget nos in sæcula.

[Vecchio Testamento Secondo la VolgataTradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XLVII

Il sabbato era presso gli Ebrei l’ultimo giorno della settimana, ed era la loro festa. Il giorno prima il sabbato, si dicea il primo del sabbato; il secondo si dice il secondo del sabbato. Argomento è: lode a Dio per la riedificazione di Gerusalemme la città santa, e più ancora per l’edificio della Chiesa di Cristo, di cui Gerusalemme era figura.

Salmo del cantico; ai figliuoli di Core; per il secondo giorno della settimana.

1. Grande il Signore e laudabile sommamente nella città del nostro Dio, nel suo monte santo.

2. Con giubilo di tutta la terra è fondato il monte di Sion, la città del gran Re dal lato del settentrione.

3. II Signore nelle case. di lei sarà conosciuto allorché egli ne prenderà la difesa. (1)

4.Imperocché, ecco che i re della terra si son raunati, hanno fatto congiura.

5. Questi stessi, al vederla, restarono stupefatti, si conturbarono, si commossero, li prese il terrore.

6. Quindi dolori come di una donna che partorisce;

7. Col soffio veemente tu fracasserai le navi di Tharsis. (2)

8. Secondo quello che avevamo udito, cosi abbiam veduto nella città del Signore degli eserciti, nella città del nostro Dio; il Signore l’ha fondata per l’eternità.

9. Abbiam ricevuto, o Dio, la tua misericordia, in mezzo al tuo tempio.

10. Come il tuo nome, o Dio, cosi la tua gloria sino ai confini della terra; la tua destra è piena di giustizia.

11. Rallegrisi il monte di Sion, ed esultino le figlie di Giuda a causa dei tuoi giudizi, o Signore.

12. Girate intorno a Sionne, e disaminatela per ogni parte, contate le torri di lei. (3)

13. Considerate coll’animo vostro quanto ella è forte; e distinguete le case di lei per raccontare alla stirpe che verrà. (4)

14. Come questi è Dio, il nostro Dio in eterno, e nei secoli dei secoli; ei ci governerà in perpetuo.

(1) La montagna di Sion si presta agli applausi di tutta la terra. Essa è il vero polo nord. I pagani, gli antichi, ritenevano il polo nord essere il punto più elevato della terra, il soggiorno dei loro dei. Questo voleva dire: è la vera dimora di Dio, la città del grande Re (Le Hir).

(2) I vascelli di Tharsis erano delle navi di lungo percorso che potevano compiere un viaggio da Tharsis. Qualcuno ha pensato che questo versetto abbia un senso metaforico. “Voi avete sconfitto i vostri nemici con la stessa facilità con la quale avete infranto i vascelli scatenando il vento d’oriente”. Ma nulla ci indica che sia una comparazione, ed è più probabile prendere questo versetto alla lettera ed intendere che Dio abbia distrutto una flotta nemica sulle coste della Giudea. Non è affatto una congettura azzardata. Nel passaggio spesso citato nei Paralipomeni, XX, versetto 2, noi vediamo, tra i congiurati, dei popoli al di là del mare.

(3) I figli di Giuda, cioè le città che circondano Sion, le altre città di Giuda.

(4) Vale a dire, fatte attenzione … esaminate nei dettagli.

Sommario analitico

In questo salmo il profeta, sotto figura della città di Gerusalemme, nel rendere a Dio delle azioni di grazie dopo una vittoria eclatante, manifesta la grandezza e l’eccellenza della Chiesa per questi tre motivi:

I.Per la sua magnifica costruzione:

– 1° Essa ha come architetto il Dio grande e degno di ogni lode (1), – 2° essa è situata mirabilmente (2); – 3° è governata dal grande Re, che sarà conosciuto nei suoi palazzi e prederà le sue difese (3); – 4° ha come cittadini dei re potenti venuti da ogni parte del mondo e uniti dai legami di una carità perfetta (4); 5° è saldamente stabilita contro i nemici che la minacciano da terra e da mare, e che saranno atterriti e dispersi (5-7); – 6° è fondata per l’eternità, secondo le predizioni antiche confermate dagli avvenimenti (8).

II.Per lo splendore di cui Dio l’ha circondata:

1° la misericordia di Dio abita in mezzo ad essa (9); 2° la rinomanza delle meraviglie che si compiono nel suo seno e l’equità dei suoi giudizi si espandono fino alle estremità della terra. (10, 11).

III.per la potenza di cui Dio l’ha rivestita, potenza che si manifesta:

– 1° nella forza delle sue torri e dei suoi bastioni (12); – 2° nelle opere dei suoi cittadini ed il bell’ordine dei suoi edifici (13); – 3° nella perpetuità della Provvidenza divina che la governa (14).

Spiegazioni e Considerazioni

I — 1, 8.

ff. 1, 3. – Cosa dite, o Profeta? A questo Dio così grande, così degno di elogi, voi restringete le sue lodi ad una città sola, ad una sola montagna? No, egli risponde, io parlo in tal sorta perché noi abbiamo conosciuto la grandezza di Dio prima di tutti gli altri popoli, ed i miracoli che si sono compiuti in questa città fanno risplendere la sua gloria (S. Chrys.). – Il Signore è grande e degno di ogni lode! « In quale ambito? » Nella città del nostro Dio e sulla montagna santa; è questa città, posta sulla montagna, che non può essere celata: essa è la lampada a cui il roveto non toglie la vista, ma che è come di tutti, che si manifesta agli occhi di tutti. Questa montagna è questa pietra distaccata da una certa montagna e che, secondo il profeta Daniele (Dan. II, 34), è cresciuta fino a divenire una grande montagna per coprire tutta la faccia della terra. In una parola è Gesù-Cristo e la sua Chiesa (S. Agost.). – E non è forse Dio degno di ogni lode in tutti i luoghi? Si, la sua grandezza e la sua potenza si espande dappertutto, ma il nostro spirito, troppo rinserrato, non può comprendere da quaggiù la grandezza e la potenza della grazia divina. Più la nostra conoscenza si avvicina a Dio, più ci appare la sua maestà sotto un giorno di luce più brillante. Pertanto è in Sion che conviene cantare un inno a Dio, è in Gerusalemme che renderemo i nostri voti. Cosa c’è dunque di stupefacente che la città celeste e questo splendido soggiorno della felicità sia il luogo in cui la sua potenza è proclamata con maggior forza? (S. Ambr.). – Non si conosce veramente il Signore, non Gli si rendono gli omaggi degni dei suoi attributi e dei suoi benefici, se non nel seno della Chiesa; se non lo si riconoscerà, lo si loderà perfettamente solo in cielo, che è la sua città santa per eccellenza. Gerusalemme fu la figura della Chiesa, e la Chiesa è la figura dell’eternità beata (Berthier). – Dio è grande, mirabile e degno di ogni tipo di lode in tutte le sue opere, ma particolarmente nella fondazione della sua Chiesa. La casa di Dio, le chiese cristiane costruite in suo onore, sono i luoghi privilegiati in cui Egli è particolarmente conosciuto e prende le difese di coloro che Lo invocano (Dug.).

ff. 4, 7. – Questi tentativi dei nemici di Gerusalemme, rappresentano i vani complotti dei nemici della Chiesa contro Gesù-Cristo, il suo Capo, contro i suoi Apostoli, contro i suoi martiri, contro i suoi dogmi, e gli sforzi del mondo, dell’inferno e delle passioni contro le anime determinate a servire Dio in spirito e verità. Tutto dovrà naufragare da parte di questi avversari, perché il Signore dissipa tutti i loro complotti (Berthier). – Dopo lo sbigottimento causato dai miracoli e dalla gloria del Cristo, cosa è sopraggiunto? « … Essi sono stati turbati, sono agitati e presi da tremore ». Perché li ha presi il tremore, se non a causa della coscienza dei loro crimini? Che i re corrano dunque dietro al Re; che i re riconoscano il Re. I re devono dunque temere di perdere il loro reame, come temeva il miserabile Erode, che per colpire un solo bambino, fece uccidere tanti bambini, e che, temendo di perdere il suo reame, non ha meritato di conoscere il Re? Non temete dunque che il reame di questo mondo vi sia tolto, al contrario vi sarà dato un reame, quello dei cieli, dove c’è il Re. E cosa hanno fatto essi? « Là hanno sofferto dolori come della donna che partorisce ». Cosa sono questi dolori? I dolori della penitenza! Vedete come si concepiscono questo dolore e questo parto! Noi abbiamo concepito, dice Isaia, per il timore che avete inspirato ed abbiamo partorito lo Spirito di salvezza (Is. XXVI, 18). È dunque così che, per il timore che hanno sentito del Cristo, i re hanno concepito e prodotto la salvezza, credendo a Colui che essi temevano. Dove sentite le grida di un parto, aspettatevene il frutto. L’uomo vecchio partorisce e l’uomo nuovo viene al mondo. – « Con un colpo di vento violento, abbattete le navi di Tharsis ». Voi frantumate l’orgoglio delle nazioni. E tutti coloro che inorgogliscono per i beni effimeri di questa vita, siano dunque abbattuti, e tutto l’orgoglio delle nazioni sia sottomesso al Cristo, che frantuma i navigli di Tharsis. E come li distrugge? Con un colpo di vento violento, per il vivo terrore che Egli ispira… è così in effetti, che ogni orgoglio ha temuto il suo giudizio ed ha creduto in Lui nella sua bassezza, per non temerlo nella sua elevazione (S. Agost.). Noi abbiamo ascoltato fuori dalla città, ed abbiamo visto nell’interno della città di Dio che è la luce eterna, dove il giorno brilla senza aver bisogno della luce dei re, dove la notte non è illuminata dalla luna, … città eterna le cui fondamenta sono eterne (S. Ambr.). Beata meraviglia nel vedere ciò che prima non si vedeva! Sconcerto salutare che fa concepire il disgusto della vita passata! Emozione straordinaria nella prospettiva di abbracciare una nuova vita! Tremore utile, terrore salutare alla vista dei terribili giudizi di Dio! Beati dolori che soffre l’uomo vecchio per generare il nuovo; dolori salutari di un vero pentimento e di una solida penitenza! Soffio di vento impetuoso, figura di questa operazione divina, interiore, sollecita e onnipotente dello Spirito Santo, che rimescola ed agita il cuore, lo penetra, lo purifica, lo eleva al cielo e vi spande la pace ed il vero riposo. Il peccatore rinunci a queste navigazioni lontane e pericolose sull’oceano tumultuoso delle sue cupidigie e dei suoi vizi, per fissarsi sulla terra ferma della verità e della virtù (S. Thom. – Duguet).

ff. 8. – O Chiesa beata! In un tempo, voi avete ascoltato, ed in un altro tempo avete visto. Essa ha inteso le promesse, e ne vede il compimento. Essa ha ascoltato belle profezie, essa ha visto nel Vangelo. In effetti, tutte le cose che si compiono ora sono state profetizzate in precedenza. Elevate dunque i vostri occhi e dirigeteli sul mondo intero; vedete l’eredità del Cristo, che si intende già fino alle estremità della terra; vedete compiersi ciò che è stato detto: « Tutti i re della terra Lo adoreranno, tutte le nazioni Lo serviranno » (Ps. LXXI, 11). Vedete compiute già queste altre parole: « O Dio, elevatevi al di sopra dei cieli e la vostra gloria si espanda su tutta la terra » (Ps. CVII, 6). Vedete Colui i cui piedi e le cui mani sono state inchiodate, le cui ossa, sospese sul legno della croce, sono state contate, la cui veste è stata tirata a sorte (Matth. XXVII, 35); vedete regnante nella gloria, Colui che hanno visto sospeso al patibolo; vedete anche nei cieli, Colui che hanno disprezzato quando Egli camminava sulla terra; vedete pertanto attuarsi questa predizione: « Tutti i popoli, fino all’estremo limite della terra, si ricorderanno del Signore e si convertiranno, e tutte le nazioni Lo adoreranno, prosternate davanti a Lui » (Ps. XXI, 28). Alla vista di tali meraviglie, gridate con gioia: « … ciò che abbiamo ascoltato, noi l’abbiamo visto » (S. Agost.). – Degno è della grandezza di Dio regnare sugli spiriti, o catturarli con la fede, o contentarli con la chiara visione. L’una e l’altra sono degne di Lui, Egli farà l’una e l’altra, ma ogni cosa deve avere il suo tempo. Tutte e due nondimeno sono incompatibili: io voglio dire l’oscurità della fede e la chiarezza della vista. Come ha fatto? Ecco il mistero del Cristianesimo; esso ha diviso queste due cose, tra la vita presente e la vita futura; l’evidenza nella patria, la fede e la sottomissione durante il viaggio. Un giorno la verità sarà scoperta, nell’attesa, per prepararsi, occorre che l’autorità sia riverita; l’ultima farà il merito, e l’altra è riservata per la ricompensa. « Là abbiamo le stesse cose che abbiamo sentito ». (Bossuet, Div. De la Rel.).

II.— 9, 11.

ff. 9. – È sempre alla misericordia di Dio che noi siamo grati per i lumi che Egli ci dona, e delle consolazioni che infonde nel nostro cuore. È in mezzo al suo tempio che questa misericordia diffonde i suoi favori. L’universo è il tempio di Dio, e noi possiamo adorarlo dappertutto, ma ci sono due luoghi di preghiera dove si manifesta più abbondantemente (Berthier). La meditazione delle bontà di Dio è cosa dolce e soave dappertutto; ma essa ha una attrazione particolare nel tempio, ove si pone ad intendere, ad ascoltare, ad esaudire i suoi servi. Le chiese cristiane, testimoni continue delle meraviglie più grandi della potenza divina, testimoni giornaliere dei rinnovi dell’adorabile Sacrificio, hanno per il peccatore che domanda la grazia, per il giusto che mostra la sua riconoscenza, qualche cosa di penetrante e di sublime. È la casa paterna, il santuario della divinità, il vestibolo del cielo, e in certi momenti il cielo stesso (Rendu). – È là che le nostre tenebre si dissipano, le nostre debolezze si fortificano, la nostra pace si riconquista, i nostri dolori sono leniti; è là che le nostre gioie più pure e più solide fioriscono, e le nostre preghiere sono più potenti.

ff. 10. – Non c’è che Dio la cui gloria eguagli il Nome, cioè che meriti tanta gloria, onore, adorazione tanto il suo Nome è grande, augusto ed ineffabile. Sulla terra, i grandi sono rivestiti da titoli e non meritano spesso alcuna considerazione. I loro nomi sono brillanti e le loro persone spregevoli; essa posseggono l’eredità di ancestri illustri con marchi di onore e dignità eminenti, ma disonorano tutto con la bassezza dei loro sentimenti. In Dio al contrario, il Nome e la gloria sono all’unisono, se possiamo così esprimerci. Dio riempie tutta l’estensione dei nomi che la Scrittura Gli dà. Tutta la gloria dovuta a questi Nomi, a questi titoli è egualmente dovuta a Dio; la misura della sua gloria è la stessa di quella del suo Nome, o piuttosto occorre dire che il suo Nome e Se stesso, il suo Nome e la sua gloria, sono una cosa sola! (Berthier).

ff. 11. – O montagna di Sion! O figlia di Giuda! Voi soffiate ora in mezzo alla zizzania, in mezzo alla paglia, soffiate in mezzo alle spine, ma datevi all’allegria nell’attesa dei giudizi di Dio. Dio non si sbaglia nei suoi giudizi. Vivete distaccati, benché nati nella massa comune, e non sarà inutilmente che direte con la bocca ed il cuore: « Non perdete la mia anima con quella degli empi, né la mia vita con quella degli uomini sanguinari » (Ps. XXV, 9). Libratevi alla gioia, o figlia di Giuda, a causa dei giudizi infallibili di Dio, ed ora guardatevi dall’esprimere giudizi temerari. A voi il raccogliere, a Dio il separare (S. Agost.).

III. — 12 – 14.

ff. 12-13. – Vedete questa città che aveva perso ogni speranza, che era stata distrutta e non formava più che un mucchio di rovine; come è stata ristabilita in uno stato più brillante? Considerate dunque con attenzione la sua ricostruzione, il suo splendore, il suo fulgore, e riconoscerete che è la potenza di Dio che ha elevato così in alto questa città che non aveva più speranze, raccontate ai vostri discendenti le opere della potenza divina e della provvidenza continua di Dio da cui provengono, e che non cessa di vegliare su di noi, di dirigerci, di difenderci. E noi anche non cessiamo di considerare e contemplare in noi stessi Gerusalemme, la nostra vera città. Abbiamo sempre davanti agli occhi lo splendore di questa città, che è la metropoli del Re dei secoli, e che riunisce nel suo seno lo spirito dei giusti, i cuori dei patriarchi, degli apostoli, e tutti i santi, in cui la mobilità delle cose della terra fa spazio all’immutabilità ove ogni bellezza è invisibile ed immortale (S, Chrys.). – Coloro che comprendono la città di Sion la circondano, l’abbracciano nei pensieri del loro spirito, per non lasciarsi scappare la conoscenza speculativa della virtù che essi hanno acquisito. Ora questi spiriti elevati che abbracciano così la cinta di Sion e che, per gli sforzi della loro intelligenza, sono pervenuti alla sommità delle sue torri, istruiscono da lì coloro che non hanno potuto seguirli su queste altezze, su ciò che devono fare o evitare (S. Ambr.). – Lavoriamo, ognuno secondo la propria vocazione, a fare la torre di Sion della Chiesa, questa città santa, per annunciare le meraviglie di Dio, raccontarle dall’alto delle sue torri, renderle pubbliche dappertutto in modo da farle intendere da tutti; bisogna lavorare a costruire le sue mura, a fortificarle sempre più. Distribuiamo e dividiamo gli uni con gli altri queste opere, affinché, occupandosi ognuno della costruzione spirituale di questo divino edificio, coloro che vedranno in seguito apprendano gli uni dagli altri questa meraviglie (Duguet). – « Applicatevi a considerare la sua forza », distribuite le sue case, cioè le dimore celesti assegnate a ciascuno degli eletti nell’ordine dei loro meriti. Ci sono dei precetti più sublimi e più elevati nei quali si trovano nascosti i misteri della perfezione, e tutta la divina teoria della dottrina celeste. Sull’esempio di San Paolo distribuite queste verità secondo l’intelligenza di ciascuno ed in modo proporzionato alla capacità di ogni spirito (S. Ambr.). – Se Egli è nostro Dio, è anche nostro Re: Egli ci protegge, perché è Dio, affinché non moriamo più; ma nel reggerci non ci distrugga, in modo tale che Egli distrugga coloro che non regge. « Voi li governerete, dice allora il salmista, con verga di ferro, e li frantumerete come vaso di argilla » (Ps. II, 9). Questo è degli uomini che Egli non regge; Egli non li risparmia, e li frantuma come vasi di argilla. Speriamo dunque che Egli ci regga e ci liberi, perché Egli è il nostro Dio per l’eternità, e che il suo regno su di noi non finisca mai, come quello degli altri principi che si chiude nello spazio di qualche anno o di qualche secolo, ma che si estenda, senza limiti, per tutti i secoli avvenire. (S. Agost.).

ESAME DI COSCIENZA (1) – S. Alfonso Rodriguez

DELL’ESAME DELLA COSCIENZA (1)

 [S. A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e virtù cristiane; vol. II, Marietti ed. – Torino, 1917]

TRATTATO VII. (1)

CAPO I.

Quanto sia importante l’esame della coscienza.

Uno dei principali e efficaci mezzi che abbiamo pel nostro profitto, è l’esame della coscienza: e come tale ce lo raccomandano i Santi. S. Basilio, il quale è stato dei più antichi che abbiano dato Regole ai Monaci, comanda, che ogni sera facciamo questo esame. S. Agostino nella sua Regola comanda il medesimo. S. Antonio abbate insegnava e ingiungeva assai questo esame a’ suoi Religiosi. S. Bernardo, S. Bonaventura, Cassiano, e tutti comunemente convengono in caldamente raccomandarlo. Il beato S. Gio. Crisostomo tra gli altri sopra quelle parole del reale profeta David, In cubilibus vestris compungimini (Ps. IV, 5), Compungetevi e confondetevi nei vostri letti; trattando di questo esame, e consigliando, che si faccia ogni sera prima d’andar a dormire, n’adduce due buone ragioni. La prima, acciocché nel giorno seguente ci troviamo più disposti e preparati a guardarci dai peccati e da cader nelle colpe nelle quali siamo caduti oggi; perché essendoci noi oggi esaminati e pentiti di esse, e avendo fatto proponimento di emendarci, chiara cosa è, che questo ci servirà di qualche freno per non tornar a commetterle domani. – La seconda, che ancora per questo medesimo giorno d’oggi ci sarà di qualche freno l’averci ad esaminare la sera; perché il sapere, che in questo medesimo giorno abbiamo da render conto ci farà stare sopra di noi e vivere più circospettamente. Siccome un padrone, dice S. Gio. Crisostomo, non comporta, che il suo spenditore lasci di dar ogni giorno i suoi conti, acciocché questo non dia occasione di procedere con trascuraggine e di dimenticarsi, onde poi il conto non si possa veder netto; così anche sarà ragionevole, che noi altri rivediamo ogni giorno i conti a noi stessi, acciocché la trascuraggine e la dimenticanza non vengano ad imbrogliarli. S. Efrem e S. Giovanni Climaco (D. Eyhr. serm. Ascet., de vita relig.; D. Climac. grad. 7) v’aggiungono un’altra terza ragione, e dicono, che siccome i mercanti diligenti ogni giorno bilanciano e fanno conto delle perdite e dei guadagni di quel giorno, e se trovano d’aver fatta qualche perdita, procurano di rimediare ad essa e di ripararla con molta diligenza; così noi altri dobbiamo ogni giorno esaminarci e vedere i conti delle nostre perdite e dei nostri guadagni; acciocché la perdita non vada avanti né si dia fondo al capitale, ma lo rimettiamo e vi rimediamo subito. Il beato S. Doroteo v’aggiunge un’altra utilità grande, la quale è, che esaminandoci e pentendoci ogni giorno dei nostri errori e mancamenti, non si radicherà in noi il vizio e la passione, né verrà a crescere l’abito cattivo e la cattiva consuetudine (D. Doroth. doctr. 11). Per lo contrario si dice dell’anima che non è diligente e sollecita in esaminarsi, che è simile alla vigna dell’uomo pigro, della quale dice il Savio che passò per essa, e vide, che la siepe d’intorno era caduta e che ogni cosa era piena d’ortiche e di spine: Per ogrum hominis pigri transivi, et per vineam viri stulti: et ecce totum repleverant urticæ, et operuerant superfìciem ejus spinæ, et maceria lapidum destructa erat (Prov. XXIV, 30-31): Così sta l’anima di coluiche non ha cura di esaminare la suacoscienza; sta come una vigna che non silavora, divenuta un disertaccio pieno d’erbaccecattive e di spine. Questa cattivaterra della nostra carne mai non lascia digermogliare erbe cattive; onde bisognasempre stare col sarchiello in mano sbarbandola mala erba che spunta. Serve dunquel’esame di sarchiello per levar via esbarbar il vizio e la malvagità che cominciavaa germogliare, e per non lasciar chepassi avanti né getti radici.E non solo i Santi, ma anche i Filosofigentili col lume naturale conobbero l’importanzaed efficacia di questo mezzo. Quelgran filosofo Pitagora, siccome riferisconosan Girolamo e san Tommaso (D. Hier. tom. 1 in Apol. advemus Ruf. o. 10; D. Thom. lib. 4 de Regim. Frinc. c. 22. 1), fra gli altri documenti che dava ai suoi discepoli metteva questo per molto principale, che ciascuno avesse due tempi del giorno determinati, uno la mattina ed un altro la sera, ne’ quali si esaminasse e seco stesso facesse i conti di tre cose; che cosa ho fatta; come l’ho fatta; e che cosa ho lasciato di fare di quel che doveva, rallegrandosi del bene e pigliandosi dispiacere del male. Lo stesso raccomandano Seneca, Plutarco, Epitteto ed altri. Per questo il nostro S. P. Ignazio fondato nella dottrina dei Santi, nella ragione e nell’esperienza, c’ingiunge l’esame della coscienza come uno de’ più principali ed efficaci mezzi di quanti possiamo usare dalla parte nostra pel nostro profitto, e ce lo pose per regola. Usino, dice, tutti ogni giorno il solito esame della coscienza: e in un altro luogo dice, che ciò si faccia due volte il giorno. E in certo modo stimava più l’esame che l’orazione; perciocché coll’esame s’ha d’andar mettendo in esecuzione quello che per frutto si cava dall’orazione, che è la mortificazione delle proprie passioni e l’estirpazione dei vizi e difetti. E S. Bonaventura dice, che l’esame della coscienza è il più efficace mezzo che possiamo adoperare dal canto nostro pel nostro profitto. Onde nella Compagnia se ne fa tanto conto, che a suono di campanella siamo chiamati ad esso due volte il giorno, una la mattina e l’altra la sera: e così siamo invitati all’esame, come all’orazione; acciocché nessuno lasci di farlo né la mattina né la sera. E né anche si contentò il nostro S. Padre, che usassimo noi altri questo esame; ma volle ancora, che lo persuadessimo a coloro le cui coscienze venivamo a dirigere (P.7 Const. c. 4, litt. F , et lib. Exerc. ep. reg. seu annot. 13 ex prioribus.). Onde i buoni operari della Compagnia subito che cominciano a trattare con alcuno, gl’insegnano a fare l’esame generale della coscienza, e anche il particolare, per levar via qualche mala consuetudine, come di giurare, di dir bugie, di maledire, o di altra cosa simile, come facevano i nostri primi Padri, e particolarmente leggiamo del Padre Pietro Fabro, che questa era una delle prime divozioni che dava a quei che si mettevano sotto alla sua direzione. E del nostro santo Padre si legge (Lib. 5, c. 10 Vit. P. N. Ign.), che non si contentava di proporre questo mezzo dell’esame particolare a quella persona che egli voleva guarire di qualche vizio; ma che di più, acciocché non si dimenticasse di metterlo in esecuzione, le ingiungeva, che prima del pranzo, e prima di andare a letto, desse conto a qualche persona confidente che egli stesso assegnavale, e che le dicesse se aveva fatto l’esame, e come, e se nella maniera che esso glielo aveva ordinato. E sappiamo ancora (Ibid. lib 2, cap. 4), che trattenne lungo tempo i suoi compagni nei soli esami e nella frequenza dei Sacramenti; parendogli, che se questo si faceva bene, bastasse per conservarsi nella virtù. – Di qui abbiamo da cavare una stima e un apprezzamento tanto grande di quest’esercizio di esaminar due volte il giorno le nostre coscienze, che lo teniamo per un mezzo importantissimo ed efficacissimo pel nostro profitto, e come tale l’usiamo ogni giorno: e quel dì nel quale ciò mancheremo di fare, siamo persuasi di aver mancato in una cosa molto principale della nostra Religione. Non v’ha da essere occupazione alcuna bastante a farci lasciar questo esame: e se uno sforzato da qualche necessaria occupazione non avesse potuto farlo all’ora assegnata, ha da procurare di farlo quanto più presto potrà, come sarebbe dopo il pranzo prima d’ogni altra cosa. Nemmeno l’infermità e la indisposizione che basta per dispensarci dal far lunga orazione, ha da bastare per dispensarci dal far gli esami. E così conviene, che tutti sappiano, che gli esami non si hanno da lasciar mai, né il particolare né il generale. E ha ben materia l’infermo da far l’esame particolare, considerando come si conformi alla volontà di Dio nell’infermità e nei dolori che gli manda; come accetti i rimedi che gli ordina il medico, i quali alle volte sono più disgustosi e più penosi che la stessa infermità; e come sopporti con pazienza i mancamenti che gli pare si facciano con lui da quelli che lo assistono e servono.

CAPO II.

Circa quali cose s’ha da fare l’esame particolare.

Due esami usiamo nella Compagnia, uno particolare e 1’altro generale. Il particolare si fa sopra una cosa sola, e perciò si chiama particolare: il generale si fa sopra tutti i mancamenti ed errori ch’abbiamo commessi tra giorno, coi pensieri, parole e opere; e per questo si chiama generale, perché abbraccia ogni cosa. Tratteremo in primo luogo dell’esame particolare; ed indi diremo poi brevemente del generale quello che vi sarà da aggiungere, atteso che in molte cose il medesimo s’ha da fare nel generale che nel particolare: e così quello che si dirà del particolare servirà ancora pel generale. Due cose spiegheremo circa questo esame particolare. La prima, sopra quali cose si ha da fare; la seconda, come si ha da fare. Quanto alla prima, acciocché sappiamo sopra quali cose abbiamo principalmente da tirar quest’esame, si ha da notar bene una Regola, o avvertenza, che il nostro S. Padre mette nel libro degli Esercizi spirituali (D. Igo. lib. Exerc. spir. in reg. ad motus animæ discernendes, reg. 14), ed è altresì di S. Bonaventura (D. Bonav. 3 p. breviloq.). Dice, che il demonio fa con noi come un capitano che vuol battere e prendere una città, o fortezza, il quale procura di riconoscere prima con ogni diligenza la parte più debole della muraglia, e verso quella drizza tutta l’artiglieria, ed ivi impiega tutti i suoi soldati, ancorché vi sia pericolo della vita per molti di essi; perché gettata a terra quella parte, entrerà, e prenderà la città. Così procura il demonio di riconoscer in noi altri la parte più debole dell’anima nostra, affine di batterci e vincerci per quella. Or questo ci deve servir d’avviso per premunirci e prepararci contra il nostro nemico, che abbiamo a considerare e riconoscere con attenzione la parte più debole dell’anima nostra e più manchevole di virtù; ch’è quella cosa alla quale più ci tira l’inclinazione naturale, o la passione, o la cattiva consuetudine, o il mal abito; e in questa parte abbiamo ad invigilare con maggiore attenzione e a provvederci di maggior riparo. Questa tal cosa, dicono i Santi e i Maestri della vita spirituale (D. Dorotb. serm. 12 ; Hugo de S. Victore lib. de anim. cap. 8), questa è quella che principalmente e con maggior diligenza e sollecitudine dobbiamo procurare di sradicare da noi; perché di questo abbiamo maggiore necessità; e così a questo principalmente si deve applicar l’esame particolare. Cassiano adduce di ciò due ragioni (Cass. coll. 5 Abb. Serap. c. 14). La prima, perché questo è quello che ci suol mettere in maggiori pericoli e ci fa cadere in mancamenti maggiori: onde conviene, che ivi usiamo maggior diligenza e sollecitudine. La seconda, perché dopo che avremo vinti e superati i nemici più forti e che più ci fanno guerra, facilmente vinceremo e abbatteremo tutti gli altri: perocché colla vittoria e col trionfo di questi l’anima viene a farsi più coraggiosa e più forte, e il nemico più debole. E apporta Cassiano a questo proposito l’esempio di quei giuochi che si facevano anticamente in Roma alla presenza dell’Imperatore, ne’ quali traevano fuori dalle cave molte fiere, acciocché gli uomini combattessero con esse: e quei che si volevano mostrar più valenti e dar gusto all’Imperatore, investivano prima quella che vedevano esser più forte e più feroce, vinta la quale ed uccisa, facilmente vincevano e trionfavano delle altre. Or così, dice Cassiano, abbiamo da fare noi altri. Vediamo per esperienza, che ciascuno ha qualche vizio che è come sopra degli altri, che ha un grande impero sopra di lui, e come dietro di sé lo strascina per la grande inclinazione che egli ha ad esso. Vi sono certe passioni chiamate predominanti, le quali pare che s’impadroniscano di noi altri e ci facciano fare quello che per altro non vorrem fare. Onde sogliono dire alcuni: S’io non avessi questo difetto, mi pare, che non vi sarebbe cosa che m’intrigasse né mi desse fastidio. Or sopra di questo abbiamo da tirar principalmente l’esame particolare. – In quella guerra che fece il Re di Siria contra il Re d’Israele, dice la S. Scrittura, che quel Re comandò a tutti i capitani del suo esercito, che non combattessero contra nessuno né piccolo né grande, se non solamente contra il Re d’Israele: Ne pugnetis contra minimum, aut contra maximum, nisi contra solum Regem Israel (II. Paral. XVIII, 30), parendogli, che ove fosse vinto il Re, si sarebbe vinto tutto l’esercito: e così fu, che ferito il re Acab con una saetta che uno tirò a caso, e come si suol dire, a Dio e alla ventura, fu finita la battaglia. Questo è quello che abbiamo da fare noi altri. Vinci tu questo vizio predominante, che tutto il resto facilmente s’arrenderà. Taglia il capo a cotesto gigante Golia, e subito fuggiranno e resteranno sconfitti tutti gli altri Filistei. Questa è la miglior regola generale per poter ciascuno conoscere sopra che cosa ha da tirare e stendere quest’esame. Ma in particolare uno de’ migliori modi che in ciò si può dare, è,che ciascuno conferisca questocol suo Confessore e Padre spirituale, con dargli prima pieno ragguaglio della sua coscienza e di tutte le sue inclinazioni, passioni, affezioni e abiti cattivi, senza che resti cosa che non gli manifesti; perché in questa maniera veduta egli e conosciuta la necessità del figliuolo suo spirituale e le circostanze particolari, gli sarà facile il determinargli la materia sopra di cui gli converrà di tirare l’esame particolare. E una delle cose principali, che uno ha da esporre quando dà ragguaglio della sua coscienza, è, sopra di che suol fare l’esame particolare, e che frutto ne cavi, come si dice nelle Regole del Prefetto delle cose spirituali e nell’Istruzione che di ciò abbiamo. Importa grandemente l’accertar bene a tirare l’esame particolare sopra quello che più conviene. Siccome non ha fatto poco, ma assai, il medico, quando ha accertato nel trovare la radice dell’infermità, poiché allora si applicano rimedi a proposito e le medicine vanno facendo operazione; così noi altri non abbiamo fatto poco, ma assai, quando abbiamo accertato nel trovare la radice delle nostre infermità spirituali, perché in conseguenza accerteremo ancora a medicarle bene,applicando ad esse il rimedio e la medicina dell’esame particolare. Una delle cagioni, per cui molti cavano poco profitto dall’esame particolare, è perché non l’applicano a quella cosa alla quale dovrebbero applicarlo. Se tu tagli la radice dell’albero, o sbarbi quella dell’erba cattiva, subito si marcirà e si seccherà tutto il resto; ma se non fai altro che troncar rami, c lasci la radice intatta, subito torna a germogliare e a crescere come prima.

CAPO III.

Di due ricordi e avvertimenti importanti pur far buona elezione della cosa sopra della quale si ha da tirare l’esame particolare.

Discendendo in questa materia più alparticolare, si hanno qui da avvertire due cose molto principali. La prima, che quando vi sono difetti esteriori che offendono e scandalizzano i nostri fratelli, questi hanno da essere i primi che si ha da procurar di levare coll’esame particolare, ancorché vi siano altre cose interne di maggior momento; come sarebbe, se uno è difettivo nel parlare, o perché parla assai, o perché parla con impazienza e collera, o perché dice parole che possono mortificare il suo fratello, o forse parole di mormorazione e che possono oscurar alquanto un altro, o altre simili. Perché la ragione e la carità ricercano, che prima leviamo via quei difetti che sogliono offendere e scandalizzare i nostri fratelli, e che procuriamo di vivere e conversare di tal maniera fra essi, che niuno possa lamentarsi né offendersi di noi, come dice il sacro Evangelio del padre e della madre del glorioso Battista: Erant autem justi ambo ante Deum, incedentes in omnibus mandatis et justifìcationibus Domini sine querela (Luc. I, 6): Erano entrambi giusti dinanzi a Dio e vivevano senza querela dinanzi agli uomini. Questa è una gran lode d’un servo di Dio e una delle cose che ha da procurar assai un Religioso che vive in comunità. Non basta, che egli sia giusto dinanzi a Dio; ma ha da procurar che il suo modo di procedere nella Religione sia tale, che niuno si possa lamentare di lui, sine querela; che non si possa di lui dire alcun male. E se vi è qualche cosa che possa offendere, su questa si deve cominciar a tirare l’esame particolare. La seconda cosa, che si ha da avvertire, è, che non dobbiamo spendere tutta la vita nostra nel far esame particolare sopra queste cose esteriori; perché queste sono più facili e stanno più in poter nostro che le interiori. S. Agostino dice molto bene: io comando alla mano, e la mano ubbidisce; comando al piede, e il piede ubbidisce; ma comando all’appetito, e l’appetito non ubbidisce (D. Aug. lib. 8 Confess. c. 9). È cosa chiara, che stan più soggetti e son più ubbidienti la mano e il piede, che l’appetito; perché essi non hanno moto contrario, come lo ha l’appetito. E così abbiamo da procurare di sbrigarci da queste cose esteriori quanto più presto ci sia possibile, e di conchiuderla con esse, acciocché ci resti tempo per altre cose maggiori, come è l’acquistare qualche virtù principale, o qualche superior perfezione; una profondissima umiltà di cuore per cui uno arrivi non solo a sentire bassamente di se medesimo, ma altresì a gustar, che gli altri ancora sentano di lui bassamente o lo vilipendano; il fare tutte le cose puramente per Dio, finché arriviamo a poter dire quello che diceva quel Santo: Non ho mai pensato di servir ad uomini, ma a Dio (Vide supra tract. 3, c. V); una conformità  grande alla volontà di Dio in ogni cosa, e altre cose simili. Perché sebbene è vero, che l’esame particolare propriamente e drittamente serve a levar via i difetti e le imperfezioni, e sempre ci sia assai che fare in noi circa di ciò, poiché mentre viviamo non possiamo star senza difetti, nemmeno senza peccati veniali; nondimeno non se ne deve andar in questo tutta la vita nostra. È molto bene impiegato il tempo che si spende in carpir le erbe cattive dal giardino; ma non ha da esser ogni cosa il levar via la viziosità e i perniciosi germogli della terra; anzi questo si ordina per potervi piantar belli e buoni fiori: così ancora è molto ben impiegato il tempo che si spende negli esami, sradicando i vizi e le male inclinazioni dell’anima nostra; ma tutto questo si ordina per piantar in essa fiori buoni e odoriferi di virtù: Constitui te hodie… ut evellas, et destruas, et disperdas, et dissipes, et ædifices, et plantes, disse Dio a Geremia (Ger. I, 10). Prima ha da esser il gettar a terra e lo sradicare; ma di poi ha da seguire l’edificare e il piantare. Tanto più, che anche per levar via questi medesimi difetti e imperfezioni esteriori conviene alle volte il tirare l’esame particolare sopra qualche virtù o perfezioni superiore: perché molte volte suol essere questo mezzo più efficace per tal effetto, e più breve, e più soave. Hai un difetto di parlare ai tuoi fratelli con qualche mal termine e libertà; e tu tira l’esame sopra il tener tutti essi per superiori e te per inferiore: e questo t’insegnerà in che modo hai da parlare e da risponder loro: potrai bene startene sicuro, che non dirai ad alcuno parola aspra né mortificativa se conseguirai questa umiltà. Così ancora, se senti ripugnanza e difficoltà in certe cose, o occasioni, che ti si presentano, tira l’esame particolare sopra il ricevere tutte le cose che ti avverranno come venute dalla mano di Dio e per particolar disposizione e provvidenza sua, facendo conto, ch’Egli te le manda per maggior bene e utilità tua: e in questo modo te la passerai bene in tutte esse. Patisci d’immodestia, e sei facile a voltar gli occhi e il capo ad una banda e ad un’altra; ovvero hai per difetto di esser curioso in voler saper nuove e investigar ciò che occorre; e tu tira l’esame sopra lo stare alla presenza di Dio e il fare tutte le cose di maniera che possano comparire nel suo divino cospetto; e in poco tempo ti troverai modesto, raccolto e spirituale: e questo senza alcuna stracchezza e in certo modo anche senza averci sentita molta difficoltà. E che sia il vero, guarda come quando esci dall’orazione devoto, non ti vien voglia né di parlare né di guardare; perché il trattare e conversare con Dio ti fa scordare di tutte queste cose. E se vuoi metterti a rimediare a tutti questi difetti esteriori ad uno ad uno, oltre che sarà un molto lungo viaggio, avverrà di più molte volte, che se vorrai tirar l’esame sopra la modestia degli occhi non lo saprai fare, e ti verrà subito il dolore di capo, per volere tutto in un tratto e con violenza tener gli occhi a freno. E così un bravo Maestro di spirito soleva riprendere quelli che tutta la diligenza loro mettevano in avvertir di questi difetti esteriori, e diceva, che la principal cura e sollecitudine del buon Direttore e Pastore delle anime ha da essere circa la riforma del cuore e circa il procurare, che la persona rientri in se stessa, come dice la S. Scrittura di Mosè, che minabat gregem ad interiora deserti (Es. III, 1). Tratta di riformar il cuore, e subito sarà riformata ogni cosa.

CAPO IV.

Che l’esame particolare si ha da tirare sopra una cosa sola.

L’esame particolare sempre s’ha da tirare sopra una cosa sola, siccome lo dice il nome istesso. E la ragione, per la quale conviene che cosi si faccia, è, perché in questa maniera questo mezzo è più efficace e di maggior effetto che se lo tirassimo sopra più cose insieme. Perché è cosa chiara e l’istessa ragione naturale ce l’insegna, che è molto più potente un uomo contra un vizio solo che contra tutti insieme: Pluribus intentus minor est ad singula sensus. Chi molto abbraccia, poco stringe: e presi ad uno ad uno si vincono meglio i nemici. Questo modo di vincere i nostri nemici, cioè i nostri vizi e le passioni, dice Cassiano (Cass. coll. 5 Abb. Scrap. cap. 14), ce l’insegnò lo Spirito Santo, dando l’istruzione a’ figliuoli d’Israele circa il modo di governarsi con quelle sette Genti e Nazioni per vincerle e distruggerle: Dominus Deus tuus consumet nationes has in conspectu tuo paulatim, atque per partes. Non poteris easdelere pariter (Deuer. VII, 22), non le potrete vincere tutte insieme; ma a poco a poco Dio vi darà la vittoria di tutte esse. Lo stesso Cassiano, come rispondendo ad una tacita obbiezione che qui potrebbesi fare, nota, che non accade, che uno tema che occupandosi contra un sol vizio e impiegando ivi la sua principal diligenza, gli altri vizi gli facciano molto nocumento. Primieramente, perché questa medesima diligenza che usa per emendarsi di cotesto vizio particolare cagionerà nell’anima sua un orrore e odio grande contra tutti gli altri vizi, per quella malizia comune nella quale tutti convengono: e così, stando armato e premunito contra quello in particolare, starà armato e premunito contra tutti, custodito e difeso da essi. Secondariamente, perché colui, il quale nell’esame particolare usa diligenza per isradicar da sé una cosa, va tagliando la radice che è nel cuore per le altre tutte; che è la libertà che a lui dassi di secondare in ciò che vuole le sue inclinazioni; onde il fissarsi a far l’esame sovra d’un vizio particolare è un combattere contra tutti: perché quel raffrenamento e quella opposizione che fassi per combattere quello in particolare, serve ancora per combattere e raffrenar gli altri: come si vede in un cavallo sboccato, che il tirargli le redini e il dargli una stirata di freno, acciocché non si spinga né corra disordinatamente per una strada, serve ancora acciocché non corra disordinatamente per le altre. E a questo s’aggiunge la terza cosa, che facciamo anche ogni giorno un altro esame generale che abbraccia tutto il resto. – In tal modo poscia abbiamo da insistere nel non far mai l’esame particolare che sopra una cosa sola, che anzi spesse volte e più ordinariamente conviene che un sol vizio o una sola virtù restino da noi divisi in parti ed in gradi, e che si vada a poco a poco facendo l’esame particolare prima sopra una parte, o sopra un grado, e poi sopra l’altra dello stesso vizio, o virtù, per potere a questo modo conseguir meglio quello che si desidera; perché, se pigliassimo generalmente ogni cosa insieme, non faremmo niente. Per esempio, se uno vuol tirar l’esame particolare sopra lo sradicar da sé la superbia, e l’acquistar l’umiltà, non ha da pigliar la cosa così in generale, dicendo: non voglio esser superbo in cosa alcuna, ma in ogni cosa umile; perché questo comprende gran roba, e farebbe più che se tirasse l’esame sopra tre, o quattro cose insieme; e così farà poche faccende, perché abbraccia troppo, ma ha da divider questo in più parti, o gradi; perché in questa maniera dividendo i nemici, e pigliando ciascuno di essi da sé, si vinceranno meglio, e si verrà a conseguir più presto quello che si desidera. Acciocché questa cosa si possa meglio mettere in pratica, stenderemo qui alcune cose principali sopra delle quali si può fare l’esame particolare, dividendole nelle loro parti e gradi. E sebbene per quel che tocca alcune virtù facciamo questo ne’ loro trattati a parte; nondimeno acciocché ogni cosa si trovi unita, per esser questo il luogo proprio, di tutte ne metteremo qui una breve raccolta che ci potrà anche servire di esemplare e di specchio nel quale possiamo mirare se andiamo facendo profitto, e veder quanto ci manchi per acquistare la perfezione.

CAPO V.

Come si ha a tirare e dividere l’esame particolarenelle parti e ne’ gradi delle virtù.

Dell’umiltà.

1. Non dir parole che possano ridondare in mia lode e riputazione.

2. Non compiacermi quando un altro mi loda e dice bene di me; anzi pigliar da ciò occasione d’umiliarmi e di confondermi più, vedendo, che non son tale quale gli altri si pensano né quale dovrei essere. E con questo si potrebbe congiungere il rallegrarmi quando è lodato un altro e si dice bene di lui. E quando di ciò avrò qualche dispiacere, o qualche movimento d’invidia, notarlo per difetto e per errore. E così ancora quando avrò qualche gusto e compiacenza vana del dirsi bene di me.

3. Non far cosa alcuna per rispetti umani, né per esser veduto e stimato dagli uomini, ma puramente per Dio.

4. Non iscusarmi, e molto meno buttar la colpa addosso ad altri, né esteriormente né interiormente.

5. Troncare e soffocare subito i pensieri vani, alteri e superbi, che mi vengono, di cose concernenti il mio onore e la mia reputazione.

6. Tener tutti per superiori, non solo speculativamente, ma praticamente, e nell’attual modo di procedere con essi, portandomi verso tutti con quell’umiltà e rispetto che si deve ai Superiori.

7. Accettar volentieri tutte le occasioni che mi si porgeranno in materia d’umiltà; e circa di ciò andar crescendo e ascendendo per questi tre gradi: 1° Tollerandole con pazienza: 2° Con prontezza e facilità: 3° Con gusto ed allegrezza. E non mi ho da quietare, sinché non giunga al provare allegrezza e gusto nell’essere dispregiato e vilipeso, per assomigliare ed imitar Cristo nostro Redentore, il quale volle essere dispregiato e vilipeso per me.

8. Si può condurre l’esame particolare sì in questa materia, come in altre simili, facendo alcuni atti ed esercizi d’umiltà e di qualsisia altra virtù sopra della quale si farà l’esame particolare, sì interiori, come esteriori, a questo applicandomi tante volte la mattina e tante la sera, cominciando con meno e andando sempre aggiungendo di più, sinché vada acquistando abito e consuetudine in quella virtù.

Della carità fraterna.

1. Non mormorare né dire alcun mancamento, o difetto d’un altro, ancorché sia cosa leggiera e pubblica. Non guastargli le cose sue, né dar segno alcuno di far poca stima di lui, né in presenza né in assenza, ma procurare, che su la mia bocca tutti siano buoni, onorati e stimati.

2. Non dir mai ad un altro: Il tale ha detta la tal cosa di te, essendo cosa della quale possa ricevere qualche disgusto, per piccolo che sia; perché questo è seminar discordie e zizzania tra’ fratelli.

3. Non dir parole mordenti, né delle quali altri si possa mortificare, né aspre, o impazienti. Non contrastare ostinatamente, né contraddire, né riprendere altri senza esser ciò a carico mio.

4. Trattar tutti amorevolmente, e con carità, e dimostrarlo con gli affetti, procurando di far loro servizio, di aiutarli, e di dar loro gusto in quanto potrò. E specialmente quando uno per ragione dell’ufficio che ha deve aiutar gli altri, ha da procurare di far questo tanto più compiutamente, e di supplire colle buone maniere, colle buone risposte e colle buone parole, ove non potranno arrivare i fatti.

5. Schifare qualsivoglia avversione; e molto più il dimostrarla; come sarebbe lasciando per qualche disgusto di parlar ad un altro e di fargli servizio in qualche cosa, potendo; o in qualsivoglia modo dando segno di aver qualche sorta di querela contro di lui.

6. Non essere singolare con alcuno nel trattare, ed evitare le famigliarità e amicizie particolari che offendono.

7. Non giudicar alcuno, anzi procurar di scusare i suoi mancamenti e difetti con me stesso e con altri, tenendo buona opinione di tutti.

Della mortificazione.

1. Mortificarmi nelle cose e occasioni che mi si presentano, senza che io le vada cercando; o vengano immediatamente da Dio; o vengano per mezzo dei Superiori; o per mezzo dei nostri prossimi e fratelli; o per qualsivoglia altra via; procurando di accettarle di buona voglia e di approfittarmi di esse.

2. Mortificarmi e vincermi in tutto quello che m’impedirà l’osservanza delle mie Regole e il far bene le cose ordinarie che fo ogni giorno, sì spirituali, come esteriori; perché tutti i mancamenti che in ciò facciamo, procedono, o dal non vincerci e non mortificarci in patir qualche travaglio, o dal non astenerci da qualche gusto e diletto.

3. Mortificarmi in procedere colla modestia che debbo, essendo Religioso, e specialmente in quel che tocca gli occhi e la lingua, quando in ciò vi sia qualche mancamento, o difetto.

4. Mortificarmi in alcune cose che lecitamente potrei fare, come in non uscire dalla mia stanza; in non vedere qualche cosa curiosa; in non domandare né voler sapere quel che non m’importa; in non dir qualche cosa che ho voglia di dire; e in altre cose simili; tirando l’esame sopra il far tante di queste mortificazioni la mattina e tante la sera, cominciando con meno, e andando di mano in mano aggiungendone di più: perché l’esercizio di queste mortificazioni volontarie, ancorché sia circa cose piccole, è di molto gran giovamento.

5. Mortificarmi nelle istesse cose che non posso a meno di fare, in questo modo, che quando vo a mangiare, a studiare, a leggere, a predicare, o a far qualsivoglia altro esercizio del quale ho gusto, io mortifichi prima il mio appetito e la mia volontà; dicendo col cuore: Signore, io non voglio far questo per mio gusto, ma perché lo volete Voi.

Dell’astinenza, o gola.

1. Non mangiar cosa alcuna né prima né dopo l’ora comune, né fuori del refettorio.

2. Contentarmi di quello che si dà alla Comunità, senza voler altre cose, né quelle medesime accomodate o condite in altro modo, non ammettendo particolarità senza necessità molto ben conosciuta.

3. In queste cose comuni non eccedere circa la quantità la regola della temperanza.

4. Non mangiare con molta ansia né con molta fretta, ma con modestia e decenza, non lasciandomi trasportare dall’appetito.

5. Non parlare di cose appartenenti al mangiare, e molto meno mormorarne o lamentarmene.

6. Tagliare e troncare pensieri di gola.

Della pazienza.

1. Non mostrare alcun segno esteriore d’impazienza, anzi mostrar segno di molta pace nelle parole, nelle azioni, e nel sembiante del viso, reprimendo tutti i movimenti e affetti contrari.

2. Non permettere, che entri nel cuore alcuna perturbazione, o dispiacere, o sdegno, o tristezza, e molto meno desiderio di vendetta alcuna, benché sia molto leggiera.

3. Ricevere tutte le cose e occasioni che mi si presenteranno, come mandate da Dio per bene e utilità mia, in qualsisia modo e per qualsivoglia mezzo, o via, elle vengano.

4. Andarmi esercitando e attuando in ciò per questi tre gradi: il primo, sopportando tutte le cose che m’occorreranno, con pazienza; il secondo, con prontezza e facilità, il terzo, con gusto e allegrezza, per essere quella la volontà di Dio.

Dell’ubbidienza.

1. Esser puntuale nell’ubbidienza esteriore, lasciando la lettera cominciata, e movendomi anche al cenno della volontà del Superiore, senza aspettare comandamento espresso.

2. Ubbidire volontariamente e di cuore, ed avere uno stesso volere e volontà col Superiore.

3. Ubbidire ancora con intelletto e col giudizio, essendo di un medesimo parere e sentimento col Superiore, non ammettendo giudizi o ragioni contrarie.

4. Ricevere la voce del Superiore e della campanella come se fosse voce di Dio, e ubbidire al Superiore, qualunque egli sia, come a Cristo Signor nostro, ed anche agli Ufficiali subordinati.

5. Avere ubbidienza cieca; che vuol dire, ubbidire senza investigare, né esaminare, né cercar ragione del perché; o a che effetto; ma mi basti per ragione l’esser ubbidienza e comandarlo il Superiore.

6. Passar agli atti della volontà, attuandomi, quando ubbidisco, nello star ivi facendo la volontà di Dio, e che questo sia tutto il gusto e la contentezza mia.

Della povertà.

1. Non dare, né ricevere da altri in Casa, o fuori, cosa alcuna senza licenza.

2. Non imprestare, né pigliar cosa alcuna dalla Casa, o dalla stanza di un altro, senza licenza.

3. Non tener cosa alcuna superflua, privandomi di tutto quello che non mi sarà necessario, sì intorno ai libri e alle suppellettili della stanza, come intorno al vestire e mangiare e a tutto il rimanente.

4. Nelle medesime cose necessarie che adoprerò, ho da procurare di parer povero, poiché sono tale, e che elle siano delle più povere, più semplici, e di manco valuta; di maniera che e nella stanza, e nel vestito, e nel mangiare, e in tutto il rimanente risplenda sempre la virtù della povertà, e apparisca, che son povero, desiderando e gustando, che le cose peggiori della Casa siano sempre per me, per mia maggior abnegazione e profitto spirituale.

5. Gustare, che ancora di quello che mi è necessario mi manchi qualche cosa; poiché questo è il vero povero di spirito e imitatore di Cristo nostro Redentore, il quale, essendo tanto ricco e potente, si fece povero per amor nostro, e volle sentir mancamento delle cose necessarie, patendo fame, sete, freddo, stanchezza e nudità (2 Cor. VIII, 8),

Della castità.

1. Essere circospetto negli occhi, non guardando persone né cose che possano essere incentivo di tentazione.

2. Non dire né ascoltare parole che tocchino questa materia, o che possano eccitar movimenti, o pensieri cattivi, né leggere cose simili.

3. Non ammettere pensiero alcuno toccante a questo, ancorché sia molto remoto e lontano, scacciandolo con gran diligenza e prestezza subito al principio.

4. Non toccar altra persona, specialmente nella faccia, nelle mani, nel capo, né lasciarmi toccare.

5. Osservar con me stesso molta decenza e onestà in guardarmi, scoprirmi, o toccarmi, fuori di quel che è precisamente necessario.

6. Non tener amicizie particolari, né dare né ricever presentucci né cose da mangiare. E con persone di facile occasione e con chi sente quest’affetto e inclinazione proceder con gran circospezione, fuggendo con buon modo la loro pratica e conversazione: il che suole esser unico rimedio in queste cose.

Del far bene le opere e azioni ordinarie.

1. Non lasciar giorno alcuno di fare i miei esercizi spirituali compiutamente, dando loro tutto il tempo per essi assegnato. E quando in questo tempo occorresse qualche occupazione necessaria, supplire in altro tempo.

2. Far bene ed esattamente l’orazione mentale e gli esami generale e particolare, osservando le Addizioni: e negli esami trattenendomi nel dolore e nella confusione dei mancamenti ed errori, e nel proponimento di emendarmene, più che nell’esaminar quante volte vi sono incorso: perché in questo sta la sostanza e il frutto dell’esame; e per mancamento di ciò sogliono alcuni cavare da esso poco frutto.

3. Far bene gli altri esercizi spirituali, Messa, Ufficio, Lezione spirituale, e le penitenze e mortificazioni così pubbliche come private, procurando di cavarne il fine e il frutto per lo quale ciascuna cosa è ordinata, e non facendola come per usanza, per complimento e per cerimonia.

4. Esercitar bene il mio ufficio e i miei ministeri, facendo quanto potrò e starà in mia mano, acciocché riescan ben fatti, come chi fa tutto questo per Dio e alla presenza di Dio.

5. Non commettere mancamento né errore alcuno a posta.

6. Stimare assai le cose piccole.

7. E perché il mio profitto e la mia perfezione sta nel far bene e perfettamente queste opere e azioni ordinarie che facciam ogni giorno; debbo tenere molta cura di tempo in tempo, quando sentirò che mi ci vada intiepidendo, di ritornar a tirare per alcuni giorni l’esame particolare sopra di queste per rinnovarmi e rifarmi nel farle bene.

Del far tutte le cose puramente per Dio.

1. Non fare cosa alcuna per rispetto umano, né per esser veduto né stimato dagli uomini, né per mia comodità, interesse, o gusto.

2. Far tutte le opere e le azioni puramente per Dio, assuefacendomi a riferirle attualmente tutte a Dio; primieramente la mattina subito che mi sveglio: secondariamente nel principio di ciascuna operazione ed azione: in terzo luogo anche nel decorso dell’opera e azione istessa, alzando molte volte, mentre la sto facendo, il cuore a Dio, con dire: Per voi, Signore, fo questa cosa, per vostra gloria, perché così voi volete.

3. Andar tirando questo esame su l’attuarmi nelle cose sopra dette tante volte la mattina e tante la sera, cominciando col meno e andando poi successivamente aggiungendo di più, sino che io vada acquistando una buona consuetudine ed un buon abito di alzare molto frequentemente il cuore a Dio nelle mie opere e azioni, sicché in esse non abbia più altra mira che di compiacere alla Divina Maestà Sua.

4. Non mi ho da fermare circa il fare quest’esame ed esercizio fin a tanto che io non arrivi a far le opere e azioni mie come chi serve Dio, e non uomini, e a farle in tal maniera, che in esse io stia sempre attualmente amando Dio e gustando di star ivi facendo la volontà sua, e che tutto il mio gusto in esse sia questo; talché quando io starò operando, più paia che sto amando che operando.

5. Questa ha da essere la presenza di Dio nella quale ho da camminare e stare, e la continua orazione che ho da procurare di fare; perché sarà molto buona e molto utile per l’anima mia, e mi aiuterà a far le cose ben fatte e con perfezione.

Della conformità alla volontà di Dio.

1. Pigliare tutte le cose e tutte le occasioni che avverranno (siano elleno grandi o siano piccole, per qualsivoglia via e in qualsisia modo che vengano) come venute dalla mano di Dio, il quale me le manda con viscere paterne, per maggior mio bene e profitto; e conformarmi in esse alla sua santissima e divina volontà, come se io vedessi l’istesso Cristo che mi stesse dicendo: Figliuolo, Io voglio, che adesso tu faccia, o patisca questa cosa.

2. Procurare d’andar crescendo e ascendendo in questa conformità alla volontà di Dio in tutte le cose, per questi tre gradi, il primo, in queste cose uniformarsi con pazienza ; il secondo, con prontezza e facilità; il terzo con gusto e allegrezza, per esser quella la volontà e il gusto di Dio.

3. Non mi ho da fermare nella pratica di questo esame fin a tanto che io non arrivi a provare in me stesso uno sviscerato gusto e giocondità, che si adempisca in me la volontà del Signore, ancorché sia con travagli, con dispregi e dolori, e fin a tanto che tutta la mia allegrezza e il mio gusto non sia la volontà e il gusto di Dio.

4. Non lasciare di far cosa che io conosca esser volontà di Dio e maggior gloria e servizio suo, procurando in questo d’imitar Cristo nostro Redentore, il quale disse: Ego, quæ placita sunt ei, facio semper (Jo. VIII, 29): Io fo sempre quello che piace più al mio eterno Padre.

5. Lo stare in questo esercizio sarà molto buon modo di stare alla presenza di Dio, e in continua orazione, è molto utile.

6. L’esame della mortificazione che abbiamo posto di sopra si potrà far meglio per via di conformità alla volontà di Dio; pigliando tutte le cose e occasioni come venute dalla mano del Signore, nel modo che qui s’è detto. E in questa maniera sarà più facile, più gustoso e più utile; perché sarà esercizio di amor di Dio. – È da avvertire, che non vogliamo dire per questo che l’esame particolare si abbia da fare con quell’ordine col quale si mettono qui le virtù, né con quell’ordine dei gradi, o delle parti, che si è tenuto in ciascuna di esse. Ma la regola che in ciò s’ha da tenere ha da essere, che ciascuno faccia scelta di quella virtù della quale avrà maggiore necessità, e in essa cominci da quella parte e da quel grado che più gli abbisogna: e finito che avrà con questo, vada pigliando del rimanente quello che conoscerà più convenirgli, sino a che arrivi ad acquistare la perfezione di quella determinata virtù con la grazia del Signore.

[1- Continua] https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/17/esame-di-coscienza-2-s-alfonso-rodriguez/

SALMI BIBLICI: “OMNES GENTES, PLAUDITE MANIBUS” (XLVI)

SALMO 46: Omnes gentes, plaudite manibus

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 46

In finem, pro filiis Core. Psalmus.

[1] Omnes gentes, plaudite manibus;

jubilate Deo in voce exsultationis:

[2] quoniam Dominus excelsus, terribilis, rex magnus super omnem terram.

[3] Subjecit populos nobis, et gentes sub pedibus nostris.

[4] Elegit nobis hæreditatem suam; speciem Jacob quam dilexit.

[5] Ascendit Deus in jubilo, et Dominus in voce tubæ.

[6] Psallite Deo nostro, psallite; psallite regi nostro, psallite;

[7] quoniam rex omnis terræ Deus, psallite sapienter.

[8] Regnabit Deus super gentes; Deus sedet super sedem sanctam suam.

[9] Principes populorum congregati sunt cum Deo Abraham, quoniam dii fortes terræ vehementer elevati sunt.

 [Vecchio Testamento Secondo la VolgataTradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

 SALMO XLVI

Vittoria e ascensione di Cristo al cielo.

Per la fine; a’ figliuoli di Core.

1. Genti, quante voi siete, battete palma a palma; onorate Dio con voci di giubilo e di allegrezza.

2. Imperocché il Signore è eccelso, terribile; Re grande di tutta quanta la terra.

3. Ha soggettato a noi i popoli, e le nazioni sotto dei nostri piedi.

4. Noi egli elesse per sua eredità, la bella porzion di Giacobbe, la quale egli amò.

5. È asceso Dio tra le voci di giubilo Signore al suono della tromba.

6. Cantate laudi al nostro Dio, cantate; cantate laudi al Re nostro, cantate.

7. Imperocché Dio è il Re di tutta la terra; con saviezza cantate.

8. Il Signore regnerà sopra le nazioni; il Signore siede sopra il suo trono santo.

9. I principi de’ popoli si son riuniti col Dio di Abramo, perché gli dei forti della terra sono stati grandemente esaltati.

Sommario analitico

Il salmista celebra in questo salmo il trionfo del Signore nel trasporto dell’arca, o una vittoria segnalata sui re nemici del popolo di Dio, e in senso spirituale, il trionfo del Salvatore che sale al cielo dopo aver stabilito il suo regno universale.

I. Egli invita, nella persona degli Apostoli, tutti i fedeli a manifestare la loro gioia:

– 1° con il battere le mani; – 2° con le loro grida di gioia ed il trasporto della loro riconoscenza (1).

II – Egli indica due cause dell’ascensione del Salvatore ed anche della gioia alla quale invita tutte le nazioni:

1° la divinità del Salvatore: a) Egli è elevato a causa della sua incomprensibile natura; b) … è terribile a causa della sua potenza; c) Egli è il grande re che governa l’universo (2).

2° la sua umanità, per la quale: – a) bisogna fare entrare i giudei nella Chiesa; – b) Egli ha vinto e sottomesso le nazioni (3); – c) ci ha acquisito come eredità al prezzo del suo sangue sparso (4).

III. – Descrive la maniera con la quale si è compiuta l’ascensione del Salvatore, cioè: nel mezzo dei trasporti di gioia di tutti i santi e della corte celeste (5).

IV. – Invita tutti gli uomini a celebrare la gloria del Salvatore:

1° come Dio (6, 7).

2° come uomo, – a) a causa della potenza che Gli è stata data su tutte le cose (8); – b) a causa dell’unione di tutti gli uomini e dei principi dei popoli con il Dio di Abramo (9).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1.

ff. 1. – Che vuol dire: applaudite? Rallegratevi! Ma perché con le mani? Cioè con le vostre buone opere. Non rallegratevi con la bocca, cessando di agire con le mani. Se vi rallegrate, applaudite con la voce e con le mani. Solo con la voce, non basta, perché allora le mani non agiscono; se solo con le mani, nemmeno è sufficiente, perché la lingua resta muta. Occorre che le mani e la lingua si accordino, che l’una glorifichi Dio e le altre agiscano (S. Agost.). – Un’anima piena di contentezza, alla vista delle vittorie riportate da Gesù-Cristo sul demonio e sul peccato, non può contenere la sua gioia in se stessa, e la espande al di fuori: essa desidera vedere tutti gli uomini condividere i propri sentimenti di gioia e di riconoscenza (Dug.).

II — 2-4.

ff. 2. – Gli uomini non vedono sulla terra nulla di più grande dei re; Dio, per condiscendenza, vuole abbassarsi fino a prendere il nome di re, per darci qualche idea della sua grandezza (Duguet). – Quando sentite dire che il Signore è stato sospeso al suo patibolo, che è stato crocifisso, sepolto, non abbiate alcun timore, alcuna inquietudine, perché Egli è l’Altissimo, e lo è per natura. Ora, ciò che per natura è elevato, non può mai decadere dalla sua elevazione; ma, anche nel suo abbassamento, sussiste la sua elevazione e si fa sentire, perché è giustamente in mezzo a queste umiliazioni volontarie, è in mezzo alla sua morte, che Egli ha potuto far risplendere la tutta la sua potenza contro la morte (S. Chrys.).

ff. 3. – Le parole del Profeta sono di una esattezza perfetta. Egli predice con molto anticipo ciò che gli Apostoli diranno in seguito: « … perché ci guardate come se per nostra virtù o per nostra potenza, noi avessimo fatto camminare quest’uomo? » (Act. III, 12). Queste parole « … sotto i loro piedi », indicano ciò che era stato loro assoggettato, o piuttosto una sottomissione assoluta. Voi volete dunque misurare l’estensione di questa sottomissione? Ascoltate ciò che dice l’autore degli Atti: « Tutti coloro che possedevano delle case o dei campi, li vendevano e portavano il ricavato di quello che avevano venduto, e lo depositavano ai piedi degli Apostoli » (Act. IV, 31). – Quale autorità, quale potenza dunque negli Apostoli (S. Chrys.). – Questi popoli rivoltati che ci ha assoggettati, queste nazioni indomite che ha messo sotto i nostri piedi, sono i nostri vizi e le nostre passioni, che Egli ha vinto in noi e per noi. Finchè ci sarà una sola volontà opposta a quella di Dio, la vittoria di Gesù-Cristo non sarà completa (Dug.).

ff. 4. – Come queste parole: « … egli ci scelto per la sua eredità », possono produrre in qualche spirito il dubbio e l’esitazione, e fargli dire: perché i Giudei non Gli hanno creduto? Il Re-Profeta fa sparire questo dubbio con un correttivo. Dio ha fatto tutto ciò che dipende da Lui, scegliendoci per eredità, e sotto questo aspetto, non ha dimenticato nessuno. Se vi chiedete qual è il risultato di questa scelta, ascoltate il seguito: « … la bellezza di Giacobbe, che è stato l’oggetto del suo amore ». Il Re-Profeta ha qui in vista i fedeli, di cui San Paolo diceva: « non che la parola di Dio sia stata vana, perché tutti coloro che discendono da Israele non sono tutti israeliti, ma è Isacco che sarà chiamato vostro figlio; vale a dire, coloro che sono figli di Abramo secondo la carne, non sono per questo figli di Dio, ma sono i figli della promessa che sono ritenuti della razza di Abramo. » (Rom. IX, 6-8). È a giusto titolo che i fedeli sono chiamati la beltà del popolo. Cosa di più bello, in effetti, cosa di più splendente c’è di coloro che hanno abbracciato la fede? Il Re-Profeta chiama il suo popolo: eredità di Dio, non per escludere dalle cure della sua Provvidenza le altre nazioni, ma per esprimere l’ardente amore che Egli ha per questo popolo, l’unione stretta che Egli ha contratto con esso e la sollecitudine tutta paterna con la quale veglia sui suoi interessi. (S. Chrys.). – Noi non siamo solamente creature di Dio, ma siamo pure i suoi eletti. Egli ha fatto come una seconda scelta di noi in Gesù-Cristo; Egli ha previsto la nostra caduta, ha visto che siamo gli eredi del peccato di Adamo, al quale avremmo aggiunto i nostri peccati attuali; Egli non ha esagerato la nostra onta, ma l’ha conosciuta meglio di come tutti gli uomini e gli Angeli insieme avrebbero potuto conoscerla; Egli ha penetrato la nostra insopportabile corruzione, ne ha contemplato tutto il lordume: essa era incredibile! E questo non fu abbastanza per impedire al suo amore di sceglierci per essere bagnati nel sangue prezioso del Figlio suo incarnato, ci ha chiamato ad una magnifica eredità di grazie e alle prerogative reali della sua santa Chiesa. In virtù di questa elezione, Egli ci ha accordato il dono della fede, e ci ha aperto la porta d’oro attraverso la quale defluiscono le sorgenti vivificanti dei Sacramenti. Quando noi consideriamo chi è Colui che ci ha scelti, chi siamo noi stessi e cosa ci dà come sua elezione, il modo in cui lo dà, e il fine per il quale ci ha scelto, noi siamo forzati nel confessare che se non possiamo riconoscere degnamente la sua elezione, Gli dobbiamo almeno il fervore e la fedeltà di un amore per tutta la vita. Egli ci ha eletto in Gesù-Cristo prima della creazione del mondo, affinché fossimo santi e senza macchia ai suoi occhi, nell’amore (Faber, Il Creat. e la creat. L. II, cap. III). Non è che la bontà di Dio che ha trovato in noi ciò che ci ha meritato questa scelta e l’onore di essere i suoi eletti; ma è la scelta che ha voluto fare di noi che ci ha dato questa beltà.

III. — 5.

ff. 5. – « Dio è salito tra le voci di acclamazione ». Egli non dice: « Egli è stato elevato », ma: « … Egli è salito », per provare che non ha avuto bisogno di nessuno per elevarsi nei cieli, e che si è fatto strada da Se stesso. Elia, che non poteva seguire la stessa via di Gesù-Cristo, era condotto da una potenza estranea alla sua natura; perché la natura umana non poteva da se stessa prendere questa strada. Il Figlio unigenito, al contrario, è asceso per la potenza propria. È quanto San Luca esprime quando dice: « … e siccome essi Lo contemplavano montante verso il cielo » (Act. I, 10). Egli non dice: … era elevato o era portato, perché era Egli stesso che avanzava su questa strada. E quale stupore che abbia potuto fendere l’aria, quando riprese il suo corpo incorruttibile, Egli che prima della sua morte in croce, camminava sulle acque con un corpo passibile e sottomesso alle leggi della gravità? (S. Chrys.). Elevarci dobbiamo, per mezzo della fede e mediante il disprezzo delle creature, al di sopra di tutte le cose, … portare il nostro cuore, i nostri desideri e le nostre inclinazioni verso il cielo, per dimorarvi con Gesù-Cristo, e vivere già nel cielo come essendone cittadini. – Colui che è salito in cielo « in mezzo ad acclamazioni di gioia, è disceso dapprima fino alle parti inferiori della terra » (Ephes. IV, 9). L’ascensione del capo nei suoi membri non può compiersi che nello stesso ordine e nella stessa via, l’esempio del Capo, è una regola per le sue membra (Duguet).

IV. – 6-9.

ff. 6-7. – Cantare alla Gloria del Signore, perché è il nostro Dio, perché è il nostro Re; non solo perché è il nostro Re, ma anche perché è il Re di tutta la terra. – Bisogna cantare le lodi di Dio non solo con assiduità, ma anche con saggezza, con intelligenza, con attenzione, con rispetto. Non soltanto la lingua e la voce, ma la vita e le opere devono far parte di questo concerto (Duguet).

ff. 8. – Quando il Profeta diceva queste parole, Dio non regnava che su una sola nazione; si tratta dunque di una profezia, e non di un fatto visibile. Grazie a Dio, noi vediamo ora compiersi ciò che allora fu profetizzato. Dio, prima del tempo della paga, aveva sottoscritto a nostro favore una cambiale; giunto il tempo, Egli l’ha pagata. « … Dio regna su tutte le nazioni »; qui non c’è ancora che una promessa. « Dio è seduto sul suo trono santo ». Questa promessa è ora compiuta, noi lo riconosciamo e ne gioiamo … I cieli sono senza dubbio il santo trono del Signore. Ma volete essere anche voi il suo trono? Badate a credere che non lo possiate: preparategli un posto nel vostro cuore, Egli verrà e dimorerà volentieri.; perché è certamente la virtù di Dio e la saggezza di Dio (I Cor. I, 24). Ora, cosa dice la santa scrittura? L’anima del giusto è il trono della Sapienza. In realtà Dio non risiede e non comanda in tutti gli uomini che vivono bene, che si comportano secondo le regole di una carità pia? L’anima obbedisce a Dio che abita in essa, e a sua volta, essa regna sulle membra dei corpi. Essa dà loro degli ordini come a dei servitori; ma essa stessa obbedisce interiormente al suo Signore che risiede in essa. Essa non potrebbe ben governare colui che le è inferiore se disdegnasse di obbedire a Colui che le è superiore (S. Agost.). – Il Profeta dice a ragione. « … sul suo santo trono » ; perché non solo Dio regna, ma regna santamente, cioè in modo interamente irreprensibile. Gli uomini che pervengono al potere assoluto, se ne servono troppo spesso per commettere l’ingiustizia; ma il regno di Dio è esente da ogni ingiustizia; esso è di una purezza, di una santità inviolabile (S. Crys.).

ff. 9. – Non è soltanto sui singoli, ma anche su coloro che portano il diadema e che sono seduti sul trono, che il Vangelo ha esteso il suo impero. Qual è stata la causa di questa unione dei principi dei popoli con il Dio di Abramo? Perché gli dei potenti della terra sono stati straordinariamente elevati. Questi dei potenti sono gli Apostoli e tutti i fedeli. La loro potenza ha brillato di un così vivo splendore, che ha sottomesso loro tutti gli uomini. Come non riconoscere la forza invincibile di coloro che, anche dopo la loro morte, hanno fatto risplendere una così grande potenza, di coloro le cui parole, più dure del diamante, resistono alle ingiurie del tempo? (S. Chrys.). – Quale felicità quando i principi dei popoli, gli uomini potenti, le persone di qualità, che hanno credito, si uniscono con Dio per farlo regnare, quando essi procurano e sostengono il bene con il loro esempio e con la loro autorità! (Dug.).

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. PIO X – “EDITÆ SÆPE DEI”

La lettera enciclica che poniamo all’attenzione dei fedeli Cattolici, è una breve apologia dell’opera di S. Carlo Borromeo, del quale vengono ricordati meriti e virtù in un tempo di grandi calamità per la Chiesa di Cristo, la Chiesa Cattolica Romana. Tra gli altri meriti, si ricorda il suo impegno nel Concilio tridentino, i cui canoni applicò rigorosamente nella propria diocesi, esempio per tutti gli altri Pastori del gregge di Cristo. il Santo Padre ne approfitta per comparare la situazione dell’epoca della cosiddetta Riforma protestante, arginata in parte appunto dalla reazione del Borromeo e dal caldeggiato Concilio tridentino, con quella dell’inizio del novecento, epoca in cui saliva la marea montante del Modernismo, vera peste spirituale che seminava veleno e ribellione, ed al quale il Santo Padre Pio X oppose con indomito vigore, una resistenza eroica, che solo per un breve periodo ottenne i suoi effetti, ma che poi sappiamo essere esploso fragorosamente con l’ultramodernismo conciliare e postconciliare degli usurpanti della quinta colonna nella Chiesa, infiltrati come apostati del “Novus Ordo” Vaticano, i cui frutti marci sono tragicamente davanti ai nostri occhi e che hanno prodotto una società mondiale totalmente scristianizzata ed asservita al dictat mondialista-ecumenico dei kazari servi e battistrada dell’Anticristo. Un San Carlo Borromeo, probabilmente oggi non sarebbe più in grado di ribaltare la situazione di “antichiesa” insediata nei palazzi un tempo sacri di Roma e del mondo intero, nulla potrebbe contro i poteri dell’inferno che la massoneria e la sinagoga di satana vaticana – poteri oramai tra essi fusi – esercitano incontrastati. La profezia di San Paolo diceva infatti già ai Tessalonicesi, che sarà il soffio delle labbra dello stesso Cristo a disperdere e schiacciare l’anticristo ed i suoi adepti, ed eliminare l’abominio della desolazione (il baphomet-lucifero, il “signore dell’universo”) che ha preso il posto di Dio sugli altari delle chiese un tempo cristiane. Dio stesso avoca a sé, nella Persona di Cristo, il Figlio di Dio-Uomo, il compito di distruggere l’anticristo e l’antichiesa non delegando nessun altro a compiere questo atto che farà risplendere definitivamente su tutto il pianeta, la luce della Verità che solo appartiene alla sua vera Chiesa: la Chiesa Una, Santa, Cattolica, Apostolica, Romana, governata dal suo Vicario in terra: il Santo Padre, il “vero” Papa! Nel dare lode, onore e gloria a Colui che solo merita, leggiamo con attenzione la “Editæ sæpe Dei”, traendone gravi spunti di meditazione e di speranza per una “… Restaurazione di tutte le cose in Cristo!” secondo gli auspici di S. Pio X.

San Pio X
Editæ sæpe Dei

Lettera Enciclica

Celebra la memoria e l’opera apostolica e dottrinale di San Carlo Borromeo.

Ciò che la parola divina ricorda più volte nelle Sacre Scritture, come il giusto vivràin memoria eterna di lodi e che egli parla anche defunto (Psal. CXI, 7; Prov. X, 7; Hebr. XI, 4),si avvera sopra tutto per la voce e l’opera continua della Chiesa. Questa, infatti, quale Madre e aurice di santità, ringiovanita sempre più feconda dal soffio “dello Spirito Santo, che inabita in noi“(Rom. VIII, 11), come è sola a generare, nutrire ed allevare nel suo seno la nobilissima figliolanza dei giusti, così è la più sollecita, quasi per istinto di amore materno, a conservarne la memoria e a ravvivarne l’amore. Da tale ricordanza Ella riceve quasi un divino conforto, e ritrae lo sguardo dalle miserie di questo pellegrinaggio mortale, mentre già vede nei Santi “la sua gioia e la sua corona“,riconosce in essi la immagine sublime del suo Sposo Celeste, e inculca ai suoi figli con nuova testimonianza il detto antico: “Per quanti amano Dio, per quelli che secondo il proposito divino sono stati chiamati santi, le cose tutte si rivolgono in bene“(Rom. VIII, 28). Né le loro opere gloriose riescono solo di confortoalla memoria, ma di luce all’imitazione e di forte incitamento alla virtù per quella eco unanime dei santi che risponde alla voce di Paolo: “Siate miei imitatori, come io sono di Cristo” (I Cor. IV, 16). – Per queste ragioni, Venerabili Fratelli, mentre Noi, appena assunto il Sommo Pontificato, significavamo il proposito di adoperarCi costantemente perché “le cose tutte fossero restaurate in Cristo“, con la prima Nostra Lettera Enciclica (Lett. Enc. “E supremi“,del 4 ottobre 1903), Ci studiammo vivamente di fare che tutti rivolgessero con Noi i loro sguardi a Gesù, “Apostolo e Pontefice della nostra confessione, autore e consumatore della fede“(Hebr. III, 1; XII, 2-3). Ma poiché la Nostra debolezza è tanta e facilmente restiamo sbigottiti dalla grandezza di tanto esemplare, per benefizio della Provvidenza divina un altro modello Noi avemmo da proporre, che pur essendo prossimo a Cristo, quanto a natura umana è possibile, è meglio confacevole alla debolezza Nostra, cioè la Beatissima Vergine, Augusta Madre di Dio (Lett. Enc. “Ad diem illum“, del 21 febbraio 1904). Infine, cogliendo varie occasioni di ravvivare la memoria dei santi, proponemmo alla comune ammirazione questi servi e dispensatori fedeli nella casa di Dio, e secondo il grado proprio di ciascuno, amici e domestici di Lui, come quelli che “per la fede vinsero i regni) operarono la giustizia, ottennero le promesse” (Hebr. XI, 13), affinché dai loro esempi spronati “non siamo più bambini vacillanti e trasportati da ogni vento di dottrina per raggiri degli uomini, per astuzia usata a circonvenire nell’errore; ma seguitando la verità nella carità, andiamo crescendo per ogni parte in Lui, che è il capo, Cristo” (Eph. IV, 11 segg.). – Questo consiglio altissimo della Provvidenza divina mostrammo attuato in tre personaggi massimamente che quali grandi pastori e dottori fiorirono in età ben diverse ma quasi del pari calamitose per la Chiesa: Gregorio Magno, Giovanni Grisostomo e Anselmo di Aosta, dei quali occorsero in questi ultimi anni solenni feste centenarie. Così più specialmente nelle due Lettere Encicliche date il 12 marzo 1904 e il 21 aprile del 1909, spiegammo quei punti di dottrina e precetti di vita cristiana, quali ci parvero opportuni ai nostri giorni, che si raccolgono dagli esempi e dagli insegnamenti dei santi. – E poiché Noi siamo persuasi che gli esempi illustri dei soldati di Cristo valgono assai meglio a scuotere gli animi e a trascinarli che non le parole o le altre trattazioni (Encicl. “E Supremi“), profittiamo ora volentieri di un’altra felice opportunità che Ci si porge, per commendare gli altissimi documenti di un altro santo Pastore, suscitato da Dio in tempi più vicini quasi in mezzo alle medesime tempeste, Cardinale della Santa Romana Chiesa e Arcivescovo di Milano, da Paolo V di santa memoria ascritto nel novero dei santi, Carlo Borromeo. E non meno a proposito; poiché – per usare le parole dello stesso Nostro Antecessore – “Il Signore che fa meraviglie grandi Egli solo, ha operato con noi cose magnifiche in questi ultimi tempi, e con opera mirabile della sua dispensazione ha eretto sopra la rocca dell’Apostolica pietra un grande luminare, eleggendo dal seno della sacrosanta Romana Chiesa, Carlo sacerdote fedele, servo buono, modello del gregge e modello dei pastori. Egli infatti, con molteplice fulgore di opere sante illustrando la Chiesa tutta, brilla innanzi ai sacerdoti ed al popolo, quale un Abele per l’innocenza, un Enoch per la purezza, un Giacobbe per la sofferenza delle fatiche, un Mosè per la mansuetudine, un Elia per lo zelo ardente. Egli in sé mostra da imitare, fra l’abbondanza delle delizie, l’austerità di Girolamo, nei gradi più alti l’umiltà di Martino, la sollecitudine pastorale di Gregorio, la libertà di Ambrogio, la carità di Paolino, e finalmente ci dà a vedere con gli occhi nostri, a toccare con le nostre mani, un uomo che, mentre il mondo gli sorride con le maggiori blandizie, vive crocifisso al mondo, vive nello spirito calpestando le cose terrene, cercando continuamente le Celesti, né solo per officio sostituito in luogo di Angelo, ma emulo in terra nei pensieri e nelle opere della vita degli Angeli“(Bolla “Unigenitus“, novembre del 1610). – Così il Nostro Antecessore, trascorsi i cinque lustri dalla morte di Carlo. E ora, trascorsi tre secoli dalla glorificazione a lui decretata “meritamente é pieno il Nostro labbro di gaudio e la Nostra lingua di esultanza nell’insigne giorno della Nostra solennità, quando col decretare i sacri onori a Carlo prete Cardinale della Santa Romana Chiesa, alla quale Noi per disposizione del Signore presiediamo, fu aggiunta una corona ricca di ogni pietra preziosa all’unica Sua sposa“. Così Noi abbiamo comune col Nostro Antecessore la confidenza, che dalla contemplazione della gloria, ma più ancora dagli insegnamenti e dagli esempi del Santo, si possa veder umiliata la protervia degli empi e confusi tutti quelli che “si gloriano dei simulacri degli errori“(dalla Bolla “Unigenitus“). Quindi la rinnovata glorificazione di Carlo modello del gregge e dei pastori nei tempi moderni, propugnatore e consigliere indefesso della verace riforma cattolica contro quei novatori recenti, il cui intento non era la reintegrazione, ma piuttosto la deformazione e distruzione della fede e dei costumi, riuscirà dopo tre secoli per tutti i Cattolici di singolare conforto ed istruzione, come di nobile incitamento a tutti per cooperare strenuamente all’opera che tanto Ci sta a cuore della restaurazione di tutte le cose in Cristo. – Certamente è a voi ben noto, Venerabili Fratelli, come la Chiesa, quantunque tribolata continuamente, non è mai lasciata da Dio priva di ogni consolazione. Poiché Cristo “l’amò e dette se stesso per lei, alfine di santificarla e farsela comparire innanzi gloriosa, senza macchia, né ruga, né altra cosa tale, ma perché sia santa e immacolata” (Eph. V, 25 e segg.). Anzi, quando più sbrigliata la licenza dei costumi, più feroce l’impeto della persecuzione, più astute le insidie dell’errore sembrano minacciare a lei rovina estrema, fino a strapparle dal seno non pochi dei suoi figliuoli, per travolgerli nel vortice dell’empietà e dei vizi, allora la Chiesa sperimenta più efficace la protezione divina. Perocché Iddio fa che l’errore stesso, vogliano o no i malvagi, serva al trionfo della verità, di cui la Chiesa è vigile custode; la corruzione serva all’incremento della santità, di cui essa è attrice e maestra; la persecuzione ad una più mirabile “liberazione dai nostri nemici“. Così avviene che quando la Chiesa appare agli occhi profani sbattuta da più fiera tempesta e quasi sommersa, allora n’esca più bella, più vigorosa, più pura, rifulgendo nello splendore delle maggiori virtù. – In questo modo la somma benignità di Dio viene confermando con nuovi argomenti, che la Chiesa è opera divina; sia perché nella prova più dolorosa, quella degli errori e delle colpe che s’infiltrano nelle stesse sue membra, le fasuperare il cimento; sia perché le mostra attuato il detto di Cristo: “Le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei“(Matth. XVI, 18); sia perché comprova di fatto la promessa: “Ecco io sarò con voi tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli“(Matth. XXVIII, 20);sia infine perché testimonia di quella misteriosa virtù per cui un altro Paraclito, promessole da Cristo nel suo sollecito ritorno al Cielo, continuamente in Lei effonde i suoi doni e la difende e la consola in ogni tribolazione: “spirito che rimane con lei in eterno; spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede, né lo conosce, perché Egli dimorerà fra voi e sarà con voi“(Ioan. XIV, 16 e segg., 29, 59; XVI, 7 e segg.). Da questa fonte sgorga la vita e il nerbo della vita; e da questa pure il distinguersi da ogni altra società, come insegna il Concilio Ecumenico Vaticano, per le note manifeste, ond’è segnalata e costituita “quasi un vessillo sollevato fra le nazioni” (Sess. III, Const. Dei Filius, cap. 3). – E infatti, solo per un miracolo della potenza divina può succedere che tra l’inondare della corruzione e la frequente deficienza delle membra la Chiesa, in quanto è il Corpo mistico di Cristo, si mantenga indefettibile nella santità della dottrina, delle leggi, del suo fine; dalle cause stesse tragga del pari fruttuosi effetti; dalla fede e dalla giustizia di molti suoi figliuoli raccolga frutti copiosissimi di salute. Né meno chiaro apparisce il sigillo della sua vita divina in ciò che fra tanta e cosi turpe colluvie di perverse opinioni, fra così grande numero di ribelli, fra il tanto multiforme variare degli errori, essa persevera immutabile e costante, quale colonna e sostegno della verità, nella professione di una stessa dottrina, nella comunione degli stessi Sacramenti, nella sua divina costituzione, nel governo, nella morale. E ciò tanto più è mirabile, perché ella non solamente resiste al male, ma vince il male col bene, e mai resta dal benedire e agli amici e ai nemici, mentre tutta si affatica ed anela a operare la rinnovazione cristiana della società non meno che dei singoli individui. Poiché questa è la sua missione propria nel mondo, e di questa gli stessi suoi nemici sentono i benefizi. – Un tale mirabile influsso della Provvidenza divina nell’opera restauratrice promossa dalla Chiesa appare splendidamente in quel secolo che vide sorgere a conforto dei buoni San Carlo Borromeo. Allora, spadroneggiando le passioni, travisata quasi del tutto e oscurata la cognizione della verità, eravi lotta continua con gli errori, e l’umana società, precipitando al peggio, sembrava correre all’abisso. Fra questi mali insorgevano uomini orgogliosi e ribelli, “nemici della Croce di Cristo…“, uomini di “sentimenti terreni, il Dio dei quali é il ventre ” (Phil. III, 18, 19). Costoro, applicandosi non a correggere i costumi, ma a negare i dogmi, moltiplicavano i disordini, allargavano a sé ed agli altri il freno della licenza, o certo sprezzando la guida autorevole della Chiesa, a seconda delle passioni dei prìncipi o dei popoli più corrotti, con una quasi tirannide ne rovesciavano la dottrina, la costituzione, la disciplina. Indi, imitando quegli iniqui, a cui è rivolta la minaccia: “Guai a voi che chiamate male il bene e bene il male!” (Is. V, 20), quel tumulto di ribellione, quella perversione di fede e di costumi chiamarono riforma e se stessi riformatori. Ma, in verità, essi furono corrompitori, sicché, snervando con dissensioni e guerre le forze dell’Europa, prepararono le ribellioni e l’apostasia dei tempi moderni, nei quali si rinnovarono insieme in un impeto solo quei tre generi di lotta, prima disgiunti, da cui la Chiesa era sempre uscita vincitrice: le lotte cruente della prima età, indi la peste domestica delle eresie; infine sotto il nome di libertà evangelica, quella corruzione di vizi e perversione della disciplina, a cui forse non era giunta l’età medioevale. – A questa turba di seduttori Iddio oppose veraci riformatori e uomini santi, sia per arrestare quella corrente impetuosa ed estinguere quel bollore, sia per riparare ai danni già recati. Quindi l’opera loro assidua e molteplice nella riforma della disciplina fu di tanto maggiore conforto alla Chiesa quanto più grave era la tribolazione che l’angustiava e comprovò il detto: “Fedele è Iddio, che… darà con la tentazione il vantaggio” (I Cor. X, 13). In sì fatte circostanze veniva ad accrescere consolazione alla Chiesa, per disposizione provvidenziale, l’operosità e la santità singolare di Carlo Borromeo. – Senonché il ministero di lui, cosi disponendo Iddio, ebbe una forza ed efficacia tutta propria, né solo per fiaccare l’audacia dei faziosi, ma per ammaestrare ed infervorare i figliuoli della Chiesa. Di quelli, infatti, egli reprimeva i folli ardimenti e confutava le futili accuse, con l’eloquenza più potente, con l’esempio della sua vita e della sua operosità; di questi rialzava le speranze e ravvivava l’ardore. E fu certo cosa mirabile come egli accolse in sé riunite fino dalla sua giovinezza tutte quelle doti di un verace riformatore, che in altri vediamo disperse e distinte: virtù, senno, dottrina, autorità, potenza, alacrità; e tutte le fece servire unitamente alla difesa commessagli della Verità Cattolica contro le invadenti eresie, com’era pur la missione propria della Chiesa, risvegliando la fede sopita in molti e quasi estinta, corroborandola con provvide leggi ed istituzioni, rialzando la caduta disciplina e riconducendo strenuamente i costumi del clero e del popolo ad un tenore di vita cristiana. Così mentre adempie le parti tutte del riformatore, non meno adempie per tempo a tutti gli uffici del “servo buono e fedele“, e più tardi quelle del sacerdote grande, che “piacque a Dio nei giorni suoi e fu trovato giusto, degno perciò di prendersi ad esempio da tutte le classi di persone, sia del clero o dei laici, siano ricchi o poveri; come quegli la cui eccellenza va compendiata in quella lode propria del Vescovo e del prelato, per la quale ubbidendo ai detti dell’Apostolo Pietro, egli si era “fatto di cuore modello del gregge“(I Petr. V, 3). Né di minore ammirazione è il fatto che Carlo, non ancora compiuti i suoi 23 anni di età 1, benché sollevato a sommi onori, e messo a parte di negozi grandi e difficilissimi della Chiesa, veniva ogni di meglio avanzandosi nell’esercizio più perfetto della virtù, mediante quella contemplazione delle cose divine, che nel sacro ritiro già l’aveva rinnovato, e risplendeva “spettacolo al mondo, agli angeli ed agli uomini“. – Allora veramente, per usare le parole del già ricordato Nostro Antecessore Paolo V, cominciò il Signore a mostrare in Carlo le “sue meraviglie: sapienza, giustizia, zelo ardentissimo in promuovere la gloria di Dio e del nome cattolico, e cura sopra tutto per quella opera di restaurazione della fede e della Chiesa universale che si agitava nell’augusto Consesso Tridentino. Della celebrazione di questo Concilio gli dà merito lo stesso Pontefice e la posterità tutta, in quanto egli, prima di esserne l’esecutore più fedele, ne fu il più efficace sostenitore. Né certo, senza molte sue veglie, stenti e fatiche, ebbe quell’opera il suo ultimo compimento. – Eppure queste cose tutte non erano altro che una preparazione e un tirocinio di vita, nel quale educavasi il cuore con la pietà, la mente con lo studio, il corpo con la fatica, serbandosi quel modesto e umile giovane quale argilla nelle mani di Dio e del suo Vicario in terra. E una tale vita di preparazione appunto era quella che disprezzavano allora i fautori di novità, per la stoltezza medesima onde la disprezzano i moderni, non avvertendo che le opere meravigliose di Dio si maturano nell’ombra e nel silenzio dell’anima dedita all’ubbidienza ed alla preghiera, e che in questa preparazione sta come il germe del futuro progresso, come nella seminagione la speranza della raccolta. – La santità, nondimeno, e l’operosità di Carlo, che si preparava allora con si splendidi auspici, si svolse poi e diede frutti prodigiosi, come accennammo sopra, quando egli “da buon operaio, lasciata la splendidezza e la maestà di Roma, si ritirò nel campo che aveva preso a coltivare (Milano), e adempiendovi ogni giorno meglio le sue parti, ricondusse quel campo, per la tristizia dei tempi già bruttamente guasto da sterpi e inselvatichito, a tale splendore che fece della Chiesa di Milano un chiarissimo esemplare di ecclesiastica disciplina” (Bolla “Unigenitus“). – Tanti e così preclari effetti egli ottenne conformando la sua opera di riforma alle norme proposte poco avanti dal Concilio Tridentino. – La Chiesa, infatti, bene intendendo quanto “i sentimenti e i pensieri dell’animo umano sono proclivi al male“(Gen. VIII, 21),mai non cessa di combattere contro i vizi e gli errori, perché “sia distrutto il corpo del peccato e più non serviamo al peccato” (Rom. VI, 6). E in questa lotta, come Ella è maestra a se stessa e guidata dalla grazia che “è diffusa nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo“,cosìprende norma al pensare e all’opera dal Dottore delle genti, che dice: “Rinnovatevi nello spirito della vostra mente“(Eph. IV, 23). “E non vogliate conformarvi a questo secolo, ma riformatevi nel ritrovamento della mente vostra, per accertare quale sia la volontà di Dio buona, accettevole e perfetta“(Rom. XII, 2).Né il figliuolo della Chiesa e riformatore sincero mai si persuade di avere toccata la meta, ma ad essa protesta solo di tendere insieme con l’Apostolo: “Dimenticando quel che sta dietro e stendendomi verso ciò che mi sta davanti, mi avanzo verso il segno, verso il premio della vocazione superna di Dio in Cristo Gesù“(Phil. III, 13, 14). – Quindi avviene che noi uniti con Cristo nella Chiesa “cresciamo per ogni cosa in Lui che è il Capo, Cristo dal quale il corpo tutto prende l’accrescimento proprio per la perfezione di se stesso nella carità (Eb. IV, 15, 16), e la Chiesa madre viene sempre più ad avverare quel mistero della volontà, “di restaurare nella ordinata pienezza dei tempi tutte le cose in Cristo“(Eph. I, 9, 10). – A queste cose non pensavano i riformatori, a cui si oppose Carlo Borromeo, presumendo riformare a loro capriccio la fede e la disciplina; né meglio le intendono i moderni, contro cui abbiamo noi da combattere, o Venerabili Fratelli. Anche costoro sovvertono dottrina, leggi, istituzioni della Chiesa, avendo sempre sulle labbra il grido di cultura e di civiltà, non perché stia loro troppo a cuore questo punto, ma perché con questi nomi grandiosi possono più agevolmente celare la malvagità dei loro intendimenti. – E quali in realtà sieno le loro mire, quali le loro trame, quale la via che intendono battere, nessuno di voi lo ignora, e i loro disegni furono già da Noi denunziati e condannati. Si propongono essi un’apostasia universale dalla fede e dalla disciplina della Chiesa, apostasia tanto peggiore dì quell’antica che mise in pericolo il secolo di Carlo, quanto più astutamente serpeggia occulta nelle vene stesse della Chiesa, quanto più sottilmente trae da principi erronei le conseguenze estreme. – Di ambedue, tuttavia, una stessa è l’origine: “l’uomo nemico“, cioè, che sempre desto a perdizione degli uomini “soprasseminò la zizzania in mezzo al grano” (Matth. XIII, 25):del pari soppiatte e tenebrose le vie; simile il processo e l’esito finale. Perocché, a quel modo che nel passato la prima apostasia voltandosi dove la fortuna secondava, veniva aizzando l’una e l’altra, o la classe dei potenti o dei popolani, per travolgere poi l’una e l’altra nella perdizione cosi questa moderna apostasia esaspera l’odio vicendevole dei poveri e dei ricchi, acciocché scontento ognuno della sua sorte tragga sempre più misera la vita e paghi il fio imposto a quelli che tutti fissi nelle cose terrene e caduche, non cercano il “regno di Dio e la sua giustizia. Anzi il presente conflitto è fatto anche più grave da ciò che, dove i turbolenti novatori dei tempi andati ritenevano per lo più qualche resto del tesoro della dottrina rivelata, i moderni sembra che non vogliano darsi pace finché non lo abbiano veduto interamente disperso. Ora, così rovesciando il fondamento della Religione, si scioglie necessariamente anche il vincolo della società civile. Spettacolo triste, al presente, minaccioso per l’avvenire; non perché vi sia da temere per l’incolumità della Chiesa, di cui non permettono dubbio le promesse divine, ma per i pericoli che sovrastano alle famiglie ed alle nazioni, massimamente a quelle che o fomentano con più studio o tollerano con più indifferenza questo pestifero soffio di empietà. – Fra una sì empia e stolida guerra, mossa talora e propagata con l’aiuto di quei medesimi che più dovrebbero appoggiarci e sostenere la nostra causa; fra un trasformarsi così molteplice degli errori e un blandire di vizi così vario, che dagli uni e dagli altri anche molti dei nostri si lasciano lusingare, sedotti dall’apparenza di novità e di dottrina, o dalla illusione che la Chiesa possa amichevolmente accordarsi con le massime del secolo, voi bene intendete, Venerabili Fratelli, che noi tutti dobbiamo opporre vigorosa resistenza e ribattere l’assalto dei nemici con quelle armi stesse, di cui un tempo usò il Borromeo. – E anzitutto, perché attentano alla rocca stessa che è la fede, o con l’aperta negazione, o con l’ipocrita impugnazione, o col travisarne le dottrine, ricorderemo quello che San Carlo spesso inculcava: “La prima e più grande cura dei Pastori deve essere intorno alle cose che riguardano il conservare integra e inviolata la Fede Cattolica, quella fede che la Santa Romana Chiesa professa e insegna, e senza la quale é impossibile piacere a Dio“(Conc. Prov. I, sub initium). E di nuovo: “In questa parte nessuna diligenza può essere così grande, quanto senza dubbio è richiesta dal bisogno“(Conc. Prov. V, pars I). Quindi è necessario di opporsi con la sana dottrina al “fermento dell’eretica pravità“che non represso corrompe tutta la massa, opporsi cioè alle perverse opinioni che s’infiltrano sotto mentite sembianze e che raccolte insieme sono professate dal modernismo; ricordando con San Carlo, “quanto sommo debba essere lo studio e diligentissima sopra ogni altra cura del Vescovo nel combattere il delitto dell’eresia“(Ibid.). – Né occorre, per verità, ricordare le altre parole del Santo che allega le sanzioni, le leggi, le pene poste dai Romani Pontefici contro quei prelati che fossero negligenti o rimessi nel purgare dall’eretica pravità la loro diocesi. Ma bene convenevole sarà riandare con attenta meditazione ciò che egli ne conclude: “Perciò deve il vescovo anzitutto persistere in questa sollecitudine perenne e vigilanza continua, acciocché non solo il morbo pestilentissimo dell’eresia non s’infiltri mai nel gregge a lui commesso, ma ne vada lontanissimo qualsiasi sospetto. E se poi, il che tolga Cristo Signore per la sua pietosa misericordia, s’infiltrasse, allora sopra tutto si adoperi con ogni sforzo perché sia ricacciato prestissimamente, e quelli che di tale pestilenza sono infetti o sospetti siano trattati a norma dei canoni e delle sanzioni pontificie” (Ibid.). – Ma né la liberazione, né la preservazione dalla peste degli errori è possibile, se non con una retta istruzione del clero e del popolo: poiché “la fede, dall’udito, e l’udito poi per la parola di Cristo“(Rom. X, 17).E la necessità d’inculcare la verità a tutti s’impone tanto maggiormente ai nostri giorni, mentre per tutte le vene dello Stato, e anche donde meno si crederebbe, vediamo infiltrarsi il veleno, a segno tale che per tutti valgono oggimai le ragioni addotte da San Carlo con queste parole: “Quei che confinano con gli eretici ove non fossero stabili e fermi nei fondamenti della fede, darebbero moltissimo a temere che non si lasciassero troppo facilmente tirare da essi in qualche inganno di empietà e di guasta dottrina“(Conc. Prov. V, pars I). Ora infatti per la facilità dei viaggi, sono cresciute le comunicazioni, come delle altre cose tutte, così anche degli errori, e per la sfrenata libertà delle passioni, viviamo in mezzo ad una società pervertita, ove “non é verità… e non esiste cognizione di Dio ” (Os. IV, 1); in una terra che è desolata… perché niuno vi è che pensi di cuore” (Ier. XX, 11).Perciò Noi, volendo usare le parole di San Carlo, “abbiamo adoperato finora molta diligenza perché tutti e singoli i fedeli di Cristo fossero bene istruiti nei rudimenti della fede cristiana“(Conc. Prov. V, pars I);e ne abbiamo anche scritto speciale Lettera Enciclica, come di argomento della più vitale importanza (Enc. “Acerbo nimis“, del 25 aprile 1905). Ma, sebbene non vogliamo ripetere ciò che ardendo di zelo insaziabile deplorava il Borromeo, cioè: “di aver ottenuto finora troppo poco in cosa di tonta rilevanza“, pure come lui, “indotti dalla grandezza del negozio e del pericolo“, vorremmo anche maggiormente infiammare lo zelo di tutti; perché prendendo Carlo a modello, concorrano, ciascuno secondo il grado e le forze, a quest’opera di restaurazione cristiana. Ricordino i padri di famiglia e i padroni con quale fervore ad essi inculcava il santo Vescovo costantemente, che ai figliuoli, ai domestici, ai servi, non solo dessero facoltà ma imponessero l’obbligo d’imparare la dottrina cristiana. I chierici si ricordino l’aiuto che in questo insegnamento debbono prestare al parroco, e questi procuri che siffatte scuole si moltiplichino secondo il numero e la necessità dei fedeli, e siano commendevoli per la probità dei maestri ai quali siano dati per aiutatori uomini o donne di provata onestà, a quel modo che prescrive lo stesso santo Arcivescovo di Milano (Conc. Prov. V, pars I). – Di tale cristiana istituzione appare evidentemente cresciuta la necessità sia da tutto l’andamento dei tempi e dei costumi moderni, sia specialmente da quelle pubbliche scuole, prive di ogni religione, dove si tiene quasi per sollazzo il deridere tutte le cose più sante, e del pari sono aperte alla bestemmia e le labbra dei maestri e le orecchie dei discepoli. Parliamo di quella scuola che si chiama per somma ingiuria neutra o laica, ma non è altro che tirannide prepotente di una setta tenebrosa. Un siffatto nuovo giogo di ipocrita libertà voi già denunciaste ad alta voce e intrepidamente, o Venerabili Fratelli, massime in quei paesi dove più sfrontatamente furono calpestati i diritti della Religione e della famiglia, anzi soffocata la voce stessa della natura che vuole rispettati la fede e il candore dell’adolescenza. A rimediare, per quanto era in Noi, a un sì gran male, recato da quelli stessi che, mentre pretendono dagli altri obbedienza, la negano al Padrone supremo di tutte le cose, abbiamo raccomandato che si istituissero per le città opportune scuole religiose. E sebbene quest’opera, mercé i vostri sforzi, abbia fatto finora assai buoni progressi, tuttavia è sommamente da desiderare che sempre più largamente si propaghi, cioè che siffatte scuole si aprano dappertutto numerose e fioriscano di maestri commendevoli per merito di dottrina e per integrità di vita. – Con tale insegnamento utilissimo dei primi elementi va strettamente congiunto l’ufficio dell’oratore sacro, nel quale a più forte ragione si ricercano le doti ricordate. Quindi le diligenze e i consigli di Carlo nei Sinodi provinciali e nei diocesani miravano con una cura specialissima a formare predicatori tali che si potessero adoperare santamente e con frutto nel “ministero della parola“. Ora la cosa stessa, e forse più fortemente, sembra richiesta a Noi dai tempi che corrono, mentre la fede vacilla in tanti cuori, né mancano di quelli che, per vaghezza di gloria vana, assecondano la moda, “adulterando la parola di Dio“, sottraendo alle anime il cibo della vita. – Con somma vigilanza, pertanto, Noi dobbiamo guardare, Venerabili Fratelli, che il vostro gregge da uomini vani e frivoli non sia pasciuto di vento, ma sia nutrito del cibo vitale da “ministri della parola, ai quali si applicano quelle sentenze: “Noi facciamo le veci di ambasciatori a nome di Cristo, quasi esortando Iddio per mezzo di noi: riconciliatevi. con Dio“(II Cor. V, 20); “da ministri e da legati che non camminano nell’astuzia, né corrompono la parola di Dio, ma si rendono commendevoli presso ogni coscienza degli uomini innanzi a Dio per la manifestazione della verità“(II Cor. IV, 2); “operai che non possono essere confusi e con rettitudine maneggiano la parola della verità“(II Tim. II, 15).E non meno utili cisaranno quelle norme santissime e sommamente fruttuose che il Vescovo di Milano soleva raccomandare ai fedeli, e sono compendiate da quelle parole di San Paolo: “Avendo ricevuto da noi la parola della predicazione di Dio, voi l’accoglieste non come parola umana, (ma qual è veramente) parola di Dio, la quale opera in voi che avete creduto“(I Thess. II, 13). – Cosi la “parola di Dio, viva, efficace, più penetrativa di ogni spada“(Hebr. VI, 12) opererà non solo a conservazione e a difesa della fede, ma ad efficace impulso delle buone opere: giacché “la fede senza le opere è morta“(Iac. II, 26);”e non saranno giustificati innanzi a Dio quelli che ascoltano la legge, ma quei che la legge mettono in esecuzione“(Rom. II, 13). – Ed è questo un altro punto in cui si vede quanto immenso è il divario della vera dalla falsa riforma. Poiché quelli che propugnano la falsa, imitando la costanza degli stolti, sogliono ricorrere agli estremi, o esaltando la fede per modo da escludere la necessità delle buone opere, o collocando nella sola natura tutta la eccellenza della virtù senza gli aiuti della fede e della grazia divina. Onde segue che gli atti provenienti dalla sola onestà naturale, non sono altro che simulacri di virtù né durevoli in sé, né sufficienti alla salute. L’opera adunque di siffatti informatori non è valevole a restaurare la disciplina, ma esiziale alla fede ed ai costumi. – Al contrario, quelli che, ad esempio di San Carlo, sinceramente e senza raggiri cercano la vera e salutare riforma, evitano gli estremi, né mai trascorrono oltre quei limiti fuori dei quali non può sussistere riforma alcuna. Poiché, uniti essi fermissimamente alla Chiesa e al loro Capo Cristo, non solo di qui attingono forza di vita interiore, ma anche ricevono norma di azione esteriore, per accingersi con sicurezza all’opera sanatrice della umana società. Ora di questa divina missione, trasmessa perpetuamente in quelli che debbono fare da legati di Cristo, è proprio “l’insegnare a tutte le genti“,né solamente le cose da credere, ma quelle da operare, cioè come pronunziò Cristo stesso, “osservare tutte quelle cose che io vi ho comandato“(Matth. XXVIII, 18-20). Egli infatti è “vita, verità e vita” (Ioan. XIV, 6),ed è venuto perché gli uomini “abbiano la vita e l’abbiano con esuberanza” (Ioan. X, 10). Ma poiché l’adempiere quei doveri tutti con la sola guida della natura è molto al di sopra di ciò che possano per sé conseguire le forze dell’uomo, perciò la Chiesa ha, insieme col suo Magistero, congiunto il potere di governare la società cristiana e di santificarla, mentre per mezzo di quelli che nel loro proprio grado ed officio le sono ministri e cooperatori, viene comunicando gli opportuni e necessari mezzi della salute. – Il che bene intendendo i veraci riformatori, non soffocano essi i germogli per porre in salvo la radice, cioè dire non disgiungono la fede dalla santità della vita, ma l’una e l’altra alimentano e riscaldano al soffio della carità, la quale è “vincolo della perfezione” (I Coloss. III, 14). Cosi pure, ubbidendo all’Apostolo, essi “custodiscono il deposito” (I Tim. VI, 20), non già per impedirne la manifestazione e sottrarne la luce alle genti, ma per diramare anzi con più larga vena le acque saluberrime di verità e di vita che sgorgano da quella sorgente. E in ciò congiungono la teoria alla pratica, di quella valendosi a prevenire ogni “circonvenzione dell’errore“, di questa ad applicare i precetti alla morale ed all’azione della vita. Perciò anche procurano i mezzi tutti, od opportuni o necessari al fine, sia per la estirpazione del peccato sia per “la perfezione dei santi, per l’opera del ministero, l’edificazione del corpo di Cristo” (Eph. IV, 12). E a questo mirano appunto gli statuti, i canoni, le leggi dei Padri e dei Concili; a questo i mezzi tutti d’insegnamento, di governo, di santificazione, di beneficenza d’ogni fatta; a questo insomma la disciplina e l’operosità intera della Chiesa. A tali maestri della fede e della virtù tiene rivolto l’occhio e l’animo il vero figlio della Chiesa, mentre si propone la riforma di sé e degli altri. E a tali maestri pure si appoggia il Borromeo nella sua riforma della disciplina ecclesiastica, e spesso li ricorda, come quando scrive: “Noi, seguendo l’antica consuetudine ed autorità dei Santi Padri e dei sacri Concili, principalmente del Sinodo ecumenico di Trento, abbiamo stabilito intorno a questi punti stessi nei nostri precedenti Concili provinciali molte disposizioni“. Similmente, nel prendere provvedimenti di repressione dei pubblici scandali, egli si professa guidato “e dal diritto e dalle sacrosante sanzioni dei sacri canoni, e del Concilio Tridentino soprattutto“. (Conc. Prov. V, pars I). – Né contento di ciò, per meglio assicurarsi di non avere mai a dipartirsi dalla regola suddetta, così di solito conchiude gli statuti dei suoi Sinodi provinciali: “Tutte e singole quelle cose che da noi in questo Sinodo provinciale furono decretate e fatte, sottomettiamo sempre, perché sieno emendate e corrette, all’autorità ed al giudizio della Santa Romana Chiesa, di tutte le Chiese madre e maestra” (Conc. Prov. VI, sub finem).E questo suo proposito egli mostrò sempre più fervido, quanto più si avanzava a gran passo nella perfezione della vita attiva; né solo finché occupava la cattedra di Pietro il pontefice suo zio, ma anche sotto i costui successori, Pio V e Gregorio XIII, dei quali, com’egli potentemente suffragò la elezione, così nelle maggiori imprese fu valido aiuto, corrispondendo interamente alla loro aspettazione. – Ma soprattutto li secondò nell’attuare i mezzi pratici per il fine propostosi, cioè per la vera riforma della sacra disciplina. Nel che, di nuovo, si mostrò egli più che mai lontano dai riformatori falsi che mascherano di zelo la loro disubbidienza ostinata. Quindi, cominciando il “giudizio della Casa di Dio“(I Petr. IV, 17), si applicò anzitutto a riformare con leggi costanti la disciplina del clero; e a questo fine eresse seminari per gli alunni del sacerdozio, fondò congregazioni di sacerdoti, che ebbero nome di oblati, chiamò famiglie religiose e antiche e recenti, radunò Concili e con ogni sorta di provvedimenti assicurò e crebbe l’opera incominciata. Indi, senza ritardo, pose mano egualmente vigorosa a riformare i costumi del popolo, ritenendo per detto a sé quello che già fu detto al profeta: “Ecco, io ti ho stabilito oggi… perché tu sradichi e distrugga, perché disperda e dissipi, edifichi e pianti” (Ier. I, 10).Perciò da buon pastore, visitando personalmente le chiese della provincia, non senza gran fatica, a somiglianza del divino Maestro, “passò beneficando e sanando“le ferite del gregge; si affaticò con ogni sforzo a sopprimere e sradicare gli abusi che da per tutto s’incontravano, provenienti sia dall’ignoranza, sia dalla trascuranza delle leggi; alla perversione delle idee ed alla corruzione dei costumi straripante oppose, quasi argine, scuole e collegi, ch’egli apri per l’educazione dei fanciulli e dei giovanetti, congregazioni mariane, che egli accrebbe dopo averle conosciute al loro primo fiorire qui in Roma, ospizi, che egli schiuse alla gioventù orfana, ricoveri, che aperse alle pericolanti, alle vedove, ai mendichi o impotenti per malattia o per vecchiaia, uomini e donne; la tutela ch’egli prese dei poveri contro la prepotenza dei padroni, contro le usure, contro la tratta dei fanciulli, e simili altre istituzioni in gran numero. Ma tutto ciò egli operò aborrendo totalmente dal metodo di coloro che, nel rinnovare a loro senno la cristiana società, mettono tutto sossopra e in agitazione, con vanissimo strepito, dimentichi della parola divina: “nella commozione non è il Signore” (I Reg. XIX, 11). – È questo appunto un nuovo distintivo dei veri riformatori dai falsi, come più volte voi avete conosciuto a prova, Venerabili Fratelli. I riformatori falsi cercano “i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo“(Philip. II, 21), e dando orecchio all’invito insidioso già fatto al divino Maestro: “Va’ e mostrati al mondo“(Ioan. VII, 4), ripetono anch’essi le parole ambiziose: “Facciamoci anche noi un nome. Per la quale temerità, come pur troppo deploriamo anche ai nostri giorni, “caddero dei sacerdoti in guerra, nell’atto che pretendevano fare cose grandi, e uscivano alla mischia senza prudenza” (I Machab. V, 57-67). – Al contrario il riformatore sincero “non cerca la sua gloria, ma la gloria di Colui che lo ha mandato“(Ioan. VII, 18),e come Cristo, suo esemplare, “non contenderà, né griderà, né alcuno udirà la sua voce per le piazze; non sarà torbido né irrequieto (Is. XLII, 2 segg.; Matth. XII, 19), ma sarà “dolce e umile di cuore” (Matth. XI, 29). Quindi egli piacerà al Signore e riporterà frutti copiosissimi di salute. – Per un altro distintivo ancora si differenziano l’uno dall’altro: mentre quegli, appoggiato solo alle forze umane, “confida nell’uomo e pone la sua fortezza nella carne” (Ier. XVII, 5), questi invece mette in Dio tutta la sua speranza; da Lui e dai mezzi soprannaturali aspetta ogni forza e virtù, esclamando con l’Apostolo: “Ogni cosa io posso in Colui che mi conforta” (Phil. IV, 13). – Questi mezzi, che Cristo comunicò in larga copia, il fedele cerca nella Chiesa stessa a comune salvezza, e primi fra essi la preghiera, il sacrificio, i Sacramenti, i quali divengono quasi “fonte di acqua che sale alla vita eterna” (Ioan. IV, 14).Ma di tutti questi mezzi mal sofferenti coloro che per vie traverse e dimentichi di Dio si affannano intorno all’opera della riforma, mai non cessano di intorbidare quelle fonti purissime, se non del tutto disseccarle, per tenerne lontano il gregge di Cristo. Nel che certo fanno anche peggio i loro moderni seguaci, che sotto una certa maschera di più alta religiosità, hanno in niun conto quei mezzi di salute e li mettono in discredito, particolarmente i due Sacramenti, coi quali o si perdonano i peccati alle anime pentite, o si fortificano le anime col cibo Celeste. Ogni fedele pertanto procurerà con sommo studio che benefizi di così gran pregio siano tenuti nel massimo onore, né soffrirà che l’affetto degli uomini illanguidisca verso queste due opere della carità divina. – Cosi appunto si adoperò il Borromeo, del quale fra le altre cose leggiamo scritto: “Quanto maggiore e più copioso é il frutto dei Sacramenti di quello che se ne possa spiegare facilmente il valore, con tanta più diligenza e intima pietà dell’anima ed esterno culto e venerazione si devono trattare e ricevere” (Conc. Prov. I, pars II). Del pari degnissime di essere ricordate sono le raccomandazioni onde egli esorta i Parroci e altri sacri predicatori di richiamare alla pratica antica la frequenza della santa Comunione, il che pure Noi abbiamo fatto col Decreto che incominciava: “Tridentina Synodus“. “I Parroci e i Predicatori, dice il santo Vescovo, esortino quanto più spesso il popolo alla pratica salutarissima di ricevere frequentemente la sacra Eucaristia, appoggiandosi alle istituzioni ed agli esempi della Chiesa nascente, alle raccomandazioni dei Padri più autorevoli, alla dottrina del catechismo romano, in questo stesso punto più distesamente spiegata, e alla sentenza infine del Concilio Tridentino il quale vorrebbe che in ogni Messa i fedeli si comunicassero non solo con ricevere l’Eucaristia spiritualmente, ma anche sacramentalmente” (Conc. Prov. III, pars I). Con quale intenzione poi, con quale affetto si debba frequentare questo sacro convito, lo insegna con queste parole: “Il popolo non solo deve essere spronato alla pratica di ricevere frequentemente il Santissimo Sacramento, ma pure ammonito quanto sia pericoloso ed esiziale l’accostarsi indegnamente alla sacra mensa di quel cibo divino” (Conc. Prov IV, pars II). E una simile diligenza sembra richiesta massimamente ai tempi nostri di fede vacillante e di carità illanguidita, acciocché dalla cresciuta frequenza non venga sminuita la riverenza debita a tanto mistero, ma piuttosto se ne tragga motivo a far che “l’uomo provi se stesso e così mangi di quel pane e beva del calice“(I Cor. XI, 28). – Da queste fonti sgorgherà una ricca vena di grazie e da essa trarranno vigore ed alimento anche i mezzi naturali ed umani. Né l’azione del Cristiano disprezzerà punto le cose utili e di conforto alla vita, venendo anch’esse dal medesimo Iddio, Autore della grazia e della natura; ma eviterà con gran diligenza che in cercare e godere le cose esterne e i beni del corpo, si riponga il fine e quasi la felicità di tutta la vita. Chi vuole pertanto usare di questi mezzi con rettitudine e temperanza, li ordinerà alla salute delle anime, ubbidendo al detto di Cristo: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date per giunta” (Luc. XII, 31; Matth. VI, 33). – Un siffatto uso di mezzi ordinato e sapiente tanto è lungi che mai venga ad opporsi al bene di ordine inferiore, cioè proprio della società civile, che anzi ne promuove in gran maniera gli interessi; né già con vana iattanza di parole, com’è il costume dei faziosi riformatori, ma coi fatti e col sommo sforzo, fino al sacrificio delle sostanze, delle forze e della vita. Di tali fortezze ci dànno esempio soprattutto molti Vescovi, i quali, in tempi tristi per la Chiesa, emulando lo zelo dì Carlo, avverano le parole del divino Maestro: “Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle” (Ioan. X, 11). Essi non da bramosia di gloria, non da spirito di parte, non da stimolo di alcun privato interesse sono tratti a sacrificarsi per la salvezza comune, ma da quella carità “che mai non vien meno“. Da questa fiamma, che sfugge agli occhi profani, acceso il Borromeo, dopo essersi esposto a pericolo di vita nel servire gli appestati, non contento di aver sovvenuto ai mali presenti, così mostravasi ancora sollecito dei futuri: “È affatto conforme ad ogni ragione che, in quel modo onde un ottimo padre, il quale ama di amore unico i suoi figliuoli, provvede ad essi sia per il presente come per il futuro, preparando le cose necessarie per la vita, così noi, mossi dal debito dell’amore paterno, provvediamo ai fedeli della nostra provincia con ogni precauzione e prepariamo per l’avvenire quegli aiuti che nel tempo della peste abbiamo conosciuto per esperienza essere salutari“(Conc. Prov. V, pars II). – I medesimi disegni e propositi di affettuosa provvidenza, Venerabili Fratelli, trovano una pratica occupazione in quell’azione cattolica che spesse volte abbiamo raccomandato. E a parte di questo apostolato nobilissimo, il quale abbraccia tutte le opere di misericordia da premiarsi col regno eterno (Matth. XXV, 34 e segg.), sono chiamati gli uomini scelti del laicato. Ma essi, accogliendo in sé questo peso, devono essere pronti e addestrati a sacrificare interamente se stessi e tutte le cose loro per la buona causa, a sostenere l’invidia, la contraddizione e anche l’avversione di molti che ricambiano d’ingratitudine i benefizi, a faticare ognuno come “buon soldato dì Cristo” (II Tim. II, 3), a correre “per la via della pazienza al certame propostoci, riguardando all’autore e consumatore della fede Gesù” (Hebr. XII, 1, 2). Lotta certamente ben dura, ma efficacissima al benessere stesso della società civile, anche quando ne sia ritardata la piena vittoria. – Anche per questo ultimo punto ora menzionato, si possono ammirare esempi splendidi di San Carlo, e da essi prendere, ciascuno secondo la propria condizione, di che imitare e confortarsi. Benché, infatti, e la virtù singolare e l’operosità meravigliosa e la profusa carità lo facessero tanto ragguardevole, neppure egli tuttavia andò esente da questa legge: “Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù, patiranno persecuzioni” (II Tim. III, 12). Quindi perciò stesso ch’egli seguiva un tenore di vita più austero, che sosteneva sempre la rettitudine e l’onestà, che sorgeva vindice incorrotto delle leggi e della giustizia, si guadagnò l’avversione di uomini potenti; si trovò esposto a raggiri di diplomatici; venne talora in diffidenza ai nobili, al clero ed al popolo, e infine si trasse addosso l’odio mortale dei malvagi, e ne fu cercato a morte 2. Ma a tutto egli resistette con animo invitto, sebbene d’indole mite e soave. – Né solo non cedette mai a cosa che fosse esiziale alla fede ed ai costumi, ma neppure a pretensioni contrarie alla disciplina e gravose al popolo fedele, ancorché attribuite ad un monarca potentissimo e nel resto cattolico. Memore delle parole di Cristo: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che é di Dio” (Matth. XXII, 21),come pure della voce degli Apostoli: “Meglio é obbedire a Dio che agli uomini“(Act. V, 29), egli si rese benemerito al sommo, non della causa della Religione solamente, ma della civile società, la quale, pagando il fio della sua stolta prudenza e sommersa quasi dalla tempesta delle sedizioni da sé eccitate, correva a morte certissima. – La medesima gloria e gratitudine sarà dovuta ai Cattolici del nostro tempo e ai valorosi condottieri, i Vescovi, mentre né gli uni né gli altri verranno mai a mancare in parte alcuna ai doveri che sono propri dei cittadini, sia che trattisi di serbare fedeltà e rispetto ai “dominanti anche discoli” quando comandino cose giuste, sia di ripugnare ai loro comandi quando siano iniqui, tenendo lontana del pari e la pervicace ribellione di quelli che corrono alle sedizioni ed ai tumulti, e la servile abiezione di quelli che accolgono quasi leggi sacrosante gli statuti manifestamente empi di uomini perversi, i quali col mentito nome di libertà sconvolgono ogni cosa e impongono la tirannide più dura. Ciò avviene al cospetto del mondo e alla piena luce della moderna civiltà, in qualche nazione specialmente, ove il “potere delle tenebre” sembra che abbia messa la sua sede principale. Sotto quella prepotente tirannide vanno calpestati miseramente i diritti tutti dei figliuoli della Chiesa, spento affatto nei governanti ogni senso di generosità, di gentilezza e di fede, onde per tanto tempo splenderono i loro padri, insigni del titolo di Cristiani. Tanto è evidente che, entrato l’odio di Dio e della Chiesa, si torna addietro in ogni cosa, e si corre a precipizio verso la barbarie dell’antica libertà, o piuttosto giogo crudelissimo, da cui la sola famiglia di Cristo e l’educazione da lei introdotta ci ha sottratti. Ovvero, come esprimeva la cosa stessa il Borromeo, tanto è “cosa certa e riconosciuta, che da nessuna altra colpa è Dio più gravemente offeso, da nessuna provocato a maggiore sdegno quanto dal vizio delle eresie, e che a sua volta nulla può tanto a rovina delle province e dei regni, quanto può quell’orrida peste” (Conc. Prov. V, pars I). Senonché molto più funesta si deve stimare l’odierna congiura di strappare le nazioni cristiane dal seno della Chiesa, come dicemmo. I nemici infatti, sebbene discordissimi di pensieri e di volontà, ciò che è contrassegno certo dell’errore, in una cosa solo si accordano, nell’oppugnazione ostinata della verità e della giustizia; e poiché dell’una e dell’altra custode e vindice è la Chiesa, contro la Chiesa sola, strette le loro file, muovono all’assalto. E benché vadano dicendo di essere imparziali o di promuovere la causa della pace, altro in verità non fanno, con dolci parole ma non dissimulati propositi, se non tendere insidie, per aggiungere il danno allo scherno, il tradimento alla violenza. Con un nuovo metodo di lotta è ora dunque assalito il nome cristiano; e una guerra si muove di gran lunga più pericolosa che non le battaglie prima combattute, dalle quali raccolse tanta gloria il Borromeo. – Di qui noi tutti prendendo esempio ed istruzione, ci animeremo a combattere da forti per i più grandi interessi, da cui dipende la salvezza degl’individui e della società, per la fede e la Religione, per l’inviolabilità del pubblico diritto; combatteremo sforzati certo da un’amara necessità, ma confortati insieme da una soave speranza che la onnipotenza di Dio affretterà la vittoria a chi combatte in così gloriosa battaglia. A tale speranza aggiunge vigore l’efficacia potente, perpetuata fino ai giorni nostri, dell’opera di San Carlo, sia per fiaccare l’orgoglio delle menti, sia per assodare l’animo nel proposito santo di restaurare ogni cosa in Cristo. – Ed ora, Venerabili Fratelli, noi possiamo conchiudere con le parole stesse, onde il Nostro Antecessore, Paolo V, più volte menzionato, conchiudeva le lettere che decretavano a Carlo i supremi onori: “È giusto per tanto, che noi rendiamo gloria e onore e benedizione a Colui che vive nei secoli dei secoli, il quale benedisse il nostro conservo in ogni benedizione spirituale, perché fosse santo e immacolato innanzi a Lui. E avendocelo dato il Signore come una stella fulgente in questa notte di peccato, di tribolazioni nostre, ricorriamo alla divina clemenza, con la bocca e coll’opera supplicando, acciocché Carlo alla Chiesa che egli amò tanto ardentemente, giovi altresì coi meriti e coll’esempio, assista col patrocinio e nel tempo dello sdegno si faccia riconciliazione per Cristo nostro Signore” (Bolla “Unigenitus“).

Si aggiunga a questi voti e ponga il colmo alla comune speranza l’auspicio della Benedizione Apostolica, che a voi, Venerabili Fratelli, al clero e al popolo di ciascuno di voi, con vivo affetto impartiamo.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 26 maggio 1910, VII del Nostro Pontificato.

DOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE (2019)

DOMENICA XVIII DOPO PENTECOSTE (2019)

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Eccli XXXVI: 18
Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël [O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]Ps CXXI: 1
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.
[Mi rallegrai per ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore].
Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël
[O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Oratio

Orémus.
Dírigat corda nostra, quǽsumus, Dómine, tuæ miseratiónis operátio: quia tibi sine te placére non póssumus.
[Te ne preghiamo, o Signore, l’azione della tua misericordia diriga i nostri cuori: poiché senza di Te non possiamo piacerti.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor 1: 4-8
Fratres: Grátias ago Deo meo semper pro vobis in grátia Dei, quæ data est vobis in Christo Jesu: quod in ómnibus dívites facti estis in illo, in omni verbo et in omni sciéntia: sicut testimónium Christi confirmátum est in vobis: ita ut nihil vobis desit in ulla grátia, exspectántibus revelatiónem Dómini nostri Jesu Christi, qui et confirmábit vos usque in finem sine crímine, in die advéntus Dómini nostri Jesu Christi.

 Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,

LA GRATITUDINE VERSO DIO

“Fratelli: Io rendo continuamente grazie al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù; perché in lui siete stati arricchiti di ogni cosa, di ogni dono di parola e di scienza, essendosi stabilita solidamente in mezzo a voi la testimonianza di Cristo, in modo che nulla vi manca rispetto a qualsiasi grazia; mentre aspettate la manifestazione di nostro Signor Gesù Cristo, il quale vi manterrà pure saldi sino alla fine, così da essere irreprensibili nel giorno della venuta del nostro Signor Gesù Cristo”. (I Cor. 1, 4-8).

Questo brano è tolto dall’introduzione alla prima lettera di San Paolo a quei di Corinto. Nei primi versetti, saluta i Corinti nella sua qualità di Apostolo, e augura loro da Dio la grazia e la pace. Poi — come vediamo dalle parole riportate — assicura che ringrazia continuamente Dio per la grazia concessa a quei di Corinto per mezzo di Gesù Cristo. Grazia che non fu senza frutto; perché, mediante la loro unione con Gesù Cristo, i Corinti ebbero grande abbondanza di doni spirituali; in modo particolare ebbero la rivelazione delle verità del Vangelo, e la loro profonda intelligenza. Spera, poi, che Dio li assista per tutta la vita, così che si trovino con la coscienza monda nel giorno del giudizio. Il ringraziamento che l’Apostolo fa a Dio per l’abbondanza dei doni fatti ai Corinti ci ricorda il dovere della gratitudine verso Dio.

1. Dobbiamo esser grati a Dio per i benefici ricevuti;

2. Non a fior di labbra solamente;

3. Ci disporremo così a ricevere maggiori favori.

1.

Fratelli : lo rendo continuamente grazie al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù. L’apostolo fa tanto conto della gratitudine che si deve a Dio per i doni di cui ricolma gli uomini che ringrazia senza interruzione Dio, per l’abbondanza di grazie di cui ha favorito i Corinti. L’obbligo di ringraziare debitamente chi è largo dei suoi doni spetta in modo particolare a coloro stessi che hanno ricevuto il dono. E nessuno mette in dubbio che, venendo meno a questo obbligo, si fa cosa biasimevole. Sarà meno biasimevole l’ingratitudine se riguarda i benefici ricevuti da Dio? Eppure, nessuno è più pagato d’ingratitudine che nostro Signore. Chi può enumerare i benefìci da Lui ricevuti e apprezzarli in tutta la loro grandezza! La nostra esistenza, la conservazione, l’intelligenza, la santità, il cibo che mangiamo, l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo, la terra che ci porta, tutto quantoricrea e ci solleva sono dono di Dio. Se parliamo delle grazie e dei doni spirituali, con i quali ci ricolma per i meriti di Gesù Cristo, non troviamo parole sufficienti a celebrare la sua larghezzaverso di noi. Cerchi l’uomo, se può, qualche cosa che non abbia ricevuto da Dio: cercherà invano. Una cosa sola troverà che non abbia ricevuto da Dio: il peccato. E troverà che, nonostante i suoi peccati, Dio lo ha sopportato. Egli ha abbandonato il Signore, ma il Signore, non ha abbandonato lui. “Se pensassi a ciò, ti sentiresti certamente obbligato al tuo Dio, dal quale tieni tutto quello che possiedi di buono; e dalla cui misericordia ti vien rimesso tutto quello che hai di cattivo” (S. Agostino, in En. in Ps. XLIX, 21). Non solo è un beneficio di Dio la remissione dei peccati, che abbiamo commessi, ma anche la preservazione da più numerose cadute. « Se ci sentiamo in dovere di mostrare il nostro grato animo agli amici, quando ci aiutano a liberarci da qualche noia, da qualche condizione scabrosa o da qualche pericolo che si sovrasta, molto più dobbiamo esser pronti all’ossequio quando vediamo i molti pericoli cui siamo sfuggiti, perché Dio ce ne ha liberati » (S. Giov. Crisostomo. In Epist. ad Tit. I, 1). È più ancora dobbiamo esser spinti all’ossequio e a dimostrare il nostro grato animo a Dio, se pensiamo che i suoi benefici non sono una retribuzione o una ricompensa, ma effetto di pura generosità. «Che cosa fece l’uomo in precedenza, se non peccare?» (S. Agostino. En. In Ps. CXV, 4). Egli si era meritati castighi e non doni. E neppure Dio ci ha largito i suoi doni, perché avesse bisogno di qualche cosa| da parte nostra. « Come potrebbe aver bisogno delle cose nostre quegli, per il quale esiste tutto ciò che è nostro »(S. Ilario, De Trin. L. 3, 7). E d’altronde noi non potremmo mai rendere a Dio la ricompensa dovuta per i suoi doni. Questo però non ci dispensa dall’obbligo della gratitudine: anzi, deve risvegliarne maggiormente i sentimenti nei nostri cuori. Davide si domanda : « Che renderò al Signore per tutti i benefici da lui ricevuti? Prenderò il calice di salute invocando il nome del Signore » (Salm. CXV, 12-13). Questo dobbiamo fare anche noi: rendere a Dio il sacrificio del ringraziamento e della lode. –

2.

Se l’Apostolo ringrazia Dio per i doni elargiti ai Corinti, questi non rimangono inerti. Ringraziano Dio coi fatti, non lasciando infruttuose le grazie ricevute. Mediante la fede e la carità essi si mantengono in intima unione con Gesù Cristo, e in questa unione sono arricchiti d’ogni cosa. Nulla vi manca — dice l’Apostolo — rispetto a qualsiasi grazia; rispetto alle grazie necessarie alla salute propria, e rispetto alle grazie che rendono utile agli altri chi le possiede. I Corinti sapevano usar bene delle grazie ricevute, e il buon uso delle grazie è già un ringraziamento; è un ringraziamento che si dimostra con le opere. Noi ringraziamo il Signore con le opere, mostrandogli la nostra gratitudine, quando diamo a Lui quanto gli aspetta. A lui dobbiamo dare il nostro tempo, impiegandolo nel suo servizio almeno i giorni stabiliti; a Lui dobbiamo dare la nostra intelligenza, sottomettendola docilmente alle verità della nostra santa fede; dobbiamo dare la nostra volontà conformandola alla sua legge; a Lui dobbiamo dare il nostro corpo, con una vita lontana dalle impudicizie, dalle crapule, dalle ubriachezze; a Lui dobbiamo dare la nostra lingua, non imbrattandola con discorsi meno belli, con mormorazioni, con bestemmie. – Si mostra a Dio la nostra gratitudine, servendolo senza tristezza. Siamo tristi perché giudichiamo che altri siano più favoriti che noi. Con questa nostra tristezza veniamo a giudicare l’operato del Signore. Crediamo di non esser trattati bene come gli altri, e non ci sentiamo di accettare la misura da Lui stabilita nella distribuzione dei suoi favori. Gli operai chiamati per primi a lavorare nella vigna, come è detto nella parabola del Vangelo, invece di ringraziare il padrone, quando alla fine della giornata fa distribuire la paga convenuta, brontolano come fossero trattati ingiustamente, perché il padrone ha creduto bene di abbondare con quelli venuti a lavorare per ultimi. Così facciamo anche noi, quando giudichiamo di essere trattati meno generosamente degli altri. Siamo tristi perché ci consideriamo retribuiti al di sotto dei nostri meriti. Quanto abbiamo da Dio, sia tanto, sia poco, è tutto dono di Lui: e dobbiamo in ogni tempo e in ogni luogo mostrarci lieti e contenti della sua generosità. Si mostra pure gratitudine a Dio accettando con animo tranquillo, sottomesso alla sua volontà, i dolori con cui ci purifica. L’uomo che nutre sentimenti di gratitudine verso Dio, datore di ogni bene, in queste circostanze pensa: I miei peccati meritano forse una ricompensa? È vero, Dio mi prova; ma le mie mancanze meritano ancor di più: Dio è pur buono con me. Con questi dolori mi dà modo di espiare i miei peccati: io gli devo esser grato.

3.

I Corinti, finché saranno su questa terra avranno, come tutti i Cristiani, da combattere contro nemici d’ogni genere, ma l’Apostolo spera che Dio li fortificherà con la sua assistenza, mantenendoli saldi sino alla fine, così da essere irreprensibili nel giorno della venuta del nostro Signor Gesù Cristo. Senza l’assistenza di Dio nessuno potrà perseverare sino all’ultimo. Il mostrarsi grati dei benefici ricevuti è un mezzo efficace per assicurasi questa assistenza. Dopo un luogo periodo di pioggia si invoca un vento di tramontana, che spazzi via le nubi e riconduca il sereno. Ma se il vento è troppo forte e duri a lungo, distrugge presto i benefici della pioggia disseccando il terreno. L’ingratitudine è precisamente come un vento impetuoso che asciuga la sorgente dei benefici. « Perciò è un grave pericolo per gli uomini mostrarsi ingrati a Dio, obliarne i benefici, non far penitenza dopo il castigo, e non rallegrarsi del perdono» (S. Leone Magno: Serm. 84, 1). – Al contrario, la gratitudine predispone il benefattore a concedere nuovi benefici. La gratitudine è lo sprone dei benefìzi, dice un proverbio tedesco. Fermiamoci nel campo della gratitudine verso Dio. Apriamo il Vangelo. Un giorno Gesù, nel recarsi a Gerusalemme attraverso la Samaria e la Galilea, è incontrato da dieci lebbrosi, che da lontano alzano la voce dicendo: «Gesù Maestro, abbi pietà di noi». E Gesù, mosso a pietà, li guarisce. Di questi dieci, uno solo, un Samaritano, si mostra grato del beneficio ricevuto, prostrandosi ai piedi di Gesù, e ringraziandolo. Gesù, che biasima il contegno dei nove lebbrosi i quali non hanno sentito il dovere della gratitudine, apprezza la dimostrazione di riconoscenza di questo estraneo. Il guarito è un Samaritano, cioè appartiene a gente odiatissima dai Giudei, e Gesù ne fa l’elogio: «Non si è trovato chi tornasse a dar gloria a Dio, salvo questo straniero». Gli richiama alla mente quale fu la causa della sua guarigione: «La tua fede ti ha salvato»; e gli apre la via anche alla salvezza dell’anima, mediante la fede in Gesù Cristo (Luc. XVII,11-19). – Come l’ingratitudine ha per base la superbia, perché l’ingrato stima che tutto quello che ha gli sia dovuto, così la gratitudine ha per base l’umiltà, poiché tutto quanto si possiede è riconosciuto come dono della bontà di Dio, a cui da parte nostra non si ha alcun diritto. E Dio predilige in modo particolare gli umili, come attesta la S. Scrittura: «Dio resiste ai superbi, ma agli umili dà grazia» (Giac. IV, 6). Il ringraziamento, fatto non a fior di labbra soltanto, ma accompagnato da umili sentimenti interni, è come un soave fumo d’incenso che, salendo a Dio, si trasforma in pioggia di nuovi benefici. Assuefiamoci a ringraziar Dio tutti i giorni, assuefiamoci a ringraziarlo fin dai primi anni della vita. Quando il Card. Mercier, sottraendosi per qualche giorno ai profondi studi e alle gravi cure amministrative, si ritirava in campagna a Braine-D’Alleud, incontrava tal volta, nella passeggiata serale attraverso i campi, qualche gruppo di bambini di ritorno dalla scuola. Egli li fermava additando loro le colline rivestite d’oro e di porpora sotto i raggi del sole morente, e diceva: «Guardate, piccini, che bellezza! Chi ha fatto tutto questo? — Il buon Dio. — Si, bambini; ma bisogna ringraziarlo d’avervi fatto così bei doni, e soprattutto bisogna amarlo » (Mgr. Laveille, Le Cardinal Mercier, Paris 1927, p. 116-117). – L a Chiesa, in certe circostanze dell’anno, specialmente nell’ultimo giorno, ci chiama a ringraziar Dio per i benefici ricevuti. Chi sente l’obbligo della gratitudine, non aspetta queste circostanze: lo ringrazia ogni giorno e in ogni luogo, perché in ogni giorno e in ogni luogo trova da ammirare i benefici di Dio. È un dovere di giustizia ed è nostro interesse. Perciò la Chiesa va ripetendo ogni giorno: «E’ veramente cosa degna e giusta, conveniente e salutare, che sempre e in ogni luogo noi ti rendiamo grazie, Padre Onnipotente, Eterno Iddio, per Cristo Signor nostro» (Prefazio com. della Messa).

Graduale

Ps CXXI: 1; 7
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

Alleluja

V. Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. Allelúja, allelúja

Ps CI: 16
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. Allelúja.
[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: e tutti i re della terra la tua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. IX: 1-8
“In illo témpore: Ascéndens Jesus in navículam, transfretávit et venit in civitátem suam. Et ecce, offerébant ei paralýticum jacéntem in lecto. Et videns Jesus fidem illórum, dixit paralýtico: Confíde, fili, remittúntur tibi peccáta tua. Et ecce, quidam de scribis dixérunt intra se: Hic blasphémat. Et cum vidísset Jesus cogitatiónes eórum, dixit: Ut quid cogitátis mala in córdibus vestris? Quid est facílius dícere: Dimittúntur tibi peccáta tua; an dícere: Surge et ámbula? Ut autem sciátis, quia Fílius hóminis habet potestátem in terra dimitténdi peccáta, tunc ait paralýtico: Surge, tolle lectum tuum, et vade in domum tuam. Et surréxit et ábiit in domum suam. Vidéntes autem turbæ timuérunt, et glorificavérunt Deum, qui dedit potestátem talem homínibus”.

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XLVI

 “In quel tempo Gesù montato in una piccola barca, ripassò il lago, e andò nella sua città. Quand’ecco gli presentarono un paralitico giacente nel letto. E veduta Gesù la loro fede, disse al paralitico; Figliuolo, confida: ti son perdonati i tuoi peccati. E subito alcuni Scribi dissero dentro di sé: Costui bestemmia. E avendo Gesù veduti i loro pensieri, disse: Perché pensate male in cuor vostro? Che è più facile, di dire: Ti sono perdonati i tuoi peccati; o di dire: Sorgi e cammina? Or affinché voi sappiate che il Figliuol dell’uomo ha la podestà sopra la terra di rimettere i peccati: Sorgi, disse Egli allora al paralitico, piglia il tuo letto e vattene a casa tua. Ed egli si rizzò, e andossene a casa sua. Ciò udendo le turbe s’intimorirono e glorificarono Dio che tanta potestà diede ad uomini”.

Tutte le opere diverse, che fa Iddio, non sono tali che esigano nella loro diversità maggiore o minore potere. Qualunque sia la loro esteriore solennità, esse non costano di più a Dio, e tanto per creare un atomo come per creare milioni di splendentissimi soli non occorre altro che un atto solo della sua onnipotente volontà. Quindi è che a Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio, era lo stesso il rimettere ad un uomo i suoi peccati ed il guarirlo istantaneamente da una sua grave infermità. Ma se queste due azioni non erano l’una più divina dell’altra, tuttavia l’effetto della prima, vale a dire della remissione dei peccati, non era visibile all’esterno, né potevasi perciò verificare come l’effetto della seconda, cioè la guarigione istantanea da una infermità. Or bene Gesù Cristo volendo comprovare che Egli, come vero Dio, aveva la potestà di rimettere i peccati, dopo di averla esercitata di fatto verso un povero paralitico, lo guarì ancora e subito dalla sua infermità. – È questa appunto la storia, che ci narra il Vangelo di questa Domenica. Facciamoci a considerarla.

1. Dice anzi tutto il Vangelo che Gesù montato in una piccola barca, ripassò il lago, e andò nella sua città. Era già da più di un anno, che il Salvatore evangelizzava la Giudea, quando salendo su d’una barca passò all’altra sponda del lago di Genezaret per andare al paese dei Geraseni. Colà Egli guarì due uomini che erano ossessi. Ma ben tosto fu pregato da quelli di quel paese di allontanarsi da loro. Poiché Gesù nel cacciare i demoni aveva permesso che essi entrassero in alcuni porci, i quali, come ne furono invasi, divenuti furiosi, si erano precipitati nel mare, dove tutti rimasero affogati. Sicché le genti di quei luoghi, benché avessero riconosciuta la grande potenza di Gesù, mossi tuttavia dal vile interesse, avevano pregato Gesù che si allontanasse dai loro confini. E Gesù senza dir nulla montato di nuovo su una barca e ripassato il lago andò nella sua città, vale a dire non a Betlemme, dove era nato, neppure a Nazaret, dove aveva dimorato durante la sua vita privata, ma a Cafarnao, che Gesù aveva eletto come sua speciale dimora. Non appena si seppe quivi che Egli era venuto, la gente, ben diversa da quella dei Geraseni, si venne affollando intorno alla casa in cui Egli si era ridotto, facendo così gran festa per il suo arrivo. E con quanta ragione! Direte voi. Potevasi avere maggior fortuna, che accogliere nella propria città, anzi nelle proprie case Gesù Cristo? Tuttavia, o miei cari, mentre qui ammiriamo i Cafarnaiti, non dimentichiamo che noi possiamo essere anche più fortunati di loro, essendoché possiamo ricevere ed avere Gesù non solo nelle nostre città, e nei nostri paesi, non solo nello nostre chiese, ma eziandio nel nostro cuore per mezzo della Santa Comunione. Se non che, mentre certi giovani e certi Cristiani potrebbero benissimo procacciarsi assai di spesso una tale fortuna con l’accostarsi appunto frequentemente alla Santa Comunione, e ne avrebbero anche un certo qual desiderio, a differenza di tanti cattivi Cristiani che a ciò non pensano punto, se ne astengono tuttavia. E per quale ragione? Ecco. Non pochi di costoro si pensano, che per poter frequentare la Santa Comunione più di quel che non facciano, bisognerebbe essere già grandi santi. Ora questo è uno dei molti inganni, di cui si serve il demonio per tenerli lontani appunto da ciò che è il gran mezzo per arrivare alla santità. – È fuor d’ogni dubbio, che per comunicarsi degnamente v’è bisogno d’una certa santità: ma quale dovrà essere? Forse, quella sì perfetta, che trovavasi ne’ grandi santi, e nei martiri? No di certo; la santità che richiedesi per la frequente Comunione, è alla portata di tutti i Cristiani chiunque siano; poiché essa consiste semplicemente nello stato di grazia insieme con la sincera volontà d’evitare il peccato, e servire a Dio meglio che si possa. Il che non è cosa al tutto semplice ed elementare? e non sentite in cuore che Dio la richiede da voi? Ei vi domanda tanto quanto è assolutamente necessario ad esser vero Cristiano. Difatti, qual Cristiano egli è mai quello che vive in istato di peccato mortale, e si compiace del male? Adunque perché vi comunichiate degnamente, nostro Signore in sostanza altro non vuole se non che siate veramente Cristiani e animati verso di Lui da una sincera e buona volontà. Avete voi questa buona volontà? Rispondete coscienziosamente. Ove non l’abbiate è d’uopo acquistarla, poiché senza di essa precipitereste nell’inferno. Se poi l’avete, perché non andate a comunicarvi per sempre più rafforzarla ed accrescerla? È questo il ragionamento chiaro ed ineluttabile, con cui il grande arcivescovo e dottore S. Giovanni Grisostomo stringeva già un tempo i fedeli di Costantinopoli. O siete in grazia di Dio, diceva loro, o no? Se siete in grazia di Dio, perché non accostarvi alla santa Comunione istituita appunto perché vi manteniate in grazia? Se poi siete in istato di peccato, perché non cercate di pacificarvi con Dio per mezzo d’una buona Confessione, e andare poi alla Eucaristica Mensa, donde pigliereste forza a non più ricadere? Ma ad ogni modo, dicono ancora certi Cristiani, noi non siamo proprio degni della Comunione frequente. Or bene, costoro hanno maggior ragione? Niente affatto, perché se questa ragione valesse, non bisognerebbe comunicarsi mai, dice S. Ambrogio. Chi non è degno di comunicarsi spesso potrà forse esserlo di comunicarsi fra un anno? Voi dite d’essere indegni; ma non sapete che quanto più vi tenete lontani da Gesù Cristo tanto più divenite indegni d’appressarvi a Lui? che le vostre colpe si vanno aumentando a proporzione che v’astenete dai Sacramenti? Lasciate da parte questa pregiudizievole umiltà, La Chiesa sa benissimo, non essere voi degni di comunicarvi; e nondimeno v’invita a comunicarvi spesso, anzi spessissimo. Essa è sì persuasa, che né voi, né altri è degno della Santa Comunione, da imporre a tutti i suoi figli, a tutti i suoi ministri, e persino ai Vescovi di dire prima di comunicarsi non una sola, ma tre volte e con tutto il cuore: Domine, non sum dignus ut intres sub tectum meum: Signore, in non son degno che voi veniate nella mia casa. Pertanto quando il confessore vi ha dato il permesso di accostarvi più volte alla settimana ed anche quotidianamente alla Santa Comunione, lasciate da parte ogni scrupolo ed accostatevi con una santa libertà, e così ancor voi potrete rallegrarvi che Gesù benedetto venga non solo nella vostra città, nella vostra casa, ma anzi nel vostro cuore istesso.

2 . Entrato adunque Gesù in una casa di Cafarnao ed essendo ivi circondato da una grande moltitudine di gente, nonché da molti Scribi e Farisei, ecco che alcuni uomini gli presentarono un paralitico, giacente nel letto. L’Evangelista S. Matteo non ci dice le circostanze, che accompagnarono tale presentazione. Ma ben le sappiamo dagli Evangelisti S. Marco e S. Luca, Ed essi ci narrano come i quattro portatori di quel paralitico volevano entrare nella casa, dove era Gesù, ma non essendo loro possibile per la gran calca della gente per la scala esterna salirono sopra il tetto. Là giunti ne scopersero quanto era necessario per farvi passare il letto con l’infermo, quindi assicurato quello con delle funi lo calarono giù innanzi a Gesù. E Gesù veduta la loro fede, disse al paralitico: Figliuolo, confida: ti sono perdonati i tuoi peccati. E come mai, domanderete voi, mentre quegli uomini di buon cuore andarono a chiedere a Gesù la guarigione di quel povero paralitico, Egli volle prima di guarirlo dalla sua infermità, rimettergli i peccati? Perché, risponde S. Girolamo, il divino Maestro volle insegnarci che le malattie del corpo sono bene spesso il castigo dei peccati dell’anima. Epperò sebbene nulla ci autorizzi a dire di ogni infermità che sia il castigo d’una colpa commessa dal malato, tuttavia ben possiamo credere che in generale i peccati siano la causa dei nostri mali. Ed invero il Signore non aspetta sempre nell’altra vita a castigare chi lo offende, ma castiga molte volte anche quaggiù in modo terribile. Adamo si ribellò a Dio, e tosto gli animali, la terra, si ribellarono a lui, ed entrò nel mondo la morte con ogni sorta di mali. Al tempo del diluvio, gli uomini fecero i sordi alla voce di Noè, che minacciavali della giustizia divina, e perirono tutti. I Sodomiti non vollero dare ascolto a Dio ed una pioggia di fuoco e zolfo li sterminava. Faraone s’ostinò a non obbedire a Dio, e ben dieci piaghe, una più grave dell’altra, vennero a travagliare tutto il suo popolo. E perché non bastarono neppur queste a rattenere gli Egiziani dal disobbedire ai comandi del Signore, furono precipitati come piombo in fondo al mare. Core, Datan ed Abiron commisero un sacrilegio e la terra si aperse e li inghiottì con quanto loro apparteneva. Samuele disse a Saul: Il Signore vuole che s’obbedisca al suo cenno, perché l’obbedienza gli riesce più accetta del sacrifizio. Ora perché tu hai postergato la parola del Signore, Egli ti rigetta, affinché tu non sii più re. Così per il peccato, osserva S. Gregorio, Saul cadde e perdette la gloria e l’alta dignità, di cui era vestito, menò il restante della vita in continua agitazione e finì di mala morte. E lo stesso Davide? Glorioso per molte vittorie, trovandosi pacifico possessore del suo trono, s’invogliò di sapere il numero de’ suoi sudditi. Di questa superba curiosità si sdegnò il Signore, che gli mandò un profeta a proporgli la scelta di tre castighi: o sette anni di carestia, o tre mesi di guerra disastrosa, o tre giorni di pestilenza. Davide riconoscendo il suo mancamento, volle scegliere quel castigo dal quale potesse più difficilmente ripararsigli, vale a dire la pestilenza. La mortalità fu terribile; la strage fu di settanta mila vite, e avrebbe infierito anche più, se Davide pentito non avesse placato Iddio con orazioni e con sacrifizi, onde il flagello del tutto cessò. E quante altre volte il Signore mandò sulla  terra la peste, il colera ed altre gravi malattie epidemiche a mietere a centinaia, a migliaia le vittime! Quanti furono e sono colpiti da Dio di qualche grave infermità o di qualche altra disgrazia, propriamente perché gli hanno recata qualche offesa e menano una vita di peccato! Temiamo adunque santamente che la mano di Dio si aggravi anche su di noi. Epperciò se vogliamo sfuggire il castigo non solo nell’eternità, ma anche nella vita presente, teniamone lontana la causa.

3. Ma, tornando al Vangelo, dopoché Gesù ebbe detto al paralitico: Confida, ti son rimessi i tuoi peccati; subito alcuni degli Scribi dissero dentro di sé: Costui bestemmia: (imperciocché non volevano credere che Gesù Cristo era Dio, al quale solo si appartiene di rimettere i peccati). E avendo Gesù veduti i loro pensieri disse: perché pensate male in cuor vostro! Che è più facile, di dire: ti sono perdonati i tuoi peccati, o di dire: Sorgi e cammina? Or affinché voi sappiate che il Figliuol dell’uomo ha la podestà sopra la terra di rimettere i peccati: Sorgi, disse allora al paralitico, piglia il tuo letto e vattene a casa tua. Ed egli si rizzò, e andossene a casa sua. Così adunque Gesù Cristo, con la guarigione di questo paralitico, comprovò la sua divinità e la conseguente potestà di rimettere i peccati. Ma ora, lasciando questa ed altre riflessioni, che si potrebbero fare su di ciò, accontentiamoci di osservare come il divin Redentore dopo aver rimesso a questo paralitico i suoi peccati, nel modo con cui lo guarì dalla sua infermità corporale, gli fece intendere altresì come non avrebbe più dovuto ricadere in quella spirituale. Ed in vero il dirgli: Sorgi, piglia il tuo letto, e vattene a casa tua; secondo che nota S. Pier Crisologo, fu un dirgli: sorgendo da’ tuoi peccati, porta quello che ti portava, cioè cangia interamente condotta, mena una vita diversa da quella di prima. Ed ecco il migliore e più sicuro contrassegno della guarigione spirituale dell’anima nostra nel Sacramento della penitenza, la mutazione della vita, il cambiamento dei costumi, o almeno una notabile emendazione. Oh si! Questa è veramente la pietra di paragone per giudicare della sincerità delle nostre disposizioni. Ecco i frutti di penitenza, di cui parla Gesù Cristo nel Vangelo e che esso pretende dal peccatore convertito. Non foglie e fiori di sole parole, di promesse, di vane apparenze e dimostrazioni, ma frutti veri e solidi di fatti e di operazioni. – Si legge pure nel santo Vangelo, come Gesù Cristo dopo aver sanato quell’altro paralitico, che da 38 anni se ne stava alla Piscina, avendolo poscia incontrato nel tempio, gli diede questo gran ricordo: Ecco che sei guarito; ma bada di non peccar più, perché non ti avvenga qualche cosa di peggio. Lo stesso vale per colui che col Sacramento della penitenza non solo è guarito nell’anima, ma richiamato da morte a vita. Guai a lui se presto ritorna di nuovo ai peccati! Con ciò egli fa molto temere della sincerità di sua penitenza; e ad ogni modo ei si porrebbe con le sue ricadute in uno stato ancor più funesto di prima, andando così di male in peggio. L’albero, dice Gesù Cristo, che non dà frutti buoni, sarà tagliato e gettato al fuoco. Però se dopo la Confessione non si vede nessuna riforma di vita, nessuna emenda, nessuna premura ed attenzione per evitar i peccati, per durarla stabilmente in grazia di Dio, se invece si torna, poco più poco meno, alle solite colpe come prima, alle bestemmie, alle disonestà, alle collere, allo maldicenze, ai furti, ai nefandi pensieri, ai discorsi osceni come prima, convien dire che non vi è stata sincerità nel dolore, né fermezza nel proponimento, e che in tali confessioni non vi fu che apparenza, superficialità ed illusione. Così la intendono i santi Padri, che un dopo l’altro affermano, che chi ritorna al peccato, che prima ha detestato, non è un penitente, ma un ingannatore che si burla di Dio. Quando non si vede emenda, è segno che il pentimento non ò stato vero; così afferma S. Isidoro. E Tertulliano dice: Vana è la penitenza quando è contaminata dal peccato, che lo tien dietro. Chi mette insieme lagrime e peccati, non merita perdono. E Sant’Agostino: Niente giova il pentimento se si torna alle colpe; né vale il domandar perdono del male commesso, e poi commetterlo di nuovo. Per questo è invalsa quella sentenza fatta già comune e popolare che dice: Confessarsi e non emendarsi è la strada di dannarsi. Molti si pentono, scrive S. Alfonso Liguori, ma non si convertono. Hanno un certo rincrescimento della loro vita sconcertata, ma non si convertono davvero a Dio. Si confessano, si battono il petto, promettono di emendarsi, ma non fanno una ferma risoluzione di mutar vita. Chi fermamente risolve di mutar vita, si mette all’opera e si mantiene, almeno per un tempo notevole, in grazia di Dio. Ma quei che dopo la confessione presto ricadono, danno a vedere che si sentono pentiti, ma non convertiti, o al più pentiti e convertiti solo in parte e per metà, e quindi non a sufficienza, conservando tuttora più che mai vivo nel cuore l’attacco maledetto a qualche grave peccato, a cui si sentono più inclinati. Ora Iddio per perdonare non si contenta d’una conversione dimezzata, ma la vuole completa, con tutto il cuor nostro; giacché dice il Savio, che non riceve la misericordia di Dio chi solamente confessa i suoi peccati, ma chi li confessa e li lascia. O cari Cristiani e cari giovani, ponete adunque un grande studio per ricavare profitto dalle vostre Confessioni. Confessarsi e confessarsi sovente è cosa bellissima e santa; ma ricadere sempre negli stessi peccati e doversi sempre confessare degli stessi è cosa assai brutta e pericolosa. Proponiamo perciò di imitare tutti la condotta del paralitico del Vangelo di oggi, ed al comando che Dio ci fa, sorgiamo anche noi dalle nostre colpe, liberiamoci dall’infermità delle nostre passioni, e camminando per la via diritta del bene disponiamoci a poter entrare al fin della vita nella nostra vera casa, che è il Cielo.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Exod. XXIV: 4; 5
Sanctificávit Móyses altáre Dómino, ófferens super illud holocáusta et ímmolans víctimas: fecit sacrifícium vespertínum in odórem suavitátis Dómino Deo, in conspéctu filiórum Israël.
[Mosè edificò un altare al Signore, offrendo su di esso olocausti e immolando vittime: fece un sacrificio della sera, gradevole al Signore Iddio, alla presenza dei figli di Israele.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes éfficis: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur. [O Dio, che per mezzo dei venerandi scambii di questo sacrificio, ci rendi partecipi della tua sovrana e unica divinità, concedi, Te ne preghiamo, che, come conosciamo la verità, cosí la conseguiamo con degna condotta.]

Communio

Ps XCV: 8-9
Tóllite hóstias, et introíte in átria ejus: adoráte Dóminum in aula sancta ejus.
[Prendete le vittime ed entrate nel suo atrio: adorate il Signore nel suo santo tempio.]

Postcommunio

Orémus.
Grátias tibi reférimus, Dómine, sacro múnere vegetáti: tuam misericórdiam deprecántes; ut dignos nos ejus participatióne perfícias.
[Nutriti del tuo sacro dono, o Signore, Te ne rendiamo grazie, supplicando la Tua misericordia di renderci degni di raccoglierne il frutto.]

Per l’Ordinario vedi:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/