QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉSET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e
meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte
testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più
rinomati da …]
Par M. l’Abbé
J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.
TOME PREMIER.
PARIS
LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR – RUE DELAMMIE, 13
1878
IMPRIM.
Soissons, le 18 août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
SALMO XXVIII
[1] Psalmus David, in consummatione tabernaculi.
Afferte Domino, filii Dei,
afferte Domino, filios arietum.
[2] Afferte Domino gloriam et honorem; afferte Domino gloriam nomini ejus; adorate Dominum in atrio sancto ejus.
[3] Vox Domini super aquas; Deus majestatis intonuit; Dominus super aquas multas.
[4] Vox Domini in virtute; vox Domini in magnificentia.
[5] Vox Domini confringentis cedros, et confringet Dominus cedros Libani;
[6] et comminuet eas tamquam vitulum Libani: et dilectus quemadmodum filius unicornium.
[7] Vox Domini intercidentis flammam ignis.
[8] Vox Domini concutientis desertum et commovebit Dominus desertum Cades.
[9] Vox Domini praeparantis cervos, et revelabit condensa; et in templo ejus omnes dicent gloriam.
[10] Dominus diluvium inhabitare facit, et sedebit Dominus rex in æternum. Dominus virtutem populo suo dabit; Dominus benedicet populo suo in pace.
[Vecchio Testamento secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol.
Tasso ed. MDCCCXXXI]
SALMO XXVIII
Salmo di David
nel terminarsi il tabernacolo.
1. Presentate al Signore, o figliuoli di
Dio, presentate al Signore gli agnelli.
2.
Presentate al Signore, la gloria e l’onore, presentate al Signore la gloria
dovuta al suo nome; adorate il Signore nell’atrio del suo santuario.
3. La voce del Signore sopra le acque; il Signore della maestà tuonò, il Signore sopra le molte acque.
4.
La voce del Signore è possente, la voce del Signore è piena di magnificenza.
5.
La voce del Signore che spezza i cedri, e il Signore spezzerà i cedri del
Libano.
6.
E gli farà in pezzi come un vitello del Libano, e il diletto (è) come il figlio
dell’unicorno.
7.
La voce del Signore, che divide la fiamma del fuoco;
8.
La voce del Signore, che scuote il deserto, e il Signore scuoterà il deserto di
Cades.
9 .
La voce del Signore, che prepara i cervi e le folte macchie rischiara; e nel
tempio di lui tutti gli daran gloria.
10.
Il Signore vi manderà un diluvio, e sarà assiso il Signore qual Re in eterno.
Il Signore darà fortezza al suo popolo; il Signore darà al popol suo
benedizione di pace.
Sommario
analitico
L’oggetto di questo salmo, che è uno
di quelli che furono composti durante la traslazione dell’arca sulla montagna
di Sion, essendo duplice, secondo il parere che tutti gli interpreti ne danno,
per maggior chiarezza, merita una doppia analisi; una secondo il senso
letterale, l’altro secondo il senso allegorico.
PRIMO SOMMARIO ANALITICO.
Davide pieno di ammirazione alla
vista delle opere di Dio: 1° invita gli uomini a riconoscere ed a celebrare la
sua grandezza, offrendogli le vittime perfette che Gli sono dovute come al
sovrano Signore (1). – 2° Indica loro come debbano essere queste offerte, a)
con riti e canti esteriori, b) con le disposizioni interiori di adorazione (2).
– 3° Egli dà la ragione di questo invito, cioè la grande potenza di Dio, di cui
enumera i meravigliosi effetti:
a) Nelle acque superiori,
quando fa tuonare nelle nubi e ne fa discendere sulla terra una pioggia
abbondante! (4).
b) Nell’aria, – 1)
quando eccita i venti e le tempeste che abbattono i cedri senza resistenza
alcuna (5, 6); – 2) quando solca le nubi con fulmini e saette, per imprimere il
terrore nel cuore degli uomini (7);
c) Sulla terra, quando
– 1) la colpisce nelle parti più recondite; – 2) riempie gli animali di
spavento; – 3) spoglia le foreste degli alberi e del fogliame (9); – 4) eccita
con questo gli uomini a lodarlo perché: a) li ricolmi di grazia come loro Dio,
b) li governi come loro re (10), c) venga in loro soccorso, nella guerra, come
loro capo, d) li renda sempre felici, in pace, come loro padre (11).
SECONDO SOMMARIO ANALITICO.
Davide, contemplando interiormente
la promulgazione della legge evangelica:
I. – Esorta il Cristiano ad offrire
a Dio il culto esteriore ed interiore che Gli è dovuto (1, 2).
II. – Da le ragioni di questa
esortazione e celebra il Dio che si degna di dare la sua legge agli uomini:
1°A causa della sua maestà e della sua potenza
che si manifesta a) nella voce che fa intendere dall’alto dei cieli, per
chiamare a Sé tutti i popoli della terra (3); b) nei miracoli stupefacenti che
opera (4); c) nella forza con la quale distrugge gli sforzi degli orgogliosi e
tutte le loro resistenze (5, 6).
2° A causa della sua bontà e della sua
misericordia per la quale
a) si mostra amabile a tutti, benché
forte (6);
b) effonde su tutti gli uomini la
fiamme e i doni dello Spirito Santo (7);
c) allontana dal culto degli idoli i
gentili condannati alla sterilità ed i Giudei dalla legge infeconda di Mosè
(7);
d) nella via purgativa, Egli
prepara, con il timore, gli inizianti, a diventare fecondi di buone opere (8);
e) nella via illuminativa, illumina
coloro che sono più avanzati;
f) nella via unitiva: – 1) li eccita
a rendere gloria a Dio (9); – 2) ne arricchisce l’anima di abbondanza di
grazie; – 3) Egli stabilisce il suo regno nell’anima (10); – 4) comunica loro una
forza tutta divina contro i suoi nemici; – 5) colma tutte le facoltà
dell’anima, tutti i sensi del corpo, dei doni e delle grazie che accompagnano
la pace (11).
Spiegazioni e Considerazioni
I. — 1, 2.
ff. 1. – Dio non gradisce ogni sorta di doni, ma solo quelli
che Gli vengono offerti con cuore puro: ecco perché il Salmista vuole che noi
siamo innanzitutto figli di Dio prima di avvinarci a Lui per offrirgli i nostri
doni, non i doni come tali, ma quelli stessi che Egli ci prescrive. Dite dunque
innanzitutto a Dio: Padre mio, ed indirizzate poi le vostre domande.
Esaminatevi coscienziosamente, vedete qual sia la vostra vita, siate degni di
chiamare vostro Padre, il tre volte Dio. Gli si facciano ricche offerte, e si
scelgano dunque uomini d’élite perché a Lui si offrano. È gran cosa l’essere
figlio di Dio, ed è opportuno che l’offerente sia all’altezza della grandezza
di questo titolo. « Offrite i piccoli degli arieti ». L’ariete è come il capo
del gregge, e precede la pecore per condurle nei grassi pascoli, ai ruscelli
ove si disseteranno, e poi ricondurle al riparo. Tali sono i capi del gregge di
Gesù Cristo che lo conducono nei pascoli fioriti ed odorosi della dottrina
spirituale, lo dissetano con le acque vive delle quali lo Spirito Santo è la
fonte, lo nutrono perché produca frutti, lo difendono da ogni pericolo e lo
riportano al luogo di riposo. Sono i figli di questi capi coloro ai quali il
Salmista comanda ai figli di Dio di offrire al Signore. Se gli arieti sono i
capi del gregge, Egli vuole che abbiano dei figli che con la loro applicazione
alle buone opere, diventino essi stessi modelli di virtù (S. Basilio).
– « Portate al Signore i piccoli degli arieti ». Portategli coloro che devono
essere battezzati, coloro che devono essere concepiti, non dalla carne, ma
dalla fede; portate coloro che devono diventare agnelli con l’innocenza;
portate coloro che non possono venire da se stessi, o perché è necessità
difenderli, o perché l’età glielo impedisce, o l’ignoranza li ritarda, o i vizi
li incatenano, o i peccati li trattengono, lo spettacolo delle cose esteriori
li seduce, o la povertà li copre di vergogna; portate coloro che lo consentono,
fate entrare coloro che resistono, fatevi necessità ove essi sono soggetto di
ricompensa (S. Piet. Chris. Serm. X). – Ad esempio del santo Re
Davide, non bisogna contentarsi di lodare il Signore in particolare, ma si
devono invitare gli altri fedeli, eccitarli con i nostri discorsi ed i nostri
esempi, a rendere omaggio all’Altissimo. – I sacrifici dei Giudei sono figura
del Sacrificio dei Cristiani. Dio faceva loro conoscere, per mezzo del suo Profeta,
che il sacrificio che Gli era veramente gradito non consisteva nell’immolare
dei capri o degli agnelli, ma in cuore contrito ed umiliato. « Cosa offrirò a
Dio che sia degno di Lui, dice il Profeta? » Piegherò il ginocchio davanti a
Dio l’Altissimo? Gli presenterò degli olocausti e dei nati di un anno? Il
Signore si placherà con l’offerta di mille capri, con libazioni di barili di
olio? O uomo, Io vi mostrerò ciò che è buono e che il Signore vi comanda:
praticate la giustizia, amate la misericordia, camminate con timore alla
presenza del Signore (Mich. VI, 7,8).
ff. 2. – « Adorate il Signore nel suo tabernacolo ».
L’adorazione che è qui comandata deve farsi non fuori dalla Chiesa, ma nella “vera”
Chiesa, nella Chiesa santa, che è una … Vediamo molti che sono in attitudine di
preghiera, e ciò nonostante non sono nella Chiesa di Dio, a causa delle
divagazioni del loro spirito e delle distrazioni in cui cadono a causa delle
vane preoccupazioni (S. Basilio). – Si possono distinguere tre
gradi nella gloria che è dovuta a Dio: – 1) riconoscere le sue grandezze; – 2)intendere
la gloria del suo nome; – 3) adorarlo nel suo tempio santo con il culto
pubblico ed esterno.
II. — 3-6.
ff. 3, 4. – Chi di noi ascoltando il rumore del
tuono, non ha immaginato questa voce del Signore di cui parla il Re-Profeta?
Sembra effettivamente che l’ascolto del tuono non sia per le nostre orecchie
che un’eco lontano di questa parola divina della quale un soffio scuote la
natura ed è sufficiente a ridurla in polvere. È dal rombo del tuono che Dio
parla al suo popolo, con la bocca di Mosè, e come in un concerto, l’armonia
degli strumenti si mescola alla voce umana, così sul monte Sinai si direbbe che
il tuono e la voce di Mosè si confondono per formare una sola parola, quella di
Dio, per dettare i Comandamenti al suo popolo. Il tuono esce dalla nube nello
stesso momento in cui il fulmine lo annuncia. Nel linguaggio della santa
Scrittura, le nubi significano i predicatori della parola evangelica. Queste
nubi, dice S. Agostino, ci mostrano di sfuggita il fulmine e il tuono: il
fulmine è il miracolo che si aggiunge alla predicazione della parola; il tuono
è il precetto ritenuto nell’orecchio del peccatore intimorito (Mgr. De La
Bouillerie, Symbol. de la nat., I, 177). – Le sette voci di cui parla
qui il profeta possono ben applicarsi alla predicazione del Vangelo. La prima
voce si è fatta ascoltare sulle acque, quando dal cielo semiaperto discese
questa voce magnifica che fu intesa al momento del Battesimo di Gesù Cristo: «
è nel mio Figlio diletto che ho posto tutte la mia affezione ». – « Il Dio di
maestà tuonò e si fece intendere su una grande abbondanza di acque », perché il
Battesimo fu da allora istituito e tutte le acque del mondo ricevettero la
virtù di rigenerare i Figli di Dio. Le altre voci hanno per oggetto le tante
meraviglie della predicazione evangelica. – La voce del Signore è potente:
nella Creazione, da una sola parola essa fa uscire dal nulla il cielo e la
terra e tutto ciò che esse racchiudono; con la predicazione del Vangelo, essa
non è stata un brusio vano e senza effetto, un bronzo tinnante ed un cembalo
altisonante, come i discorsi della maggior parte degli oratori e dei filosofi,
ma una voce potente che ha operato la conversione del mondo, una voce piena di
magnificenza per il bagliore dei miracoli che l’hanno accompagnata (Dug.).
ff. 5, 6. – Il Re-Profeta continua a dipingere in stile orientale
le grandi conquiste del Cristianesimo mediante la predicazione evangelica. I
cedri del Libano sono alberi molto duri, molto elevati e dall’odore molto
gradevole. La loro durezza, è figura dei peccatori incalliti e di coloro che si
ostinano nei loro errori. – La loro elevazione, è figura degli uomini superbi
che si inorgogliscono, sia dell’ampiezza della loro potenza, sia dell’eminenza
della loro saggezza, sia dello splendore della loro eloquenza; il loro gradevole
odore, è la figura degli uomini amici dei piaceri e delle voluttà. La
predicazione del Vangelo ha distrutto tutti i cedri, ha persuaso all’umiltà
tutti coloro che si erano elevati al di sopra degli altri, alla mansuetudine e alla
docilità gli incalliti ed i protervi, allo spirito di penitenza e di
mortificazione i sensuali ed i voluttuosi (Duguet). Non soltanto essa ha
abbattuto gli alti cedri del Libano, abbattendo cioè l’orgoglio e la durata di
questi uomini superbi, ma ha sradicato gli stessi cedri, li ha trasportati in
un altro luogo, facendoli rinunziare alle loro affezioni carnali e legate alla
terra per passare ad una vita simile a quella degli Apostoli (Dug.).
– Dio ha le tempeste nella sua mano, e non compete che a lui il far scoppiare
il rombo del tuono nelle coscienze e fondere i cuori induriti con i bagliori
dei fulmini; e se pur Egli avesse un predicatore temerario per produrre questi
grandi effetti con la sua eloquenza, mi sembra che Dio gli dica, come a Giobbe:
se tu credi di avere un braccio come Dio, e tuonare con una voce simile, agisci
e fa’ Dio al mio posto: « Elevati nelle nubi, mostrati nella tua gloria, abbatti
i superbi nel tuo furore, e disponi a tuo piacimento delle cose umane » (Bossuet,
Serm. Parol. de Dieu).
III. — 7-11.
ff. 7, 8. – La voce di Dio, voce di verità, comparata alla
folgore; ora cosa che cose c’è di più potente e terribile del tuono? Al suo
scoppio fa seguito lo sgomento, lo spavento, la paura mortale; esso fa impallidire
il più altero, scuote i palazzi superbi e l’umile capanna, cade sulle alture
delle montagne e sulle onde dell’oceano. È l’immagine naturale della potenza
della verità, che è sempre inflessibile, sempre tuonante in fondo a tutti i
cuori, non è sopraffatta né dalla forza dei pregiudizi, né dai torrenti degli
abusi, né dal vizio possente e dominante, né dal numero dei reprobi. Essa fa da
sfondo ai tiranni che non vogliono vedere nulla sopra le loro teste, o ai
potenti che si adagiano nella loro gloria. Essa turba la solitudine dell’empio,
che fugge sempre fuori di sé, ha paura di sé, si evita, non osa ritrovarsi da
solo con la ragione e la fede. Essa spande sul peccato un’amarezza dolorosa,
porta l’angoscia e la tribolazione nell’anima del colpevole, perché l’iniquità
non è che un lungo e difficile travaglio. Il crimine vuole ben sprofondare
nella notte, ma essa andrà a cercarlo fino al fondo dell’abisso (De
Buologne, sur la verité). – Questi bagliori di fiamma, che si
sprigionano quando cade il fulmine, sono la figura dei doni dello Spirito
Santo, i cui effetti sono così variati, sono così appropriati ai disegni della
Provvidenza ed ai bisogni degli uomini. – La predicazione evangelica diviene
soprattutto simile al tuono quando risuona nei deserti, ispirando alle anime
una santo terrore dei giudizi di Dio. In mezzo ad una vita dissipata e mondana,
nella quale facilmente dimentichiamo i nostri doveri, ove unicamente
preoccupati dei nostri interessi e dei nostri piaceri, ci lasciamo andare ad
una colpevole indifferenza, è bene per noi che il tuono della santa parola si
faccia intendere dalle nostre orecchie, scuota il nostro torpore, e ci richiami
incessantemente il ricordo dei nostri fini ultimi. Il terrore che il fulmine
ispira alle cerve, terrore che le dispone a partorire più facilmente i loro
piccoli, è figura della bontà di Dio che, per la paura salutare dei suoi
giudizi, facilita il parto spirituale dal peccato alla grazia, che è così
penoso in natura. – Questa voce scopre in questo parto quel che c’è di più
denso, di più nascosto in queste anime, partorite nuovamente, e che si
congiungono con i veri figli di Dio per rendere tutti insieme gloria a Dio nel
suo tempio (Duguet). – La voce del Signore fa penetrare ancora il giorno
nelle dense foreste, quando illumina con i suoi bagliori i luoghi oscuri, dei
libri divini ed i tratti ombreggiati dei misteri in cui fa ritrovare libere
pasture.
ff. 9, 10. – Si chiama diluvio una inondazione
straordinaria che copra tutta la superficie della terra, e ne asporti tutte le
immondizie. Il Re-Profeta compara dunque ad un diluvio la grazia del Battesimo,
perché esso purifica l’anima dai propri peccati, e distrugge in essa l’uomo
vecchio rendendolo atto a divenire abitazione di Dio (S. Basilio, Ps.
XXVIII). – Il timore dei giudizi di Dio è un tuono che scuote il
deserto, distrugge i cedri, abbatte l’orgoglio, e, con scosse violente,
comincia a sradicare le cattive abitudini. Ma per rendere la terra feconda,
occorre che questo tuono rompa le nubi, e faccia colare la pioggia che rende
feconda la terra (Bossuet, Serm. Sur la Trist. des enf. de Dieu).
– È il Diluvio delle acque della grazia su di un’anima che ha partorito la
salvezza. – È il Diluvio delle acque della penitenza nel cuore di quest’anima
penetrata dal dolore per i suoi peccati passati. – È il Diluvio di grazie e di
favori sui buoni, che Dio colmerà di ogni sorta di beni. – È il Diluvio di mali
sui peccatori che distruggerà ogni tipo di male. – Essendo tutto sottomesso a
Dio, o per amore o per forza, il Signore sarà seduto come un Re sovrano per
tutta l’eternità (Duguet). – È solo il Signore che dà la forza al suo popolo, per
avvertirci che noi non possiamo nulla senza di Lui, sia nell’ordine della
natura, sia nell’ordine della grazia: forza per resistere ai nostri nemici, e benedizione
per crescere in virtù ed arrivare tranquillamente al porto della salvezza e
della eterna pace.
« Questa è la fede dei padri, questa è la fede degli Apostoli. Tutti crediamo così, gli ortodossi credono così. Sia scomunicato chi non crede così. Pietro così ha parlato per bocca di Leone ». Questo è il cuore della Enciclica in oggetto, una dotta e magistrale esposizione della teologia cristologica come definita nel corso del Concilio di Calcedonia che il Santo Padre vuole celebrare in occasione del suo XV centenario. Ardente è il desiderio- qui espresso per l’ennesima volta – del Sommo Pontefice, che vi sia un solo gregge ed un sol Pastore nella Chiesa di Cristo, richiamando all’unità in particolare gli scismatici d’Oriente, ai quali la Santa Sede ha concesso già per il passato tanti privilegi. Oltre alle definizioni cristologiche dogmaticamente ineccepibili e storicamente documentate, Pio XII, ribadisce il ruolo centrale e fondamentale nella costruzione ecclesiale, Corpo mistico del Cristo, del Vicario di Cristo, pietra visibile angolare del tempio di Dio, tempio che accoglie coloro che sono destinati alla salvezza eterna, a differenza di coloro che, pur sembrando pietre – ma pietre morte ed inattive come tralci da bruciare – restano fuori dalla costruzione stessa a loro eterna perdizione e dannazione. Pietre morte, sono oggi, oltre ai dissidenti storici, protestanti di miriadi di sette, ortodossi, eretici nestoriani, monofisiti, monoteliti, veterocattolici di Utrecht, eretici feeneysti, pure i modernisti ed ultra modernisti del Novus ordo con i loro fiancheggiatori ipocriti della galassia sedevacantista e dei gallicani fallibilisti disobbedienti, i non-preti-kadosh di Sion-Ecôn. Povero Gesù-Cristo, tradito e sbeffeggiato da nemici (i soliti che odiano Dio e tutti gli uomini) e soprattutto da apparenti amici, dai ladri e dai briganti che non entrano dalle porte ma si arrampicano per camini e tralicci onde penetrare nel gregge a divorare anime. Non resta, al sempre più sparuto pusillus grex, che abbeverarsi alla fonte di acqua cristallina del Magistero infallibile del Vicario di Cristo, in attesa, dopo la persecuzione profetizzata, del soffio della bocca di Cristo che brucerà l’anticristo ed i suoi corifei di ogni risma, in particolare quelli in talare, nera, rossa, porpora o … bianca. Che Dio ci liberi e la Vergine Maria ci scansi!
PIO XII
LETTERA ENCICLICA
SEMPITERNUS REX CHRISTUS(1)
XV CENTENARIO
DEL CONCILIO ECUMENICO DI CALCEDONIA
L’eterno re Cristo, prima di promettere a Pietro, figlio di Giovanni, il governo della Chiesa, avendo domandato ai discepoli che cosa pensassero di lui gli uomini e gli stessi Apostoli, lodò con singolare encomio quella fede che doveva vincere gli assalti e le tempeste infernali, e che Pietro, illuminato dalla luce del Padre celeste, aveva espresso con queste parole: «Tu sei il Cristo Figlio del Dio vivente» (Mt XVI, 16). Questa fede, che produce i serti degli Apostoli, le palme dei Martiri, i gigli delle Vergini, e che è virtù di Dio per la salvezza d’ogni credente (cf. Rm I, 16), è stata efficacemente difesa e splendidamente illustrata in modo particolare da tre concili ecumenici, quello di Nicea, quello di Efeso e quello di Calcedonia, di cui ricorre alla fine di quest’anno il XV centenario. È conveniente che questo lietissimo avvenimento sia celebrato così a Roma come in tutto il mondo cattolico con quelle solennità che, con soave commozione dell’animo, ordiniamo, dopo aver reso grazie a Dio, ispiratore d’ogni consiglio salutare. Come infatti Pio XI, Nostro predecessore di f. m., nell’anno 1925 in quest’alma città volle solennemente commemorare sacro Concilio di Nicea, e parimenti nell’anno 1931 rievocò nell’enciclica Lux veritatis il sacro Concilio di Efeso, così Noi in questa lettera, con uguale apprezzamento e premura, ricordiamo il concilio di Calcedonia; poiché i sinodi di Efeso e di Calcedonia, riguardando l’unione ipostatica del Verbo incarnato, sono tra loro indissolubilmente legati; l’uno e l’altro fin dall’antichità furono tenuti in sommo onore sia presso gli orientali, che ne fanno memoria anche nelle loro liturgie, sia presso gli occidentali, come attesta lo stesso san Gregorio Magno, il quale esaltandoli non meno dei due Concili ecumenici celebrati nel secolo precedente, cioè il Niceno e il Costantinopolitano, scrisse queste memorande parole: «Su questi, come su di una pietra quadrata, si eleva l’edificio della santa Fede, e chi non si appoggia alla loro solidità, qualunque sia la sua vita e la sua azione, anche se può sembrare una pietra, tuttavia giace fuori dell’edificio».(2) – Ma se si considerano attentamente questo avvenimento e le sue circostanze, due punti chiaramente emergono, che Noi vogliamo, quant’è possibile, mettere in luce: cioè il Primato del Romano Pontefice, che rifulse manifestamente dalla gravissima controversia di fede cristologica, e la grandissima importanza della definizione dogmatica del concilio di Calcedonia. Al Primato del Pontefice Romano rendano senza esitazione il debito omaggio riverente, seguendo l’esempio e le orme dei loro padri, coloro che, per la malvagità dei tempi, specialmente nei paesi orientali, sono separati dal seno e dall’unità della Chiesa; questa dottrina, guardando all’interno del mistero di Cristo con più puro intuito della mente, accolgano finalmente intera quelli che sono irretiti negli errori di Nestorio e di Eutiche; e la stessa dottrina considerino con più profonda aderenza al vero coloro che, animati da esagerato desiderio di novità, osano scardinare in qualche modo i termini legittimi e inviolabili, quando scrutano il mistero con cui siamo stati redenti. Finalmente tutti coloro che portano il nome di Cattolici prendano di qui un forte incitamento a coltivare col pensiero e con la parola la preziosissima perla evangelica, professando e conservando intemerata la Fede, con l’aggiunta però di quel che vale di più: la testimonianza cioè della propria vita, in cui, allontanato con l’aiuto della divina misericordia tutto ciò che sa di dissonante, di indegno e di riprovevole, risplenda la purezza delle virtù; e in tal modo avverrà che essi partecipino alla Divinità di Colui che si è degnato farsi partecipe della nostra umanità.
I
Ma, per procedere con ordine, bisogna rifarsi all’origine dei fatti da commemorare. L’autore di tutta la controversia, che si agitò nel concilio di Calcedonia, fu Eutiche, sacerdote e archimandrita di un celebre monastero di Costantinopoli. Datosi a combattere a fondo l’eresia di Nestorio, che affermava due Persone in Cristo, cadde nell’errore opposto. «Molto imprudente e assai ignorante»,(3) con incredibile pertinacia faceva queste asserzioni: bisogna distinguere due momenti: prima dell’Incarnazione le nature di Cristo erano due, cioè l’umana e la divina; ma dopo l’unione non vi fu che una sola natura, avendo il Verbo assorbito l’uomo; da Maria Vergine ha avuto origine il corpo del Signore, che però non è della stessa sostanza e materia nostre, giacché esso è umano, ma non consostanziale a noi né a Colei che ha partorito Cristo secondo la carne;(4) perciò Cristo non è nato né ha patito né è stato crocifisso né è risorto in una vera natura umana. – Ciò dicendo Eutiche non si accorgeva che prima dell’unione, la natura umana di Cristo non esisteva affatto, perché cominciò a esistere dal momento della sua concezione; che dopo l’unione è assurdo pensare che di due nature se ne faccia una sola, perché in nessun modo le due nature vere e reali si possono ridurre ad una, tanto più che la natura divina è infinita e immutabile. – Chi considera con sano giudizio tali opinioni, vede facilmente che tutto il mistero della divina economia svanisce in ombre vane e impalpabili. – Alle persone assennate l’opinione di Eutiche apparve evidentemente del tutto nuova, assurda, in assoluta contraddizione con gli oracoli dei profeti e i testi del Vangelo, come pure col Simbolo apostolico e col dogma di fede sancito a Nicea: un’opinione attinta alle fonti impure di Valentino e di Apollinare. – In un sinodo particolare, riunito a Costantinopoli e presieduto da san Flaviano vescovo della medesima città, Eutiche, che andava disseminando ostinatamente e largamente i suoi errori per i monasteri, su formale accusa di eresia del Vescovo Eusebio di Dorileo, fu condannato. Ma Eutiche, come se la condanna fosse ingiusta per lui, che reprimeva la rinascente empietà di Nestorio, si appellò al giudizio di alcuni Vescovi di grande autorità. Una siffatta lettera di protesta ricevette lo stesso san Leone Magno, Pontefice della Sede Apostolica, le cui splendide e solide virtù, la vigile sollecitudine per la Religione e per la pace, la strenua difesa della verità e della dignità della Cattedra Romana, l’abilità nel trattare gli affari, pari all’armoniosa eloquenza, riscuotono l’inesauribile ammirazione di tutti i secoli. Nessuno più di lui sembrava capace e idoneo a rintuzzare l’errore di Eutiche, perché nelle sue allocuzioni e nelle sue lettere con magnificenza pari alla pietà, egli soleva esaltare e celebrare il mistero, mai abbastanza predicato, dell’unica Persona e delle due nature in Cristo: «La Chiesa Cattolica vive e prospera di questa Fede, per cui in Gesù Cristo non si crede né l’umanità senza la divinità né la divinità senza l’umanità».(5) – Ma l’archimandrita Eutiche, avendo poca fiducia nel patrocinio del Romano Pontefice, appigliandosi alle astuzie e agli inganni, per mezzo di Crisafio, al quale era legato da stretta amicizia e che era molto accetto all’imperatore Teodosio II, ottenne dallo stesso imperatore che la sua causa fosse riveduta e si riunisse ad Efeso un altro Concilio, cui presiedesse Dioscoro, Vescovo di Alessandria. Questi, intimo amico di Eutiche, ma avverso a Flaviano, Vescovo di Costantinopoli, ingannato da falsa analogia di dogmi, andava dicendo che come Cirillo, suo predecessore, aveva difeso una sola Persona in Cristo, così egli voleva difendere con tutte le forze una sola natura in Cristo dopo l’«unione». San Leone Magno, per motivo di pace, non ricusò di mandarvi i suoi legati, che portassero, insieme con altre due lettere – una al sinodo, l’altra a Flaviano, in cui gli errori eutichiani erano confutati con la chiarezza di una dottrina perfetta e copiosa. – Ma in questo sinodo Efesino, che Leone denominò giustamente latrocinio, arbitri Dioscoro ed Eutiche, tutto fu manipolato con violenza; fu negato ai legati apostolici il primo posto nel consesso; fu proibito di leggere le lettere del Sommo Pontefice, i voti dei Vescovi furono estorti per via d’inganni e di minacce; insieme con altri Flaviano fu accusato di eresia, privato dell’ufficio pastorale e gettato in carcere, dove morì. E la temerità del furibondo Dioscoro arrivò a tal punto che (nefando delitto!) osò lanciare la scomunica alla suprema Autorità Apostolica. Appena Leone venne a sapere per mezzo del diacono Ilaro le malefatte del conciliabolo brigantesco, disapprovò tutto ciò che là si era fatto e decretato, ordinandone un nuovo esame, e ne soffrì acerbo dolore, alimentato dai frequenti appelli al suo giudizio da parte di molti Vescovi deposti. – Degno di menzione è ciò che scrissero in quella circostanza Flaviano e Teodoreto di Ciro al supremo Pastore della Chiesa. Così si esprime Flaviano: «Volgendo, come per un partito preso, tutte le cose iniquamente a mio danno, dopo quell’ingiusta sentenza pronunziata contro di me [da Dioscoro], come a lui piacque, mentre io mi appellavo al trono dell’Apostolica Sede di Pietro, Principe degli Apostoli, e a tutto il beato sinodo soggetto a vostra Santità, subito mi vidi circondato da molti soldati, che non mi permettevano di rifugiarmi presso il santo altare, ma cercavano di tirarmi fuori della chiesa».(6) E questo scrive Teodoreto: «Se Paolo, araldo della verità, si recò dal grande Pietro, molto più noi umili e piccoli ricorriamo alla vostra Apostolica Sede, per ottenere da voi rimedio alle piaghe delle chiese. Perché a voi spetta esercitare il Primato su tutte. … Io aspetto il giudizio della vostra Apostolica Sede. … Anzitutto io prego di essere istruito da voi, se debba rassegnarmi a questa ingiusta deposizione oppure no; attendo la vostra sentenza». (7) – Per cancellare tanta macchia, Leone spinse con insistenti lettere Teodosio e Pulcheria a porre rimedio a così tristi condizioni di cose e perciò a radunare nei confini dell’Italia un nuovo Concilio che riparasse le malefatte di quello Efesino. Un giorno ricevendo nella Basilica Vaticana Valentiniano III, la madre di lui Galla Placidia e la moglie Eudossia, circondato da una fitta corona di Vescovi, con gemiti e pianto li indusse a provvedere immediatamente secondo le loro forze al crescente disagio della Chiesa. Allora scrisse un imperatore all’altro; scrissero le stesse regine. Ma invano: Teodosio, circondato da astuzie e da inganni, non una riparò delle ingiustizie commesse. Ma quando l’imperatore inopinatamente morì, sua sorella Pulcheria assunse il governo e prese come marito, associandolo nell’impero, Marciano, ambedue stimati per pietà e saggezza. Allora Anatolio, che Dioscoro aveva messo arbitrariamente sulla cattedra di Flaviano, sottoscrisse la lettera di Leone a Flaviano intorno all’Incarnazione del Verbo; la salma di Flaviano fu trasportata con grande pompa a Costantinopoli; i Vescovi deposti furono restituiti alle loro sedi; unanime divenne la riprovazione dell’eresia eutichiana, sicché non si vedeva più la necessità di un nuovo Concilio, tanto più che le condizioni dell’impero romano erano malsicure a causa delle invasioni barbariche. – Tuttavia il Concilio si radunò e si celebrò per desiderio dell’imperatore e col consenso del Sommo Pontefice. – Calcedonia era una città della Bitinia, presso il Bosforo di Tracia, di fronte a Costantinopoli, situata sull’opposta sponda. Quivi nell’ampia basilica suburbana di S. Eufemia vergine e martire, l’8 ottobre, partiti da Nicea, dov’erano già a tale scopo raccolti, si riunirono i Padri, in numero di circa seicento, tutti dei paesi orientali, eccetto due africani profughi dalla patria. – Collocato in mezzo il libro dei Vangeli, davanti ai cancelli del santo altare prendevano posto diciannove rappresentanti dell’imperatore e del senato. Il compito di legati pontifici fu affidato ai piissimi personaggi Pascasino, vescovo di Lilibeo in Sicilia, Lucenzio, vescovo di Ascoli, Bonifacio e Basilio sacerdoti, ai quali si aggiunse Giuliano, vescovo di Cos, per aiutarli con la sua diligente opera. I legati del Romano Pontefice occupavano il primo posto tra i Vescovi; per primi sono nominati, per primi prendono la parola, per primi firmano gli atti e, in forza della loro autorità delegata, confermano o rigettano i voti degli altri, come avvenne apertamente nella condanna di Dioscoro che essi ratificarono con queste parole: «Il santissimo e beatissimo Arcivescovo della grande e antica Roma, Leone, per mezzo di noi e di questo santo sinodo, insieme col beatissimo e degnissimo di lode Pietro Apostolo, che è la pietra e la base della Chiesa Cattolica, e il fondamento della fede ortodossa, ha spogliato lui [Dioscoro] della dignità episcopale come anche lo ha rimosso da ogni ministero sacerdotale».(8) – Del resto, che non solo i legati pontifici abbiano esercitato l’autorità di presiedere, ma che il diritto e l’onore di presiedere sia stato anche riconosciuto loro da tutti i padri del Concilio, senza alcuna opposizione, risulta chiaro dalla lettera sinodica inviata a Leone: «Tu in verità – essi scrivono – presiedevi come il capo alle membra dimostrando benevolenza in coloro che tenevano il tuo posto».(9) – Non vogliamo qui passare in rassegna i singoli atti del Concilio, ma soltanto toccarne brevemente i principali, in quanti sono utili a porre in luce la verità e a giovare alla Religione. Pertanto non possiamo, dal momento che si agita la questione della dignità della Sede Apostolica, passare sotto silenzio il canone 28 di quel Concilio, nel quale si attribuiva il secondo posto di onore dopo la Sede Romana alla Sede Episcopale di Costantinopoli, come città imperiale. Sebbene nulla vi sia stato fatto contro il divino Primato di giurisdizione, che da tutti era riconosciuto, tuttavia quel canone, compilato in assenza e contro la volontà dei legati pontifici, e perciò clandestino e surrettizio, è destituito di ogni valore giuridico e da san Leone fu riprovato e condannato in molte lettere. E del resto a tale sentenza di annullamento aderirono Marciano e Pulcheria, anzi lo stesso Anatolio, il quale, scusando la riprovevole audacia di quell’atto; così scrisse a Leone: «Di quelle cose che nei giorni scorsi sono state decretate nel Concilio universale di Calcedonìa a favore della Sede costantinopolitana, sia certa vostra beatitudine che io non ho alcuna colpa …, ma è il reverendissimo clero della chiesa costantinopolitana, che ha avuto questo desiderio …; essendo state riservate all’autorità di vostra Beatitudine tutta la validità e l’approvazione di tale atto».(10)
II
Ma veniamo ormai al cardine di tutta la questione, e cioè alla solenne definizione della Fede cattolica, con cui fu rigettato e condannato il pernicioso errore di Eutiche. Nella quarta sessione dello stesso sacro Sinodo, fu richiesto dai rappresentanti imperiali che si componesse una nuova formula di Fede; ma il legato pontificio Pascasino, interpretando il voto di tutti, rispose che ciò non era affatto necessario, essendo sufficienti i Simboli di fede e i canoni già in uso nella Chiesa, prima tra essi, nel caso presente, la lettera di Leone a Flaviano: «In terzo luogo poi (cioè dopo i Simboli Niceno e Costantinopolitano e la loro esposizione fatta da san Cirillo nel Concilio Efesino) gli scritti inviati dal beatissimo e apostolico Leone, Papa della Chiesa universale, contro l’eresia di Nestorio e di Eutiche, hanno già indicato quale sia la vera fede. Similmente anche il santo sinodo questa stessa fede tiene e segue».(11) – Giova qui ricordare che questa importantissima lettera di san Leone a Flaviano intorno all’Incarnazione del Verbo fu letta nella terza sessione del Concilio; e appena tacque la voce del lettore, tutti i presenti gridarono insieme unanimi: «Questa è la fede dei padri, questa è la fede degli Apostoli. Tutti crediamo così, gli ortodossi credono così. Sia scomunicato chi non crede così. Pietro così ha parlato per bocca di Leone».(12) – Dopo questo, in pieno consenso tutti dissero che il documento del Romano Pontefice concordava perfettamente con i Simboli Niceno e Costantinopolitano. Nondimeno nella quinta sessione sinodale, su rinnovata richiesta dei rappresentanti di Marciano e del senato, fu preparata una nuova formula di Fede da un consiglio scelto di Vescovi di varie regioni, che si erano riuniti nell’oratorio della Basilica di Santa Eufemia; essa è composta di un prologo, del Simbolo Niceno e del Simbolo Costantinopolitano, allora promulgato per la prima volta, e della solenne condanna dell’errore eutichiano. Tale formula fu approvata dai Padri del Concilio con unanime consenso. – Crediamo ora di fare cosa degna, venerabili fratelli, se Ci fermiamo un poco a spiegare il documento del Romano Pontefice, che rivendica splendidamente la Fede cattolica. Anzitutto contro Eutiche che andava dicendo: «Confesso che il Signore nostro era di due nature prima dell’unione; dopo l’unione invece confesso una sola natura»,(13) non senza sdegno così il Santissimo Pontefice contrappone la luce della folgorante verità: «Mi meraviglio che una sua formula così assurda e così perversa non sia stata riprovata da alcuna protesta dei giudici…; mentre è egualmente empio asserire nel Figlio unigenito di Dio due nature prima dell’incarnazione come ammettere in Lui una sola natura dopo che il Verbo si è fatto carne».(14) Né con minore energia il Papa colpisce Nestorio, che nell’errore va all’eccesso contrario: «In forza di quest’unità di persona da ammettersi nelle due nature, si legge che il Figlio dell’uomo è disceso dal cielo, quando il Figlio di Dio assume la carne dalla Vergine, dalla quale è nato. E ancora si dice che il Figlio di Dio è stato crocifisso e sepolto, mentre Egli ha sofferto queste cose non nella divinità stessa, per la quale l’Unigenito è coeterno e consostanziale al Padre, ma nella sua debole natura umana. Sicché tutti professiamo anche nel Simbolo che l’unigenito Figlio di Dio è stato crocifisso e sepolto».(15) – Oltre la distinzione delle due nature in Cristo, vien qui rivendicata con molta chiarezza anche la distinzione delle proprietà e delle operazioni dell’una e dell’altra natura: «Salva dunque – egli dice – la proprietà dell’una e dell’altra natura, confluenti nell’unica Persona, è stata assunta l’umiltà dalla maestà, la debolezza dalla forza, la mortalità dall’eternità».(16) E ancora: «L’una e l’altra natura conservano senza minorazione la loro proprietà».(17) – Ma la duplice serie di quelle proprietà e operazioni si attribuisce all’unica Persona del Verbo, perché «Uno … e il medesimo è veramente Figlio di Dio e veramente Figlio dell’uomo».(18) per cui: «Operano dunque l’una e l’altra natura con mutua comunione ciò che loro è proprio, cioè il Verbo opera ciò che è proprio del Verbo e la carne esegue ciò che è proprio della carne».(19) Qui appare la ben nota comunicazione degli idiomi, come si suol dire, che Cirillo giustamente difese contro Nestorio, appoggiandosi al solito principio che le due nature di Cristo sussistono nell’unica Persona del Verbo, del Verbo cioè generato dal Padre prima di tutti i secoli, secondo la divinità, è nato da Maria nel tempo, secondo l’umanità. – Questa profonda dottrina, attinta dal Vangelo, senza sconfessare ciò che era stato definito nel concilio Efesino, condanna Eutiche, mentre non risparmia Nestorio; e con essa concorda perfettamente la definizione dogmatica del concilio Calcedonese, la quale parimenti afferma con chiarezza ed energia due distinte nature e una Persona in Cristo con queste parole: «Il santo, grande e universale sinodo condanna (quelli) che fantasticano di due nature del Signore prima dell’unione, e ne immaginano una dopo l’unione. Noi dunque, sulle orme dei santi Padri, insegniamo in pieno accordo a confessare un solo e medesimo Figlio e Signore nostro Gesù Cristo; il medesimo perfetto nella divinità e perfetto nell’umanità, Dio vero e uomo vero, fatto di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre secondo la divinità, consostanziale a noi secondo l’umanità, simile a noi in tutto fuorché nel peccato; generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, da Maria Vergine genitrice di Dio, secondo l’umanità, negli ultimi tempi, per noi e per la nostra salvezza; un solo e medesimo Cristo, Figlio, Signore, Unigenito da riconoscersi in due nature senza confusione, senza separazione, in nessun modo tolta la differenza delle nature per ragione dell’unione, e anzi salva la proprietà dell’una e dell’altra natura concorrenti in una sola Persona e sussistenza: non in due persone scisso o diviso, ma un solo e medesimo Figlio e Unigenito Dio Verbo, Signore Gesù Cristo».(20) – Se si domanda per qual motivo il linguaggio del Concilio di Calcedonia si distingua per chiarezza ed efficacia nell’impugnare l’errore, crediamo dipenda dal fatto che, messa da parte ogni ambiguità, si adoperano termini molto appropriati. Difatti, nella definizione calcedonese, alle voci persona e ipostasi (prósôpon e ypóstasis) si attribuisce uguale significato; invece al termine natura (fýsis) si dà un senso diverso, né mai il significato di esso è attribuito ai due primi. – Pertanto a torto pensavano una volta nestoriani ed eutichiani e oggi vanno dicendo alcuni storici, che il concilio di Calcedonia ha corretto ciò che si era definito nel concilio di Efeso. L’uno completa l’altro; la sintesi poi armonica della dottrina cristologica fondamentale appare definitiva nel secondo e nel terzo concilio di Costantinopoli. – È veramente doloroso che alcuni antichi avversari del Concilio Calcedonese, detti anch’essi monofisiti, abbiano respinto una fede così pura, così sincera e integra, a causa di alcune espressioni di antichi mal comprese. Difatti, sebbene essi fossero avversi ad Eutiche, che parlava assurdamente di mescolanza delle nature di Cristo, pure si attaccarono tenacemente alla nota formula: «Una è la natura del Verbo incarnata», di cui si era servito san Cirillo Alessandrino, come se fosse di sant’Atanasio, ma in senso ortodosso, perché egli intendeva la natura nel significato di persona. I padri di Calcedonia però avevano eliminato ogni equivoco e ogni incertezza da quei termini: giacché essi, equiparando la terminologia trinitaria a quella cristologica, identificarono la natura e l’essenza (ousía) da una parte e la Persona e l’ipostasi dall’altra, distinguendo bene tra loro le due coppie di termini, mentre i suddetti dissidenti identificarono con la Persona la natura, ma non l’essenza. Si deve perciò dire, secondo il linguaggio comune e chiaro, che in Dio c’è una natura e tre persone, ma in Cristo c’è una Persona e due nature. – Per il motivo qui addotto accade che ancora oggi alcuni gruppi di dissidenti sparsi in Egitto, in Etiopia, in Siria, in Armenia e altrove, nel formulare la dottrina dell’Incarnazione del Signore sembrano deviare dal retto sentiero piuttosto con le parole; il che si può arguire dai loro documenti liturgici e teologici. – Del resto già nel secolo XII, un uomo, che presso gli armeni godeva di grande autorità, confessava candidamente il suo pensiero intorno a questa materia: «Noi diciamo che Cristo è una natura non per via di confusione, alla maniera di Eutiche, né di mutilazione, come voleva Apollinare, ma secondo la mente di Cirillo Alessandrino, il quale nel libro Scholia adversus Nestorium dice: Una è la natura del Verbo incarnato, come hanno insegnato i padri. … E noi pure l’abbiamo appreso dalla tradizione dei santi, non introducendo nell’unione di Cristo confusione o mutazione o alterazione secondo il pensiero degli eterodossi, asserendo una natura, ma nel senso d’ipostasi, che voi stessi ponete in Cristo; il che è giusto e noi lo riconosciamo, ed equivale perfettamente alla nostra formula “Una natura…”. Né ricusiamo di dire “due nature” purché non s’intenda per via di divisione come vuole Nestorio, ma si mantenga chiara l’inconfusione contro Eutiche e Apollinare».(21) – Se il gaudio e la santa letizia toccano l’apice quando si realizza la parola del salmo: «Ecco come è bello e giocondo che i fratelli si trovino insieme uniti» (Sal CXXXII,1); se la gloria di Dio allora specialmente risplende congiunta all’utilità di tutti quando la piena verità e la piena carità legano insieme le pecorelle di Cristo, vedano coloro che con amore e dolore abbiamo qui sopra ricordato, se sia lecito e utile tenersi ancora lontano, specialmente per un iniziale equivoco di parole, dalla chiesa una e santa, fondata sugli zaffiri (cf. Is LIV,11) cioè sui profeti e gli apostoli, sulla stessa pietra angolare somma, Gesù Cristo (cf. Ef. II,20). – È del tutto contraria anche alla definizione di fede del concilio di Calcedonia l’opinione, assai diffusa fuori del Cattolicesimo, poggiata su un passo dell’epistola di Paolo apostolo ai Filippesi (Fil II,7), malamente e arbitrariamente interpretato: la dottrina chiamata kenotica, secondo la quale in Cristo si ammette una limitazione della divinità del Verbo; un’invenzione veramente strana che, degna di riprovazione come l’opposto errore del docetismo, riduce tutto il mistero dell’incarnazione e redenzione a ombre evanescenti. «Nell’integra e perfetta natura di vero uomo così insegna eloquentemente Leone Magno, è nato il vero Dio, intero nelle sue proprietà, intero nelle nostre».(22)
Sebbene nulla vieti di scrutare più a fondo l’umanità di Cristo, anche sotto l’aspetto psicologico, tuttavia nell’arduo campo di tali studi non mancano coloro che abbandonano più del giusto le posizioni antiche per costruirne delle nuove, e si servono a torto dell’autorità e della definizione del concilio Calcedonese per sorreggere le proprie elucubrazioni. – Costoro spingono tanto innanzi lo stato e la condizione della natura umana di Cristo da sembrare che essa sia ritenuta un soggetto autonomo, come se non sussistesse nella Persona dello stesso Verbo. Ma il Concilio Calcedonese, in tutto concorde con quello Efesino, afferma chiaramente che le due nature del nostro Redentore convergono «in una sola persona e sussistenza» e proibisce di ammettere in Cristo due individui, di maniera che accanto al Verbo sia posto un certo «uomo assunto», dotato di piena autonomia. – San Leone, poi, non solo tiene la stessa dottrina, ma indica e dimostra anche la fonte da cui attinge questi puri principi: «Tutto ciò – egli dice – che da noi è stato scritto si prova che è stato preso dalla dottrina apostolica ed evangelica».(23). – Difatti la Chiesa fin dai primi tempi, sia nei documenti scritti, sia nella predicazione, sia nelle preci liturgiche, professa in modo chiaro e preciso che l’unigenito Figlio di Dio, consostanziale al Padre, nostro Signore Gesù Cristo, Verbo incarnato è nato sulla terra, ha patito, è stato confitto in croce e, dopo essere risorto dal sepolcro, è asceso al cielo. Inoltre la sacra Scrittura attribuisce all’unico Cristo, Figlio di Dio, proprietà umane, e al medesimo, Figlio dell’Uomo, proprietà divine. – Difatti l’evangelista Giovanni dichiara: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1, 14); Paolo poi scrive di lui: «Il quale, già sussistente nella natura di Dio … si è umiliato, fatto obbediente fino alla morte» (Fil. II, 6-8); oppure: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il Figlio suo fatto da donna» (Gal IV, 4); e lo stesso divino Redentore afferma in modo perentorio: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv. X, 30); e ancora: «Sono uscito dal Padre e son venuto nel mondo» (Gv. XVI, 28). L’origine celeste del nostro Redentore risplende anche in questo testo del Vangelo: «Son disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv. VI, 38). E da quest’altro: «Colui che discende, è quello stesso che ascende sopra tutti i cieli» (Ef. IV, 10). Affermazione che san Tommaso d’Aquino così commenta e illustra: «Chi discende è quegli stesso che ascende. Nel che è designata l’unità della Persona del Dio uomo. Discende infatti … il Figlio di Dio assumendo la natura umana, ma ascende il Figlio dell’uomo secondo l’umana natura alla sublimità della vita immortale. E così lo stesso è il Figlio di Dio, che discende, e il Figlio dell’uomo che ascende». (24) – Questo stesso concetto già l’aveva felicemente espresso il Nostro predecessore Leone Magno con queste parole: «Poiché alla giustificazione degli uomini questo principalmente contribuisce, che l’Unigenito di Dio si è degnato di essere anche il Figlio dell’uomo in maniera che quello stesso che è Dio, homooúsios al Padre, ossia della stessa sostanza del Padre, fosse anche vero uomo e consostanziale alla Madre secondo la carne; noi godiamo dell’uno e dell’altro giacché non ci salviamo che in virtù di ambedue, non dividendo affatto il visibile dall’invisibile, il corporeo dall’incorporeo, il passibile dall’impassibile, il palpabile dall’impalpabile, la forma del servo dalla forma di Dio; perché, sebbene uno sussista fin dall’eternità e l’altro sia cominciato nel tempo, tuttavia, essendo convenuti nell’unione, non possono più avere né separazione né fine». (25) – Solo dunque se con santa e pura fede si crede che in Cristo non c’è altra Persona che quella del Verbo, in cui confluiscono le due nature, l’umana e la divina, del tutto distinte fra di loro, diverse per proprietà e operazioni, appaiono la magnificenza e la pietà della nostra redenzione, mai abbastanza esaltata. – O sublimità della misericordia e della giustizia divina, che portò soccorso ai colpevoli e si procurò dei figli! O cieli curvati in basso affinché, allontanate le brume invernali, apparissero i fiori sulla nostra terra (cf. Ct. II, 11s) e noi diventassimo uomini nuovi, nuova creatura, nuova fattura, gente santa e prole celeste! Il Verbo ha veramente patito nella sua carne, ha sparso il suo sangue sulla croce e all’eterno Padre ha pagato un sovrabbondante prezzo di soddisfazione per le nostre colpe; onde avviene che risplende sicura la speranza di salvezza a coloro che con fede sincera e con carità operosa aderiscono a Cristo e, con l’aiuto della grazia da lui procurata, producono frutti di giustizia.
III
L’evocazione di fasti così gloriosi e così insigni della Chiesa, di natura sua fa sì che Noi con amore più vivo rivolgiamo il pensiero agli orientali. Infatti il sacrosanto Concilio ecumenico di Calcedonia è soprattutto un loro monumento glorioso, che certamente durerà per tutti i secoli: giacché là, sotto la guida della Sede Apostolica, da un’assemblea di circa seicento Vescovi orientali la dottrina dell’unità di Cristo, per cui le due nature, divina e umana, concorrono distintamente e senza confusione in una sola Persona, essendo stata adulterata con empia audacia, fu tempestivamente difesa e mirabilmente dichiarata. Ma purtroppo molti nei paesi orientali si sono miseramente allontanati per una lunga serie di secoli dall’unità del Corpo mistico di Cristo, di cui l’unione ipostatica è fulgido esemplare. Non è forse cosa santa, salutare e conforme alla volontà di Dio che tutti finalmente ritornino all’unico ovile di Cristo?Per quanto spetta a Noi, vogliamo che essi sappiano bene che i nostri pensieri sono di pace e non di afflizione (cf. Ger. XXIX, 11). Peraltro è ben noto che questa disposizione d’animo Noi l’abbiamo dimostrata anche coi fatti e se, per necessità di cose, Ci gloriamo in questo, Ci gloriamo nel Signore, il quale è il datore d’ogni buona volontà. Seguendo dunque le orme dei Nostri predecessori, Ci siamo adoperati assiduamente perché sia facilitato agli orientali il ritorno alla Chiesa Cattolica: abbiamo difeso i loro legittimi riti, promosso gli studi che li riguardano, promulgato per loro provvide leggi, circondato di cura particolare la Congregazione per la Chiesa Orientale istituita nella Curia romana; abbiamo insignito dello splendore della porpora romana il Patriarca degli armeni. – Mentre infieriva la recente guerra con la sequela di miseria, di fame e di malattie, Noi, senza distinzione tra dissidenti e coloro che sogliono chiamarci Padre, Ci siamo adoperati ad alleviare dappertutto il peso delle sciagure: Ci siamo sforzati di aiutare le vedove, i fanciulli, i vecchi, i malati e saremmo stati più felici se avessimo potuto adeguare i mezzi ai desideri. A questa Sede Apostolica dunque, per cui il presiedere è giovare, a quest’incrollabile rupe di verità piantata da Dio, quelli che per calamità di tempi si sono da essa separati – guardando e imitando Flaviano, nuovo Giovanni Crisostomo nel sopportare le prove più dure per la giustizia, i padri calcedonesi, eletti membri del Corpo mistico di Cristo, il forte Marciano, mite e saggio principe, Pulcheria, giglio fulgido di regale e intemerata bellezza – non tardino a rendere il dovuto omaggio: Noi prevediamo quale ricca fonte di beni a comune vantaggio dell’orbe cristiano scaturirà da questo ritorno all’unità della Chiesa. Certo non ignoriamo quale cumulo inveterato di pregiudizi impedisca tenacemente che si realizzi la preghiera innalzata da Cristo all’eterno Padre per i seguaci dell’evangelo, nell’ultima cena: «Che tutti siano una cosa sola» (Gv XVII, 21). Ma conosciamo anche che la forza della preghiera è così grande, se gli oranti, in compatta schiera, ardono di sicura fede in una coscienza pura, che si può spostare perfino una montagna e precipitarla nel mare (cf. Mc XI, 23). Desideriamo dunque ardentemente che tutti coloro cui sta a cuore il caldo richiamo ad abbracciare l’unità cristiana (e nessuno che appartenga a Cristo può far poco conto di una cosa così grave), innalzino preci e suppliche a Dio, Autore e fonte di ordine, unità e bellezza, affinché i voti lodevoli degli uomini migliori si realizzino quanto prima. A spianare certamente il cammino per cui si deve raggiungere tale meta, vale l’indagine senza ira e passione con cui, oggi più che nel passato, sogliono ricostruirsi e vagliarsi i fatti antichi. – Ma c’è un altro motivo che con grande urgenza esige che le schiere denominate cristiane quanto prima si uniscano e combattano sotto un solo vessillo contro i tempestosi assalti del nemico infernale. Chi non ha orrore dell’odio e della ferocia con cui i nemici di Dio, in molti paesi del mondo, minacciano di distruggere o cercano di sradicare tutto ciò che c’è di divino e di cristiano? Contro le associate schiere di costoro, non possono continuare, divisi e dispersi, a perder tempo tutti quelli che, segnati dal carattere battesimale, sono destinati per dovere alla buona battaglia di Cristo. – I ceppi, le sofferenze, i tormenti, i gemiti, il sangue di coloro che, noti o ignoti, moltitudine senza numero, in questi ultimi tempi e ancora oggi, per la costanza della virtù e la professione della fede cristiana hanno sofferto e soffrono, con voce sempre più alta eccitano tutti ad abbracciare questa santa unità della Chiesa. – La speranza del ritorno dei fratelli e dei figli già da lungo tempo separati da questa Sede Apostolica è rafforzata dalla croce inasprita e insanguinata dalle sofferenze di tanti altri fratelli e figli: nessuno impedisca o trascuri l’opera salutare di Dio! Ai benefici e al gaudio di questa unità, con paterna esortazione, invitiamo e richiamiamo anche coloro che seguono gli errori nestoriani e monofisitici. Si persuadano essi che Noi reputiamo come una fulgidissima gemma della corona del Nostro apostolato, se Ci sia dato di poter abbracciare con amore e onore coloro che sono tanto più cari a Noi, quanto più il loro lungo distacco Ce ne ha acuito il desiderio. – Finalmente è Nostro voto che, quando per la vostra sollecita opera, venerabili fratelli, sarà celebrata la commemorazione del sacrosanto concilio Calcedonese, tutti ne traggano impulso ad aderire con solidissima fede a Cristo nostro Redentore e Re. Nessuno, allettato dalle aberrazioni dell’umana filosofia e ingannato dalle tortuosità del linguaggio umano, osi scuotere col dubbio o pervertire con nocive innovazioni il dogma definito a Calcedonia, che cioè in Cristo ci sono due vere e perfette nature, una divina e l’altra umana, congiunte insieme ma non confuse, e sussistenti nell’unica Persona del Verbo. Anzi, uniti strettamente con l’Autore della nostra salvezza, che è «Via di santi costumi, Verità di divina dottrina e Vita di eterna beatitudine», (26) tutti riamino in Lui la propria natura restaurata, onorino la libertà redenta e, rigettata la stoltezza del mondo vecchio, passino con piena letizia alla sapienza dell’infanzia spirituale, che non conosce vecchiezza. – Accolga questi ardentissimi voti Dio uno e trino, la cui natura è bontà e la volontà è potenza, per intercessione della vergine Maria Madre di Dio, dei santi apostoli Pietro e Paolo, di Eufemia vergine calcedonese e martire trionfatrice. E voi, venerabili fratelli, unite per questo le vostre alle Nostre preghiere e fate che quanto vi abbiamo scritto venga a conoscenza di quanti più è possibile. Grati fin d’ora di questo aiuto, a voi e a tutti i sacerdoti e i fedeli affidati alla vostra cura pastorale, impartiamo di gran cuore l’apostolica benedizione, nel cui auspicio possiate sottomettervi più volentieri al giogo leggero e soave di Cristo Re ed essere sempre più simili nell’umiltà a Colui del quale volete partecipare la gloria.
Roma,
presso San Pietro, l’8 settembre, festa della natività di Maria vergine,
nell’anno 1951, XIII del Nostro pontificato.
PIO PP.
XII
(1) PIUS PP. XII, Litt. enc. Sempiternus Rex de œcumenica Chalcedonensi Synodo quindecim abhinc sæculis celebrata, [Ad venerabiles Fratres Patriarchas, Primates, Archiepiscopos, Episcopos aliosque locorum Ordinarios, pacem et communionem cum Apostolica Sede habentes], 8 septembris 1951: AAS 43 (1951), pp. 625-644.
Celebrazioni
del XV centenario del concilio di Calcedonia. Premesse dottrinali e storiche di
quel concilio (8 ottobre -1 ° nov. 451). Le prime vicende dell’eresia di Nestorio
e di Eutiche. Il «latrocinio» di Efeso. Ricorso di Flaviano e di altri vescovi
alla sede apostolica di Roma e intervento di papa Leone. Il concilio:
definizione delle due nature nell’unica persona del Verbo e primato della sede
apostolica di Roma. «Pietro ha parlato per bocca di Leone». Chiarezza e
precisione di termini nella definizione di Calcedonia. Alcune moderne
deviazioni. Dottrina evangelica e apostolica. Appello ai fratelli separati
perché tornino all’unico gregge; unità contro i nemici di Dio e di Cristo;
comunanza di martirio e di sangue.
(2) Registrum Epistularum, I, 25 (al. 24): PL 77, 478; ed. EWALD, I, 36.
(3) S. LEO M., Ep. 28 (Ad Flavianum), 1: PL 54, 755s.
(6) SCHWARTZ, Acta Conciliorum Oecumenicorum, II, vol. II, pars 1. p 78.
(7) THEODORETUS, Ep. 52 (Ad Leonem M.), 1.5.6: PL 54, 847 et 851; cf. PG 83, 1311s et 1315s.
(8) MANSI, Conciliorum amplissima collectio, VI, 1047 (Act. III); SCHWARTZ, II, vol. I, pars altera, p. 29 [225] (Act. II).
(9) SYNODUS CHALCEDONENSIS, Ep. 98 (Ad Leonem M.), 1: PL 54, 951; MANSI, VI, 147.
(10) ANATOLIUS, Ep. 132 (Ad Leonem M.), 4: PL 54, 1084 MANSI, VI, 278s.
(11) MANSI, VII, 10.
(12) SCHWARTZ, II, vol. I, pars altera, p. 81 [277] (Act; III); MANSI, VI, 971 (Act. II).
(13) S. LEO M., Ep. 28, 6: PL 54, 777.
(14) Ibid.
(15) S. LEO M., Ep. 28, 5: PL 54, 771; cf. S. AUGUSTINUS, Contra sermonem Arianorum, c. 8: PL 42, 688.
(16) S. LEO M., Ep. 28, 3: PL 54, 763; cf. S. LEO M., Serm. 21, 2: PL 54,192.
(17) S. LEO M., Ep. 28, 3: PL 54, 765; cf. Serm. 23, 2: PL 54, 201:
(18) S. LEO M., Ep. 28, 4: PL 54, 767.
(19) Ibid.
(20) MANSI, VII, 114 et 115.
(21) Ita NERSES IV ( 1173) in Libello confessionis fidei, ad Manuelem Com nenum imperatorem byzantinum: I. CAPPELLETTI, S. Narsetis Claiensis, Armeno rum Catholici, opera, I, Venetiis 1833, pp. 182-183.
(22) S. LEO M., Ep. 28, 3: PL 54, 763; cf. Serm. 23, 2: PL 54, 201.
(23) S. LEO M., Ep. 152: PL 54, 1123.
(24) S. THOMAS AQ., Comm. in Ep. ad Ephesios, c. IV, lect. III, circa finem.