LA GRAZIA (NOTE DI TEOLOGIA DOGMATICA) – 3 –

LA GRAZIA

(Note di Teologia Dogmatica) (3)

[Ludovico Ott: Compendio di Teologia Dogmatica; Marietti Torino-Herder Roma – imprim. Can. Oddone, Vis. Gen. 7/VI/1955]

§ 12. Il mistero della predestinazione.

1. Concetto e realtà della predestinazione.

a) Concetto.

In senso ampio predestinazione significa qualsiasi disposizione o decreto dell’eterna volontà divina; in senso stretto il decreto della stessa volontà riferentesi al fine soprannaturale delle creature razionali, abbia esso per oggetto la felicità eterna o l’esclusione da essa; in senso strettissimo il decreto di accogliere nella beatitudine celeste determinate creature razionali: Prædestinatio est quædam ratio ordinis aliquorum in salutem æternam in mente divina existens (S. th. I, 23, 2). La predestinazione divina comprende un atto dell’intelletto e uno della volontà: la prescienza e la predeterminazione. Per il suo effetto temporale si distingue la predestinazione incompleta o inadeguata, che si riferisce o soltanto alla grazia (prædestinatio ad gratiam tantum) o soltanto alla gloria (prædestinatio ad gloriam tantum), e la predestinazione completa o adeguata, che ha per oggetto la grazia e la gloria (prædestinatio ad gratiam et gloriam simul). Quest’ultima è definita da S. TOMMASO « una preparazione della grazia nel presente, e della gloria nel futuro » (praeparatio gratiæ in præsenti, et gloriæ in futuro; S. th. I , 23, ob. 4).

b) Realtà.

Dio ha predestinato, mediante il suo decreto eterno, determinati uomini alla beatitudine eterna. De fide.

Il magistero ordinario e universale della Chiesa propone questa dottrina come verità rivelata. Essa è presupposta dalle decisioni dottrinali del Concilio di Trento (D. 805, 825, 827). Cfr. D . 316 ss., 320 ss. La realtà della predestinazione è attestata nel modo più evidente in Rom. VIII, 29-30: « Perché quelli che egli ha preconosciuto li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine di suo Figlio, sì da essere lui primogenito tra molti fratelli. E quelli che ha predestinati questi ha anche chiamati; e quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; e quelli che ha giustificati li ha anche glorificati ». Questo passo pone in rilievo tutti gli elementi che appartengono alla predestinazione completa, l’atto dell’intelligenza e della volontà nel decreto eterno divino (præscire, prædestinare) e i momenti principali della sua attuazione nel tempo (vocare, iustificare, glorificare). Cfr. Mt. XXV, 34; Gv. X, 27-28; Atti XIII, 48; Ef. I, 4 ss. – S. AGOSTINO ed i suoi discepoli difendono contro i pelagiani ed i semipelagiani la realtà della predestinazione come un insegnamento tradizionale di fede. AGOSTINO osserva: « La Chiesa ha sempre avuto la fede in questa verità della predestinazione, fede che ora con rinnovata sollecitudine difende contro i nuovi eretici » (De dono persev. 23, 65). La predestinazione è una parte del piano eterno della divina Provvidenza.

2. Motivo della predestinazione.

a) Punto della questione.

La difficoltà principale della dottrina della predestinazione sta nel sapere se il predestinato stesso esercita una causalità (morale), prevista da Dio, sulla sua predestinazione, se cioè l’eterno decreto della predestinazione è stato formato tenendo conto o meno dei meriti dell’uomo (ante vel post prævisa merita). – La predestinazione incompleta alla sola grazia è indipendente da ogni merito (ante prævisa merita) poiché la prima grazia non si può meritare. Cosi pure è indipendente da ogni merito la predestinazione completa alla grazia ed alla gloria insieme, dato che la prima grazia non si può meritare e che le grazie seguenti e i meriti acquistati con la grazia e la loro ricompensa dipendono dalla grazia prima come gli anelli di una catena. Unicamente dunque per la predestinazione alla sola gloria, si può chiedere se avvenga con o senza la previsione dei meriti. Se c’è tale previsione, il decreto della predestinazione è condizionato (ipotetico), se non c’è è incondizionato (assoluto).

b) Tentativi di soluzione.

1) I tomisti, gli agostiniani, gli scotisti in massima parte e anche alcuni molinisti (Suarez, Bellarmino) sostengono una predestinazione assoluta (ad gloriam tantum), cioè avanti la previsione dei meriti (ante prævisa merita). Dio decide dall’eternità, senza guardare ai meriti dell’uomo, secondo il suo libero beneplacito, la beatitudine eterna di determinate persone e quindi la comunicazione delle grazie efficaci per realizzare il suo decreto (ordo intentionis). Nel tempo poi Egli dà prima le predeterminate grazie efficaci e quindi, come ricompensa per i meriti derivati dalla cooperazione della libertà con la grazia, la beatitudine eterna (ordo executionis). – L’ordine d’intenzione e l’ordine di esecuzione stanno tra loro in rapporto inverso (gloria – grazia; grazia – gloria).

2) La maggior parte dei molinistie anche S. FRANCESCO DI SALES ( f 1622) sostengono una predestinazione condizionata(ad gloriam tantum), cioè dopo la previsione dei meriti (post et propter prævisa merita). Secondo la loro teoria, Dio prevede con la scienza media come si comporterebbe la libertà dell’uomo nei più diversi ordini di grazia possibili. Alla luce di questa conoscenza Egli sceglie, secondo il suo libero beneplacito,un ordine di grazia ben determinato. Quindi con la scienza di visione preconosce infallibilmente quale uso farà il singolo uomo della grazia che gli concede. Coloro che cooperano con perseveranza con la grazia, sono da Lui scelti, in vista dei loro meriti, per la beatitudine eterna; mentre quelli che rifiutano la cooperazione sono destinati, in vista dei loro demeriti, alla pena eterna dell’inferno. L’ordine d’intenzione e l’ordine di esecuzione coincidono (grazia – gloria).

La Chiesa ammette ambedue i tentativi di soluzione (D. 1090). Le prove scritturali addotte dalle rispettive parti non sono decisive. I tomistisi appellano soprattutto ad alcuni passi dell’epistola ai Romani, nei quali balza in prima linea il fattore divino della salvezza (Rom. VIII, 29; IX, 11 – 1 3 ; IX, 20-21). – L’Apostolo però non parla della predestinazione alla sola gloria, ma alla grazia ed alla gloria insieme, predestinazione questa indipendente da ogni merito. — I molinisti si richiamano ai passi che attestano l’universalità della volontà divina salvifica, soprattutto a 1 Tim. II, 4, e alla sentenza del Giudice universale (Mt. XXV, 34-36), in cui le opere di misericordia sono addotte come motivo per essere accolti nel regno celeste. – Che però esse siano anche il motivo della « preparazione » del regno, cioè dell’eterno decreto della predestinazione, non può essere provato con certezza.

– Né può essere decisivo il richiamo ai Padri e ai teologi della Scolastica, giacché la questione venne posta soltanto dai teologi posteriori al Concilio di Trento. Mentre la tradizione preagostiniana è in favore della spiegazione molinista, AGOSTINO, specialmente nei suoi ultimi scritti, favorisce piuttosto quella tomista. Quest’ultima dà forte rilievo alla causalità universale di Dio, mentre la prima accentua di più l’universalità della volontà divina salvifica, la libertà della creatura e l’azione personale dell’uomo nell’opera della salvezza. Le difficoltà che rimangono da una parte e dall’altra provano che la predestinazione è un mistero impenetrabile anche per la ragione illuminata dalla fede (Rom. XI, 33 ss.).

3. Proprietà della predestinazione.

a) Immutabilità.

Il decreto della predestinazione è, quale atto dell’intelletto e della volontà di Dio, immutabile come l’Essere divino stesso. Il numero di coloro che sono scritti nel « Libro della vita » (Fil. IV, 3; Ap. XVII, 8; cfr. Lc. X, 20) è fissato materialmente e formalmente, cioè Dio preconosce e predestina con infallibile certezza quante e quali persone saranno beate. Solo Dio sa quale sia il numero dei predestinati: Deus, cui soli cognitus est numerus electorum in superna felicitate locandus (Secreta prò vivis et defunctis). Contrariamente all’opinione rigorista sostenuta anche da S. TOMMASO (S. th. I, 23, 7), la quale, appellandosi a Mt. VII, 13 (cfr. Mt. XXII, 14), sostiene che il numero dei predestinati sarebbe minore di quello dei reprobi, si deve ammettere, a motivo dell’universale volontà salvifica di Dio e della universalità della redenzione operata da Cristo, che il regno di Cristo non è più piccolo di quello di satana.

b) Incertezza.

Il Concilio di Trento dichiarò contro Calvino, che nessuno può conoscere con certezza se è realmente predestinato, se non mediante una rivelazione particolare: nisi ex speciali revelatione sciri non potest, quos Deus sibi elegerit (D. 805; cfr. D. 825-826). La Scrittura esorta di adoperarsi alla salvezza con timore e tremore (Fil. II, 12). « Chi crede di tenersi ritto, badi di non cadere » (1 Cor. X, 12). Nonostante questa incertezza si danno tuttavia segni (signa prædestinationis) dai quali si può arguire, almeno con grande probabilità, se si è predestinati (perseverante esercizio delle virtù raccomandate nelle otto beatitudini, comunione frequente, operoso amore del prossimo, amore a Cristo e alla Chiesa, devozione alla Madre di Dio).

§ 13. Il mistero della riprovazione.

3. Proprietà della predestinazione.

1. Concetto e realtà della riprovazione.

Per riprovazione s’intende il decreto eterno della volontà divina di escludere determinate creature ragionevoli dalla beatitudine eterna. Per i meriti soprannaturali, che sono il fondamento della eterna felicità, Dio coopera positivamente con la sua grazia, mentre invece per i peccati, che sono il motivo della dannazione eterna, non coopera affatto, ma si limita unicamente a permetterli. La riprovazione si distingue in positivae negativa a seconda che il decreto divino ha per oggetto la dannazione alla pena eterna dell’inferno oppure la non elezione alla beatitudine celeste. Si distingue pure in condizionata e incondizionata(assoluta) a seconda che il decreto divino è dipendente o non dalla previsione dei demeriti.

Dio, con il suo eterno decreto, ha predestinato determinate persone, in previsione dei loro peccati, alla riprovazione eterna. De fide.

La realtà della riprovazione non è formalmente definita, ma è insegnamento comune della Chiesa. Il Concilio di Valenza (855) insegna: fatemur prædestinationem impiorum ad mortem (D. 322). La Scrittura l’attesta in Mt. XXV, 41: « Andate via da me, o maledetti, al fuoco eterno, che è stato preparato per il diavolo e per gli angeli suoi », e in Rom. IX, 22: « Vasi di ira preparati per la perdizione ».

2. Riprovazione positiva.

a) Il predestinazianismo eretico nelle sue diverse forme (il prete gallo Lucido nel V secolo; il monaco Gottschalk nel secolo IX, secondo le informazioni dei suoi avversari che però non trovano conferma nei suoi libri riscoperti; Wicleff, Huss e soprattutto Calvino) insegna una predestinazione positiva al peccato ed una predestinazione incondizionata alla pena eterna dell’inferno, cioè senza tener conto dei demeriti. Il predestinazianismo venne condannato come eresia nei Concilii particolari di Orange (D. 200), Quiercy e Valenza (D. 316, 322) e nel Concilio ecumenico di Trento (D. 827). La riprovazione positiva incondizionata conduce alla negazione della universalità della volontà divina salvifica ed è in contraddizione con la giustizia e la santità di Dio e con la libertà dell’uomo.

b) Secondo la dottrina della Chiesa c’è una riprovazione positiva condizionata, cioè dipendente dalla previsione dei demeriti (post et propter prævisa demerita). Essa è richiesta dalla universalità della volontà divina salvifica, la quale esclude che Dio voglia fin da principio la perdizione di determinate persone. Cfr. I Tim. II. 4; Ez. XXIII, 11; 2 Piet. III, 9.

S. AGOSTINO insegna: « Dio è buono, Dio è giusto. Egli può salvare qualcuno senza meriti buoni, perché è buono; ma non può condannare nessuno senza meriti cattivi, perché  è giusto » (Contro Iul. III, 18, 35).

3. Riprovazione negativa.

I tomistisostengono, in corrispondenza con la predestinazione assoluta alla beatitudine eterna, una riprovazione pure assoluta, però soltanto negativa. La maggior parte di loro l’intende come una non elezione all’eterna felicità (non-electio), congiunta con il decreto della volontà divina di permettere che una parte delle creature ragionevoli cada in peccato e così, per propria colpa, perda la salute eterna. Contrariamente alla riprovazione assoluta positiva, i tomisti mantengono fermamente l’universalità della volontà divina salvifica e della redenzione, la concessione della grazia sufficiente ai reprobi con l’universalità della volontà divina salvifica. Quanto all’effetto, la riprovazione negativa incondizionata dei tomisti coincide con quella incondizionata positiva dei predestinazianisti, poiché fuori del cielo e dell’inferno non c’è un terzo stato definitivo.

4. Proprietà della riprovazione.

II decreto divino di riprovazione è, come quello della predestinazione, immutabile e incerto: senza una speciale rivelazione l’uomo non può conoscerlo.

CAPITOLO QUARTO

Grazia e libertà.

§ 14. La dottrina della Chiesa.

Dio concede a tutti gli uomini grazia sufficiente per la loro salvezza, ma di fatto soltanto una parte di essi la consegue. Vi sono, quindi, grazie che sortiscono l’effetto salutare voluto da Dio (gratiæ efficaces) e grazie che non sortiscono tale effetto (gratiæ mere sufficientes). Si tratta ora di sapere se la ragione di questa diversa efficacia stia nella grazia stessa, ovvero nella libertà umana. I riformatori ed i giansenisti cercarono di risolvere radicalmente la difficile questione negando la libertà. Cfr. LUTERO, De servo arbitrio. – Contro di essi la Chiesa difende la collaborazione della libertà con la grazia; i teologi poi cercano con vari sistemi di spiegare l’intima ragione dell’efficacia della grazia stessa.

1. Permanenza della libertà sotto l’influsso della grazia efficace.

La volontà umana rimane libera sotto l’influsso della grazia efficace. La grazia non è irresistibile. De fide.

Il Concilio di Trento dichiarò contro i Protestanti:

« Se qualcuno dirà che il libero arbitrio dell’uomo, mosso ed eccitato da Dio, non cooperi affatto, assentendo alla chiamata e all’eccitamento divino, e non possa disporsi e prepararsi a ricevere la grazia della giustificazione, e non possa dissentire, se vuole (neque posse dissentire si velit), ma comportarsi solo passivamente (mere passive) come un essere morto che in nessun modo può agire, sia anatema » (D. 814). Innocenzo X condannò la seguente proposizione di Cornelio Giansenio come eretica: « Nello stato di natura decaduta non si resiste mai alla grazia interna » (D. 1093). Cfr.

D. 797, 815-816, 1094-1095. – La Scrittura pone in risalto ora il fattore umano della libertà ora quello divino della grazia. Le numerose esortazioni alla penitenza ed al compimento di opere buone presuppongono che la grazia non tolga la libertà umana. La sua permanenza di fronte alla grazia è espressamente attestata in Deut. XXX, 19; Eccli. XV, 18; XXXI, 10; Mt. XXIII, 27: « Quante volte volli raccogliere i tuoi figli,ma tu non hai voluto »; Atti VII, 51: « Voi resistete sempre allo Spirito Santo ». La cooperazione della grazia e della libertà è posta anche in risalto da Paolo in 1 Cor. XV, 10: « Ma per grazia di Dio sono quel che sono, e la grazia di lui verso di me non fu cosa vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non già io, ma la grazia di Dio con me » (non ego autem, sed gratia Dei mecum). Cfr. 2 Cor. VI, 1; Fil. II, 12. – S. AGOSTINO, a cui si richiamano gli avversari, non ha mai negato la libertà di fronte alla grazia. Per difendere la libertà egli compose nel 426 o nel 427 il De gratia et libero arbitrio,nel quale cerca istruire e tranquillizzare coloro che « credono sia negata la libertà quando si difende la grazia, e quelli che difendono talmente la libertà da negare la grazia e affermare che ci vien concessa secondo i nostri meriti » (1, 1). La giustificazione non è soltanto opera della grazia, ma anche della libera volontà: « Colui che ti ha creato senza di te, non ti giustifica senza di te » (Sermo 169, 11, 13). Quando Agostino osserva che « noi operiamo secondo ciò che ci diletta maggiormente» (quod amplius nos delectat, secundum id operemur necesse est; Expositio ep. ad Gal. 49), non pensa ad un diletto buono o cattivo indeliberato, che preceda la decisione della volontà e la determini, come spiegavano i giansenisti, ma ad un diletto deliberato, compreso nella decisione della volontà.La permanenza della libertà sotto l’influsso della grazia èil presupposto necessario perché le opere buone siano meritoria. In favore della dottrina cattolica sta anche la testimonianza della coscienza umana.

2. La grazia sufficiente.

C’è una grazia che è veramente sufficiente, ma che rimane tuttavia inefficace. De fide.

Si intende con questo nome quella grazia, che attese le circostanze concrete, conferisce il potere di fare l’atto salutare (vere et relative sufficiens), ma che per la resistenza della volontà rimane di fatto inefficace (mere vel pure sufficiens). I riformatori e i giansenisti negarono la grazia sufficiente così concepita poiché, secondo loro, mancando il libero arbitrio, la grazia esercita un influsso necessitante sulla volontà. Pertanto, a loro vedere, la grazia sufficiente è sempre efficace. – La Chiesa, affermando la grazia veramente sufficiente, difende ancor una volta la libertà umana. Secondo la dottrina del Concilio di Trento l’uomo, mediante l’aiuto della grazia preveniente, può prepararsi alla giustificazione (vere sufficiens); ma egli può anche negare il suo assenso (mere sufficiens): potest dissentire si velit (D. 814; cfr. D. 797). Alessandro VIII condannò la proposizione giansenista secondo cui la grazia sufficiente non solo sarebbe inutile, ma nociva perché rende l’uomo debitore di fronte a Dio (D. 1296). – La Scrittura attesta che l’uomo spesso non utilizza la grazia che gli è offerta. Cfr. Mt. XXIII, 37; Atti VII, 51. La Tradizione insegna unanime la realtà delle grazie sufficienti, che rimangono senza effetto per colpa dell’uomo. – Anche S. AGOSTINO conosce, di fatto se non a parole, la distinzione tra grazie solo sufficienti e grazie efficaci. Cfr. De spiritu et littera 34, 60: « In tutto ci previene la sua misericordia. Però l’acconsentire alla chiamata di Dio o il dissentire da essa dipende dalla nostra volontà ». Quando non accetta come vera grazia quella che dà solo il potere (gratia quæ dat posse), egli pensa alla grazia di possibilità (gratia possibilitatis) dei pelagiani, consistente nel libero arbitrio. L’esistenza della grazia sufficiente deriva logicamente dalla universalità della volontà divina salvifica e della grazia, da un lato, e, da un altro lato, dal fatto che non tutti gli uomini conseguono la salvezza eterna.

§ 15. Indagine teologica.

1 . Tomismo.

La viva discussione teologica, sorta verso la fine del secolo XVI, riguardo al rapporto tra la grazia efficace e la libertà, si riduce a questo: quale è il motivo per cui la grazia efficace sortisce con infallibile certezza l’atto salutare voluto da Dio? Questo motivo sta nella grazia stessa o nel libero consenso della volontà previsto da Dio? La grazia è efficace per sua intrinseca virtù (per se sive ab intrinseco) oppure diviene tale per il consenso della libertà (per accidens sive ab extrinseco)? Di qui sorge l’altra questione: la grazia efficace è intrinsecamente distinta da quella sufficiente o lo è solo estrinsecamente per l’intervento del libero consenso della volontà? – Il tomismo elaborato dal domenicano spagnolo DOMENICO BANEZ ( f 1604) e sostenuto principalmente dai teologi dello stesso ordine, insegna quanto segue: Dio da tutta l’eternità stabilisce di salvare determinate persone e, come mezzo per tale fine, di concedere la relativa grazia efficace. Con quest’ultima Egli, nel tempo, opera fisicamente sulla libertà dell’uomo e lo muove a decidersi liberamente di cooperare alla grazia.La grazia efficace opera per sua intrinseca virtù (per se sive ab intrinseco) infallibilmente il consenso della volontà. Pertanto si distingue intrinsecamente ed essenzialmente dalla grazia sufficiente che dà solo la potenza di fare l’atto salutare. Perché poi questa potenza passi all’atto occorre l’intervento di una nuova grazia, intrinsecamente diversa (gratia efficax).Il libero consenso della libertà umana Dio lo prevede infallibilmente nel decreto della sua volontà, col quale dall’eternità ha deciso e la salvezza di determinate persone e la concessione di grazie efficaci. Il valore di questa concezione consiste nello sviluppare coerentemente il concetto che Dio è la causa prima di tutte le azioni create e che le creature, sia nel loro essere, sia nel loro agire, dipendono totalmente da Lui. Restano tuttavia le difficoltà del come la grazia sufficiente sia davvero sufficiente e del come si possa conciliare la libertà umana con la grazia efficace.

2 . Agostinianesimo.

Perfezionato nei secoli XVII-XVIII dagli eremiti agostiniani, come il card. ENRICO NORIS (t 1704) e LORENZO BERTI (f 1766) l’agostinianesimo ammette come il tomismo, che la grazia è efficace per intrinseca virtù. Tuttavia a differenza dei tomisti, sostiene che tale grazia efficace predetermina la volontà non fisicamente, ma soltanto moralmente mediante la dilettazione vittoriosa del bene, la quale produce il consenso della volontà in modo infallibile, ma libero (sistema della predeterminazione morale). L‘agostinianesimo cerca di salvaguardare la libertà, ma concepisce la grazia unilateralmente come semplice dilettazione, e non spiega sufficientemente l’infallibile successo della grazia efficace e la prescienza divina.

3. Molinismo.

Il molinismo, fondato dal teologo gesuita spagnolo LUDOVICO MOLINA (f 1600) e sostenuto principalmente dai teologi della Compagnia di Gesù, ammette tra la grazia sufficiente e quella efficace una differenza non intrinseca ed essenziale,ma esterna ed accidentale. Dio fornisce alla volontà la grazia sufficiente per agire soprannaturalmente, sicché l’uomo, senza l’aiuto di una nuova e distinta grazia, può porre l’atto salutare.Quando la volontà consente alla grazia e compie con essa l’atto salutare, la grazia sufficiente diventa isso fatto efficace.Se invece la volontà non presta il consenso, la grazia rimane soltanto sufficiente. Il libero consenso è infallibilmente previsto da Dio mediante la scienza media.Il molinismo accentua in modo particolare la libertà umana e con ciò indebolisce l’universale causalità divina. Rimane oscura la scienza media e la previsione, in essa fondata, del successo infallibile della grazia efficace.

4. Congruismo.

Il congruismo dovuto a FRANCESCO SUAREZ ( f 1617) e a ROBERTO BELLARMINO (f 1621), prescritto da CLAUDIO ACQUAVIVA (f 1613), Generale dei Gesuiti, come dottrina dell’Ordine, è un’ulteriore elaborazione del molinismo. Secondo tale sistema la diversità tra la grazia sufficiente e la grazia efficace è fondata non soltanto nel consenso della libera volontà, ma anche sulla convenienza o congruenza della grazia con le condizioni concrete di chi la riceve. Quando la grazia è adatta o proporzionata alle condizioni concrete esterne ed interne dell’uomo (gratia congrua), diviene efficace mediante il libero consenso della volontà; quando non lo è (gratia incongrua) rimane inefficace per la mancanza del consenso della volontà. Dio prevede la congruenza della grazia e il suo successo infallibile mediante la scienza media. Il congruismo in confronto con il molinismo accentua di più il fattore divino nell’opera della salvezza.

5. Sincretismo.

Il sincretismo, sostenuto principalmente dai teologi della Sorbona (NICOLA YSAMBERT f 1642; ISACCO HABERT f 1688; ONORATO TOURNELY f 1729) e da S. ALFONSO DE’ LIGUORI (f 1787), cerca di tenere una via di mezzo tra i sistemi nominati. Esso distingue due sorta di grazia efficace: con il molinismo ed il congruismo ammette per le opere buone più facili, in modo speciale per la preghiera, una grazia estrinsecamente efficace; con il tomismo e l’agostinianesimo ammette per le opere buone più difficili e per il superamento di gravi tentazioni, una grazia intrinsecamente efficace, la quale però determina non fisicamente, ma (nel senso dell’agostinianesimo) soltanto moralmente la libera volontà (prædeterminatio moralis). Coloro che utilizzano la grazia estrinsecamente efficace, soprattutto quella della preghiera, ottengono infallibilmente, mediante il sicuro esaudimento della preghiera stessa, la grazia efficace di per sé. Il sincretismo ha tutte le difficoltà che si incontrano nei diversi sistemi della grazia. Giusto è il concetto che la preghiera abbia una parte importante nella realizzazione della salvezza.

[3 – Continua …]

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SALMI BIBLICI: “DOMINE, NE IN FURORE TUO ARGUAS ME” (XXXVII)

SALMO 37: “DOMINE, ne in furore tuo .. quoniam sagittæ”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 37

[1] Psalmus David, in rememorationem de sabbato.

[2] Domine, ne in furore tuo arguas me,

neque in ira tua corripias me;

[3] quoniam sagittæ tuæ infixae sunt mihi, et confirmasti super me manum tuam.

[4] Non est sanitas in carne mea, a facie irae tuae; non est pax ossibus meis, a facie peccatorum meorum:

[5] quoniam iniquitates meae supergressae sunt caput meum, et sicut onus grave gravatæ sunt super me.

[6] Putruerunt et corruptæ sunt cicatrices meæ, a facie insipientiae meæ.

[7] Miser factus sum et curvatus sum usque in finem; tota die contristatus ingrediebar.

[8] Quoniam lumbi mei impleti sunt illusionibus, et non est sanitas in carne mea.

[9] Afflictus sum, et humiliatus sum nimis; rugiebam a gemitu cordis mei.

[10] Domine, ante te omne desiderium meum, et gemitus meus a te non est absconditus.

[11] Cor meum conturbatum est, dereliquit me virtus mea, et lumen oculorum meorum, et ipsum non est mecum.

[12] Amici mei et proximi mei adversum me appropinquaverunt, et steterunt; et qui juxta me erant, de longe steterunt, et vim faciebant qui quaerebant animam meam.

[13] Et qui inquirebant mala mihi, locuti sunt vanitates, et dolos tota die meditabantur.

[14] Ego autem, tamquam surdus, non audiebam; et sicut mutus non aperiens os suum.

[15] Et factus sum sicut homo non audiens, et non habens in ore suo redargutiones.

[16] Quoniam in te, Domine, speravi; tu exaudies me, Domine Deus meus.

[17] Quia dixi: Nequando supergaudeant mihi inimici mei; et dum commoventur pedes mei, super me magna locuti sunt.

[18] Quoniam ego in flagella paratus sum, et dolor meus in conspectu meo semper.

[19] Quoniam iniquitatem meam annuntiabo, et cogitabo pro peccato meo.

[20] Inimici autem mei vivunt, et confirmati sunt super me: et multiplicati sunt qui oderunt me inique.

[21] Qui retribuunt mala pro bonis detrahebant mihi, quoniam sequebar bonitatem.

[22] Ne derelinquas me, Domine Deus meus; ne discesseris a me.

[23] Intende in adjutorium meum, Domine, Deus salutis meæ.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XXXVII

Preghiera d’un penitente, e forse di Davide che fuggiva da Gerusalemme per la persecuzione di Assalonne. Il titolo per commemorazione del sabbato,  è ad indicare la quiete di cui gode la coscienza mentre è in grazia, e di cui con pianto si ricorda il peccatore penitente.

1. Salmo di David, per commemorazione pel giorno di sabato.

2. Signore, non mi riprendere nel tuo furore, e non mi correggere nell’ira tua.

3. Perocché io porto fitte nella mia persona le tue saette ed hai aggravato la mano tua sopra di me.

4. A cagione dell’ira tua ha sanità la mia carne; non hanno pace le ossa mie, a cagione dei miei peccati.

5. Imperocché le mie iniquità sormontano la mia testa e come peso grave mi premono.

6. Si sono imputridite, corrotte le piaghe mie, a cagione di mia stoltezza.

7. Son divenuto miserabile, e sono formisura incurvato: io mi andava tutto il dì carico di tristezza;

8. Perché pieni sono di illusione i miei reni, e nella carne mia non è sanità.

9. Sono abbattuto ed umiliato oltremodo: sfogava in ruggiti i gemiti del mio cuore.

10. Signore, sotto i tuoi occhi è ogni mio desiderio, e non è ascoso a te il mio gemere.

11. Il mio cuore è turbato, la mia forza mi ha abbandonato, e lo stesso lume degli occhi non è più meco.

12. Gli amici miei e i miei congiunti vennero, e si stettero a me dirimpetto. E i miei vicini da lungi si stavano.

13. Ma quelli che cercavano la mia vita, facevano i loro sforzi.

E quei che bramavano di nuocermi, parlavano superbamente, e tutto si studiavano inganni.

14. Ma io, quasi sordo, non udiva, e fui come un mutolo, che non apre sua bocca.

15. E mi diportai qual uomo che nulla intende, e non ha che dire in sua difesa.

16. Perché in te io posi la mia speranza; tu mi esaudirai; Signore Dio mio.

17. Perché io dissi: Non trionfino giammai di me i miei nemici, i quali, ogni volta che i miei piedi vacillino, parlano superbamente contro di me.

18. Perché io son preparalo a flagelli, e sta sempre dinanzi a me il mio dolore.

19. Perché io confesserò la mia iniquità, e penserò al mio peccato.

20. Ma i miei nemici vivono, e son più forti di me, e sono cresciuti di numero quei che mi odiano ingiustamente.

21. Quelli che rendono male per bene, parlavano male di me, perché io cercava il bene.

22. Non abbandonarmi, Signore Dio mio, non ti allontanare da me.

23. Accorri in mio aiuto, o Signore Dio di mia salute.

Sommario analitico

In questo salmo, composto da Davide molto probabilmente durante la rivolta di Assalonne, il Re-Profeta deplora le tristi conseguenze del peccato di impurità nel quale egli era caduto. Bisogna considerare:

I – Che Dio ha in orrore questo peccato: 1° esso provoca il suo furore e la sua collera, ciò che fa sì che David esclami: « Signore. etc.; » (2); 2° esso attira sul peccatore non solo le minacce, ma i dardi della giustizia divina e la mano pesante sul peccatore (3).

II.– Che questo peccato è estremamente nocivo per il peccatore:

al suo corpo, a) è il principio di numerose malattie; b) dissipa la forza ed il vigore del corpo (3); c) ne indica la causa, la molteplicità delle sue iniquità, che diventano un peso schiacciante (4); d) è un principio di corruzione per il corpo e per l’anima (5); e) è causa di tristezza, di illusioni pericolose dei sensi e di umiliazione profonda (6-9).

all’anima, a) turba la volontà e la spoglia della forza necessaria a resistere ai nemici; b) è causa di cecità per l’intelligenza (10).

III. – questo peccato rende colui che ne è colpevole, odioso agli altri:

1° si lamenta per essere stato abbandonato: a) dai suoi amici (11), b) dalle persone della sua casa (12); c) dai suoi nemici che lo hanno perseguitato – 1) con le opere inique, – 2) con i loro discorsi ingiusti, – 3) con i loro disegni criminosi (13).

2° Egli fa conoscere la pazienza con la quale ha sopportato tutte queste pene:

a) chiudendo le sue orecchie con una saggia e prudente dissimulazione (14); b) non aprendo la sua bocca (15), con un silenzio di cui dà tre ragioni: – 1) la speranza che ha nel Signore; – 2) il timore che si renda oltraggio per oltraggio e non sia abbandonato da Dio (17); – 3) la disposizione a soffrire i castighi della giustizia divina (18), ed il ricordo del suo peccato per il quale è pronto a soddisfare (19).

3° Egli implora il soccorso di Dio contro i suoi nemici: a) ne fa vedere la potenza, la moltitudine (20), la malizia (21); b) chiede a Dio: – 1) di non abbandonarlo con la sottrazione delle sue grazie; – 2) di non sottrargli la consolazione della sua presenza (22), – 3) di dargli tutti i soccorsi efficaci per giungere al porto della salvezza (23).

Spiegazioni e Considerazioni

I. 1-2

ff. 1. – Il Re Profeta si riconosce colpevole, vede le sue piaghe, ne domanda la guarigione. Colui che vuole essere guarito non teme di essere ripreso; egli desidera non di essere ripreso col furore, ma con la parola, con il verbo di Dio. La parola di Dio è onnipotente nel guarire le anime: « Egli ha inviato la sua parola, è detto allora, e li ha guariti » (Ps. CVI, 20). – Egli non vuole essere corretto dalla collera, ma dalla dottrina. Così, pregate il medico di non mettere il ferro nella piaga, ma di applicarvi un rimedio efficace. Il dolore che produce questo rimedio è anch’esso vivo, ma non eccessivo; esso è penetrante, ma non fa sgorgare il sangue (S. Ambr.). – Dio, sovranamente giusto, non può non perseguire il peccatore perché esso intacca la sua giustizia. Così non domandiamo che i nostri peccati non siano puniti, ma che Dio li punisca come padre, i cui castighi sono sempre accompagnati dalla tenerezza e dall’amore, e non come nemico, i cui castighi crudeli hanno lo scopo di perdere coloro che li patiscono (Gerem. XXX, 44). – Perché il profeta prega il Signore di non riprenderlo nella sua indignazione, e di non correggerlo nella sua collera? È come se dicesse a Dio: poiché i mali che mi accadono sono già grandi e numerosi, vi supplico di non aumentarli. Egli comincia allora ad enumerarli, come per soddisfare Dio, e Gli offre i suoi dolori per non averne da sopportare di ancor più considerevoli. (S. Agost.).

ff. 2. – Questi dardi del Signore sono il timore dei suoi terribili giudizi che squarciano il cuore; sono i crudeli rimorsi di coscienza che come spine aguzze, penetrano fin in fondo all’anima. Queste frecce che penetrano Davide da ogni parte non sono quelle di cui Giobbe diceva: « I dardi dell’Onnipotente sono su di me, ed il loro furore spossa la mia anima ». (Giob. VI, 3). Sono queste, delle frecce spirituali, forse le parole stesse di Dio, che trafiggono la sua anima ed infliggono alla sua coscienza il castigo che essa meritava. Queste verità che ricordano all’anima i giusti giudizi di Dio, che mostrano al peccatore la vendetta divina sospesa sul capo, sono più penetranti delle frecce più acute, perché penetrano la coscienza da parte a parte, producendo dolorose ferite, e divengono per essa un pungiglione salutare. È quindi con ragione che David, colpito da questi dardi sacri della giustizia divina, prega Iddio di non riprenderlo nel suo furore, di non abbatterlo nel suo furore. E perché? « Perché le vostre frecce mi hanno penetrato ». Questi dardi lanciati dalla vostra mano contro di me, sono un supplizio, un castigo sufficiente per le mie colpe. (S. Bas.).

II – 3-10.

ff. 3. – Davide non fa qui come i peccatori che si rivoltano contro i dardi della collera divina. Egli non attribuisce i suoi dolori alla malizia degli uomini, all’ingiustizia della sorte, al rigore della Provvidenza; egli ne trova la causa nelle sue iniquità, esempio che dovrebbe essere seguito da tutti gli uomini, poiché tutti sono peccatori (Berthier). – Nessuna pace per le potenze dell’anima nostra c’è quando i nostri peccati giungono a presentarsi in massa davanti ai nostri occhi, ed espandersi come una nube spessa sul nostro spirito … i nostri peccati sono i nostri più grandi nemici, essi tormentano coloro che sono in riposo, affliggono le anime che hanno recuperato la salvezza, contristano coloro che sono nella gioia, inquietano gli spiriti più calmi, agitano gli umili, risvegliano le anime dormienti. Noi siamo colpevoli senza che nessuno ci accusi, siamo torturati senza un carnefice, siamo legati senza catene, siamo venduti senza che nessuno ci compri, come dice il profeta Isaia (L, 1): « … voi siete stati venduti a causa dei vostri peccati ». (S. Ambr.).

ff. 4. – Due sono le comparazioni in questo versetto, l’una presa dall’abbondanza delle acque che si elevano sopra la testa di un uomo piombato nell’abisso; l’altra ricavata da un peso che schiaccia colui che intraprende il portarlo. Circostanze che aggravano il peccato di Davide: adulterio, omicidio, scandalo, doppiezza, ingratitudine enorme verso Dio e oblio dei suoi benefici (Berthier). – Ragion per la quale se pochi uomini sentono per i loro peccati il dolore che dovrebbero averne, è perché non ne soppesano tutte le circostanza criminali.

ff. 5. – Vedete come Davide si accusa, non di un solo peccato, ma di tutti quelli che ha commesso; peccati sì grandi, sì enormi, che non possono restare nascosti nella sua anima, ma che si riversano esternamente, e si elevano al di sopra della sua testa, in modo da essere percepiti e conosciuti da tutti. – Impariamo a non nascondere i nostri errori, a non seppellirli nell’interno della nostra anima, a non rinchiudere dentro noi stessi questo marciume, questa corruzione, che imprime sulla nostra coscienza le stimmate dell’ignominia (S. Bas.). – Mai si è adoperato un tal linguaggio per le piaghe corporee. Giobbe stesso, tutto coperto da ulcere orripilanti, Giobbe, nell’eccesso dei suoi mali, nella violenza dei suoi pianti, non ha mai imputato alla sua follia, alla sua stupidità, l’orribile estrema condizione alla quale il suo corpo era ridotto. Ed in effetti l’uomo non fa, non vuole i mali del suo corpo. Egli impiega ogni cura onde preservarlo. Se gli accade un male, ricorre presto all’arte dei medici, alla potenza dei rimedi. Ma in morale, non è così: l’uomo fa, l’uomo vuole i mali della sua anima. Egli li cerca, li attira, li aumenta, li inasprisce; egli vi applica tutte le forze della sua volontà, tutte le luci della sua intelligenza, tutto l’ardore dei suoi desideri. Evidentemente, nel peccatore che scientemente si ingegna nel fare il male, vi è la stupidità, e questa stupidità alla fine corrompe sia l’anima che il corpo, entrambi destinati, nel pensiero di Dio, a gioire eternamente di una gloriosa immortalità (Rendu). – Consideriamo da noi stessi le piaghe della nostra anima, le sue ulcere inveterate, la degenerazione, la gangrena, la morte nelle sue vene, il cuore attaccato e già quasi tutto penetrato dal veleno. – « Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è in esso una parte illesa, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono state ripulite, né fasciate, né curate con olio. » (Isai. I, 6). – Le cicatrici qui designano l’azione della penitenza, e la ferita, il peccato stesso. Colui che espia e corregge i suoi peccati con gemiti di penitenza, cicatrizza per così dire le ferite fatte alla sua anima col peccato; ma se il ricordo delle iniquità che gli sono state rimesse l’attira e lo conduce nuovamente verso il peccato, le cicatrici antiche si corrompono, e Davide ne indica la causa, quando aggiunge: « … a causa della mia follia, delle mie imprudenti ricadute » (S. Greg.).

ff. 6. –  « Io sono divenuto miserabile e tutto ricurvo ». Perché curvo? … perché si era elevato! Se siete umile, sarete elevato; se vi siete elevato sarete curvato; perché Dio non mancherà di usare un peso per curvarvi. Questo peso, sarà il fardello dei vostri peccati; e si ripiegherà sulla vostra testa, e voi sarete curvi. Che cos’è dunque l’essere curvato? È il non potersi rialzare. (S. Agost.). – È questa l’immagine di colui che pecca gravemente e che cade sotto la servitù umiliante dei sensi: chi non trova nel suo peccato miseria, avvilimento, dolore, tristezza? La sua anima, che doveva essere continuamente elevata alla contemplazione delle delizie celesti, si è indegnamente abbassata all’infamia dei piaceri sensuali, è diventata tutta curva e tutta carnale. Pressata dai rimproveri della propria coscienza, cammina oppressa da una profonda e continua tristezza.

ff. 7. – Chi è colui la cui anima non soffra queste miserie? Queste pericolose illusioni, questi movimenti vergognosi, cattivi figli di un padre ancora peggiore, ci lasciano appena la volontà di pregare. Noi non possiamo pensare agli oggetti corporali che con l’aiuto di immagini, e spesso quelle che noi cerchiamo non fanno irruzione in noi, fintantoché noi vogliamo uscire dall’una per entrare nell’altra o passare dall’una all’altra (S. Agost.). – Chi non ha gridato spesso come il grande Apostolo: « io sento nelle membra del mio corpo un’altra legge che combatte contro la legge del mio spirito, e che rende prigioniero sotto la legge del peccato che è nelle membra del mio corpo? Io non faccio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Maledetto uomo io sono! Chi mi libererà da questo corpo di morte? »  (Rom. VII, 24).

ff. 8. – Ascoltate il parlare di questo santo penitente: « … io sono afflitto all’eccesso ». Non era un gemito come quello di una colomba, ma un ruggito simile a quello di un leone; era questo il pianto di un uomo irritato contro i propri vizi, che non può soffrire il suo languore, la sua viltà, la sua debolezza. Questa collera lo porta fino ad una specie di furore: « Il furore ha riempito il mio occhio di scompiglio ». Perché non potendo soffrire le sue ricadute, prende delle risoluzioni estreme contro la sua lentezza e lassità: egli non sogna che di sbarazzarsi delle compagnie che lo perdono; … cerca l’ombra e la solitudine. Dirò la parola del profeta? Egli è come quegli uccelli che fuggono la luce del giorno, « come un gufo nella sua casa ». In queste solitudine, in questo ritiro, egli si indigna contro se stesso; egli fa dei grandi e potenti sforzi per prendere delle abitudini contrarie alle sue: « affinché – dice S. Agostino – il costume del peccatore cede alla violenza della penitenza » (Bossuet, Serm. sur la Pénit.). – I servitori di Dio Lo pregano il più sovente con gemiti, e voi ne cercate la causa. Infatti i gemiti di un servitore di Dio non vanno oltre l’orecchio di un uomo posto vicino a lui; e c’è anche un gemito nascosto che l’uomo non intende. Se dunque il cuore è invaso dall’espressione così viva di un qualche desiderio, che la ferita dell’uomo interiore sia rivelata da segni evidenti, se ne cerca la causa e si dice in se stesso: è forse questa cosa che lo fa gemere? Chi può comprendere questi gemiti, se non colui agli occhi e all’orecchio del quale sono indirizzati? Ecco perché il poeta dice: « … io ruggisco per i gemiti del mio cuore, perché se gli uomini intendono talvolta il gemito di un uomo, più spesso essi intendono i gemiti di colui che geme nel suo cuore. Qualcuno, non so chi, ha rapito ciò che quest’uomo possedeva; egli possedeva dei ruggiti, ma non era il suo cuore che ruggisce (S. Agost.).

ff. 9. – E non è davanti agli uomini che non possono vedere il cuore, ma è davanti a voi che ogni mio desiderio è esposto. « che il vostro desiderio sia esposto davanti a lui » e « … il Padre che vede nel segreto, ve lo renderà. » (Matt. VI, 6). – Il vostro desiderio è la vostra preghiera, e se il desiderio è continuo, la vostra preghiera lo è ugualmente. Non è inutilmente che l’Apostolo ha detto: « pregate incessantemente » (I Tess. V, 17). – E incessantemente possiamo flettere il ginocchio, rimanere prosternati, o levare al cielo le mani? A queste condizioni ci è impossibile pregare senza interruzione. Ma c’è un’altra preghiera interiore che noi possiamo non interrompere, ed è il desiderio. Se volete incessantemente pregare, non cessate mai il desiderare. Un desiderio continuo da parte vostra è anche per voi una parola continua. Voi tacete se cessate di amare. Chi sono coloro che tacciono? Quelli di cui era detto: « perché l’iniquità si è moltiplicata, la carità di molti si è raffreddeta » (Mat. XXIV, 12). – il raffreddamento della carità è il silenzio del cuore; il fervore della carità è il silenzio del cuore; il fervore della carità è il grido del cuore. Se il vostro amore sussiste costantemente, voi gridate incessantemente; se gridate incessantemente, è perché desiderate incessantemente; e se desiderate, è perché vi ricordate del riposo eterno (S. Agost.).

ff. 10. – Davide ci mostra a quale triste stato l’ha ridotto la vergognosa caduta che ha compiuto. Quando si rende colpevole di questo crimine che deplora, la penetrazione dell’intelligenza di cui Dio l’aveva dotato soffre, una specie di mancanza, di turbamento, e fu come oscurato e coperto da tenebre da colui che era stato il primo autore del suo peccato. Anche la sua forza l’abbondonò e non poteva dire più « … io posso tutto in colui che mi da forza » (Filip. IV, 15), essendo vinto dalla concupiscenza e completamente spoglio delle sue forze. Perché in coloro che seguono le ispirazioni della virtù, « … lo spirito è pronto, ma la carne è debole » (Matt. XXVI, 41); ma in coloro che sono vinti dalla loro bramosia, la carne si eleva, si fortifica, mentre l’anima langue e si debilita (S. Basilio). – Da dove viene questo scompiglio? « La mia forza mi ha abbandonato. E perché la sua forza l’ha abbandonato? E la luce dei miei occhi non è più con me ». La luce dei suoi occhi era Dio stesso che Egli aveva perso a causa del peccato. (S. Agost.). – In quale antro profondo, infatti, si erano ritirate le leggi dell’umanità e della giustizia, che Davide conosceva così perfettamente, quando gli si dovette inviare il profeta Nathan, per fargliene sovvenire nella memoria? Nathan gli parla, Nathan lo intrattiene, ed intende così poco di quello che deve capire, che egli infine è costretto a dire: « O principe! È a voi che si parla », perché incantato dalla sua passione, distratto dai suoi affari, egli lasciava la verità nell’oblio. E allora, sapeva ciò che sapeva? Intendeva ciò che intendeva? Ascoltate la sua deposizione e la sua testimonianza: è lui stesso che si stupisce che i suoi lumi lo abbiano abbandonato in questo stato infelice; non è una luce estranea, è la luce dei miei occhi, dei miei propri occhi, è quella stessa che non avevo più (Bossuet, Prèdicat. Ev. n° P.).

III. — 11-23

ff. 11-13. È questo un quadro molto vivo dello stato di coloro che sono afflitti e che sono abbandonati e pure calunniati e perseguitati dai loro amici, dai loro prossimi, dai loro vicini. – La persecuzione è esercitata contro coloro che vogliono ritornare a Dio ed abbracciare le vie della penitenza. Grande grazia per un penitente è questa persecuzione del mondo: quando il mondo ci cerca, noi restiamo senza i suoi legami; quando ci abbandona noi cominciamo ad essere liberi. « Il mondo vi odia, ha detto Gesu-Cristo, perché Io vi ho scelto; se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me per primo ». – In un altro senso, i miei amici e i miei prossimi si sono avvicinati a me, e si sono fermati per considerarmi. I preti, i confessori, i superiori sono venuti dietro di me, per aiutarmi nel mio male estremo; presi da stupore, si sono fermati, non sapendo più cosa fare; infine essi si sono ritirati, si sono allontanati da me (Bossuet, Retraite sur la Pen.). – Ricordiamoci la rivolta di Assalonne e dei suoi partigiani, le maledizioni di Semei, le perfide trame macchinate da Architophel e da tanti altri!

ff. 14-17. – Considerate la forza di questa espressione: « come se fossi stato sordo ». Egli non dice « io facevo come se non intendessi ciò che dicevano », ma « io non intendevo ». È una determinazione ben ferma del mio spirito che io chiudessi le orecchie alle loro parole, e che io fossi come un muto che non apre bocca. Beato colui la cui virtù è tanto grande da non rispondere ad un attacco ingiusto con la collera, e la cui anima violentemente agitata non cede mai alla furia! I nostri nemici fanno di tutto per provocare la nostra collera: essi ci maledicono affinché noi li malediciamo, ci calunniano perché noi li calunniamo a nostra volta, ci oltraggiano per eccitarci alle rappresaglie. Così San Pietro prende cura di ricordarci la condotta ammirevole di Gesù Cristo « … che, quando Lo maledicevano, non rispondeva con ingiurie; quando veniva maltrattato, non minacciava, ma si abbandonava al potere di colui che lo trattava ingiustamente ». (I Piet. II, 23). – Sul suo esempio, il giusto che vuole uniformarsi alla perfezione, tace quando lo si oltraggia, per imitare Colui che è stato condotto come un agnello al macello, senza aprire bocca, e pur avendo giuste ragioni per poter rispondere, preferisce tacere piuttosto che parlare (S. Ambr.). – Sembra infatti che dalla gloria di Dio, la calunnia sia confusa. È vero, risponde San Bernardo, ma era ancor più della stessa gloria che un giusto calunniato restasse in silenzio … Egli doveva a se stesso la giustificazione della sua vita e della sua condotta, ma il suo Vangelo doveva essere un Vangelo di umiltà, e la sua Chiesa non aver altro fondamento che questo, e trovar la sua strada meglio giustificata dal suo silenzio più che dalle sue parole; e questo fa che Egli non parli affatto (Bourd. 3° Serm. sur la Pass.). – Sono poche le occasioni in cui sia prudente, utile, necessario difendersi, quando ci calunniano. La cura nel giustificarsi causa quasi sempre due mali: il turbamento dell’anima e la cattiva edificazione del prossimo. – Davanti a quelli che vogliono la mia rovina spandendo calunnie contro di me, e meditano ogni giorno nuove perfidie, io sono rimasto senza poter trovare una sola parola a mia difesa. Io, così eloquente altre volte, così pieno di saggezza, sono stato come un sordo che non ascolta, come un muto che non può aprir bocca (S. Basil.). – Legame questo, per il quale il profeta non si giustifica affatto, non rispondendo ai suoi nemici: egli spera nel Signore. Egli vi insegna ciò che dovete fare se sopravviene qualche tribolazione. In effetti, voi cercate di difendervi, e forse nessuno accetta la vostra difesa. Voi siete già turbato, come se aveste perso la vostra causa, perché non c’è nessuno che vi difenda e renda testimonianza in vostro favore. Conservate la vostra innocenza in voi stessi, là dove nessuno può opprimere il vostro buon diritto. La falsa testimonianza ha prevalso contro di voi presso gli uomini; e chi prevarrà al tribunale di Dio, presso il quale sarà portata la vostra causa? Quando Dio sarà vostro giudice, non ci sarà alcun testimone se non la vostra coscienza. Tra questo giusto giudice e la vostra coscienza, non temete se non la vostra stessa causa: se la vostra causa non è cattiva, voi non dovete temere nessun accusatore, alcun falso testimone da respingere, nessun testimone veritiero da chiamare (S. Agost.). – Un secondo motivo del silenzio volontario del Profeta, è che egli stesso ha detto: è per me meglio aver pazienza, sperare nel soccorso del Signore, per timore che se non voglio soffrire gli oltraggi, se io rendo maledizione per maledizione, il Signore non mi abbandoni, e che i miei nemici non siano gioiosi e trionfanti della mia rovina (Bellarm.). – Questi nemici, che sono i demoni e gli uomini dei quali egli si serve per catturarci, si crederanno vittoriosi, e trionferanno effettivamente di noi, se ci vedono troppo sensibili agli oltraggi dai quali siamo sopraffatti, ed ancor più se ci proponiamo di mormorare contro gli ordini della vostra adorabile Provvidenza.

ff. 18, 19. – Ecco un terzo motivo di silenzio volontario di Davide alla presenza dei suoi nemici: egli è prossimo a soddisfare alla giustizia di Dio, perché egli soffre, e per sincera sua disposizione a soffrire. – Qual è questo dolore che è sempre davanti a lui? Forse quello del castigo? Gli uomini, è vero, gemono nell’essere castigati, e non gemono per i peccati per i quali sono castigati. Questo non accade per colui che qui parla. Chiunque sia che prova un malanno è più portato a dire: “io ho sofferto ingiustamente”, che a considerare: perché ho sofferto?; egli geme per aver perso il suo denaro, non geme per aver perduto la sua virtù. Per Davide, il suo dolore non viene dal castigo che subisce, viene dalla sua ferita e non dal trattamento della sua ferita, perché i colpi sono il rimedio del peccato (S. Agost.). – La causa di tutti i tentativi infruttuosi per arrivare alla perfezione, è l’assenza di un dolore costante, eccitato dal ricordo del peccato. Così come ogni culto cade in rovina, se non ha per base i sentimenti di una creatura per il suo Creatore, nessuna conversione è seria se non è la conversione intera di un peccatore; allo stesso modo che le penitenze non portano a nulla, se esse non sono fatte in unione con Gesù-Cristo; così come tutte le buone opere finiscono nella polvere, se non hanno come punto di appoggio Nostro Signore; così la santità ha perso il principio della sua crescita, quando è separata da un rammarico costante per aver peccato. Questo dolore costante ci manterrebbe continuamente in un sentimento della nostra dignità e della nostra dipendenza da Dio; essa ci farebbe ingaggiare una guerra perpetua contro l’amor proprio, ci impedirebbe di concepire la stima per noi stessi, e conserverebbe in noi, senza interruzione, lo spirito di penitenza che la mortificazione esteriore produce ammirevolmente, senza dubbio, ma solo ad intervalli. Essa ci darebbe la calma e la moderazione verso noi stessi, la dolcezza e l’indulgenza nei riguardi degli altri, la pazienza con Dio, che noi otterremmo per l’assenza di alacrità (P. Faber, Progrès de l’ame, Cap. XIX). – David ha fatto conoscere non solo a tutti gli uomini del suo tempo, ma a tutti quelli che dovevano sopraggiungere nello scorrere dei secoli, che egli era un grandissimo peccatore. Egli lo ha scritto a caratteri indelebili, nei suoi ammirevoli Salmi che faranno risuonare in tutte le chiese la storia dei suoi crimini e della sua penitenza. – « Io confesserò il mio peccato », è la confessione; ma occorre aggiungere: « io sarò in pensiero per il mio peccato », farò riflessione su di un sì gran male e sui mezzi per liberarmene. – L’uomo conserva la memoria del male che ha fatto più di quanto non conservi quella del bene ed ancor meglio di quella delle sue povere gioie perseguite per lungo tempo, sì raramente raggiunte, sì velocemente dimenticate, quand’esse non lascino nella coscienza sozzure o rimorsi. – « Io mi prenderò cura del mio peccato ». Quando avete confessato il vostro peccato non abbiate questa falsa sicurezza che voi sareste sempre pronti a confessarlo ed a commetterlo nuovamente. Dichiarate la vostra iniquità, ma prendendo cura di pensare al vostro peccato. Che vuol dire questo, prendendo cura di pensare al vostro peccato? Significa prendersi cura della vostra ferita, prendersi cura di guarirla. Prendere cura della propria ferita, è dunque fare uno sforzo, essere sempre attento, agire sempre con zelo e con cura per guarire il proprio peccato. Ecco che giorno dopo giorno, voi piangerete il vostro peccato, ma forse le vostre lacrime scorrono senza che le vostre mani agiscano; fate allora delle elemosine, riscattate i vostri peccati; il povero si rallegri dei vostri doni, affinché a vostra volta possiate gioire dei doni di Dio (S. Agost.). Ancora c’è il ricordarsi delle proprie colpe e delle cadute passate, che hanno corrotto la bellezza dell’anima: non perché le si amino ancora, ma al contrario per amare Dio maggiormente, affinché questo ricordo faccia meglio gustare la soavità di questa vera dolcezza che offre felicità e sicurezza (S. Agost. Conf. IV, 1).

ff. 20-22. – Il Profeta mette in contrasto con il suo pentimento, la sua rassegnazione, la malvagità dei suoi nemici, e riconosce che la loro condotta al proprio riguardo è un giusto castigo per le sue infedeltà a Dio. Rendendogli il male per il bene che essi hanno ricevuto da lui, essi gli ricordano, senza che lo sappiano, l’ingratitudine con la quale egli aveva sì malamente riconosciuto i favori straordinari dei quali Dio lo aveva ricolmato. – Si ha pena nel figurarsi che un uomo che non pensi che a fare del bene, che lo insegua in tutte le sue azioni, in tutti i suoi pensieri, malgrado ciò, o piuttosto a causa di questo stesso, sia in balia di contraddizioni o inimicizie. Ma anche il cuore dell’uomo lo vede: gli ripugna essere indifferente; ondeggia da un lato all’altro; ama o odia. Se gusta la virtù, la loderà negli altri, la fuggirà per conto suo; se non la gusta, la detesterà, la fuggirà, la temerà come un rimprovero o un giudizio, l’annienterebbe se potesse (Rendu). – Guardiamoci dal credere, quando siamo riconciliati e la grazia del sacramento della Penitenza ci ha tratto dalla morte eterna, che possiamo trascorrere la nostra vita eternamente sicuri. I nostri nemici vivono sempre, sono superati, ma non abbattuti, non disperano di poter rivincerci … aspettano un’ora più propizia ed un’occasione più stringente. Tremiamo anche nella vittoria, è allora che essi fanno i loro sforzi maggiori, e rimescolano le loro macchinazioni più terribili. Se la guerra è continua, se nemici così potenti e numerosi vegliano incessantemente su di noi, chi potrebbe compiutamente esprimere quanto accurata, vigilante previdente ed inquieta debba essere, in ogni momento, la vita cristiana? (Bossuet, Sur les démons). O Signore, Dio della nostra salvezza, che siete l’unico Autore, applicatevi nel nostro soccorso. Apprendiamo da queste parole che occorre fare tutti i nostri sforzi per prendere delle buone risoluzioni; ma ancor più per domandare con tutto il nostro cuore a Dio il suo soccorso, senza il quale nulla si può (Bossuet, Retr. sur la pen.).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO, E … PURE I LADRI ED I BRIGANTI CHE SI INTRUFOLANO NELLA CHIESA DI CRISTO: S. S. PIO XII – “AD SINARUM GENTEM”

Già in altre occasioni il Santo Padre Pio XII, ha rivolto ai fedeli e religiosi Cattolici cinesi, la propria attenzione per esortarli nelle vicissitudini da essi patite nei confronti di coloro che … odiano Dio, tutti gli uomini, e la Religione divinamente rivelata da Gesù Cristo. Toccanti sono i suoi richiami alla resistenza nella conservazione della fede pura ed illibata di Cristo affidata alla Chiesa Cattolica e tramandata dalla sua Gerarchia. Il richiamo più accorato è rivolto ad evitare pericolosi scismi, sotto falsi pretesti di patriottismo o di autonomia “gestionale” « … parimenti da essa non si può richiedere che, spezzata l’unità di cui il suo divin Fondatore l’ha voluta insignire, e costituite chiese particolari in ciascuna nazione, queste miseramente si separino dalla Sede Apostolica, dove Pietro, Vicario di Gesù Cristo, continua a vivere nei suoi successori sino alla fine dei secoli. Se una qualsiasi comunità cristiana compisse tale cosa, inaridirebbe come un tralcio staccato dalla vite (cf. Gv 15, 6), e non potrebbe portare frutti salutari ». Sono quelle stesse parole che Pio XII rivolgeva ancora al popolo cinese ed ai falsi prelati della abominevole chiesa patriottica contenute nella lettera “Ad Apostolorum Principis” del 29 giugno del 1958 – pochi mesi prima della sua morte – in cui, ampliando il concetto qui esposto, ribadiva il Primato divinamente stabilito nel Romano Pontefice che unico poteva concedere la nomina vescovile con la relativa Giurisdizione canonica. Queste esortazioni, parte del Magistero Apostolico universale ed ordinario, a nulla sono valse nella nomina di falsi Vescovi che, autonomamente si sono arrogati la nomina – naturalmente invalida o quanto meno illecita e sacrilega – della Carica vescovile. Ancora oggi, vediamo come falsi, sacrileghi pseudo-vescovi carnevaleschi attirino disgraziati ed incauti fedeli alla loro sequela, determinandone con il pretesto dello stato di necessità, la fine del “tralcio disseccato” gettato al fuoco eterno. Pensiamo ai pittoreschi pseudo-Monsignori mai nominati dal Santo Padre [neppure dagli antipapi usurpanti] e privi di qualsiasi Giurisdizione e scomunicati ipso-facto latæ sententiæ con scomunica riservata in specialissimo modo alla Sede Apostolica sia per i consacranti che per gli pseudo-consacrati. Pensiamo ai vari finti-tradizionalisti, alle gallicane disobbedienti “illuminate” (para)massoniche, fraternité (… liberté, [dalle regole canoniche], egalité, [nella dannazione]), ai cani sciolti sedicenti sedevacantisti, «…. la Sede Apostolica, dove Pietro, Vicario di Gesù Cristo, continua a vivere nei suoi “VERI” successori sino alla fine dei secoli» [ sedevacantisti… nel senso che non hanno né hanno mai avuto alcuna sede diocesana con giurisdizione territoriale, (… e l’unica “vacanza è quella della loro non-sede o … del loro intelletto) etc. Quanti tralci secchi, quante disobbedienze alle più semplici regole canoniche, quante scomuniche mai rimesse, quanta dannazione eterna!!! Al pusillus grex Cattolico, dopo la lettura attenta e meditata della lettera proposta, auguriamo, con l’aiuto della grazia divina, di poter dire come S. Paolo a Timoteo: bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi! Coraggio, strenui fedeli Cattolici, non facciamoci persuadere dai ladruncoli e dai briganti … Gesù ha vinto il mondo, e … tutto possiamo in Colui che ci dà forza, sotto il manto di Maria e del suo Cuore Immacolato.

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

AD SINARUM GENTEM(1)

PATERNE ESORTAZIONI
ALLA CHIESA CATTOLICA IN CINA

Circa tre anni fa inviammo la lettera apostolica Cupimus imprimis (2) al popolo cinese, a Noi tanto caro, e in modo speciale a voi, venerabili fratelli e diletti figli, che professate la Religione Cattolica, non soltanto per esprimervi la Nostra partecipazione alle vostre angosce, ma anche per esortarvi paternamente ad adempiere tutti i doveri della Religione cristiana con quella risoluta fedeltà, che qualche volta esige un’eroica fortezza; e nel momento presente, Noi, unitamente alle vostre preghiere, innalziamo un’altra volta le Nostre a Dio onnipotente e Padre delle misericordie, affinché «come il sole di nuovo brilla dopo le tempeste e le procelle, così dopo tante angustie, sconvolgimenti e sofferenze, tornino finalmente a risplendere sulla vostra chiesa la pace, la tranquillità e la libertà».(3)

In questi ultimi anni, purtroppo, le condizioni della Chiesa Cattolica in mezzo a voi non sono per niente migliorate; anzi sono aumentate le accuse e le calunnie contro questa Apostolica Sede e contro coloro che si mantengono ad essa fedeli; è stato espulso il Nunzio apostolico, che presso di voi rappresentava la Nostra persona; e si sono intensificate le insidie per ingannare le persone meno illuminate.

Però – come già vi abbiamo scritto – « voi opponete la fermezza della vostra volontà alle insidie, anche se presentate con astuzia, con inganno o con false apparenze di verità ».(4) Sappiamo che queste Nostre parole contenute nella precedente lettera apostolica, non hanno potuto arrivare fino a voi; e perciò volentieri ve le ripetiamo per mezzo di questa enciclica; e sappiamo anche, con sommo conforto del Nostro animo, che voi avete perseverato nel vostro fermo e santo proposito, e che nessuno sforzo è riuscito a staccarvi dall’unità della Chiesa; perciò Ci congratuliamo vivamente con voi e ve ne diamo la meritata lode.  – Ma, siccome dobbiamo preoccuparci dell’eterna salute di ciascuno, non possiamo nascondere la tristezza e l’angoscia del Nostro animo nel venire a conoscere che, pur mantenendosi i Cattolici nella grande maggioranza fermi nella fede, tuttavia non sono mancati in mezzo a voi coloro che, ingannati nella loro buona fede, o presi dalla paura, o traviati da nuove e false dottrine, hanno aderito, anche di recente, a pericolosi «movimenti», che sono promossi dai nemici di ogni religione, specialmente di quella divinamente rivelata da Gesù Cristo.  – Perciò la coscienza del Nostro dovere esige che vi rivolgiamo un’altra volta la Nostra parola per mezzo di questa lettera enciclica, con la speranza che essa possa arrivare a vostra conoscenza; sia essa di conforto e d’incoraggiamento per coloro che costanti e forti perseverano nella verità e nella virtù; mentre agli altri porti luce e i Nostri paterni ammonimenti.  – Prima di tutto, poiché oggi pure, come avveniva anticamente, i persecutori dei Cristiani li accusano falsamente di non amare la propria patria e di non essere buoni cittadini, desideriamo ancora una volta proclamare (5) – ciò che del resto non può non essere riconosciuto da chiunque sia guidato dalla retta ragione – che i Cattolici cinesi non sono secondi a nessuno nell’ardente amore e nella viva fedeltà verso la loro nobilissima patria. Il popolo cinese – Ci piace ripetere quanto abbiamo già scritto a sua lode nella citata lettera apostolica – « fin dai tempi più remoti si è distinto tra gli altri popoli dell’Asia per le sue imprese, per la sua letteratura, e per lo splendore della sua civiltà; e, dopo essere stato illuminato dalla luce dell’Evangelo che supera immensamente la sapienza di questo mondo, trasse da quella luce maggiori ricchezze per il suo spirito, cioè le virtù cristiane, che perfezionano e consolidano le stesse virtù civili. (6)  – Inoltre Noi vediamo che voi siete degni di lode anche per questo motivo: cioè perché nelle quotidiane e lunghe prove, in cui vi trovate, voi percorrete proprio la via giusta, quando prestate, come si conviene a Cristiani, rispettoso ossequio alle vostre pubbliche autorità nel campo di loro competenza, e, amanti della vostra patria, siete pronti al compimento di tutti i vostri doveri di cittadini. Ma Ci è anche di grande consolazione sapere che voi, all’occasione, avete apertamente affermato e ancora affermate che in nessun modo vi è lecito allontanarvi dai precetti della Religione Cattolica, e che in nessun modo potete rinnegare il vostro Creatore, per il cui amore molti di voi hanno affrontato tormenti e carcere.  – Come già vi abbiamo scritto nella precedente lettera, questa Sede Apostolica, specialmente in questi ultimi tempi, con la più grande sollecitudine ha avuto cura della retta istruzione e formazione del maggior numero possibile di Sacerdoti e di Vescovi della vostra nobile Nazione. Così il Nostro immediato predecessore Pio XI di f.m, ha consacrato personalmente nella maestosa basilica di San Pietro i primi sei Vescovi, scelti dal vostro popolo; e Noi stessi, avendo grandemente a cuore il progressivo stabilirsi e il continuo quotidiano sviluppo della vostra Chiesa, di buon grado abbiamo costituito la sacra gerarchia ecclesiastica in Cina; e per la prima volta nella storia, abbiamo conferito la dignità della porpora romana a un vostro cittadino. (7)  – Desideriamo poi che venga quanto prima il giorno – a questo fine rivolgiamo a Dio ardentissimi voti e supplichevoli preghiere – in cui, anche presso di voi, Vescovi e Sacerdoti, tutti della vostra Nazione e in numero sufficiente per le necessità, possano governare la Chiesa Cattolica nell’immenso vostro Paese e così non vi sia più bisogno dell’aiuto dei missionari esteri nel campo del vostro apostolato. Ma la verità e il dovere di coscienza esigono che proponiamo alla diligente attenzione di voi tutti quanto segue: primo, questi predicatori dell’Evangelo, che, dopo avere abbandonata la propria diletta patria, presso di voi fecondano il campo del Signore con le loro fatiche e i loro sudori, non sono mossi da motivi terreni, ma non cercano altro che illuminare il vostro popolo con la luce del Cristianesimo, formarlo a costumi cristiani, aiutarlo con la divina carità; in secondo luogo, anche quando l’aumentato numero del clero cinese non avrà più bisogno dell’aiuto dei missionari esteri, la Chiesa Cattolica nella vostra Nazione, come in tutte le altre, non potrà essere retta con «autonomia di governo», come oggi si usa dire. Infatti, anche allora, come ben sapete, sarà del tutto necessario che la vostra comunità cristiana, se vorrà far parte della società che è stata divinamente fondata dal nostro Redentore, sia del tutto sottomessa al Sommo Pontefice, Vicario di Gesù Cristo in terra e con lui strettamente unita, per quanto riguarda la fede religiosa e la morale. Con le quali parole – è bene notarlo – si abbraccia tutta la vita e l’opera della Chiesa: perciò, anche la sua costituzione, il suo governo, la sua disciplina, cose tutte che dipendono senza dubbio dalla volontà di Gesù Cristo, fondatore della Chiesa. In forza di questa divina volontà i fedeli si dividono in due classi: clero e laicato; in forza della medesima volontà è costituita la duplice sacra potestà, cioè di ordine e di giurisdizione. Inoltre – ciò che parimenti è stato divinamente stabilito – alla potestà di Ordine (per cui la gerarchia ecclesiastica è composta di Vescovi, Sacerdoti e ministri) si accede ricevendo il Sacramento dell’Ordine sacro; la potestà di giurisdizione poi, che al Sommo Pontefice viene conferita direttamente per diritto divino, proviene ai Vescovi dal medesimo diritto, ma soltanto mediante il successore di san Pietro, al quale non solamente i semplici fedeli, ma anche tutti i Vescovi devono costantemente essere soggetti e legati con l’ossequio dell’obbedienza e con il vincolo dell’unità.  – E infine, per la stessa divina volontà, il popolo o l’autorità civile non devono invadere il campo dei diritti e della costituzione della gerarchia ecclesiastica. (8) – Tutti, devono inoltre notare – ciò che del resto per voi, venerabili fratelli e diletti figli, è evidente – che Noi desideriamo vivamente che giunga presto il tempo in cui per le necessità della Chiesa cinese possano essere sufficienti i mezzi finanziari che i fedeli cinesi riescono a fornirle; però, come ben sapete, le offerte raccolte per questo presso le altre nazioni, hanno origine da quella carità cristiana per la quale tutti coloro, che sono stati redenti dal sacro Sangue di Gesù Cristo, sono necessariamente uniti l’uno all’altro da un’alleanza fraterna e dall’amore divino sono spinti a propagare dappertutto, secondo le loro forze, il regno del Redentore nostro. E ciò non per fini politici o comunque profani, ma soltanto per mettere in pratica utilmente il precetto della carità, che Gesù Cristo ha dato a noi tutti e per il quale si riconoscono i suoi veri discepoli (cf. Gv XIII, 35). Così hanno fatto volontariamente i Cristiani di tutti i tempi, come già l’Apostolo delle genti attestava dei fedeli della Macedonia e dell’Acaia, i quali spontaneamente inviavano le loro offerte «ai poveri dei santi che sono in Gerusalemme» (Rm XV, 26); e a fare la stessa cosa l’Apostolo esortava i suoi figli in Cristo, che abitavano a Corinto e nella Galazia (cf. 1 Cor XVI, 1-2).  – Infine, alcuni fra di voi vorrebbero che la vostra Chiesa fosse completamente indipendente non soltanto; come abbiamo detto, nel governo e per la parte economica; ma pretendono di rivendicarle un’«autonomia» anche nell’insegnamento della dottrina cristiana e nella sacra predicazione.  – Non neghiamo affatto che il modo di predicare e d’insegnare debba essere diverso secondo i luoghi e perciò debba essere conforme, quando è possibile, alla natura e al carattere particolare del popolo cinese, come pure ai suoi antichi tradizionali costumi; che anzi, se ciò verrà fatto nel debito modo, si potranno certamente raccogliere presso di voi maggiori frutti.  Ma – ciò che è assurdo soltanto a pensarsi – con quale diritto possono gli uomini di proprio arbitrio, differentemente secondo le differenti nazioni, interpretare l’Evangelo di Gesù Cristo? – Ai Vescovi, che sono i successori degli Apostoli, e ai Sacerdoti, che secondo il proprio ufficio sono i cooperatori dei Vescovi, è stato conferito l’incarico di annunziare e insegnare quell’Evangelo che per primi annunziarono e insegnarono Gesù stesso e i suoi Apostoli, e che questa Sede Apostolica e tutti i Vescovi, a essa uniti, hanno conservato e tramandato illibato e inviolato attraverso il corso dei secoli. Non sono dunque i sacri pastori gli inventori e i compositori di questo Evangelo, ma soltanto i custodi autorizzati e i banditori divinamente costituiti. Perciò Noi stessi, e i Vescovi insieme con Noi, possiamo e dobbiamo ripetere le parole di Gesù Cristo: « La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato» (Gv VII, 16). E a tutti i Vescovi, di ogni tempo, può essere rivolta l’esortazione di san Paolo: «O Timoteo, custodisci il deposito, evitando le profane novità delle espressioni e le contraddizioni della falsa scienza» (1 Tm VI, 20); e così pure quest’altra affermazione del medesimo Apostolo: «Custodisci il buon deposito per mezzo dello Spirito Santo che abita in noi» (2 Tm 1, 14). Non siamo dunque maestri di una dottrina scaturita da mente umana, ma secondo il dovere della nostra coscienza, dobbiamo abbracciare e seguire quella che ha insegnato lo stesso Cristo Signore e che Egli, con solenne comando, ha ordinato di insegnare agli Apostoli e ai loro successori (cf. Mt XXVIII, 19-20).

Perciò chi è Vescovo, o Sacerdote della vera Chiesa di Cristo, deve più e più volte meditare ciò che l’Apostolo Paolo diceva della sua predicazione dell’Evangelo: «Vi rendo… noto, o fratelli, che l’Evangelo da me predicato non è secondo l’uomo; poiché io non l’ho né ricevuto né imparato da un uomo, ma per mezzo della rivelazione di Gesù Cristo» (Gal 1, 11-12).  – E inoltre, essendo Noi certissimi che questa dottrina (di cui con l’aiuto dello Spirito Santo dobbiamo difendere l’integrità) è stata divinamente rivelata, ripetiamo queste parole dell’Apostolo delle genti: «Anche se noi, o un Angelo dal cielo, vi insegnasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo insegnato, sia anatema» (Gal 1, 8).  – Potete dunque facilmente vedere, venerabili fratelli e diletti figli, come non possa pretendere di essere ritenuto e onorato del nome di Cattolico colui che professi o insegni diversamente da quanto abbiamo fin qui brevemente esposto, come fanno coloro che hanno aderito a quei pericolosi principi, da cui è informato il movimento delle «tre autonomie» o ad altri principi dello stesso genere. – I promotori di tali movimenti con somma astuzia cercano di ingannare i semplici o i pavidi, o di allontanarli dalla retta via; a tal fine affermano falsamente che sono veri patrioti soltanto coloro che aderiscono alla chiesa da loro ideata, cioè a quella che ha le «tre autonomie». Ma in realtà essi cercano, per venire alla cosa principale, di costituire finalmente presso di voi una chiesa, come dicono, «nazionale»; la quale non potrebbe più essere Cattolica, perché sarebbe la negazione di quella universalità ossia «cattolicità», per cui la società veramente fondata da Gesù Cristo è al di sopra di tutte le nazioni e tutte singole le abbraccia. – Ci piace qui ripetere le parole che sullo stesso argomento vi abbiamo scritte nella ricordata lettera apostolica: la Chiesa Cattolica «non chiama a sé un solo popolo, non una sola nazione, ma ama le genti di qualsiasi stirpe con quell’amore soprannaturale di Cristo che deve tutti unire tra loro come fratelli.  – Perciò nessuno può affermare che essa sia al servizio di una particolare potenza; parimenti da essa non si può richiedere che, spezzata l’unità di cui il suo divin Fondatore l’ha voluta insignire, e costituite chiese particolari in ciascuna nazione, queste miseramente si separino dalla Sede Apostolica, dove Pietro, Vicario di Gesù Cristo, continua a vivere nei suoi successori sino alla fine dei secoli. Se una qualsiasi comunità cristiana compisse tale cosa, inaridirebbe come un tralcio staccato dalla vite (cf. Gv 15, 6), e non potrebbe portare frutti salutari». (9)  – Esortiamo dunque vivamente «nell’amore di Cristo» (Fil 1, 8) quei fedeli, di cui prima Ci siamo lamentati; a ritornare sulla via della resipiscenza e della salvezza. Si ricordino essi che se bisogna dare, quando è necessario, a Cesare quello che è di Cesare, a maggior ragione anche bisogna dare a Dio ciò che è di Dio (cf. Lc 20, 25); e quando gli uomini comandano cose contrarie alla volontà divina, allora è necessario mettere in pratica la massima dell’apostolo Pietro: «È necessario ubbidire a Dio più che agli uomini» (At 5, 29). Si ricordino inoltre che è impossibile servire due padroni, se questi comandano cose tra di loro opposte (cf. Mc 6, 24); e anche che è impossibile alle volte piacere a Gesù Cristo e agli uomini (cf. Gal 1, 10). E se talora avvenga che debba subire gravi danni chi vuole rimanere fedele al divin Redentore sino alla morte, egli tolleri ciò con animo forte e sereno.  – Vogliamo, invece, ripetutamente congratularci con coloro che, sopportando penose difficoltà, si sono distinti nella fedeltà verso Dio e verso la Chiesa Cattolica e, perciò, «sono stati fatti degni di patire contumelie per il nome di Gesù» (At 5, 41); con animo paterno li incoraggiamo a continuare forti e intrepidi nel cammino iniziato, tenendo presenti le parole di Cristo: «… Non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; ma piuttosto temete chi può far perdere nella Geenna e anima e corpo. … I capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete dunque. … Chi dunque mi avrà confessato davanti agli uomini, lo confesserò anch’io davanti al Padre che è nei cieli; ma chi mi avrà rinnegato davanti agli uomini, lo rinnegherò anch’io davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mc 10, 28.30-33).

Certamente, venerabili fratelli e diletti figli, non è leggera la lotta che vi è imposta dalla legge divina. Ma Cristo Signore che ha dichiarato beati coloro che patiscono persecuzione per la giustizia, ha loro comandato di godere ed esultare perché abbondante sarà nei cieli la loro ricompensa (cf. Mc V, 10-12). Egli stesso benigno vi assisterà dal cielo col suo potentissimo aiuto, affinché possiate combattere il buon combattimento e conservare la fede (cf. 2 Tm IV, 7); tutti, pure, vi assisterà con la sua efficacissima protezione la madre di Dio, Maria Vergine, che è anche la Madre amantissima di tutti. Essa, regina della Cina, vi difenda e vi aiuti in modo particolare in quest’anno mariano, affinché con costanza siate perseveranti nei vostri propositi; vi assistano dal Cielo i santi Martiri della Cina, i quali sono andati incontro sereni alla morte per il loro vero amore alla patria terrena, e soprattutto per la loro fedeltà al divino Redentore e alla sua Chiesa. – Intanto vi sia auspicio di celesti grazie l’apostolica benedizione che, a testimonianza della Nostra specialissima benevolenza, impartiamo con molto affetto nel Signore tanto a voi, venerabili fratelli e diletti figli, quanto a tutta la carissima nazione cinese.

Roma, presso San Pietro, 7 ottobre, festa del ss.mo Rosario della beata Vergine Maria, nell’anno 1954, XVI del Nostro pontificato.

PIO PP. XII


(1) PIUS PP. XII, Epist. enc. Ad Sinarum gentem qua paterna impertiuntur hortamenta in præsentibus rerum angustiis, [Ad venerabiles Fratres ac dilectos Filios Archiepiscopos, Episcopos aliosque locorum Ordinarios ceterumque clerum ac populum Sinarum, pacem et communionem cum Apostolica Sede habentes], 7 octobris 1954: AAS 47(1955), pp. 5-14.

 (2) AAS 44(1952), p. 153ss; EE 6/1977.

(3) Ibidem , p. 157; EE 6/1987.

(4) Ibidem, p. 155; EE 6/1983.

(5) Cf. ibidem, p. 155; EE 6/1982.

(6) Ibidem, p. 153: EE 6/1977.

(7) Cf. ibidem, p. 155; EE 6/1983.

(8) Cf. CONC. TRID., sess. XXIII, De Ordine, cann. 2-7: COD 743-744: CONC. VAT. I, sess. IV: COD 811ss; CIC, cann. 108-109.

(9) AAS 44(1952), p. 155; EE 6/1982.

DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE (2019)

DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE (2019)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXXV: 1; 2-3
Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die. [Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]
Ps LXXXV: 4
Lætífica ánimam servi tui: quia ad te, Dómine, ánimam meam levávi.
[Allieta l’ànima del tuo servo: poiché a Te, o Signore, levo l’anima mia.]

Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die. [Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]

Oratio

Orémus.
Ecclésiam tuam, Dómine, miserátio continuáta mundet et múniat: et quia sine te non potest salva consístere; tuo semper múnere gubernétur.
[O Signore, la tua continua misericordia purífichi e fortífichi la tua Chiesa: e poiché non può essere salva senza di Te, sia sempre governata dalla tua grazia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti s. Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V: 25-26; 6: 1-10
Fratres: Si spíritu vívimus, spíritu et ambulémus. Non efficiámur inanis glóriæ cúpidi, ínvicem provocántes, ínvicem invidéntes. Fratres, et si præoccupátus fúerit homo in áliquo delícto, vos, qui spirituáles estis, hujúsmodi instrúite in spíritu lenitátis, consíderans teípsum, ne et tu tentéris. Alter alteríus ónera portáte, et sic adimplébitis legem Christi. Nam si quis exístimat se áliquid esse, cum nihil sit, ipse se sedúcit. Opus autem suum probet unusquísque, et sic in semetípso tantum glóriam habébit, et non in áltero. Unusquísque enim onus suum portábit. Commúnicet autem is, qui catechizátur verbo, ei, qui se catechízat, in ómnibus bonis. Nolíte erráre: Deus non irridétur. Quæ enim semináverit homo, hæc et metet. Quóniam qui séminat in carne sua, de carne et metet corruptiónem: qui autem séminat in spíritu, de spíritu metet vitam ætérnam. Bonum autem faciéntes, non deficiámus: témpore enim suo metémus, non deficiéntes. Ergo, dum tempus habémus, operémur bonum ad omnes, maxime autem ad domésticos fídei.

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

CONOSCI TE STESSO

Fratelli: Se viviamo di spirito, camminiamo secondo lo spirito. Non siamo avidi di vanagloria, provocandoci a vicenda, a vicenda inviandoci. Fratelli, quand’anche uno venisse sorpreso in qualche fallo, voi che siete spirituali ammaestratelo con lo spirito di dolcezza, e bada a te stesso che tu pure non cada nella tentazione. Gli uni portate i pesi degli altri, e così adempirete la legge di Cristo. Poiché, se alcuno crede di essere qualche cosa, e invece non è nulla, costui inganna sé stesso. Piuttosto ciascuno esamini le proprie opere, e allora avrà motivo di gloriarsi soltanto in se stesso, e non nel confronto con gli altri. Perché ciascuno porterà il proprio fardello. Chi poi viene istruito nella parola faccia parte di tutti i beni a chi lo istruisce. Non vogliate ingannarvi: Dio non si lascia schernire. Ciascuno mieterà quello che avrà seminato. Così, chi semina nella sua carne, dalla carne mieterà corruzione: chi, semina nello spirito, dallo spirito mieterà la vita eterna. Non stanchiamoci dunque dal fare il bene; poiché se non ci stanchiamo, a suo tempo mieteremo. Perciò mentre abbiamo tempo facciamo del bene a tutti, e in modo speciale a quelli che, per la fede, sono della nostra famiglia. (Gal. 5, 25-26: 6, 1-10).  

L’Epistola di quest’oggi è la continuazione di quella della domenica scorsa, nella quale si inculcava di vivere secondo lo spirito. Per vivere secondo lo spirito, prosegue l’Apostolo, bisogna fuggire la vanagloria e l’invidia. Si deve correggere chi sbaglia con spirito di dolcezza; tutti hanno a sopportarsi vicendevolmente. Persuasi del proprio nulla, devono esaminar spassionatamente le proprie azioni. Siamo, inoltre, generosi con chi ci istruisce nella fede. E conclude esortando di non stancarci di fare il bene, essendo la nostra vita il tempo della semina. Se in questa vita non ci stancheremo a seminare nello spirito, a suo tempo, mieteremo la vita eterna. – Accogliamo l’invito di S. Paolo, a esaminare le nostre opere. Questo esame:

1 È necessario, data la nostre debolezza.

2 Dev’essere spassionato.

3 Deve prendere a guida il Vangelo.

1.

Non siamo avidi di vana gloria. Se l’uomo conoscesse bene se stesso, si convincerebbe che non ha troppi motivi di vanagloriarsi. La dignità dell’uomo è certamente grande. Dio lo ha costituito re del creato. Noi ammiriamo certi appartamenti dei palazzi reali. Tappeti, arazzi, quadri, affreschi, intarsi, fermano l’attenzione del visitatore, che non sa staccarsi da quelle sale. Queste sono le abitazioni che gli uomini hanno preparato per i re di questo mondo. Senza confronto più splendida è l’abitazione che Dio ha preparato per l’uomo. Salomone, nello splendore e nel lusso superò tutti i re d’Israele. Pure Gesù dichiara che un giglio del campo, cresciuto senza alcuna cura di giardiniere, veste più splendidamente di Salomone. E quel che si dice del giglio, si dica di tutta la creazione, che Dio ha apparecchiata per dimora dell’uomo. Nessun tappeto può gareggiare con la magnifica armonia di verde e di fiori, che ornano le nostre pianure, con lo strato di candida neve che copre le vette dei monti. Nessun pennello potrà uguagliare, riproducendole, certe scene della natura. Dev’esser pur grande l’uomo, se Dio ha preparato per lui una tale abitazione. Molto più grande ancora ci appare, se consideriamo la sua creazione. Dio, creandolo, disse: «Facciamo l’uomo a immagine e somiglianza nostra, e abbia potere sui pesci del mare e su gli uccelli del cielo, e su tutti gli animali e su tutta la terra» (Gen. I, 26). L’uomo, creato a somiglianza di Dio, è da Lui costituito re della creazione. Quale grandezza e quale dignità! Si comprende come Davide, rivolto a Dio, esclamasse: «Chi è mai l’uomo? Tu l’hai fatto di poco inferiore agli Angeli, l’hai coronato di gloria e di onore; gli hai dato il dominio su le opere delle tue mani, e ogni cosa hai posto sotto i suoi piedi» (Ps. VIII, 5-7). – Ma lo stesso Davide domanda ancora: « O Signore, che cosa è l’uomo, a cui hai voluto farti conoscere, o il Figlio dell’uomo che tu ne fai conto? L’uomo è simile al nulla, i giorni di lui passano come ombra» (Ps. CXLIII, 3-4). È questo dal lato fisico. Dal lato morale egli è costretto ogni giorno a confessare: «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole » (Matth. XXVI, 41). Se l’uomo dovesse pensare alla instabilità della sua vita e alle miserie che l’accompagnano, invece di coltivare la vanagloria per la sua dignità, dovrebbe esaminare, se a questa dignità non venga meno con la sua condotta. Nessuno vorrà certamente confondere la dignità con la virtù. La dignità dell’uomo, creato a somiglianza di Dio, non gli impedisce di scendere al livello degli animali irragionevoli. E siccome le azioni che non corrispondono alla sua dignità saranno un giorno giudicate da Dio, la più elementare prudenza suggerisce di prevenir questo giudizio, col metterci noi a giudicar noi stessi; e così vedere, dove c’è da continuare, dove c’è da riformare. È un giudizio che non bisogna, naturalmente, ripetere sempre, perché la chiamata al giudizio di Dio può venire da un momento all’altro.

2.

Se alcuno crede di essere qualche cosa, mentre non è nulla, costui illude se stesso. E noi siamo veramente nulla. Anche se presentemente uno non è peccatore, non deve credersi qualche cosa. « Avessi anche esercitato la virtù dai primi anni, avrai anche commessi molti peccati. Che se credi di non averne, pensa che questo non avvenne per tua virtù, ma per la grazia di Dio » (S. Giov. Cris. In Ep. Ad Tit. Hom. V, 3). Ma è poi proprio vero che sei senza peccati? È tanto facile illudersi! « Se vi fu peccato in cielo, quanto più in terra? Se vi fu delitto in quelli che sono liberi dalla tentazione corporale, quanto più in noi che siamo circondati da una carne fragile e diciamo con l’Apostolo: Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte?» (S. Girol. Epist. 122, 3 ad Rust.). La nostra illusione deriva dal fatto che non conosciamo noi stessi. Ci sono di quelli che conoscono a meraviglia città e paesi molto lontani, e non conoscono i luoghi che confinano col loro paese o con la loro città. Ci sono quelli che parlano speditamente lingue straniere, e non sanno parlare la lingua propria. Ci sono Cristiani che conoscono le mancanze e i difetti degli altri e non conoscono le mancanze e i difetti propri. Il Battista, ai sacerdoti e ai leviti mandati dai Giudei a interrogarlo, risponde, parlando del Messia: « In mezzo a voi sta uno che non conoscete » (Joan. I, 26). Questa risposta è a proposito di un gran numero di Cristiani.

— In mezzo a voi sta uno che non conoscete: non conoscete il vostro cuore; non conoscete il vostro interno. Non vi date cura di osservare se l’anima vostra conserva ancora la grazia di Dio, o se l’ha perduta, se i vostri affetti sono per Dio o per il mondo. — E non conoscendo il nostro interno, non possiamo essere che degli illusi. –  Generalmente non si vuole interrogare il proprio interno, perché si ha paura delle risposte che ci potrebbe dare. Se la nostra coscienza ci rivelasse sempre cose a noi grate, non avremmo difficoltà a interrogarla. S. Paolo, in mezzo dell’Areopago di Atene, tiene un mirabile discorso, che attira l’attenzione di tutti. Ma quando viene a parlare del giudizio e della risurrezione dei morti la scena cambia. « Sentita nominare la risurrezione dei morti; gli uni se ne burlarono, gli altri poi dissero: Ti ascolteremo sopra di ciò un’altra volta » (Act. XVII, 32). Quella verità non piaceva ai superbi o gaudenti filosofi della Grecia: bisognava far tacere, bellamente, chi ne parlava, e licenziarlo. Quando i responsi della coscienza non ci piacciono, quando da essa si leva qualche voce ammonitrice, cerchiamo di tutto per farla tacere. — T’ascolteremo un’altra volta — diciamo dentro di noi. E intanto il danno è tutto nostro. Un uomo d’affari, non si contenta di esaminare l’attivo, ma esamina con attenzione il passivo, altrimenti non saprà mai come guidarsi nei suoi affari. Noi dobbiamo interrogare la nostra coscienza non con il proposito di trovarvi tutto bene; ma con il proposito di trovarla qual è realmente. Non solamente dobbiamo interrogare la coscienza su quel che abbiamo, ma anche, e specialmente, su quel che ci manca. «Perciò — dice S. Bernardo — non sii pigro nell’indagare che cosa ti manca, né di arrossire di confessare che qualche cosa ti manca» (De cons. l. 2. c. 7). – Coloro che negli affari riscontrano delle perdite, indagano le cause per poter porvi rimedio; così devesi fare anche quando si esamina la propria coscienza. A un esame superficiale non si scorgeranno sempre queste cause, ma a un esame diligente esse non possono sfuggire. – Un foro praticato da una talpa, da una biscia, la penetrazione d’una radice di albero nell’argine d’un fiume, in tempo di piena, sotto la pressione della corrente, possono facilmente aprir la via all’acqua, che, aumentando sempre più, aprirebbe una breccia nell’argine, e andrebbe a riversarsi sulle campagne. I profani passano sull’argine del fiume, senza badare a queste piccolezze: ma gli incaricati, esaminano l’argine attentamente e frequentemente; e quando scorgono uno di questi piccoli guasti, con la costruzione della coronella, un piccolo argine esterno di forma arcuata, provvedono a eliminare il pericolo. — Certe tendenze, trascurate perché sono ancora deboli, certe mancanze di cui non facciamo conto, perché non ci tolgono la grazia di Dio, ci possono predisporre sotto la violenza delle passioni, in circostanze impreviste, a dei gravi crolli spirituali. Un’occhiata attenta anche ad esse nel nostro esame.

3.

Si dice che la più difficile cosa che vi sia, è conoscer se stesso. I motivi di questa difficoltà sono molti. Non ultimo, però, è la falsa norma che si adotta per conoscer se stessi. Generalmente si giudica se stessi nel confronto con gli altri; e così avviene che crede di aver motivo di gloriarsi chi, giudicato davanti a Dio, non avrebbe che motivo di arrossire. È un sistema molto comodo di accontentar il nostro amor proprio, e di esimerci dall’obbligo di migliorar noi stessi. Se nessuno va esente da mancanze, o per lo meno, da difetti, è facile trovarli in coloro che ci circondano. Ma il nostro egoismo non ci lascia vedere che i difetti degli altri: non ce ne lascia scorgere la virtù. Inoltre, ci dà occhi di lince per vedere quello che fa il prossimo, e ci lascia ciechi per vedere quel che facciamo noi. Siamo come quelle macchine, che coi loro fanali gettano fasci di luce che rischiarano la strada, ma esso rimangono nell’oscurità. È facile, con questo sistema, il ragionamento: “in fondo, sono migliore di tanti altri; non faccio quel che fanno essi, quindi posso esser tranquillo. Se si salveranno essi, a maggior ragione mi salverò io”. Contro questa illusione ci premunisce l’Apostolo: Ciascuno esamini le proprie opere, e allora avrà motivo di gloriarsi in se stesso. Non ci dice: Confrontate le vostre azioni con quelle del vostro prossimo. Se in qualche cosa vi trovate migliori del prossimo vostro, state tranquilli: non avete più nulla da fare. Ci dice: Ciascuno esamini le proprie opere. Il che vuol dire : «Esaminiamo noi stessi e le nostre opere per vedere se vengono da Dio» (S. Efrem. in h. 1). Le azioni del prossimo non centrano, dunque, pur nulla in questo affare del nostro esame. Per vedere se le nostre azioni vengono da Dio, non abbiamo che da confrontarle con la dottrina del Vangelo.

Il Vangelo è una norma infallibile, e prendendolo per norma nel nostro esame non cadremo nel pericolo di essere ingannati. Mettendo la nostra coscienza di fronte al Vangelo, vedremo ciò che c’è da levare, ciò che c’è da aggiungere. Uno troverà che è dominato dalla superbia, l’altro dall’avarizia. Questi vedrà che è schiavo dell’ira, quell’altro dell’invidia, della lussuria, della gola. Chi, alla fine della giornata, trova che non ha messo via nulla di buono per l’eternità, si persuaderà che è un servo inutile. – Confrontando le nostre azioni con la legge di Dio, conosceremo veramente noi stessi. Siccome però, « ogni uomo, quantunque santo, quantunque giusto, quantunque progredito, in molte cose è un abisso » (S. Agostino. Enarr. in Ps. XLI, 13), domandiamo a Dio che ci aiuti ad acquistar questa conoscenza, dicendogli con Davide: «Scrutami, o Dio, ed esamina il mio Cuore: interrogami e ti siano manifesti i miei pensieri, E vedi se è in me la via dell’iniquità, e guidami per la vita eterna» (Ps. CXXXVIII, 23-24).

Graduale

Ps XCI: 2-3.
Bonum est confitéri Dómino: et psallere nómini tuo, Altíssime. [È cosa buona lodare il Signore: inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]
V. Ad annuntiándum mane misericórdiam tuam, et veritátem tuam per noctemm. [È bello proclamare al mattino la tua misericordia, e la tua fedeltà nella notte.].

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XCIV: 3 Quóniam Deus magnus Dóminus, et Rex magnus super omnem terram. Allelúja. [Poiché il Signore è Dio potente e Re grande su tutta la terra. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntiasancti Evangélii secúndum S. Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc VII: 11-16
“In illo témpore: Ibat Jesus in civitátem, quæ vocátur Naim: et ibant cum eo discípuli ejus et turba copiósa. Cum autem appropinquáret portæ civitátis, ecce, defúnctus efferebátur fílius únicus matris suæ: et hæc vidua erat: et turba civitátis multa cum illa. Quam cum vidísset Dóminus, misericórdia motus super eam, dixit illi: Noli flere. Et accéssit et tétigit lóculum. – Hi autem, qui portábant, stetérunt. – Et ait: Adoléscens, tibi dico, surge. Et resédit, qui erat mórtuus, et coepit loqui. Et dedit illum matri suæ. Accépit autem omnes timor: et magnificábant Deum, dicéntes: Quia Prophéta magnus surréxit in nobis: et quia Deus visitávit plebem suam.

Omelia II

[[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XLIII.

“In quel tempo avvenne che Gesù andava a una città chiamata Naim: e andavan seco i suoi discepoli, e una gran turba di popolo. E quand’ei fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato fuori alla sepoltura un figliuolo unico di sua madre, e questa era vedova: e gran numero di persone della città l’accompagnavano. E vedutala il Signore, mosso di lei a compassione, le disse: Non piangere. E avvicinossi alla bara, e la toccò (e quelli che la portavano si fermarono). Ed egli disse: Giovinetto, dico a te, levati su; e il morto si alzò a sedere, e principiò a parlare. Ed egli lo rendette a sua madre. Ed entrò in tutti un gran timore; e glorificavano Dio, dicendo: Un profeta grande è apparso tra noi; e ha Dio visitato il suo popolo” (Luc. VII, 11-16).

Il Vangelo di questa domenica ci offre a considerare una scena assai pietosa. Gesù in compagnia dei discepoli e di una gran furia di popolo andava ad una città chiamata Naim. Et reliqua. – Quale scena! o miei cari. Non è egli vero che rincresce perché l’Evangelista San Luca ce la narri cosi brevemente? Ma se dessa è una scena tanto pietosa, non è tuttavia meno istruttiva per noi. Epperò tra i molti ammaestramenti che se ne potrebbero ricavare, scegliamone qualcuno dei più pratici e più utili per noi.

1. Ed anzi tutto diamo uno sguardo a colui che si portava a seppellire. Egli era giovine, era ricco, era unico figlio, eppure né la giovinezza, né le ricchezze, né le lagrime della madre valsero a mantenerlo in vita: egli morì e come morto veniva portato ad essere sepolto. Or ecco il terribile ammaestramento, che ne viene da questo giovane defunto; che la morte cioè non guarda in faccia a nessuno, che nulla vale a rattenerla, ma che inesorabile esecutrice dei decreti di Dio mena tuttodì la sua falce, cogliendo anche coloro, i quali o per la loro gioventù e robustezza, o per i beni di cui sono in possesso, e che solo pensano a godere, o per l’affetto, di cui si vedono circondati, pensano meno degli altri a morire. Ad ogni modo, quand’anche la morte avesse riguardo a coglier le vite degli uomini con un certo qual ordine, che cosa è mai la vita umana? Essa non lascerebbe perciò di essere simile ad un vapore, che ad un poco di vento sparisce e non è più. La vita dell’uomo è breve, dice Giobbe; l’uomo è come un fiore che nasce, e tosto è reciso. Essa, dice il profeta Isaia, è come una pianticella di fieno, che vive pochissimo tempo e poi secca e muore. La morte ci corre all’incontro più presto d’un cursore, e noi in ogni momento, in ogni passo, in ogni respiro corriamo alla morte. Tutti siamo mortali, e scorriamo sulla terra come l’acqua che non ritorna più in dietro. Vedete là come corre quel ruscello al mare, e quelle acque che scorrono non tornano più indietro; così, o giovane, passano i tuoi giorni e ti avvicini alla morte: passano i piaceri, passano gli spassi, passano gli onori, le lodi, le acclamazioni, e che resta? Solo ci resta il sepolcro. Sarem buttati in una fossa, ed ivi avremo da stare a marcire spogliati di tutto. Ma come è certo che ben presto finirà la nostra vita, così è certissimo che fluirà tanto più spaventosamente, quanto meno ci pensiamo. Al presente i peccatori discacciano la memoria e il pensiero della morte, e così cercano di trovar pace, benché non la trovino mai nel vivere che fanno in peccato; ma quando si troveranno nell’angustie della morte, prossimi ad entrare nell’eternità, allora non potranno sfuggire il tormento della loro mala coscienza; cercheranno la pace, ma che pace può trovare un’anima, ritrovandosi aggravata di colpe, che come tante vipere la mordano? I peccati, come tanti satelliti, dice S. Bernardo, terranno afferrato il peccatore moribondo e gli diranno: Noi siamo tuoi, non vogliamo lasciarti, ti accompagneremo all’altra vita, e teco ci presenteremo all’eterno Giudice. – Vorrà egli allora sbrigarsi di tali nemici, ma per sbrigarsene bisognerebbe odiarli, bisognerebbe convertirsi di tutto cuore a Dio, e come lo farà con la mente ottenebrata e il cuore indurito? Sant’Agostino ebbe da combattere dodici anni per superare i suoi mali abiti; come potrà dunque un moribondo, che sempre è stato con la coscienza imbrattata, in mezzo ai dolori, agli stordimenti della testa e nella confusione della morte, fare facilmente una vera conversione? E poi chi sa dire gli sforzi, che faranno allora contro di lui i demoni che innumerabili lo assisteranno per non perderne più mai la padronanza? Uno gli dirà: non temere che sanerai: Un altro gli dirà: e come! tu per tanti anni sei stato sordo alla voce di Dio, ed ora esso vorrà usarti pietà? Un altro: come ora puoi rimediare a quei danni fatti? A quelle fame tolte? Un altro: non vedi che le tue confessioni sono state tutte nulle, senza vero dolore, senza proposito? Come puoi ora più rifarle? Allo spavento cagionato dalla vista dei peccati e dagli assalti del demonio, si aggiungerà la rimembranza di tutti i diletti goduti in vita, di tutti gli onori acquistati; e non servirà che ad accrescere la pena e la diffidenza di ottenere la salute eterna. Dunque, allora dirà il misero mondano, la mia casa, i miei giardini, quei mobili di buon gusto, quelle pitture, quelle vesti tra poco non saranno più mie? Solo per me vi resterà il sepolcro? Ah! che allora niun bene di questa terra si guarda, se non con pena da chi l’ha amato con attacco; e questa pena non gli servirà ad altro, che a mettere in maggior pericolo la salute dell’anima, vedendosi con la esperienza che tali persone attaccate al mondo, in morte non vogliono sentir parlar d’altro che della loro infermità, di medici che possono chiamarsi e di rimedi che possono giovare: e quando si discorre loro dell’anima, subito si tediano e vi dicono che li lasciate riposare, perché loro duole il capo e non possono parlare. E se talvolta rispondono, si confondono, né sanno che dirsi. E spesso dai confessori si dà loro l’assoluzione, non perché si conoscano disposti, ma perché non v’è tempo d’aspettare. Così muoiono quei che poco pensano alla morte. Che pazzia adunque, per i miseri e brevi diletti di questa così breve vita, mettersi a rischio di fare una mala morte, e con quella incominciare un’eternità infelice! Anche un gentile Antistene domandato qual fosse in questo mondo la miglior fortuna, rispose: Una buona morte. E che dirà un Cristiano, il quale ha per fede, che da quel momento principia l’eternità, sicché in quel momento si afferra una delle due ruote, che seco tira o un eterno godere o un eterno patire? Se in una borsa vi fossero due cartelle, in una delle quali vi stesse scritto l’inferno, nell’altro il paradiso che avesse a toccarti, qual diligenza non useresti per indovinare a prendere quella del paradiso? Miei cari, se credete che si ha da morire, e che vi è un’eternità, e che una volta sola si ha da morire, sicché se allora la sgarrate, l’avrete sgarrata per sempre senza speranza di rimedio, come non vi risolvete di cominciare da questo punto a far quanto potete per assicurarvi una buona morte? Tremava un S. Andrea d’Avellino dicendo: Chi sa qual sorte mi toccherà nell’altra vita? se mi salverò o mi dannerò? Tremava ancor S. Luigi Beltrando talmente, che la notte non poteva prender sonno al pensiero che gli diceva: E chi sa se ti danni? E voi che farete? Presto risolvete di darvi davvero a Dio, e cominciate almeno da questo tempo una vita, che non vi affligga, ma vi consoli in morte. Datevi all’orazione, frequentate i Sacramenti, lasciate le occasioni pericolose; e se bisogna lasciate ancora il mondo, assicurate la vostra salute eterna; e intendete che per assicurare la salute eterna non vi è sicurtà che basti.

2. Ma se il defunto giovanetto di Naim ci richiama così efficacemente al pensiero della morte del corpo, non ci richiama meno a quello della morte dell’anima. E poiché il cadavere di questo giovane veniva già portato fuori di città, all’aperto, tanto che un popolo intero poteva vederlo e compiangerlo, perciò dice il venerabile Beda, significa non solo qualsiasi peccatore, che è morto spiritualmente alla vita della grazia, ma quello specialmente, che non nasconde più il suo stato di morte nel segreto del suo cuore, ma lo pubblica e lo propala con la impudenza dei suoi discorsi, con la sfacciataggine delle sue opere, col menar vanto della sua malvagità, con l’essere insomma un peccatore pubblico e scandaloso. E purtroppo sono veri scandalosi tutti coloro che lasciano conoscere i loro peccati: poiché lo scandalo, come ha detto Tertulliano, non è che l’esempio che si dà agli altri di far male: Scandalum, exemplum rei malæ. Ed infatti, ogni peccato conosciuto ha una efficacia funesta di diminuire in quelli che lo conoscono, il disonore, l’infamia, l’orror del peccato, è uno sforzo diabolico con cui si indebolisce il freno della santa verecondia, del salutare rimorso in coloro, che non sono troppo fermi nel proposito di vivere cristianamente; è una ferita che si fa alle coscienze delicate, anzi è persino una scossa che si dà alle anime forti e ferventi, le quali al vedere come tanti pecchino con tanta disinvoltura e spudoratezza, si turbano ed hanno bisogno di ricorrere prontamente per aiuto a Dio, affine di non cadere ancor esse. – Sì, o miei cari, come ogni azione virtuosa che si conosce è una lezione, un incoraggiamento, uno stimolo di virtù, così ogni peccato che si conosce è una lezione, un incoraggiamento, uno stimolo di peccato. Coloro pertanto che non soddisfatti delle loro colpe, le lasciano ancor scoprire, le lasciano conoscere, e peggio poi le mettono essi stessi in pubblico, commettendole all’aperto o menandone vanto coi loro compagni ed amici, come scandalosi, sono rei non solo di quelle colpe che commettono essi, ma di quelle ancora, che col loro esempio funesto fanno commettere agli altri. Perciò costoro per rimettersi nella via del bene non solo dovranno reprimere le loro malvagie passioni, ma dovranno ancora riparare nel miglior modo possibile agli scandali dati, ciò che costituisce una difficoltà maggiore ad operare veramente la loro conversione e la loro salute. E questo appunto, dice Sant’Agostino, ha voluto significarci il Signore con l’aver dimostrata una certa difficoltà nel risuscitare il figlio della vedova di Naim. E difatti se risuscitò la figlia di Giairo quasi scherzando, nel risuscitare invece il giovine di Naim dapprima mostrossi commosso al pianto della sua madre; quindi si avvicinò alla bara, v’impresse un tocco misterioso, fermò i becchini, fece risuonare all’orecchio dell’estinto la sua voce onnipotente. Ed a questa voce rivisse bensì il giovanetto, ma stette tuttavia a sedere sul feretro e fu necessario che Gesù lo pigliasse per mano, lo facesse discendere, lo aiutasse nei suoi primi passi, affine di renderlo sano e vegeto alla madre. Quanto adunque è felice la condizione del Cristiano che dà buon esempio con le sue buone opere, tanto è triste e funesta la sorte di colui, che commettendo in pubblico il male, o manifestandolo, scandalizza. Colui che dà buoni esempi procaccia il bene suo e altrui; quegli che scandalizza rovina sé e gli altri; e la maledizione di Dio non tarderà a pesargli sopra del capo anche nel corso di questa vita. – Tuttavia, o miei cari, per coloro i quali, portando in pubblico i loro peccati, avessero scandalizzato il prossimo, non vi sarà più alcuno scampo? Oh no! risponde lo stesso S. Agostino, non bisogna creder questo. Poiché Gesù Cristo con l’aver detto al giovanetto di Naim: Risorgi; ci ha chiaramente fatto comprendere, che anche i peccatori scandalosi raffigurati in quel giovanetto, possono essi pure risorgere alla grazia di Dio, e che anche per essi vi è speranza di salute. Ma a tal fine bisogna fermarsi anzi tutto sulla via che conduce all’abisso, lasciando tosto il peccato; quindi bisogna esser docili alla voce di Dio, che con le ispirazioni, e con gli altrui consigli, e specialmente con le lacrime di una madre, chiama alla conversione; sorgere dalla bara delle proprie colpe per mezzo di una buona confessione, e non facendo più nessuna ricaduta, affìdarsi nelle braccia della nostra madre, la Chiesa, per vivere unicamente al suo amore nell’osservanza esatta dei precetti di Dio e della Chiesa. E come il giovinetto di Naim risuscitato che fu si mise tosto a parlare della sua nuova vita al popolo circostante, così chi ripiglia davvero una vita cristiana, dopo aver dato degli scandali, deve far conoscere la sua conversione a coloro che ha scandalizzati, affine di riparare al male che ha fatto. Egli deve imitare lo zelo di Davide, il quale, ritornato a Dio dopo le sue gravi colpe, protestava di voler insegnare ai malvagi le vie del Signore: Docebo iniquos vias tuas, affinché quelli che si erano per cagione sua dati al male si convertissero; et impii ad te convertentur. No, non bisogna arrossire della nuova vita cristiana, non bisogna curare il sarcasmo dei cattivi; conviene calpestare ogni umano rispetto, e parlare sovente di Dio, della sua bontà; soprattutto poi bisognerà farsi vedere alieno dal mondo, assiduo alle pratiche di religione, pio e fervoroso nelle chiese, riservato nelle parole, nel tratto, negli sguardi, umile, paziente, caritatevole. Allora chi per tal modo, anche dopo aver dato scandali, ripiglierà una vita veramente cristiana, non solo in privato, ma anche in pubblico, non abbia alcun timore, che gli riuscirà anche facilmente di pareggiare le sue partite con la divina giustizia ed assicurarsi la sua salute eterna.

3. Da ultimo, o miei cari, diamo ancora uno sguardo alla madre di quel giovane risuscitato. Questa vedova che prova un cordoglio così acerbo per la morte del suo figlio, che sparge tante lacrime dietro la bara, che cammina circondata da un gran popolo, che divide con lei il dolore ed il pianto, dice ancora S. Agostino, è la santa ed augusta nostra Madre, la Chiesa, la quale dopoché il suo divino Sposo è salito al Cielo, e non lo vede più corporalmente a sé dappresso, è rimasta come vedova su questa terra. E questa Madre vedova piange ancor essa continuamente con tutto quanto il popolo, veramente cristiano, che partecipa ai suoi dolori come alle sue gioie; piange sopra la morte dei poveri peccatori e di tanti infelici, che, non avendo ancor conosciuto l’Autor della vita, giacciono ancor nelle tenebre e nell’ombra di morte. E con le sue lagrime e preghiere incessanti si adopra a presentare avanti a Dio tale spettacolo di compassione, che Dio ne resti commosso e si degni operare i miracoli delle spirituali risurrezioni. Or bene, o miei cari, apparteniamo noi al bel numero di quelle persone che tengono dietro a questa Madre piangente, condividendo le sue lagrime e le sue preghiere? Ricordiamo, o carissimi, che il massimo tra gli uffìzi della carità cristiana è l’adoperarsi per la salute spirituale dei prossimi, per la conversione dei poveri peccatori. – S. Giacomo termina la sua lettera cattolica col dire che chi riuscirà a convertire con le sue preghiere, con le sue opere un peccatore, salverà l’anima di lui dalla morte e coprirà la moltitudine dei peccati suoi, vale a dire renderà se stesso sicuro della sua salute: Qui converti fecerit peccatorem ab errore viæ suæ, salvabit animam ejus a morte, et operiet multitudinem peccatorum (V. 20). Preghiamo adunque volentieri, perché si convertano a Dio quelli che ne sono lontani; preghiamo tutti, che tutti potremo commuovere a compassione il cuore di Dio; ma preghino, piangano soprattutto le madri, che avessero figliuoli morti alla vita cristiana. Così faceva appunto la madre di S. Agostino, come attesta egli stesso. Mia madre, diceva egli, mi piangeva con un dolore più vivo che non piangono le madri i loro figliuoli, quando li vedono portare alla sepoltura, perciocché mi vedeva morto innanzi a Voi, o mio Dio! Quindi Voi avete ascoltata la sua voce e non avete disprezzato i torrenti di lagrime ch’ella versava in vostra presenza in tutti i luoghi, dove offrivavi la sua prece. Oh! le lagrime di una madre cristiana, le sue preghiere sono l’olocausto più gradito al trono di Dio, e se pure qualche volta, come fece con la stessa madre di Sant’Agostino, Iddio pei suoi giusti motivi ritarda ad esaudirle, non le lascia certamente andare perdute. O amabilissimo Salvatore! degnatevi accostarvi a quei cuori che noi amiamo; fermateli sul cammin della morte; comandate a quelle passioni, che li trascinano verso l’abisso e ne han giurata la perdita; spezzate, spezzate quelle catene del peccato, che li tengono avvinti; rendeteli pieni di vita, di grazia alla Chiesa che li piange; ed allora anche noi, pieni di sacro entusiasmo e di viva gratitudine, vi loderemo, vi glorificheremo, e ripeteremo a tutti: Il gran Profeta è comparso tra noi! Iddio ha visitata la sua plebe.

Credo …

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 2; 3; 4
Exspéctans exspectávi Dóminum, et respéxit me: et exaudívit deprecatiónem meam: et immísit in os meum cánticum novum, hymnum Deo nostro. [Ebbi ferma fiducia nel Signore, il quale si volse verso di me e ascoltò il mio grido: e pose nella mia bocca un càntico nuovo, un inno al nostro Dio.]

Secreta

Tua nos, Dómine, sacramenta custodiant: et contra diabólicos semper tueántur incúrsus. [I tuoi sacramenti, o Signore, ci custodiscano e ci difendano sempre dagli assalti del demonio.]

Communio

Joann VI: 52
Panis, quem ego dédero, caro mea est pro sæculi vita.
[Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo.]

Postcommunio

Orémus.

Mentes nostras et córpora possídeat, quǽsumus, Dómine, doni cœléstis operátio: ut non noster sensus in nobis, sed júgiter ejus prævéniat efféctus. [L’azione di questo dono celeste dòmini, Te ne preghiamo, o Signore, le nostre menti e nostri corpi, affinché prevalga sempre in noi il suo effetto e non il nostro sentire.]

Per l’ordinario della  Messa:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (78)

LO SCUDO DELLA FEDE (78)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA.

CONSEGUENZE DEL PERDERE LA S. FEDE E MODI DI PREVENIRLE

CAPITOLO I.

QUALI BENI SPIRITUALI TOLGA IL PROTESTANTESIMO

Chiunque ha dal Signore la grande grazia di vivere nella S. Chiesa, possiede un tesoro di beni spirituali, che sono i più preziosi che si possano immaginare. I Protestanti (compreso  il falso Novus Ordo e i sedevacantisti vari – ndr.-) con lo strapparvi dalla S. Chiesa vi vogliono rapire tutti questi beni. Miei cari, considerate un momento l’ampiezza e la gravità del danno che vi vogliono fare, che basterà certo a colmarvi di santo orrore. – Chiunque è entrato nella S. Chiesa per mezzo del S. Battesimo, di brutto e deforme che era pel peccato originale diventò mondo e bello per la grazia di Dio infusale in quel punto: di nemico che era del Signore gli è diventato amico: di schiavo di lucifero che era, divenne figliuolo di Dio: d’impotente a nulla operare per la vita eterna divenne libero di verace libertà, che è quella di poter meritare: mentre prima era spoglio d’ogni bene, colmo di ogni male diventò ricco in Gesù Cristo di tutti i doni e possessore fortunato dell’abito della Fede, della Speranza e della Carità e di tante altre virtù: e quello che tutto corona, divenuto per la grazia figliuolo di Dio, è stato fatto erede del santo Paradiso. Ora ecco quello che vi farebbero i Protestanti se vi strappassero dalla S. Chiesa: vi ruberebbero tutti questi tesori, e vi spoglierebbero di tutti questi beni e soprattutto dell’eterna eredità che sperate da Gesù Cristo. – Nella S. Chiesa avendo ricevuto voi la Confermazione, voi avete lo Spirito Santo che abita nel vostro cuore con i suoi doni e con le sue grazie, che v’illumina nella mente per ben osservare i santi comandamenti e che vi conforta il cuore, perché possiate negl’incontri anche difficili, mostrarvi veri Cristiani, professando la S. Fede. Ma se vi strappassero dal cuore questa Fede si partirebbe da voi lo Spirito Santo, e voi rimarreste privo di tutte quelle grazie di cui esso è la fontana perenne. – Finché siamo in questa vita, pur troppo cadiamo sempre nel peccato, e pur troppo cadiamo anche talvolta in peccati gravi, che danno morte all’anima nostra, privandoci della grazia di Gesù. Ora qual è tutta la nostra speranza quando siamo carichi d’iniquità e meritevoli dell’Inferno? Allora noi abbiamo nella S. Chiesa istituito da Gesù Cristo il Sacramento della Confessione; noi manifestiamo tutti i nostri peccati al Sacerdote che è ministro di Gesù per concederci in suo nome il perdono. Se egli vede che noi sinceramente e con tutto il cuore detestiamo il peccato, egli con l’autorità che Gesù Cristo gli ha data, ce ne assolve e ci perdona: e Dio rimette nel cielo quello che egli ha rimesso in terra secondo le sue infallibili promesse. Oh che grazia grande è questa che possiedono i Fedeli! Che sarebbe di noi che siamo tanto facili a cadere, se non avessimo questa consolazione in vita e specialmente nell’ora della morte, quando tanto importa d’essere perdonati da Dio? Ora, miei cari, i Protestanti vi priverebbero di questo gran bene qual è il perdono dei peccati; e togliendovi dal cuore quella dolce fiducia che avete di essere perdonati, fondata sulle divine promesse, vi sostituirebbero una presunzione superba di salvarvi senza merito o una irreparabile disperazione. Dovreste tremare sempre come le foglie al vento dicendo: chi sa se io sia perdonato, nessuno me ne assicura, nessuno me ne dà speranza, e soprattutto poi nell’ora della morte vi trovereste in estreme angustie. Oh perfidi che vi vogliono togliere tanti beni e con tanta ipocrisia! La Santa Confessione per noi è l’apparecchio a beni anche maggiori. Dopoché ci siamo purificati nel Sangue prezioso di Gesù con la Confessione e col pentimento nel Sacramento della Penitenza, noi passiamo a ricevere Gesù nel S. Sacramento dell’Altare. Qui le grazie che ci fa il buon Gesù non si possono dire per metà. Egli ci dà allora il suo Corpo Divino, il suo Sangue prezioso, l’anima sua sacrosanta, la sua ineffabile divinità: e cosi stringendoci tutti a Lui ne riempie d’ogni sorta di grazie: grazie per vincere tutte le tentazioni del mondo, del demonio e della carne: grazie per disimpegnare tutti gli obblighi del nostro stato: grazie per amarlo ardentemente, non solo con le parole, ma con l’esecuzione di tutti i suoi comandi: grazie per arrivare facilmente al cielo. Quando noi ci comunichiamo degnamente, noi restiamo così uniti ed incorporati con Gesù, che i Santi Angeli stessi ce ne portano invidia. Oh che stato fortunato è mai questo! Ebbene guardate la perfidia dei Protestanti. Essi non riconoscono per niente questa gran grazia del Signore. Non credono che Gesù Cristo stia presente nella S. Eucaristia, e sono tanto superbi, che non lo credono neppure a Gesù Cristo, il quale lo ha detto più volte, non lo credono alla S. Chiesa che l’ha imparato dalla bocca di Gesù e dei santi Apostoli; non lo credono a tutti i Santi i quali ricevevano con tanta riverenza ed amore questo cibo angelico, e dopo che i miseri sono per la loro infedeltà e malizia privi di tutti questi beni, ne vogliono privare anche voi dandovi ad intendere che Gesù Cristo non si trova in quell’Ostia sacrosanta, e che non vi può far nessun bene. Ah malvagi che sono, ah infedeli! Nési contentano ancora di tanti beni preziosi che vi hanno involato. La S. Eucaristia oltre all’essere Sacramento che noi riceviamo, è ancora il sacrifizio che noi offriamo a Dio. Voi sapete che quando il Sacerdote si reca al S. Altare e celebra la S. Messa, esso non fa altro che immolare di nuovo il nostro buon Gesù all’eterno Padre, rinnovando così, sebbene senza spargimento di sangue, il gran Sacrifizio che fu già offerto dallo stesso Gesù sopra la Croce. Ora quando il Padre nostro celeste vede quella gran vittima che gli è tanto cara, perché è il suo Figliuolo Unigenito, si placa subito verso di noi, ascolta le nostre preghiere per riguardo di Lui, si rende propizio ai nostri peccati e pago e soddisfatto di quell’onore che Egli gli rende, lo accetta da Lui come se glielo avessimo fatto noi stessi, di cui Egli è il Redentore ed il Salvatore pietoso. Di quaè poi che in forza di questo gran sacrificio che per noi si offre ed a cui noi siamo presenti almeno nei dì festivi, il Signore risparmia alla terra tanti castighi che la sua giustizia manderebbe sopra di noi e ci converte invece in benedizioni quelle maledizioni che noi avremmo meritato. Guai al mondo, se non si offrisse nel mondo il santo Sacrificio della Messa! Ma i Protestanti dopo di averci rapito tutti gli altri beni, ci vogliono togliere anche questo, e così toglierci con un colpo solo tutti i beni corporali e spirituali che ci provengono dal Sacrifizio. Oh malvagità, oh perfidia! – Né sono ancora paghi. Ci vorrebbero ridurre in questa terra a vivere come le bestie. Ci vogliono rapire il santo Sacramento del matrimonio, negando che esso sia un sacramento. E così l’unione dell’uomo con la donna invece di essere santificata dalla grazia di Gesù Cristo, sarebbe come l’unione dei cani e delle bestie. – Ci vogliono togliere il Sacramento dell’Ordine con cui si fanno i sacerdoti, e così a poco a poco ci farebbero diventare come i selvaggi i quali sono senza Chiesa, senza sacerdoti e senza Dio. Credereste? perfino nelle nostre agonie ci vorrebbero contristare, levandoci la grande consolazione dell’Olio santo. In quel momento in cui è così grande il bisogno, in cui il demonio ci assale, la vista dei nostri peccati ci conturba, la infermità ci affanna, in quel momento terribile i buoni Fedeli ricevono un gran conforto dal Sacramento dell’Estrema Unzione, perché Gesù per mezzo di essa ci anima, ci consola, ci rimette anche i peccati, ci dà fiducia per morir bene. Ora questi perfidi ci perseguitano anche in quei momenti, vietando che ci si amministri questo Sacramento di tanta consolazione. Può darsi un delitto più grave di questo? Eppure essi mirano a tutto ciò, giacché se voi diventaste protestanti, sareste privi di tutti questi tesori che essi disprezzano, perché non conoscono e non vogliono conoscere. – Ah mille morti piuttosto che cadere in tanto errore e tanta abbominazione!

SALMI BIBLICI: “NOLI ÆMULARI IN MALIGNANTIBUS” (XXXVI)

SALMO 36: “Noli æmulari in malignantibus”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR; RUE DELAMMIE, 13 – 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

SALMO XXXVI

[1] Psalmus ipsi David.

    Noli æmulari in malignantibus,

neque zelaveris facientes iniquitatem;

[2] quoniam tamquam fœnum velociter arescent, et quemadmodum olera herbarum cito decident.

[3] Spera in Domino, et fac bonitatem; et inhabita terram, et pasceris in divitiis ejus.

[4] Delectare in Domino, et dabit tibi petitiones cordis tui.

[5] Revela Domino viam tuam, et spera in eo, et ipse faciet.

[6] Et educet quasi lumen justitiam tuam, et judicium tuum tamquam meridiem.

[7] Subditus esto Domino, et ora eum. Noli æmulari in eo qui prosperatur in via sua, in homine faciente injustitias.

[8] Desine ab ira, et derelinque furorem; noli æmulari ut maligneris.

[9] Quoniam qui malignantur exterminabuntur; sustinentes autem Dominum, ipsi hæreditabunt terram.

[10] Et adhuc pusillum, et non erit peccator; et quæres locum ejus, et non invenies.

[11] Mansueti autem haereditabunt terram, et delectabuntur in multitudine pacis.

[12] Observabit peccator justum, et stridebit super eum dentibus suis.

[13] Dominus autem irridebit eum, quoniam prospicit quod veniet dies ejus.

[14] Gladium evaginaverunt peccatores, intenderunt arcum suum, ut dejiciant pauperem et inopem, ut trucident rectos corde.

[15] Gladius eorum intret in corda ipsorum, et arcus eorum confringatur.

[16] Melius est modicum justo, super divitias peccatorum multas;

[17] quoniam brachia peccatorum conterentur, confirmat autem justos Dominus.

[18] Novit Dominus dies immaculatorum, et haereditas eorum in æternum erit.

[19] Non confundentur in tempore malo, et in diebus famis saturabuntur,

[20] quia peccatores peribunt. Inimici vero Domini mox ut honorificati fuerint et exaltati, deficientes quemadmodum fumus deficient.

[21] Mutuabitur peccator, et non solvet, justus autem miseretur et tribuet;

[22] quia benedicentes ei haereditabunt terram: maledicentes autem ei disperibunt.

[23] Apud Dominum gressus hominis dirigentur; et viam ejus volet.

[24] Cum ceciderit, non collidetur, quia Dominus supponit manum suam.

[25] Junior fui, etenim senui; et non vidi justum derelictum, nec semen ejus quærens panem.

[26] Tota die miseretur et commodat; et semen illius in benedictione erit.

[27] Declina a malo, et fac bonum, et inhabita in sæculum saeculi;

[28] quia Dominus amat judicium, et non derelinquet sanctos suos; in æternum conservabuntur. Injusti punientur, et semen impiorum peribit.

[29] Justi autem hæreditabunt terram, et inhabitabunt in sæculum sæculi super eam.

[30] Os justi meditabitur sapientiam, et lingua ejus loquetur judicium.

[31] Lex Dei ejus in corde ipsius, et non supplantabuntur gressus ejus.

[32] Considerat peccator justum, et quærit mortificare eum.

[33] Dominus autem non derelinquet eum in manibus ejus, nec damnabit eum cum judicabitur illi.

[34] Exspecta Dominum, et custodi viam ejus; et exaltabit te ut hæreditate capias terram; cum perierint peccatores, videbis.

[35] Vidi impium superexaltatum, et elevatum sicut cedros Libani;

[36] et transivi, et ecce non erat; et quæsivi eum, et non est inventus locus ejus.

[37] Custodi innocentiam, et vide æquitatem, quoniam sunt reliquiæ homini pacifico.

[38] Injusti autem disperibunt simul; reliquiæ impiorum interibunt.

[39] Salus autem justorum a Domino; et protector eorum in tempore tribulationis.

[40] Et adjuvabit eos Dominus, et liberabit eos; et eruet eos a peccatoribus, et salvabit eos, quia speraverunt in eo.

[Vecchio Testamento secondo la VolgataTradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XXXVI.

I pusilli non imitino le opere dei malvagi, perché li vedono prosperare, e non dubitino della Provvidenza di Dio. È una raccolta di sentenze distribuite alfabeticamente, cosi da contenere ogni sentenza due versetti.

Salmo dello stesso David.

1. Non voler imitare i maligni, e non portar invidia a coloro che operano l’iniquità.

2. Perocché seccheranno ben presto: come il verde fieno e come la tenera erbetta, appassiranno velocemente.

3. Spera nel Signore, ed opera il bene, e abiterai la terra, e sarai pasciuto di sue ricchezze.

4. Metti la tua consolazione nel Signore, ed ei ti darà quello che il tuo cuore domanda.

5. Esponi al Signore il tuo stato, e in lui confida, e farà egli.

6. E renderà manifesta come la luce la tua giustizia, e la tua virtù come il mezzodì.

7. Sta soggetto al Signore e pregalo. Non riscaldarti per ragion di colui che è prosperato nelle sue vie; dell’uomo che fa ingiustizie.

8. Lascia andare lo sdegno, e metti da parte l’impazienza: non averne invidia, per poi fare il male.

9. Imperocché saranno sterminati i maligni; ma quelli che aspettano in pazienza il Signore, saranno eredi della terra.

10. E un po’ di pazienza, e il peccatore più non sarà: e cercherai del luogo dov’ei si stava, e nol troverai.

11. I mansueti poi saranno eredi della terra, e goderanno abbondanza di pace.

12. Il peccatore mirerà di mal occhio il giusto, e digrignerà i denti contro di lui.

13. Ma il Signore si farà beffe di lui, perché  vede che il suo giorno verrà.

14. I peccatori sguainarono la spada, tesero il loro arco. Per abbatter il povero e il miserabile, per trucidare gli uomini di retto cuore.

15. La loro spada trapassi i loro cuori, e l’arco loro si spezzi.

16. Più giova il poco al giusto, che le molte ricchezze al peccatore;

17. Perocché le braccia del peccatore saranno rotte; ma il Signore corrobora i giusti.

18. Il Signore ha cura dei giorni degli uomini senza macchia; e la eredità loro sarà eterna.

19. Non abbiano da godere del mio male quelli saranno confusi nel tempo cattivo, e nei giorni di carestia saranno satollati;

20. Imperocché i peccatori periranno, E i nemici del Signore, appena saranno stati messi in onore ed esaltati, mancheranno e spariranno come fumo.

21. Il peccatore prenderà in prestito, e non restituirà; ma il giusto è misericordioso, e donerà.

22. Perocché quelli che a lui danno benedizione, saranno eredi della terra; ma quei che lo maledicono, andranno in perdizione.

23. Dal Signore saranno diretti i passi dell’uomo, e le sue vie saranno approvate da lui.

24. Se egli cadrà, non sarà infranto, perché il Signore pone sotto di lui la sua mano.

25. Sono stato giovane, perocché son già vecchio, e non ho veduto derelitto il giusto, né la stirpe di lui cercante del pane.

26. Ogni giorno egli è liberale, e dà in prestito: in benedizione sarà la sua stirpe.

27. Fuggi il male e opera il bene; ed avrai un’abitazione sempiterna.

28. Imperocché il Signore ama la rettitudine, e non abbandonerà i suoi santi; eglino saranno conservati in eterno. Gl’ingiusti saran puniti, e perirà la stirpe degli empi.

29. Ma i giusti saranno eredi della terra, e l’abiteranno in perpetuo.

30. La bocca del giusto parlerà meditazioni  di saviezza, e la lingua di lui di buone cose ragionerà.

31. La legge del suo Dio egli ha nel suo cuore, e i piedi di lui non saran vacillanti.

32. Il peccatore adocchia il giusto, e cerca di ucciderlo;

33. Ma il Signore non lo abbandonerà nelle mani di colui; né lo condannerà, quando di lui farassi giudizio.

34. Aspetta il Signore, e osserva sua legge, ed egli ti esalterà, affinché erede tu sii della terra; quando i peccatori siano periti, allor vedrai.

35. Io vidi l’empio a grande altezza innalzato come i cedri del Libano.

36. E passai, ed ei più non era; e ne cercai, e non si trovò il luogo dov’egli era.

37. Custodisci l’innocenza, e osserva la rettitudine, perocché qualche cosa rimane per l’uomo di pace.

38. Ma l’iniqui tutti periran malamente; quel che resta degli empi andrà in perdizione.

39. La salute de’ giusti vien dal Signore, ed egli è lor protettore nel tempo della tribolazione.

40. E il Signore li aiuterà e li libererà, e li trarrà dalle mani de’ peccatori, e li salverà, perché in lui hanno sperato.

Sommario analitico

Il salmista, alla vista delle fluttuazioni, dello scoraggiamento dell’uomo giusto indignato dalla prosperità dei peccatori, lo invita a moderare la sua indignazione e a non invidiare una simile prosperità, prezzo della loro vita criminale, perché questi sono i beni che in abbondanza possiedono gli empi ed i malvagi [Questo salmo è uno degli alfabetici, ma le lettere vi appaiono ogni uno o due versetti, vi si nota una grande analogia di forme ed anche qualche somiglianza di fondo con i salmi alfabetici XXIV e XXXIV. I versetti 3, 11, 22, 29, 34, sembrano designare l’epoca in cui il reame di Giuda versava in rovina, e qualche autore pensa che sia stato scritto nel tempo in cui Geremia dissuadeva i Giudei dal ritirarsi in Egitto, promettendo loro che non avrebbero avuto nulla da soffrire se avessero acconsentito a restare nella terra di Israele. Secondo Rosen-Müller, il salmista non avrebbe osservato alcun ordine stabilito, ed alcun legame ci sarebbe tra le differenti parti di questo Salmo. È fuor di dubbio – egli dice – che in certi scritti dell’Antico Testamento, le parti di cui si compongono, sono talmente legate ed incatenate tra loro, che si possono comparare ai legami stretti che uniscono tra loro le membra del corpo umano. Ma non è meno certo che in altri scritti, le sentenze siano riunite come tanti fiori in un sol fascio e legate tra loro da un legame comune, senza tuttavia dipendere più l’una dall’altra come tante perle che, attraversate da un filo comune, servono a formare una sola collana. Questo apprezzamento nell’applicazione a questo Salmo, ci sembra solo in parte fondata, a causa della ripetizione di alcuni pensieri, ma non tanto da escludere, come fa Rosen-Muller, ogni legame, ogni concatenazione tra le diverse parti del Salmo].

I – Sono per loro natura fragili e deperibili.

1° Malgrado essi, i loro beni, la loro prosperità, le loro grandezze, si seccheranno rapidamente come succede ben presto alle erbe dei campi (1, 2);

2° Invece i giusti possiederanno dei beni molto superiori, come compenso della loro speranza in Dio e la pratica del bene e avranno come parte: a) una felicità stabile: « voi abiterete la terra », b) una beatitudine abbondante « e sarete nutriti dalle sue ricchezze » (3), – c) Una felicità piena di soavità e che colmerà tutti i desideri del loro cuore (4); – d) una felicità gloriosa: i giusti riveleranno a Dio le loro vie e metteranno in lui la loro speranza; e come ricompensa: 1) Dio si dichiarerà loro protettore (5), 2) farà brillare in loro tutte le luci di grazie e di gloria (6); e) i mezzi per giungere a queste felicità sono: 1) sottomettersi umilmente a Dio, 2) essergli unito con una fervente preghiera (7); 3) non invidiare il benessere dei malvagi; 4) frenare la collera e l’indignazione che eccita la vista del loro benessere; 5) detestare e fuggire gli esempi della loro vita criminale (8).

II – Questi beni, indipendentemente dalla loro fragile natura, sono strappati con violenza agli empi, mentre il benessere dei giusti sarà stabile e perseverante (9).

1° Quanto ai malvagi: a) questa somma rovina che li minaccia arriverà ben presto (10); b) sarà terribile tanto che non resterà traccia dei luoghi che essi abitavano, mentre i giusti erediteranno la terra e si vedranno: c) ricolmi di gioia nell’abbondanza di una pace beata (11); – d) essi saranno maledetti nei tempi nel tempo stesso in cui si credono e si proclamano i beati della terra: 1) a causa delle pene che si danno nel tendere insidie ai giusti, e dell’invidia che nutrono verso di essi (12); 2) a causa della paura del giusto Giudice, che essi sanno che non lascerà i loro crimini impuniti; 3) a causa della crudeltà che essi dispiegano, delle menzogne e delle frodi alle quali essi hanno fatto ricorso (14); 4) a causa della tristezza nella quale li sprofonderà la vista dei loro sforzi impotenti, dei quali saranno essi le prime vittime, e della felicità dei giusti. (15).

2° Quanto ai giusti: – a) essi saranno felici anche in mezzo alla mediocrità (16), – b) Dio dà loro la salute e la forza, mentre snerva e fiacca la forza dei peccatori (17); – c) Dio dà loro una lunga vita, esente da pene; – d) conserverà l’eredità ai loro figli (18); – e) li nutrirà abbondantemente in tempi di fame (19); f) distruggerà i loro nemici, la cui rovina è proporzionata alla loro elevazione (20); mentre i peccatori prendono in prestito e non possono pagare, i giusti danno largamente e sono sempre nell’abbondanza, perché essi benedicono Dio ricevendo la terra in eredità (21, 22).

III – Questi beni non possono affatto paragonarsi ai beni riservati ai giusti:

1° Essi vedono Dio: – a) che li dirige sulla strada lungo la quale camminano (23); – b) che li risolleva se essi cadono (24); – c) che li nutre abbondantemente in tempo di fame (25); – d) che associa i loro figli al loro benessere (26); – e) che li aiuta nella fuga dal male e la pratica del bene, e dà loro la ricompensa eterna che i loro meriti e la loro giustizia esigono (27, 28), mentre gli empi riceveranno il castigo dovuto per i loro crimini (29).

2° La loro occupazione è: – a) lodare il Signore con la bocca (30); – b) amarLo fino al fondo del cuore (31); – c) fuggire i loro nemici con l’aiuto della protezione di Dio (32, 33); – d) attendere pazientemente l’eredità promessa a coloro che seguono fedelmente la via del Signore (34).

3° essi ammirano come gli empi siano travolti e distrutti senza ritorno (35, 36), mentre Dio pone loro nell’abbondanza (37), li conserva, li protegge e li libera dalla mano dei peccatori (38, 40).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-8.

ff. 1, 2. – La prosperità dei malvagi in questo mondo è la prova più cruda che i buoni debbano subire. È un gran male, di cui la vita futura è la sola spiegazione ed il solo rimedio. Questa prosperità irrita le anime forti, e troppo spesso esse sono tentate dal mormorare contro la divina provvidenza. Le anime deboli ne sono scandalizzate, ed hanno pena col difendersi da una segreta gelosia. Il Profeta oppone a queste due cattive impressioni, un doppio pensiero: la brevità della vita e la sorte funesta riservata a questi felici del secolo. L’erba dei campi che piace tanto agli occhi e che dissecca così rapidamente, o che cade così vilmente sotto la falce, è una immagine viva di quanto destinato ai malvagi. Il “velociter arescent”, e il “cito decident”, risponde a tutto. Così la pensa S. Agostino, in questo bel brano del suo “Enarrationes” (Rendu). – Ma indubbiamente voi siete turbati dal veder felici coloro che vivono male; dal veder affluire intorno ad essi in abbondanza, i beni di questo mondo. Voi vedete i loro costumi detestabili, apprezzate le immense ricchezze e nel vostro cuore voi dite che non c’è giustizia divina, che tutto va secondo la volontà degli avvenimenti e fluttua al vento casualmente … tutte le malattie dello spirito hanno il loro rimedio nelle Scritture: e colui che è malato fino al punto da tener questi discorsi, beva la salutare pozione che contiene questo Salmo. Prendete questa pozione, bevetene; il Profeta ha preparato questa bevanda sul soggetto dei vostri mormorii. Solo non respingete questa coppa che contiene la salute. Aprite con le vostre orecchie la bocca del vostro cuore, e bevete ciò che intendete. « Astenetevi dal serbare invidia verso i malvagi, e di essere gelosi di coloro che commettono l’iniquità, perché essi disseccheranno semplicemente come il fieno, e cadranno ben presto come le erbe dei campi ». Ciò che vi sembra lungo, è breve agli occhi di Dio: sottomettetevi a Dio e lo stesso tempo sarà breve anche per voi. Il fieno ha lo stesso senso delle erbe dei campi. Queste erbe non hanno un prezzo, spuntano su tratti assolati, e non posseggono radici profonde, cominciano a verdeggiare in inverno, e quando giungono i primi calori dell’estate, ingialliscono e disseccano. Noi siamo ora nella stagione invernale, e la vostra gloria non appare ancora. Ma se la carità ha messo profonde radici in inverno, come fa un gran numero di alberi, quando il freddo cesserà e l’estate sarà giunta, cioè al giudizio, allora si disseccherà il verde del fieno mentre la gloria degli alberi apparirà nel suo splendore; perché « … voi siete morti » (Coloss. III, 3), dice l’Apostolo, nello stesso modo che d’inverno gli alberi sembrano disseccati e come morti. Qual è dunque la nostra speranza se noi siamo morti? Noi abbiamo una radice interiore; dov’è la nostra radice interiore, la è la nostra vita, perché là è la nostra carità! « E la vostra vita, dice l’Apostolo, è nascosta con il Cristo in Dio » (Ibid.). chi dunque può disseccarsi avendo una simile radice? Ma quando verrà la vostra primavera? Quando verrà la vostra estate? Quando saremo rivestiti dalla bellezza del nostro fogliame ed arricchiti dall’abbondanza dei frutti? Ascoltate il seguito: « Quando il Cristo che è la vostra vita apparirà, allora anche voi apparirete nella gloria, e allora cosa faremo? » – « Badate di non portare invidia ai malvagi e gelosia verso coloro che commettono iniquità, perché essi disseccheranno rapidamente come il fieno e cadranno presto come le erbe dei campi. » (S. Agost.). – O mondo! È dunque invano che per farti comprendere la tua brevità, Dio ha messo dappertutto erbe che appassiscono e piccoli fiori nei campi che durano solo un mattino! O mondo! I piaceri passano ancora più presto, e nessuna primavera li farà mai rivivere (Mgr. De la Bouillerie, Symb.).

ff. 3-5. –  Solido fondamento della speranza cristiana è « … sperare nel Signore e fare il bene ». Colui che non è sostenuto dalla pratica delle buone opere è falso e presuntuoso. – Qual è questa terra che il Re-Profeta ci consiglia di abitare, se non la vostra anima, che dovete coltivare con cura, lavorare frequentemente con il vomere dell’aratro spirituale, così che non sia colpita da sterilità? (S. Ambrog.). Cosa dovete allora fare? « … mettete la vostra speranza nel Signore », perché essi sperano, ma non nel Signore: la loro speranza è effimera, la loro speranza è caduca, fragile, fuggitiva, passeggera, … sarà ridotta a nulla. « Mettete la vostra speranza nel Signore ». Ebbene, io spero in Lui, ed ora cosa farò? « Fate il bene ed abitate la terra; non fate il bene al di fuori della terra che dovete abitare; perché la terra del Signore è la sua Chiesa, essa è irrorata, coltivata dal Padre, che ne è il lavorante ». (Giov. XV, 1). Molti in apparenza fanno delle buone opere; ma poiché non abitano la vera terra, essi non appartengono al celeste agricoltore; fate dunque del bene, ma non al di fuori della terra. « E cosa me ne verrà? … Voi sarete nutriti dalle sue ricchezze ». Quali sono le ricchezze di questa terra? Questa terra ha come ricchezza il suo Signore; essa ha per ricchezza il suo Dio, lo stesso al Quale il profeta ha detto: « Signore, voi siete la mia parte » (Ps. LI, 26) – (S. Agost.). – « Dilettatevi nel Signore », amate, cercate di piacergli, e mettete la vostra gioia, come pure la vostra gloria: allora la vostra gioia sarà compiuta; essa sarà perfetta come il vostro amore (Bossuet, Médit. Sur l’Evang.). – Perché il Re Profeta non ha detto: « Egli vi accorderà … ciò che domanderete », ma « … le domande del vostro cuore » ? È perché c’è una grande differenza tra le domande dell’uomo esteriore e quelle dell’uomo interiore; non tutte infatti sono gradite a Dio, perché la legge della carne è spesso contraria alla legge dello spirito. Ma le domande dell’uomo che è stato rinnovato dallo Spirito Santo, sono sempre esaudite da Dio. Ecco ciò che allora fa dire a David: « Egli vi concede ogni cosa secondo il vostro cuore, e compie tutti i vostri desideri » (Ps. XIX, 5). Ricordate: « … secondo il vostro cuore » e non secondo i desideri della carne, e che Egli esaudisce le domande che provengono dal fondo del cuore, e non quelle che originano dai desideri delle gioie terrene. – Discernete con cura le domande del vostro cuore dalle domande della carne, perché non è inutilmente che il Profeta dice in un altro Salmo: « … e Dio è mia parte di eredità nell’eternità » (Ps. LXXII, 26). Prendiamo un esempio: un uomo è cieco, chiede di recuperare la vista. Questi lo domanda perché è Dio che fa la vista e che la dona; ma anche i malvagi la chiedono: questa è una domanda della carne. Un uomo è malato, chiede la sua guarigione, e in effetti, già sul punto di morire, ottiene di guarire. È ancora questa una domanda della carne, così come tante altre domande dello stesso genere. Ma che cos’è una domanda del cuore? È una domanda della carne il pregare che Dio ci renda la vista, per gioire di questa luce che i nostri occhi di carne possono percepire; così è una domanda del cuore quella che si rapporta ad un’altra luce. « Beati coloro che hanno il cuore puro, perché vedranno Dio. » (Matt. V, 8) – (S. Agost.). – Lasciarsi condurre dal Signore, scoprirgli semplicemente i propri bisogni, e poi lasciarlo fare; « dipendere da Dio come un servo dal suo maestro, che non vuole prevenire i suoi ordini, ma seguirli » (Dug.). – « Ed Egli farà Lui stesso – compirà la sua opera ». Quanta forza in queste parole « Egli farà Lui stesso »! il profeta non specifica l’oggetto di questa azione, ma fa intendere, con questa stessa reticenza, che Dio farà tutto, che Egli sa meglio di noi stessi ciò che per noi è più utile, e che noi dobbiamo riferirci soltanto a Lui (Berthier).

ff. 6. – L’impazienza umana non vuole attendere i momenti di Dio. Quando siamo esposti alla persecuzione degli uomini, o il vento della tribolazione si leva contro di noi, è per noi sufficiente rappresentare a Dio l’innocenza della nostra vita; attendiamo con pazienza, teniamoci in silenzio davanti a Dio, siamo perfettamente sottomessi e contentiamoci di pregarlo (Dug.). – « … Ed Egli farà brillare la vostra giustizia come la luce e come lo splendore del meriggio ». Ecco la luce in tutto il suo splendore. È poco il dire: come la luce. In effetti, noi diciamo già « la luce », quando spunta l’alba; noi ugualmente diciamo « la luce », quando sorge il sole, ma mai la luce è così splendente come nel mezzo giorno. Dunque non solo la vostra giustizia brillerà come la luce, ma ancora il vostro giudizio brillerà come il sole a mezzodì. Perché ora avete deciso di seguire il Cristo, ne avuto preso la risoluzione, l’avete scelto: ecco il vostro giudizio, ma nessuno vi ha mostrato ciò che Egli ha promesso. Ora, voi avete certo una promessa, ma voi ne attendete la realizzazione, voi avete dunque scelto, nel giudizio della vostra fede di seguire ciò che non vedete. È là il vostro giudizio; ma quale sia il valore del vostro giudizio, questo non appare ancora. Questo secolo è come il tempo della notte. Quando dunque il Signore farà brillare il vostro giudizio come il sole a mezzodì? « Quando il Cristo, che è la vostra vita, apparirà e vi apparirà nella sua gloria » (S. Agost.).

ff. 7, 8. – Ecco che lo faccio: io sono sottomesso al Signore e Lo prego insistentemente. Ma cosa ve ne pare? Questo mio vicino è un malvagio, fa il male, e gode di una prosperità piena; come resistere davanti ad un tale sovvertimento? Voi siete malato se pensate così; bevete la pozione che vi guarirà: « … non portate segretamente invidia a colui che prospera nella sua via; egli prospera, ma nella sua strada; voi avete delle pene sì, ma sulla strada di Dio; egli trova delle prosperità nella sua via; per lui, prosperità nella strada e sciagura all’arrivo, per voi, pena lungo la strada e felicità all’arrivo; perché il Signore conosce le vie dei giusti ma il cammino degli empi sarà distrutto » (Ps. I, 6S. Agost.). – « Reprimete la vostra collera e contenete la vostra indignazione »; cioè la natura vi travolge, la passione vi agita, un’offesa, un oltraggio eccita la vostra indignazione; reprimete questi moti, che abbiano una misura, un limite, un termine, così che non cadiate nel peccato. Dio non vi comanda affatto di non montare assolutamente in collera; Egli cede per un istante a questo moto naturale. Il medico non applica immediatamente il rimedio all’ammalato, se il dolore è violento, egli impiega dei calmanti per lenirlo; se la febbre è ardente, egli attende il momento favorevole, rifiuta anche al malato ogni bevanda. Non gli dice: non avete la febbre quando essa è al suo apogeo; ma: attendete che la febbre sia cessata, che questa violenta agitazione si calmi. Così il profeta non dice all’uomo la cui carne è agitata da tanta passione: « non montate in collera »; ma gli dice. « … reprimete la vostra collera e contenete la vostra indignazione », per non cadere in peccato, perché la collera è la grande maestra del peccato (S. Ambr.).

II. — 9-22

ff. 9, 10. –  Dio soffre per qualche tempo e porta pazienza; ma infine, quando è arrivato il suo tempo, stermina l’empio con la sua empietà (Dug.). Ma per quanto tempo il peccatore sarà fiorente? Quanto tempo aspetterò? Voi correte verso questo momento: esso è così breve anche se vi sembra lungo. È la vostra debolezza che vi fa sembrare lungo ciò che passa così in fretta. Quali sono ai nostri occhi i desideri di un malato? Nulla è così lungo per lui, nella sua sete, che il tempo che gli si prepari la sua bevanda. Gli astanti si impressionano per la paura di vedere il malato così impaziente. Quando sarà fatto? Quando me lo si darà? Non c’è che celerità da parte di quelli che vi servono; ma è la vostra malattia che vi va sembrare lungo ciò che si fa celermente. Così, guardate il vostro medico, come calma l’impazienza del malato che si lamenta: quando tempo dovrò sopportare, quanto durerà tutto questo? Ancora un po’ di tempo ed il peccatore non ci sarà più! Ricordate gli anni trascorsi da Adamo fino al presente; e se voi avreste trascorso tutto il tempo dalla cacciata di Adamo dal Paradiso fino al presente, voi vedreste sicuramente che la vostra vita, passata così rapidamente, non sarebbe stata abbastanza lunga. Ma qual è la durata della vita di un uomo? Aggiungete tutti gli anni che vorrete, prolungate ancora ed ancor più la vostra vecchiaia, e che cos’è questo, se non la rugiada del mattino? Se noi consideriamo così lontano il giorno del giudizio, e che in questo giorno sarà reso, secondo le loro opere, ai malvagi ed ai giusti, certamente non è il vostro ultimo giorno. Preparatevi a questo giorno. Come in effetti uscirete da questa vita, entrerete nell’altra vita (S. Agost.).

ff. 11. – Che l’empio trovi dunque quaggiù le sue delizie nell’abbondanza dell’oro, nell’abbondanza dell’argento, nell’abbondanza dei suoi possedimenti, nella ricchezza delle sue case di piacere, nell’abbondanza delle sue rose, nelle ubriachezze e negli splendori dei suoi festini voluttuosi! È questa dunque la potenza che invidiate? È questo il fiore che vi affascina? E se anche questa felicità fosse durevole, non sarebbe ancora l’empio da compiangere? Ma voi, di quelle delizie gioireste? « … essi troveranno le loro delizie nell’abbondanza della pace ». La pace sarà il vostro oro, la pace sarà il vostro argento, la pace sarà la vostra proprietà, la pace sarà la vostra vita ed il vostro Dio sarà la vostra pace. Tutto ciò che desiderate sarà la vostra pace. Ciò che quaggiù è oro, non potrà essere per voi danaro; ciò che è vino non può essere per voi pane; ciò che è luce per voi, non può essere una bevanda. Il vostro Dio è tutte queste cose per voi; Egli vi possederà interamente, essendo Egli stesso tutto intero. Là non sarete nella ristrettezza con colui che come voi Lo possederà tutto intero. Voi Lo possederete per intero ed un altro pure lo possederà, perché voi ed ogni altro, non farete che una sola cosa, che il vostro possessore possederà interamente (S. Agost.). – La pace è l’ordine perfetto; e la turba, i dissensi, le discordie, la guerra, non sono entrate nel mondo che per la violazione dell’ordine e per il peccato. Così, non c’è pace ove regni l’orgoglio ed il peccato; non c’è pace nell’uomo i cui pensieri, le affezioni, le volontà, non siano in tutto conformi all’ordine o alla verità e alla volontà di Dio; nessuna pace nella società le cui dottrine o leggi si allontanano dalla legge e dalla dottrina rivelata di Dio; e chiunque, uomo o popolo, distrugge questa legge, nega queste dottrine, anche in un solo punto, quest’uomo, questo popolo ribelle a Dio, subisce all’istante il castigo del suo crimine. Un malessere sconosciuto si impossessa di lui; … io non so quale forza disordinata lo spinga e lo respinga in tutti i sensi, e da nessuna parte trovi riposo (Mgr. Pie). No, la pace non è in effetti se non per i miti, gli umili, i veri figli di Dio; essi la gustano in se stessi, essi si rallegrano nell’abbondanza della pace, e la espandono sugli altri: essa, per così dire cola dal loro cuore come questi fiumi che bagnavano il felice soggiorno del nostro primo padre, ai tempi della sua innocenza.

ff. 12, 13. – C’è un’attenzione maligna del peccatore nell’osservare tutti gli sforzi del giusto, per trovare così l’occasione di perderlo. Se non scopre in lui alcun male, li inventerà, e se non può far esplodere il suo furore, digrignerà i denti contro di lui (Dug.). – Noi concepiamo facilmente come Dio, il cui sguardo abbraccia il mondo e l’eternità, non rida delle pretese e delle violenze del malvagio. Attraverso tutti i loro successi, ed a dispetto di ogni loro sicurezza, Egli vede giungere il loro giorno. E a noi non resta che, illuminati dal Vangelo, e fortificati dalla grazia, approfittare di questa lunga veduta di Dio, e giudicarne, come giudica Egli stesso, il presente e l’avvenire dei giusti e dei peccatori (Rendu). – Il Signore vede avanzare questo giorno ma voi non lo vedete. Ora Colui che lo vede ve lo ha mostrato. Voi ignorate il giorno in cui l’empio sarà punito; ma Colui che lo conosce non lo ha nascosto. È avere una gran parte di scienza l’essere unito a Colui che sa. Dio ha gli occhi della scienza; voi abbiate quelli della fede; ciò che Dio vede, credetelo, perché il giorno dell’empio arriverà, e Dio lo vede anzitempo (S. Agost.). « Dio, dice Tertulliano, avendo posto il giudizio alla fine dei secoli, non precipita il discernimento, che ne stima condizione necessaria »: è la verità stessa che Gli ha dettato questo pensiero. Perché non avete notato questa parola ammirevole: Dio non precipita il discernimento? Precipitare gli affari, è proprio della debolezza che è contraria al premurarsi nell’esecuzione dei propri disegni, perché essa dipende dalle occasioni, e queste occasioni sono certi momenti di cui la fuga subitanea causa una necessaria precipitazione a coloro che sono obbligati ad attaccarvisi. Ma Dio, che è arbitro di tutti i tempi, che dal centro della sua eternità sviluppa tutto l’ordine dei secoli, che conosce la sua Onnipotenza, e che nulla può sfuggire alle sue mani sovrane, ah! … Egli non precipita i suoi consigli. Egli sa che la saggezza non è nel fare sempre le cose prontamente, ma nel farle nei tempi necessari. Egli lascia censurare questi disegni ai folli e ai temerari, ma non ritiene di doverne anticipare l’esecuzione per il mormorio degli uomini. « … per Lui è abbastanza, Cristiani, che i suoi amici ed i suoi servitori guardino da lontano venire il suo giorno con umiltà e tremore; per gli altri, Egli sa ove attenderli, ed il giorno per punirli è segnato; Egli non si cura dei loro rimproveri, perché vede venire il suo giorno rapidamente ». (Bossuet. Serm. Sur le 3° Dim. Ap. Paques, Provid.). – Uscendo dalle nostre idee ristrette, prolungheremo i nostri sguardi come quelli di Dio, giudicheremo Dio come fa dalla sua eternità immobile, possessore del tempo, Creatore dei secoli, che vede tutto scorrere davanti a Lui, che passa rapidamente come l’onda follemente irritata, come schiuma impotente che si frange per perdersi e svanire per sempre. Eleviamoci fino al Dio vero, fino al Dio eterno. Egli vede le iniquità della terra, il suo occhio segue il lavorio perverso dei suoi nemici, lo sviluppo vittorioso dei loro disegni, i loro complotti sapienti, le loro audaci imprese, sempre coronate da successo; essi fanno la guerra a Dio; essi vogliono annientare la sua Chiesa; già l’edificio vacilla; essi trionfano; essi predicono la decadenza prossima del Cristo, l’avvenire è per loro! Che fa Dio? Dio se ne ride di tutti loro. E perché? « Perché vede avvicinarsi il suo giorno ». Ecco la parola rivelatrice, ecco la spiegazione luminosa intorno alla quale ruota la trama della storia (Doublet, Psaumes étud. En vue de la Préd.).

ff. 14, 15. – È facile per i malvagi raggiungere con la propria arma o la loro spada il vostro corpo, come il persecutore ha raggiunto il corpo dei martiri; ma se il corpo è stato colpito, il cuore è rimasto intatto; al contrario, il cuore di colui che ha colpito con la spada il corpo del giusto, non è evidentemente rimasto intatto: ciò che prova il salmo. Esso non dice: … che la loro arma entra nei loro corpi, ma che la loro arma entra nel proprio cuore. Essi hanno voluto portare la morte nel corpo del giusto; essi portano la morte nella loro anima. Gli insensati somigliano a colui che per strappare la tunica ad un altro, passerebbe il ferro attraverso il proprio corpo. Voi guardate ed avete colpito, e non guardate ove siete passati; voi avete strappato il vestito di un altro ed avete trafitto la vostra carne (S. Agost.). – Voi vedete due specie di armi tra le mani del peccatore. Un arco per tirare da lontano, una spada per colpire da vicino. L’arco si rompe ed è inutile; la spada porta il colpo, ma contro se stesso. Comprendiamo il senso di queste parole: il peccatore tira da lontano, egli tira contro il cielo e contro Dio, e non solo i dardi non arrivano, ma ancora l’arma si rompe al primo sforzo. Ma non è sufficiente che l’arco di spezzi e che la sua impresa sia inutile; bisogna che la sua spada gli trapassi il cuore e che, per aver tirato da lontano contro Dio, egli si dà da vicino un colpo senza rimedio, se Dio non lo guarisce con un miracolo. È il destino comune a tutti i peccatori. Il peccato, che turba tutto l’ordine del mondo, mette disordine primariamente in colui che lo commette. La vendetta, che esce dal cuore per distruggere tutto, porta sempre il suo primo colpo, il più mortale, sul cuore che la produce e la nutre. L’ingiustizia, che vuol profittare del bene altrui, fa la prima prova sul suo autore, che essa spoglia del suo bene più grande, che è la dirittura, prima che possa rapire ed usurpare quella degli altri. Il maldicente non distrugge negli altri che la rinomanza, ma distrugge in lui la stessa virtù. L’impudicizia che vuole corrompere tutto, comincia in effetti dalla sua sorgente, perché nessuno può attentare all’integrità altrui, senza perdere la propria. Così ogni peccatore è nemico di se stesso, corruttore nella propria coscienza del bene più grande della natura razionale: cioè l’innocenza (Bossuet, Serm. Pour la 3 Dim. De l’Av.).

ff. 17. – Le ricchezze della terra sono incapaci di rendere felici coloro che le posseggono. Essi d’ordinario, ne sono posseduti a loro volta. Un uomo ha dei beni, ma non ne ha affatto; egli non manca di nulla ma tutto gli manca. Le modiche risorse profittano più al giusto, che le immense ricchezze al peccatore. La ragione è che Dio dirige il giusto nell’uso che fa dei suoi beni. – Un’altra ragione per la quale il giusto mette la sua fiducia in Dio, è che è più felice con pochi beni, mentre la forza e la potenza dei peccatori sono distrutte nell’ora stessa in cui le loro ricchezze sono a loro tolte, spesso durante la loro vita, ed infallibilmente al momento della loro morte (Dug.). – Non sono le ricchezze in se stesse che il Re profeta accusa, ma le ricchezze dei peccatori. Forse parla così perché il peccatore per eccellenza ha detto: « tutte queste cose mi sono state assegnate, ed io le do a colui che voglio » (Luc. IV, 16). – Un’altra ragione, è che le ricchezze attirano i bollori della cupidigia, e colui che desidera possedere grandi ricchezze non evita ordinariamente gli ostacoli dai quali la vita dei peccatori è disseminata. « … La loro eredità sarà eterna », perché essi hanno cercato i beni eterni e non i beni fragili delle eredità terrene, e non avranno da arrossirne « (S. Ambr.).

ff. 18. « Il Signore conosce i giorni di quelli che sono senza macchia ». Colui che conosce il Signore è conosciuto dal Signore. Egli conosce i giusti e non conosce gli ingiusti; anche ad essi un giorno dirà « allontanatevi da me voi tutti operatori di iniquità, Io non vi conosco » (Matt. VII, 23), cioè: voi siete indegni della conoscenza divina. Io non vi conosco perché voi non avete voluto conoscermi. Le vostre opere non mi conoscono, le vostre azioni non mi conoscono; benché voi diciate che mi conoscete, i vostri peccati vi smentiscono e vi condannano. I peccatori non hanno dei giorni, perché essi fuggono la luce, e di essi lo Spirito Santo ha detto: « i loro giorni passano come l’ombra » (Ps. CXLIII, 14). La conoscenza in Dio è un atto di bontà e di condiscendenza e non un atto di visione. I suoi occhi sono luce, Egli rischiara coloro che lo guardano, ed i suoi occhi sono i giorni dei giusti (S. Ambr.).

ff. 19, 20. – Cosa vuol dire: « … essi non saranno confusi nei tempi malvagi »? essi non saranno confusi nei tempi di afflizioni, nei giorni di angoscia, come colui la cui speranza è delusa. Chi è dunque colui che è confuso? Colui che dice: io non ho trovato ciò che io speravo. E non è senza ragione, perché mettevate la vostra speranza in voi stessi, o speravate in un uomo vostro amico. Ora, « … maledetto colui che ripone la sua speranza in un uomo » (Gerem. XVII, 5). – Voi siete confusi perché la vostra speranza vi ha deluso poiché riposava sulla menzogna, poiché … ogni uomo è menzognero (Ps. CXV, II). Se al contrario mettete la vostra speranza nel vostro Dio, voi non sarete confusi, perché Colui nel Quale avrete riposto la vostra speranza non può essere ingannato. Ecco perché questo giusto afferma quello che vengo a ricordarvi, e cosa ha detto, dopo aver attraversato, senza essere confuso, dei tempi malvagi e dei giorni di tribolazione? « Noi ci glorifichiamo delle nostre tribolazioni, sapendo bene che la tribolazione produce la pazienza, la pazienza una virtù provata, e la virtù provata la speranza, e che la speranza non è delusa » (Rom. V, 3). – Perché la speranza non è delusa? Perché riposa in Dio. Così dice continuando: « perché l’amore di Dio è stato infuso nei nostri cuori dallo Spirito-Santo, che ci è stato dato. Poiché già lo Spirito Santo ci è stato dato, come Colui dal Quale abbiamo ricevuto un tal pegno, potrebbe ingannarsi? » – « E nei giorni della carestia, essi saranno saziati ». Da quaggiù, in effetti, c’è per essi una vera sazietà; perché i giorni della vita presente sono i giorni della carestia; e mentre gli altri hanno fame, i giusti sono saziati (S. Agost.). – Cosa fa al contrario il malvagio, quando comincia a sentire la tribolazione? Esternamente non ha più niente, tutto gli viene tolto; nella sua coscienza egli non trova nessuna consolazione. Egli non ha come uscire da se stesso, all’esterno tutto è afflizione, non ha dove rientrare in se stesso: all’interno tutto è cattivo. E giunge a ciò che il profeta aggiunge: « … perché i peccatori periranno ». Come, in effetti non periranno coloro che non hanno asilo da alcuna parte? Non ci sono per essi consolazioni né all’esterno, né all’interno. I peccatori non hanno asilo nelle cose esterne, perché non trovano la causa delle loro tribolazioni; la loro coscienza non li consola; non sono sereni con se stessi, perché è impossibile essere sereno per un malvagio. Ora, chiunque sia malvagio, sta male con se stesso, è inevitabilmente lo strumento del proprio supplizio. Colui che tortura la propria coscienza è castigo a se stesso. Egli fugge un nemico ovunque può; ma egli stesso ove fuggirà? (S. Agost.). Il fumo, nel momento in cui esce dal braciere, si gonfia in vortici densi; ma più è denso, più si rivela la sua vanità. Questa massa fluttuante che non ha appoggi, questo gonfiarsi senza solidità si dissipa più facilmente nell’aria. Il volume del fumo, lungi dall’avere una consistenza, piuttosto lo danneggia; ugualmente più il peccatore si eleva, più si gonfia e si tronfia nei suoi ambiziosi desideri, più Dio si compiace nel ridimensionarlo e farlo sparire come fumo inutile (S. Agost.).

ff. 21, 22. – Maledette ricchezze, impoverire i felici del mondo per il cattivo uso che ne fanno: essi prendono in prestito senza mai rendere. La povertà, al contrario, mette il giusto in questo felice stato di cui parla l’Apostolo, in cui non avendo nulla, arricchisce gli altri. L’uno dunque non possiede nulla; l’altro possiede. Vedete dove è l’indigenza e dove le ricchezze. Costui riceve e non pagherà; quell’altro presta all’infelice di cui ha compassione ed ha tutti i beni in abbondanza. Ma, se egli è povero? Anche allora è ricco. Gettate solo un pio sguardo sulle sue ricchezze. Voi in effetti vedete la sua borsa vuota, ma non fate attenzione alla sua coscienza, che Dio riempie. Esteriormente non ha risorse, ma interiormente possiede la carità. E quanto, per questa carità, non danno senza mai esaurirsi? Se in effetti esternamente ha delle risorse, la sua carità ne disporrà, ed i suoi doni esteriori saranno veramente quelli della sua carità. Se al contrario non trova esteriormente nulla da dare, egli dà la sua benevolenza, dà i suoi consigli, se può; se, infine non può aiutare né con i consigli, né con i soccorsi, egli aiuta con i suoi auguri, e prega per l’afflitto, e forse per la maniera in cui prega è esaudito, ed è più utile di colui che dà un pane. Costui ha sempre qualcosa da dare con il cuore pieno di carità. Questa carità ancora si chiama buona volontà. Dio non vi chiede null’altro che ciò che vi ha dato interiormente; perché la buona volontà non è mai nell’impossibilità. Se, in effetti, vi manca la buona volontà, anche quando avete tanto danaro, voi non lo date al povero; mentre i poveri sono in grado da se stessi di aiutarsi con la loro buona volontà, che non resta sterile nei loro mutui rapporti (S. Agost.). – Due effetti ben diversi vengono dal fatto che il povero benedice Dio nella sua povertà, mentre i peccatori al contrario, maledicono Dio nelle loro ricchezze. – Qual è questa terra il cui possesso è benedetto? Non è quella che è coperta da tenebre e piena di amarezza; ma quella in cui scorre latte e miele, vale a dire che ha la grazia della soavità, e lo splendore della luce eterna. (S. Ambr.).

III. — 24 – 40.

È il Signore stesso che conduce i passi del giusto, ed è anche nel consiglio di Dio che i suoi passaggi siano regolati. Egli non cammina che secondo le regole della volontà e dello Spirito del Signore che lo conduce; perché non è lui che vuole, né colui che corre, ma Dio nella sua misericordia, che veglia sui passi del suo servo, per impedire che egli cada. Quale fortuna avere Dio stesso per guida nel cammino in cui si procede, perché se si viene a cadere non si può essere abbattuti, mettendo Dio la sua mano sul giusto, per impedire che la sua caduta sia mortale! (Duguet).- Qui si sente il movimento di una madre che vedendo il suo bambino cadere, si sforza di mettere la mano sotto di lui per attutire il più possibile l’effetto della sua caduta.

ff. 26. – L’uomo onesto, sobrio e laborioso, guadagna il suo pane. È questo l’ordine generale ed è sufficiente un po’ di esperienza di vita per acquisirne la dimostrazione. Ogni impotenza di sussistere risale a quale virtù oltraggiata, sia la giustizia e la temperanza, sia la prudenza o la forza, e se accidenti imprevisti possono essere giustamente accusati, essi non sono che l’eccezione di una regola troppo evidente per essere misconosciuta. La virtù nutre l’anima, e l’anima nutre il corpo. Voi penserete forse che essa non lo faccia splendidamente? Ne convengo, perché più l’anima si eleva e gioisce in Dio essa stessa, meno il corpo ha dei bisogni. È questo anche uno dei segni più infallibili della virtù, la diminuzione dei bisogni del corpo; e i saggi del paganesimo, disdegnando le ricchezze, parlavano anzitempo il linguaggio del Vangelo, e profetizzavano a loro modo, questa parola che apre la legge nuova: « Beati i poveri! » (Lacord., Conf. T. V, pag. 114). – Non è il disegno di nostro Signore il dare anche ai suoi fedeli una certezza infallibile di non soffrire mai alcuna indigenza. Non meravigliamoci dunque di vedere che i più fedeli servitori possano essere esposti all’indigenza. Ma perché dunque ha promesso a coloro che cercano scrupolosamente il suo regno, che tutte le altre cose sarebbero state date loro? Le sue parole sono dubbiose? La sua promessa è incerta? A Dio non piace che sia così. Come nell’uomo ci sono due tipi di bene, il bene dell’anima ed il bene del corpo, così ci sono due generi di promesse, le une essenziali e fondamentali, che riguardano il bene dell’anima, che è primario; gli altri accessori e accidentali, che riguardano il bene del corpo, che è secondario. Queste promesse essenziali si compiono di per se stesse, e l’esecuzione non manca mai; ma essendo il corpo stato formato per l’anima, chi non vede che le promesse che gli sono fatte, devono essere necessariamente rapportate altrove? Così il nostro Padre celeste, vedendo nei consigli della sua Provvidenza ciò che è utile alla salvezza dell’anima, nella sua paterna bontà dà o meno i beni temporali in rapporto a questo fine principale, con la stessa condotta di un medico saggio e caritatevole che dispensa il nutrimento al suo malato, concedendolo o rifiutandolo secondo i bisogni della sua salute (Bossuet, Serm. sur les disp. a l’égard des nécess. de la vie.). – Pertanto, se alcuni veri giusti sembrano abbandonati e cercano delle briciole di pane come Lazzaro, essi hanno ricevuto da Dio qualcosa di meglio che non l’abbondanza dei beni temporali, e non cambierebbero i meriti della pazienza con tutti i beni della terra (Bellarm.).

ff. 27, 28. – È una verità spesso ripetuta nei salmi, che bisogna evitare il male e fare il bene, perché questo è sovranamente importante, e che l’uno non è sufficiente senza l’altro. – Dio ama la giustizia e non abbandonerà mai i Santi, ma nel modo per cui la vita dei Santi è nascosta in Lui; così che coloro che soffrono attualmente sulla terra sono simili ad alberi che d’inverno non hanno né foglie né frutti; ma quando apparirà il sole nel suo spuntare, la vita che era nascosta nelle radici si rivelerà con i frutti dell’albero. Donerà loro dunque, perché non debba abbandonarli, ciò che amate quaggiù, una lunga vita, la vecchiaia? Voi non riflettete che se desiderate la vecchiaia, voi desiderate una cosa di cui vi lamenterete quando sarà giunta. Che la vostra anima non vi dica dunque, per malvagità, debolezza o per mancanza di ragione: come è che sia vero che il Signore ama il giudizio e non abbandonerà i suoi Santi? (S. Agost.).

ff. 29 . – Due sono gli aspetti della giustizia: punire i malvagi e ricompensare i buoni. Dio fa l’uno e l’altro in Dio, vale a dire: punisce severamente e ricompensa liberamente, e per l’eternità. – Ascoltando queste parole, non vi promette qualche vasta campagna, o la speranza in un altro mondo nel disprezzo di questo attuale. Questa terra è la terra dei viventi, la terra dei Santi. Questo fa dire al Profeta: « … voi siete la mia speranza e la mia parte nella terra dei viventi » (Ps. CXLI, 6). Se tale deve essere la vostra vita, comprendete dunque qual sia la terra che avrete in eredità: è la terra dei viventi. Al contrario la terra ove noi siamo è la terra di coloro che muoiono, che riceve nel suo seno coloro che ha nutrito durante la loro vita. La terra è dunque ciò che è la vita: se la vita è eterna, è una terra eterna (S. Agost.).

ff. 30, 31. –  La bocca del giusto non parla come quella dell’insensato, alla leggera, ma parla con gravità, premeditando ciò che deve dire, proferendo parole di saggezza conformi alla giustizia. – In questi versetti è da considerare tutto: 1° la saggezza, che il giusto medita prima di parlare; – 2° la giustizia, che è l’oggetto ed il motivo delle sue parole; – 3° la legge di Dio che è profondamente radicata nel suo cuore; – 4° la fermezza che traspare in tutte le sue fatiche. Il peccatore, l’empio abbandonato ai suoi lumi o alla sua passione, non può che commettere grandi peccati nel parlare. Egli riflette poco e si preoccupa ancor meno di consultare la legge di Dio prima di manifestare il proprio pensiero. Da qui tutti i falsi passi che fa, sia nella vita civile, sia nella carriera della salvezza. Ciò che fa la saggezza e la sicurezza del giusto, è che la legge di Dio è nel suo cuore. Il profeta non dice nella sua testa, nei suoi pensieri; questa conoscenza si limiterebbe alla speculazione e ne farebbe un sapiente. Questa legge santa è nel cuore del giusto, egli la medita, la ama, la prende come regola delle sue azioni e dei suoi discorsi. Questa disposizione del giusto suppone che egli sia molto dedito alla preghiera e alla lettura dei santi libri, occupazione che fa le delizie e la felicità della sua vita (Berthier). – La legge di Dio è nel suo cuore, e di cosa si verve allora? « Egli non sarà abbattuto nel suo cammino ». La parola di Dio in un cuore, lo preserva da ogni insidia; la parola di Dio in un cuore lo preserva da ogni via cattiva; la parola di Dio in un cuore lo preserva da ogni ambito scivoloso. Se la sua parola non esce dal vostro cuore, Egli evidentemente è con voi (S. Agost.).

ff. 32-34. – Il peccatore osserva sovente il giusto non per edificarsi con la sua pietà e per imitarlo, ma per tendergli insidie e trovare qualche occasione per perderlo. – Ma Dio non abbandona i suoi. « Egli dà loro una bocca ed una saggezza alla quale tutti i loro nemici non possono resistere né contraddire » (Luc. XXI, 15). Dio non condannerà il giusto quando sarà giudicati, perché o non gli permetterà che sia condannato, o almeno coronerà la sua pazienza quando sarà condannato dai giudizi degli uomini (Dug.). – Ma questo quando avverrà? Badate di non pensarci. È il tempo del lavoro, è il tempo della semina, è il tempo dell’irrigazione. Sebbene lavoriate in mezzo ai venti, quantunque lavoriate in mezzo alla pioggia, seminate sempre, non siate pigri; l’estate verrà presto, ed allora sarete felici di aver seminato. Cosa farò allora? « … Aspettate il Signore », ed aspettando cosa farò? « … seguite le sue vie ». E se le seguo, quale sarà la mia ricompensa? « … Egli vi eleverà affinché possediate la terra in eredità ». Quale terra? Io ve lo ripeto non vi venga da pensare a nessun possedimento; si tratta di ciò che è stato detto: « … Venite, benedetti del Padre mio, riceverete questo regno che vi è stato preparato dall’inizio del mondo. » (Matt. XXV, 34). – E cosa diverranno coloro che ci hanno tormentato, in mezzo ai quali abbiamo gemito, dei quali abbiamo sopportato gli scandali? Ascoltate il seguito: « … Quando i peccatori saranno morti voi vedrete. E quanto vicino vedremo? Voi sarete alla destra del Cristo, essi saranno alla sua sinistra » (S. Agost.). – « Quando il peccatore sarà perito, voi vedrete ». Questo pensiero ben meditato è l’appoggio più stabile dell’anima cristiana, condannata a vedere quaggiù l’insolente prosperità dei peccatori, e spesso a subire le loro persecuzioni ed i loro oltraggi. – Sotto forme cangianti e nomi che si succedono, la vanità dei popoli prima o dopo si mostra. Io dico prima o dopo, perché la Provvidenza non è mai sempre visibile; se appare sempre, essa non sparisce mai. Un’apparizione non ha luogo che in virtù di un’assenza. Dio si nasconde e si rivela di volta in volta per essere visto meglio. Il suo silenzio fa risaltare la sua parola, la sua sepoltura dà credito alla resurrezione. Ecco perché vuole essere atteso, e Davide, suo Profeta, diceva eccellentemente al popolo di Israele: « … Attendi il Signore e Lo vedrai. » E quando lo vedrà? Ascoltate: tu lo vedrai quando i peccatori periranno. È la forza invincibile del Cristiano: più di ogni cosa quaggiù, è nella destra di Dio. La provvidenza, che avviluppa a governa tutto, avviluppa e governa con predilezione. Che sarà della Chiesa, cenacolo immortale delle anime riscattate, ove nell’oscurità dei tempi e del cambiamento, la fede, la speranza e la carità, la preghiera, tutte le virtù e tutte le loro opere si tengono in piedi in attesa del suo giorno? Se questo giorno viene per tutto il mondo, quanto più presto per la Chiesa e più inevitabilmente? Quanto ogni figlio di questa Madre feconda e sublime debba ripetere con una certezza che niente ha mai confuso, la parola di David : « Attendi il Signore, e quando i peccatori periranno, lo vedrai » (Lacord, LXVII° Conf.).

ff. 35, 36. – Quando l’uomo del bene, umile e modesto, vede l’orgoglioso prosperare sulla terra, circondato da ricchezze ed onori, si turba ed è tentato di provare invidia; ma la cima del cedro ha un bel toccare le nubi e la sua ombra estendersi lontano, per quanto questa gloria sia effimera. « io ho visto l’empio elevato come il cedro, sono passato, e non c’era più ». Mentre i vostri pensieri carnali vi portano a desiderare una felicità terrestre, questa vi sembra le vera felicità, ma perché? Finché siete in presenza del cedro, voi lo contemplate. Non siete passati, siete nel suo stesso punto o al di sotto di lui, avanzate e passate; man mano che passate, il cedro si allontanerà, e non lo vedrete più; Dio solo sarà davanti a voi. Correndo allora con viva fede verso i beni spirituali, voi direte: io sono passato, ma il cedro non c’era più, e cercate invano il suo posto. Come la potenza, le ricchezze, un certo rango nel mondo che gli assicura il rispetto di un gran numero di persone e l’obbedienza agli ordini che dà; questo posto voi lo cercherete, ma non lo troverete più (S. Agost.). – Quante fortune non vediamo più noi stessi tutti i giorni, mutate in tristi rovine e penose macerie? E quante volte, dopo essere stati spettatori e testimoni delle rivoluzioni del mondo e di ciò che si chiama la scena del mondo, non avete detto: io ho visto quest’uomo elevato come i cedri del Libano; io sono passato e non c’era più; io l’ho cercato e un altro occupava il suo posto. Quanti esempi ne abbiamo ogni giorno di coloro che sembrano ora i più stabili, gli eletti del secolo, o come colui che osa o possa promettersi una più felice o durevole posterità? (Bourd. Récomp. des saints.).

ff. 37. –  Custodite l’innocenza, così come un tempo, quando eravate avaro, custodivate la vostra borsa, come la tenevate per paura che un ladro la rubasse. Custodite ancora la vostra innocenza per timore che il demone ve la rubi. Che sia per voi un patrimonio sicuro, perché essa rende ricchi gli stessi poveri. « Custodite l’innocenza, cosa vi serve il guadagnare l’oro, se perdete l’innocenza? E non vedete ciò che è retto ». Che i vostri occhi siano retti, per non vedere solo ciò che sia retto; che non siano cattivi, in modo che non vediate che i malvagi; che non siano torbidi fino al punto che Dio vi sembri ingiusto, perché favorisce gli empi e perseguita i giusti. Non notate come vedete di traverso? Correggete i vostri occhi e non guardate se non ciò che sia retto. Ma cosa vedere di retto? Badate a non fare attenzione alle cose presenti. Cosa vedrete allora? « Cosa resta dei beni all’uomo pacifico? ». Quando sarete morto, voi non sarete morto; ecco il senso di queste parole … restano dei beni. Egli avrà qualche altra cosa anche dopo questa vita: e quest’altra cosa è la sua discendenza, che ne sarà benedetta. Ecco perché il Signore ha detto: « Colui che crede in me, benché muoia, vivrà » (S. Agost.). – Questi beni riservati, questo resto, per impiegare l’espressione del Profeta, contengono un grande senso. Al giusto resta tutto, all’empio non resta nulla. Il giusto ha sempre davanti agli occhi questo resto prezioso che gli viene riservato come ricompensa dei suoi lavori e risarcimento per le sue prove, e ripete con San Paolo: « Io so a Chi mi sono affidato, ed è tanto potente da conservare il deposito delle mie speranze fino a questo grande giorno » (II Tim., I, 12).

ff. 38-40. – Gli ingiusti e le loro ingiustizie periranno egualmente. Quelli che avranno lasciato dietro di loro, grandi ricchezze, magnifici palazzi, splendide proprietà, tutto perirà con loro. Solo i loro crimi sussisteranno eternamente (Dug.). – « La salvezza dei giusti viene dal Signore, e non dal mondo degli elementi. Il cielo e la terra passeranno. Io non affido la mia salvezza al cielo, perché il cielo passerà e sarà distrutto, mentre Dio resta » (Ps. CI, 27). – Io affido la mia salvezza solo a Dio, che resta e permane, che può rimettere i peccati, affinché sia mio protettore nel giorno della tribolazione, … venga in mio soccorso, mi liberi e mi separi dai peccatori nel giorno del giudizio, perché io ho sperato in Lui (S. Ambr.). – Al contrario la salvezza sarà data dal Signore ai giusti, etc. Che i giusti allora sopportino oggi i peccatori, che il frumento sopporti la zizzania, che il grano sopporti la paglia, perché verrà il tempo della separazione, e la buona semenza sarà separata dalla paglia che il fuoco consumerà. La prima sarà raccolta nel granaio, l’altra sarà gettata nelle fiamme eterne. È così che il giusto e l’ingiusto sono stati dapprima mescolati insieme, in modo che l’ingiusto sopravanzi il giusto, e questi sia provato; ma in seguito l’ingiusto sarà condannato, ed il giusto coronato (S. Agost.).

LA GRAZIA (NOTE DI TEOLOGIA DOGMATICA) – 2 –

LA GRAZIA

(Note di Teologia Dogmatica) (2)

[Ludovico Ott: Compendio di Teologia Dogmatica; Marietti Torino-Herder Roma – imprim. Can. Oddone, Vic. Gen. 7/VI/1955]

4. Necessità della grazia della perseveranza.

Il giustificato non può perseverare sino alla fine nella giustificazione ricevuta, senza un particolare aiuto di aiuto. De fide.

Il II Concilio di Orange insegna, contro i semipelagiani, che anche i rigenerati devono sempre implorare l’aiuto di Dio, onde pervenire a una buona fine e poter perdurare nelle opere buone (D. 183). Il Concilio di Trento chiama la perseveranza finale « un grande dono (magnum illud usque in finem perseverantiæ donum (D. 826) e insegna che il giustificato senza un particolare aiuto di Dio non può perseverare nella giustizia ricevuta: Si quis dixerit, iustificatum vel sine speciali auxilio Dei in accepta iustitia perseverare posse vel cum eo non posse, A. S. (D. 832). Il « particolare aiuto di Dio » necessario alla perseveranza finale consiste in una somma di grazie attuali.

Si distingue tra:

a) perseveranza temporaneao imperfetta che dura per un certo tempo, per es. da una confessione all’altra, e perseveranza finaleo perfetta, che dura fino alla morte;

b) perseveranza (finale) passiva,che è il coincidere della morte o della chiamata di Dio con lo stato di grazia, e perseveranza attiva,che è la continua cooperazione del giustificato con la grazia. Quella dei bambini è passiva, quella degli adulti è ordinariamente passiva e attiva. Nella tesi si parla solo di quest’ultima;

c) possibilità di perseverare (posse perseverare) e perseveranza effettiva o attuale (actu perseverare). La possibilità di perseverare, dacché Dio vuole che tutti si salvino, è data a tutti, la perseveranza effettiva è data solo agli eletti. La Scrittura attribuisce a Dio il compimento dell’opera di Salvezza. Fil. 1, 6: « Colui che ha incominciato in voi l’opera buona, la perfezionerà sino al giorno di Gesù Cristo ». Cfr. Fil. II, 13; 1 Piet. V, 10. Essa accentua la necessità della preghiera continua, per poter superare gli ostacoli che si oppongono alla salvezza (Lc. XVIII, 1: « Si deve pregare sempre senza stancarsi mai »; 1 Tess. V, 17: « Pregate senza interruzione ») come pure la necessità di una fedele collaborazione con la grazia divina (Mt. XXVI, 41: « Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione »; cfr. Lc. XXI, 36). . S. AGOSTINO, alla fine della sua vita, ha scritto una monografia dal titolo De dono perseverantiæcontro i semipelagiani, nella quale si fonda particolarmente sulla prassi della preghiera: « Perché dunque si chiede a Dio questa perseveranza, se non è Lui che ce la dà? Non sarà la nostra una petizione irrisoria, se gli chiediamo ciò che si sa che Egli non può dare, ma che è in potere nostro averlo, senza che Egli ce lo conceda? » (2, 3). – La perseveranza finale non può essere meritata (de condigno), ma si può ottenere infallibilmente con la preghiera costante fatta in stato di grazia: Hoc Dei donum suppliciter emereri potest (De dono persev. 6, 10). L a certezza di essere esauditi è fondata sulla promessa di Gesù (Gv. 16, 23). Siccome però l’uomo fino a che non sia immutabilmente confermato nel bene, ha sempre la possibilità di cadere, nessuno, senza una speciale rivelazione, può sapere se persevererà realmente sino alla fine. Cfr. D. 826. F i l . II, 12; 1 Cor. X, 12. – Il motivo intrinseco della necessità della grazia della perseveranza, sta nel fatto che la volontà umana, per la continua ribellione della carne contro lo spirito, non ha in se stessa la forza di persistere immutabile nel bene (perseveranza attiva). – Cosi pure non è in potere dell’uomo far coincidere l’istante della sua morte con lo stato di grazia (perseveranza passiva). Cfr. S. Th. I – II, 109, 10.

5. Necessità di una particolare grazia per evitare durante tutta la vita ogni peccato veniale.

Il giustificato non è in grado, senza una particolare grazia, di evitare durante tutta la vita ogni peccato, anche veniale. De fide.

Il Concilio di Trento dichiarò, contro la dottrina dei Pelagiani, secondo cui l’uomo con le sue proprie forze può durante tutta la sua vita evitare ogni peccato, che a tal fine è necessario uno speciale privilegio di Dio: Si quis hominem semel iustificatum dixerit… posse in tota vita peccata omnia, etiam venialia, vitare, nisi ex speciali Dei privilegio, quemadmodum de beata Virgine tenet Ecclesia, A. S. (D. 833). Cfr. D. 107-108; 84.

Per un’esatta comprensione del dogma occorre notar quanto segue: Per « peccata venialia » si devono intendere principalmente i peccati semideliberati; « omnia » va preso in senso collettivo, non distributivo, vale a dire che con l’aiuto della grazia ordinaria si possono evitare i singoli peccati veniali, ma non tutti insieme; « tota vita » significa uno spazio di tempo piuttosto lungo; il « non posse » designa una impossibilità morale; lo « speciale privilegium » in questione comprende una somma di grazie attuali, che rappresentano un’eccezione dell’ordine comune della grazia, ed una eccezione tutta particolare. – Secondo la Scrittura nessuno si mantiene immune da tutti i peccati. Giac. III, 2: « Tutti manchiamo in molte cose ». Il Signore esorta anche i giusti a pregare: « Rimetti a noi i nostri peccati » (Mt. VI, 12). Il Concilio di Cartagine (418) respinse l’interpretazione pelagiana secondo cui i giusti pregano per la remissione dei peccati altrui o, se pregano per sé, pregano secondo umiltà e non secondo verità (humiliter, non veraciter D. 107-108; cfr. 804). – S. AGOSTINO scrive contro i pelagiani: Se si potessero radunare tutti i giusti della terra e domandare loro se siano senza peccati, risponderebbero all’unisono con l’Apostolo Giovanni (1 Gv. 1, 8): « Se noi diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi » (De nat. et grat. 36, 42). – Il motivo intrinseco sta nella debolezza della volontà decaduta di fronte al complesso degli impulsi disordinati, e nella saggia disposizione della provvidenza che permette le piccole mancanze, per mantenere il giusto nell’umiltà e nella coscienza della sua totale dipendenza da Dio. Cfr. S. Th. I – II, 109, 8.

§ 9. La capacità e i limiti della natura umana senza la grazia.

La dottrina cattolica della grazia sta di mezzo a due estremi. Di fronte al naturalismo dei pelagiani ed al razionalismo moderno, essa difende la necessità assoluta della grazia elevante e la necessità morale della grazia sanante. Di fronte all’esagerato sopranaturalismo dei riformatori, dei seguaci di Bajo e di Giansenio essa difende la capacità della natura umana da sola nel campo religioso e morale. Opponendosi ai due estremi, la teologia cattolica fa una netta distinzione tra l’ordine della natura e della sopranatura, tra religione e morale naturale e religione e morale soprannaturale.

1. Capacità della natura da sola.

a) L’uomo anche nello stato decaduto può conoscere con la sola ragione naturale verità religiose e morali. De fide.

Questa possibilità è fondata sul fatto che le forze naturali dell’uomo col peccato originale non furono distrutte (naturalia permanserunt integra), anche se indebolite dalla perdita dei doni soprannaturali. Cfr. D. 788, 793, 815. – Papa Clemente XI respinse la proposizione giansenistica secondo cui noi senza fede, senza Cristo, senza carità siamo soltanto tenebra, errore e peccato (D. 1398; cfr. 1391). Il Vaticano dichiarò dogma la conoscibilità naturale di Dio, chiaramente attestata in Sap. XIII, 1 ed in Rom. 1, 20 (D. 1785, 1806); cfr. D. 2145 (dimostrabilità dell’esistenza di Dio). La conoscibilità naturale della legge morale è attestata in Rom. II, 14-15; cfr. D. 3005. La stessa civiltà superiore dei popoli pagani depone in favore della capacità della ragione umana naturale. Vedi Trattato di Dio, §§ 1 e 2.

b) Per compiere azioni moralmente buone non è richiesta la grazia santificante. De fide.

Quantunque sia senza grazia santificante, il peccatore può tuttavia compiere opere moralmente buone e, con l’aiuto della grazia attuale, anche buone soprannaturalmente (benché non meritorie) e prepararsi così alla giustificazione. Perciò non tutte le opere dei peccatori sono peccati. Il Concilio di Trento dichiarò: Si quis dixerit, opera omnia, quæ ante iustificationem fiunt, quacunque ratione fatta sint, vere esse peccata vel odium Dei mereri… A.S. (D. 817; cfr. D. 1035, 1040, 1399).

La Scrittura esorta i peccatori a prepararsi alla giustificazione mediante opere di penitenza. Ez. XVIII, 30: « Convertitevi, fate penitenza di tutte le vostre iniquità, e l’iniquità non sarà più a vostra rovina ». Cfr. Zac. 1, 3; Sal. L, 19; Mt. III, 2. Non si può pensare che azioni richieste da Dio e preparanti alla giustificazione siano peccaminose. La prassi ecclesiastica della penitenza e del catecumenato sarebbe incomprensibile, se tutte le opere compiute senza la grazia santificante  fossero peccati. La frase di Mt. VII, 18: « Un albero cattivo non può produrre frutti buoni » non esclude che il peccatore possa fare opere moralmente buone, così come non esclude che il giusto possa fare dei peccati la frase parallela: « Un albero buono non può produrre frutti cattivi ». – S. AGOSTINO insegna che anche la vita dell’uomo più malvagio difficilmente sarà priva di qualche opera buona (De spirito et litt. 28, 48). La sua sentenza cui s’appellano i giansenisti: « Regnat carnalis cupiditas, ubi non est Dei caritas » (Enchir. 117) non prova che ogni singola azione del peccatore sia peccaminosa, ma vuol esprimere soltanto il concetto che nella vita morale vi sono due tendenze, l’una dominata dall’impulso al bene (amore divino in senso lato) e l’altra dalla concupiscenza disordinata (amore del mondo e di sè). Cfr. Mt. VI, 24: «Nessuno può servire due padroni». Lc. XI, 23: « Chi non è con me è contro di me ». Per il significato del concetto di carità in Agostino cfr. De Triti. VIII, IO, 14: charitas = amor boni; De gratia Christi 21, 22: charitas = bona voluntas; Contro duas. p. Pel. II, 9, 21: charitas = boni cupiditas.

c) Per compiere azioni moralmente buone non è richiesta la grazia della fede. Sent. certa.

Anche l’infedele può compiere azioni moralmente buone. Di conseguenza non tutte le sue opere sono peccati. Pio V condannò la seguente proposizione di Baio: Omnia opera infidelium sunt peccata et philosophorum virtutes sunt vitia (D. 1025); cfr. D. 1298. – La Scrittura riconosce anche ai pagani la capacità di compiere opere moralmente buone. Cfr. Dan. IV, 24; Mt. V, 47. Secondo Rom. II, 14 i pagani sono per natura capaci di adempiere i precetti della legge morale: « Quando i Gentili che non hanno la legge (mosaica), per lume naturale fanno ciò che la Legge comanda, senza avere la Legge, sono legge a se stessi ». Paolo pensa ai veri pagani, non ai pagani-cristiani, come « spiegava erroneamente Bajo (D. 1022). Il passo Rom. XIV, 23: « omne autem, quod non est ex fide, peccatum est » si riferisce non alle fede cristiana come tale, ma alla coscienza (πίστις = ferma convinzione, giudizio della coscienza), e quindi si traduce: « Quanto non procede da convinzione (ossia non è secondo coscienza) è peccato ». – I Padri attribuiscono senza riserve agli infedeli la capacità di compiere azioni moralmente buone. S. AGOSTINO loda la sobrietà, l’altruismo e l’incorruttibilità del suo amico Alipio, non ancora Cristiano (Conf. V I , 7, 10) e le virtù civili degli antichi (Ep. 138, 3, 17). Se si trovano nei suoi scritti non poche espressioni che quasi coincidono verbalmente con le proposizioni di Bajo, in quanto sembrano affermare che le opere buone e le virtù dei pagani sono peccati e vizi (cfr. De spirito et litt. 3, 5), occorre interpretarle tenendo conto della sua polemica contro il naturalismo pelagiano, nella quale egli ammette come veramente buono e vera virtù solo ciò che ha relazione col fine soprannaturale dell’uomo. Cfr. Contra Iulianum IV, 3, 17, 21, 25.

d) Per compiere opere moralmente buone non è richiesta la grazia attuale. Sent. certa.

L’uomo decaduto può compiere con le sole forze naturali, senza l’aiuto della grazia divina, opere moralmente buone. Perciò non tutte le opere fatte senza grazia attuale sono peccati: Pio V condannò la seguente proposizione di Bajo: Liberum arbitrium, sine gratiæ Dei adiutorio, nonnisi ad peccandum valet (D. 1027) cfr. D. 1037, 1389.

Né con la scrittura né con l’antica tradizione si può provare la necessità di un aiuto della grazia attuale per tutte le opere moralmente buone. A torto gli avversari si appellano a S. AGOSTINO. Se egli dichiara ripetutamente che senza grazia di Dio non è possibile alcuna opera esente da peccato, occorre osservare che chiama peccato in senso ampio tutto ciò che non ha relazione alcuna con il fine soprannaturale. In tal senso dev’essere inteso anche il can. 22 del II Concilio di Orange: Nemo habet de suo nisi mendacium et peccatum (D. 195 = AGOSTINO, In Ioan. tr. 5, 1).

2. Limiti della capacità naturale.

a) Nello stato della natura decaduta è per l’uomo moralmente impossibile, senza rivelazione soprannaturale, conoscere con facilità, con ferma certezza e senza alcun errore tutte le verità naturali morali e religiose. De fide.

Il Concilio Vaticano dichiarò in accordo con S. TOMMASO

(S. Th. I, 1, 1): «È merito di questa divina rivelazione se le verità divine, che per sé non trascendono l’umana ragione, anche nello stato presente del genere umano, da tutti si possono conoscere con facilità, con ferma certezza e senza alcun errore » (D. 1786). Cfr. l’enciclica Humani generis (D. 3005), che conferma e spiega l’insegnamento del Concilio Vaticano, parlando anche espressamente delle « verità morali », cioè « della legge naturale ».

     Il motivo per cui senza rivelazione soprannaturale soltanto pochi uomini raggiunsero di fatto una completa conoscenza di Dio e della legge morale e naturale, sta nell’indebolimento dell’intelletto, causato dal peccato originale (vulnus ignorantiæ).

b) Nello stato della natura decaduta è moralmente impossibile all’uomo, senza grazia medicinale (grazia sanans), adempiere per lungo tempo l’intera legge e vincere tutte le tentazioni gravi. Sent. certa.

Se, come insegna il Concilio di Trento, lo stesso giustificato ha bisogno « di un particolare aiuto di Dio per evitare durevolmente tutti i peccati gravi e cosi perseverare nello stato di grazia » (D. 806, 832), con maggior ragione bisogna ammettere che chi non è giustificato non può evitare per lungo tempo tutti i peccati gravi, anche se, grazie alla sua libertà naturale, ha la capacità di evitare questo o quel peccato e di osservar questo o quel comandamento. – L’Apostolo Paolo descrive in Rom. VII, 14-25 la debolezza dell’uomo decaduto, fondata sulla concupiscenza disordinata, di fronte all’assalto delle tentazioni e accentua la necessità dell’aiuto divino per superarle.

CAPITOLO TERZO

La distribuzione della grazia attuale.

§ 10. La gratuità della grazia.

1. La grazia non può essere meritata in alcun modo (né de condigno né de congruo) con buone opere naturali. De fide.

Il II Concilio di Orange insegna contro i pelagiani ed i semipelagiani che la grazia non è preceduta da alcun merito: nullis meritis gratiam præveniri (D. 191). Il Concilio di Trento afferma che la giustificazione negli adulti ha inizio con la grazia preveniente, in quanto essi « sono da lui chiamati, senza alcun merito preesistente » (nullis eorum existentibus meritis; D. 797). Nella Lettera ai Romani Paolo dimostra che la giustificazione non può essere ottenuta né mediante le opere della Legge del Vecchio Testamento, né mediante l’osservanza della legge naturale, ma è un libero dono dell’Amore divino: « Tutti sono gratuitamente (δωρεάν (dorean) = gratis) giustificati per la sua misericordiosa bontà » (III, 24). Cfr. Rom. III, 9. 23; XI, 6: « Ma se ciò è stato fatto per grazia, dunque non per le opere: altrimenti la grazia non sarebbe più grazia ». Cfr. Ef. II, 8 ss.; 2 Tim. 1, 9; Tit. III, 4-5; 1 Cor. IV, 7. Tra i Padri il più strenuo difensore della gratuità della grazia contro i pelagiani è S. AGOSTINO. Cfr. Enarr. in Ps. XXX, sermo 1, 6: « Perché grazia? Perché viene data gratuitamente. Perché vien data gratuitamente? Perché non è preceduta dai tuoi meriti ». In Ioan. tr. 86, 2: « Non vi sarebbe grazia se precedessero i meriti. Ma la grazia c’è, essa dunque non trova i meriti, ma li opera ». – La ragione argomenta la gratuità della prima grazia dal fatto della mancanza di intrinseca proporzione tra la natura e la grazia (gratia excedit proportionem naturæ) e dalla impossibilità di meritare il principio (la grazia) del merito stesso (principium meriti non cadit sub eodem merito). Cfr. S. th. I – II, 114, 5.

2. La grazia non può essere ottenuta con suppliche naturali. Sent. certa.

Il II Concilio di Orange insegna contro i semipelagiani che la grazia non viene concessa perché invocata (naturalmente) dall’uomo, ma che è invece la grazia a far sì che noi invochiamo Dio (D. 176). Secondo la dottrina di S. Paolo la retta preghiera è un frutto della grazia dello Spirito Santo. Rom. VIII, 26: « Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza: poiché noi non sappiamo quello che convenientemente abbiamo da domandare; ma lo stesso Spirito intercede per noi con gemiti inesprimibili ». 1 Cor. XII, 3: « Nessuno dice: Gesù Signore, se non in Spirito Santo ». – S. AGOSTINO insegna che la preghiera salutare efficace è effetto della grazia di Dio. Commentando Rom. VIII, 15 («riceveste lo spirito di adozione filiale per cui gridiamo: Abba! Padre! ») egli dice: « Di qui comprendiamo che anche questa è dono di Dio il poter gridare a lui interiormente e con sincerità di cuore. Vedano dunque quanto errano coloro i quali pensano che abbiamo da noi stessi, non ricevuto da altri, il potere di chiedere, di cercare, di picchiare » (De dono persev. 23, 64). Poiché l’iniziativa dell’opera di salvezza parte da Dio, una preghiera salutare efficace è possibile soltanto con l’aiuto della grazia divina preveniente.

3. L’uomo non può acquistarsi alcuna disposizione naturale positiva alla grazia. Sent. certa.

Per disposizione si intende la capacità di un soggetto di ricevere una forma, cioè una determinazione. Mentre la disposizione negativa rimuove unicamente gli ostacoli che si frappongono alla recezione della forma, quella positiva prepara e adatta il soggetto a ricevere la forma, dandogli una certa qual tendenza verso di essa, che appare così come il suo naturale compimento. Questa disposizione positiva è del tutto distinta dalla cosiddetta potenza obedienziale, che è pura capacità passiva, fondata nella natura spirituale dell’anima umana (e dell’Angelo) di ricevere la grazia. Una disposizione positiva naturale per la grazia non è possibile poiché tra natura e grazia non vi è alcuna intrinseca proporzione.

Il II Concilio di Orange afferma che il desiderio della purificazione dal peccato non proviene dalla volontà naturale dell’uomo, ma dalla grazia preveniente dello Spirito Santo (D. 177; cfr. 179). – La Scrittura attribuisce alla grazia di Dio il principio e tutta quanta l’opera della salvezza. Cfr. Gv. VI, 44; XV, 5; 1 Cor. IV, 7; Ef. II, 8-9.

S. AGOSTINO ha insegnato nei suoi primi scritti una disposizione naturale positiva per la grazia (cfr. De div. quæst. 83, q. 68, n. 4: Præcedit ergo aliquid in peccatoribus, quo, quamvis nondum sint iustificati, digni efficiantur iustificatione; prima parla di « occultissima merita »). Negli scritti posteriori, a cominciare dalla Questione a Simpliciano I, 2, che è del 397, egli respinge recisamente la possibilità di una siffatta disposizione e sostiene la gratuità assoluta della grazia. Cfr. De dono persev. 21, 55. Come prova scritturale egli si serve con predilezione di Prov. VIII, 25 secondo la vecchia traduzione latina dipendente dai Settanta: Preparatur voluntas a Domino (Volg.: hauriet salutem a Domino; Ebr.: « ottiene il favore di Dio »).

Anche in S. TOMMASO vi fu un’evoluzione della dottrina. Mentre nei primi scritti (Sent. II, d. 28, q. 1, a. 4 e Sent. IV, d. 17, q. 1, a. 2) egli insegna, d’accordo con i teologi più antichi, che l’uomo, senza grazia interna, può raggiungere con la sola libera volontà una disposizione positiva alla grazia santificante, in quelli posteriori esige, per la preparazione a ricevere tale grazia, un aiuto divino che muova internamente l’anima, cioè la grazia attuale. Cfr. S. th. I – II, 109, 6; 112, 2; Qlb. 1, 7.

4. L’assioma scolastico: « Facienti quod in se est, Deus non denegat gratiam ».

c) Spiegazioni possibili.

1) S. TOMMASO, negli ultimi suoi scritti che contengono l’espressione definitiva della sua dottrina, spiega l’assioma, comparso per la prima volta nella teologia del sec. XII e attribuito a Pietro Abelardo, nel senso della collaborazione con la grazia: a colui che con l’aiuto della grazia fa tutto ciò che è in suo potere, Dio non rifiuta un’ulteriore grazia. Cfr. S. th. I – II, 109, 6 ad 2; 112, 3 ad 1; In Rom. X, lect. 3. 2) L’assioma può anche interpretarsi, come fanno non pochi molinisti, nel senso della disposizione naturale negativa, che consiste nell’evitare il peccato. C’è però da osservare che la connessione tra la disposizione negativa e la comunicazione della grazia non è un rapporto di causa ad effetto, ma puramente contingente, fondato sulla universale volontà salvifica di Dio. In altre parole Dio dà la grazia non perché l’uomo evita il peccato, ma perché Egli vuole sinceramente la salvezza di tutti gli uomini.

b) Spiegazioni inaccettabili.

1) Semipelagiana è la spiegazione secondo cui gli sforzi naturali dell’uomo, per il loro intrinseco valore, fondano un certo diritto (meritum de congruo) alla grazia. Siffatta spiegazione si avvicina a quella sostenuta dagli antichi scolastici e da S. TOMMASO nei suoi primi scritti (Sent. II, d. 2 q. I, a. 4).

2) Anche i nominalisti riferiscono l’assioma agli sforzi morali dell’uomo dai quali deriverebbe un certo diritto alla grazia (m. de congruo), ma non fanno dipendere la comunicazione di questa dall’intrinseco valore di quelli, bensì da una accettazione estrinseca da parte di Dio: a colui che fa ciò che è in suo potere, Dio dà la grazia perché così ha promesso conforme a Mt. VII, 7: « Chiedete, e vi sarà dato; cercate, e troverete; picchiate, e vi sarà aperto ». — Secondo l’insegnamento della rivelazione la salvezza vien da Dio, non dall’uomo Pertanto anche il chiedere, il cercare, il picchiare, di cui Mt. VII,7, non son dovuti allo sforzo morale del solo uomo, ma alla cooperazione con la grazia.

Lutero dapprima spiegò l’assioma in senso nominalistico più tardi lo respinse come pelagiano.

§ 11. L’universalità della grazia.

Benché la grazia sia un dono dell’Amore e della misericordia di Dio, tuttavia per la volontà divina salvifica universale, vien data a tutti gli uomini. Siccome però in realtà non tutti gli uomini raggiungono la felicità eterna, ne consegue che c’è una duplice volontà di Dio relativa alla loro salvezza:

a) l’una universale, per cui Dio, indipendentemente dallo stato finale dei singoli, vuole la salvezza di tutti gli uomini alla condizione che muoiano in grazia (voluntas antecedens et condicionata);

b) l’altra particolare, per cui Dio, tenendo conto dello stato finale dei singoli, vuole assolutamente la salvezza di coloro che lasciano la vita in grazia (voluntas consequens et absoluta).Tale volontà coincide con la predestinazione; se invece esclude dalla beatitudine eterna si dice riprovazione. Cfr. GIOVANNI DAMASCENO, De fide orth. II, 29.

1. La volontà salvifica universale di Dio in sé. Anche con la caduta e il peccato originale, Dio vuole veramente e sinceramente la salvezza di tutti gli uomini. Sent. fidei proxima.

Che Dio voglia la salvezza non soltanto dei predestinati, ma almeno di tutti i credenti, è dogma formale.

La Chiesa ha condannata come eretica la tesi dei predestinazianisti, dei calvinisti e dei giansenisti che limitava la volontà divina salvifica ai soli predestinati. Cfr. D. 318, 827, 1096. Tale volontà abbraccia almeno tutti i credenti, come risulta dalla professione di fede della Chiesa nella quale i fedeli dicono: Qui propter nos homines et propter nostram salutem descendit de cœlis. Che inoltre si estenda al di là dell’ambito dei fedeli risulta dalla condanna da parte di Alessandro VIII di due proposizioni contrarie (D. 1294-1295). Gesù mostra, con l’esempio della città di Gerusalemme, che Egli vuole anche la salvezza di quelli che in realtà si perdono (Mt. XXIII, 37; Lc. XIX, 41). Da Gv. III, 16 risulta che Dio vuole la salvezza almeno di tutti i credenti, perché ha dato il suo Figlio « affinché chiunque in Lui crede non perisca, ma abbia la vita eterna ». Secondo 1 Tim. II, 4, la volontà divina salvifica abbraccia senza eccezione tutti gli uomini: « Egli (Dio) vuole che tutti si salvino e giungano alla conoscenza della verità ». I Padri preagostiniani non pongono in dubbio l’universalità della volontà divina salvifica. L’Ambrosiastro così chiosa 1 Tim. 2, 4: « Egli non ha escluso nessuno dalla salvezza Anche S. AGOSTINO nei primi suoi scritti aderisce a questi modo di vedere (cfr. De spiritu et litt. 33, 58). In quelli posteriori però, conformemente alla sua rigida teoria della predestinazione, limita la volontà divina salvifica ai predestinati e spiega artificiosamente il passo di S. Paolo a Timoteo nei modi seguenti: a) Dio vuole che uomini di tutte le classi si salvino (Enchir. 103); b) tutti quelli che si salveranno, si salveranno per la volontà di Dio (Contro Iulianum IV, 8, Enchir. 103); c) Dio fa che noi vogliamo che tutti si salvino (De corrept. et grat. 15, 47). Non pochi teologi riferiscono la spiegazione limitativa di S . Agostino alla volontà salvifica conseguente, la quale non è universale. Tuttavia dalla forzata spiegazione agostiniana emerge come sia assai problematico se egli, negli ultimi anni della sua vita, abbia ancora sostenuto l’universalità della volontà salvifica antecedente. La sua dottrina della predestinazione, secondo cui Dio, per puro suo beneplacito, sceglie una parte degli uomini dalla « massa dei dannati », mentre non sceglie gli altri, sembra che non dia più adito ad una autentica e seria volontà salvifica universale.

2. L a volontà salvifica universale nella sua attuazione.

a) Dio dà a tutti i giusti la grazia sufficiente (proxime vel remote sufficiens) per l’osservanza dei comandamenti divini. De fide.

La grazia sufficiente si distingue in prossima o immediata (gr. proxime sufficiens), che dà immediatamente la capacità di compiere un determinato atto salutare, e in remota o mediata (gr. remote sufficiens), che dà la capacità di compier un atto col quale si ottengono ulteriori grazie. Quest’ultima è soprattutto la grazia di pregare.

– Dopo il II Concilio di Orange, che aveva già espressa questa dottrina (D. 200), quello di Trento dichiarò che l’adempimento dei comandamenti di Dio non è impossibile all’uomo giustificato: Si quis dixerit Dei prœcepta nomini etiam iustificato et sub gratia constituto esse ad adservandum impossibilia A. S. (D. 828). – Lacontraria dottrina dei giansenisti fu condannata dallaChiesa come eretica (D. 1092).Secondo la Scrittura Dio rivolge ai giusti le sue cureparticolari. Cfr. Sal. XXXII, 18-19; XXXVI, 25 ss.; XC; Mt. XII, 50;Gv. XIV, 21; Rom. V, 8-10. I precetti di Dio possono facilmente essere adempiuti dai giusti. Mt. XI, 30:« Il mio giogo è soave, e il mio peso è leggero ». 1 Gv.V, 3: « L’amore di Dio consiste nell’osservare i suoi comandamenti. E i suoi comandamenti non sono gravosi, perché tutto ciò che è nato da Dio trionfa nel mondo. 1 Cor. X, 13: « Dio è fedele, e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione provvederà anche il buon esito, dandovi il potere di sostenerla ».S. AGOSTINO coniò la frase accolta dal Concilio di Trento:« Dio non abbandona i giusti, se non vien prima abbandonato da loro » (D. 804); cfr. AGOSTINO, De nat. et grat. 26, 29. La fedeltà di Dio vuole che egli dia ai giusti la grazia sufficiente, perché essi possano conservare il diritto, loro concesso,alla vita eterna.

b) Dio dà a tutti i peccatori credenti la grazia sufficiente (saltem remote sufficiens) per la conversione. Sent. communis.

Egli non nega completamente la sua grazia neppure ai peccatori accecati e induriti. – La Chiesa insegna che « se qualcuno dopo il Battesimo è caduto in peccato, può sempre rialzarsi con una vera penitenza» (D. 430). Ciò presuppone che Dio conceda la grazia sufficiente per la conversione. Cfr. D. 911, 321. – Le numerose esortazioni che la Scrittura rivolge ai peccatori perché si convertano presuppongono la possibilità della conversione con l’aiuto della grazia divina. Ez. XXXIII, 11: «Io non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva ». 2 Piet. III, 9: « Il Signore… usa pazienza per riguardo a voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti ritornino a penitenza ». Rom. II, 4: « E non sai che la bontà di Dio ti spinge a penitenza? ». I passi della Scrittura che attribuiscono a Dio l’indurimento dei peccatori (Es. VII, 3; 9, 12; Rom. IX, 18) sono da intendere nel senso che Dio permette il male sottraendo al peccatore, per punizione, la grazia efficace. La conversione viene così resa più difficile, ma non tuttavia impossibile. Secondo l’insegnamento comune dei Padri anche i più grandi peccatori non sono esclusi dalla misericordia di Dio. S. AGOSTINO dice: « Non si deve dubitare neanche del peccatore più grande, fintantoché vive qui sulla terra » (Retract. I, 19, 7). Il fondamento psicologico della possibilità della conversione anche dei peccatori induriti, sta nel fatto che la loro ostinazione, finché sono in vita (in statu viæ), non è definitiva come quella dei dannati.

c) Dio dà a tutti gli infedeli senza loro colpa (infideles negativi) la grazia sufficiente per salvarsi. Sent. certa.

Alessandro VIII condannò nel 1690 le proposizioni giansenistiche secondo le quali Cristo era morto soltanto per i fedeli e che i pagani, i giudei e gli eretici non ricevono da lui alcun influsso di grazia (D. 1294-1295). Cfr. D. 1376. La Scrittura attesta la universalità della volontà divina di salvezza (1 Tim. II, 4; 2 Piet. III, 9) e l’universalità della redenzione di Cristo (1 Gv. II, 2; 2 Cor. V,15; 1 Tim. II,6; Rom. V,18). È pertanto inammissibile che a una grandissima parte dell’umanità rimanga preclusa la grazia necessaria e sufficiente alla salvezza. – I Padri spiegano Gv. 1, 9 (illuminat omnem hominem) nel senso di un’illuminazione di tutti gli uomini, anche degl’infedeli, mediante la grazia divina. Cfr. Giov. CRISOSTOMO, In Ioan. hom. 8, 1. Una monografìa patristica sull’universale distribuzione della grazia è lo scritto anonimo, ma probabilmente composto da Prospero d’Aquitania, dal titolo De vocatione omnium gentium (circa il 450), che cerca una via di mezzo tra i semipelagiani ed i seguaci della dottrina agostiniana e sostiene decisamente l’universalità della volontà divina salvifica e della concessione della grazia. – Siccome la fede è « l’inizio della salvezza, il fondamento e la radice di ogni giustificazione » (D. 801), essa è pure indispensabile per la giustificazione dei pagani. Ebr. XI, 6: « Senza la fede è impossibile piacere a Dio. Chi si avvicina a Dio deve credere che Egli è ed è rimuneratore di quelli che lo ricercano ». Una semplice « fede razionale » non basta. Innocenzo XI riprovò la proposizione: « Fides late dicta ex testimonio creaturarum similive motivo ad iustificationem sufficit » ( D . 1173). È necessaria la fede teologale, cioè la fede soprannaturale nella rivelazione, fede questa che è un effetto della grazia (D. 1789: concetto della fede teologale; 1793: nemini unquam sine illa contigit iustificatio). Per ciò che riguarda il contenuto di questa fede, secondo la testimonianza della Lettera agli Ebrei XI, 6, è necessario di necessità di mezzo credere esplicitamente che Dio esiste e che premia i buoni e castiga i cattivi. Per la Trinità e l’Incarnazione è sufficiente la fede implicita. L’infedele giunge alla fede soprannaturale richiesta per la giustificazione per il fatto che Dio, con ammaestramento interno o esterno, gli fa conoscere la verità rivelata e con la grazia attuale gli conferisce la capacità di emettere l’atto di fede. Cfr. S. TOMMASO, De verit. 14, 11.

Obbiezione. Contro l’universalità della volontà salvifica divina si obbietta che Dio non vuole seriamente e sinceramente la salvezza dei bambini che muoiono senza battesimo. Risposta: Dio, a motivo della sua volontà di salvezza, non è obbligato a eliminare con un intervento miracoloso dall’ordine del mondo da lui creato, tutti i singoli ostacoli derivanti dalla cooperazione di cause seconde con la causa prima divina e che in molti casi rendono vana l’esecuzione della volontà divina. Esiste anche la possibilità che Dio rimetta il peccato originale, per via straordinaria, ai bambini che muoiono senza Battesimo e li faccia partecipi della sua grazia; la sua potenza non è legata ai mezzi della grazia proprii della Chiesa. Il fatto di questa comunicazione estrasacramentale della grazia non si può tuttavia provare positivamente.

SALMI BIBLICI: “DIXIT INIUSTUS UT DELINQUAT IN SEMETIPSO” (XXXV)

SALMO 35: “DIXIT INIUSTUS UT DELINQUAT …”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR RUE DELAMMIE, 13 – 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

SALMO XXXV

[1] In finem. Servo Domini ipsi David.

[2] Dixit injustus ut delinquat in semetipso:

non est timor Dei ante oculos ejus.

[3] Quoniam dolose egit in conspectu ejus, ut inveniatur iniquitas ejus ad odium.

[4] Verba oris ejus iniquitas, et dolus; noluit intelligere ut bene ageret.

[5] Iniquitatem meditatus est in cubili suo; astitit omni viæ non bonæ, malitiam autem non odivit.

[6] Domine, in cælo misericordia tua, et veritas tua usque ad nubes.

[7] Justitia tua sicut montes Dei; judicia tua abyssus multa. Homines et jumenta salvabis, Domine,

[8] quemadmodum multiplicasti misericordiam tuam, Deus. Filii autem hominum in tegmine alarum tuarum sperabunt.

[9] Inebriabuntur ab ubertate domus tuæ, et torrente voluptatis tuae potabis eos;

[10] quoniam apud te est fons vitae, et in lumine tuo videbimus lumen.

[11] Prætende misericordiam tuam scientibus te, et justitiam tuam his qui recto sunt corde.

[12] Non veniat mihi pes superbiæ, et manus peccatoris non moveat me.

[13] Ibi ceciderunt qui operantur iniquitatem; expulsi sunt, nec potuerunt stare.

[Vecchio Testamento secondo la Volgata

Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XXXV

Salmo inspirato a Davide da cantare sempre sino alla fine. Argomento è la gran malizia di alcuni uomini, e la molto maggiore misericordia e giustizia di Dio.

1. Per la fine: salmo dello stesso David servo del Signore.

2. Discorre l’iniquo dentro di sé stesso di far del male; il timore di Dio innanzi agli occhi di lui non è.

3. Perocché nel cospetto di lui egli ha agito con frode, onde odiosa diventi la sua iniquità.

4. Le parole della bocca di lui sono ingiustizia ed inganno; non volle intendere per bene operare.

5. Meditò nel suo letto l’iniquità: qualunque via non buona gli piacque, e non ebbe nissun raccapriccio della malvagità.

6. Signore, nel cielo è la tua misericordia, e la tua verità fino alle nubi.

7. La tua giustizia è come gli altissimi monti: abisso grande i tuoi giudizi.

E gli uomini e i giumenti tu salverai, o Signore;

8. Tanto si stende, o Signore, la tua misericordia. Ma i figliuoli degli uomini all’ombra dell’ali tue spereranno.

9. Saranno inebriati della opulenza della tua casa, e al torrente di tue delizie darai loro da bere.

10. Perocché presso di te è la sorgente della vita, e nel lume tuo vedrem la luce.

11. Spandi la tua misericordia sopra coloro che ti conoscono, e la tua giustizia a prò di quelli che hanno cuor retto.

12. Non venga contro di me il pie del superbo, e non mi smovano i tentativi del peccatore.

13. Ivi andarono per terra quelli che commettono l’iniquità: furon cacciati fuora, e non poteron tenersi in piedi.

Sommario analitico

In questo salmo:

I. Davide dipinge l’empietà e la malizia di certi uomini: 1° essa si impadronisce a) della loro volontà, per la scelta riflessiva che ha fatto del male; b) della loro intelligenza, nel rifiutare il pensiero del timor di Dio (1). 2°Da queste due facoltà principali, la corruzione si estende: a) alle loro opere, piene di frodi per gli uomini, ed odiose al Signore (2); b) ai loro discorsi empi nei riguardi di Dio, ingannatori nei riguardi del prossimo (3 e 4); c) ai loro pensieri che il male impregna in ogni tempo, nella notte, durante la quale il malvagio medita e concepisce il male; e durante il giorno, ove indugia nelle vie perverse e vi persevera (4).

II Egli oppone a questa empietà, a questa malizia, il quadro degli attributi di Dio, della sua verità, della sua giustizia, ma soprattutto della sua misericordia.

1° Egli espone le dimensioni di queste divine perfezioni: – a) l’altezza della sua misericordia: essa si eleva fino ai cieli, e la sua verità fino alle nubi (5); – b) la profondità dei suoi giudizi. Essa eguaglia quella degli abissi (6).

2° Egli considera la sua misericordia nei rapporti con gli uomini: – a) rispetto ai peccatori; 1) essa li salva, benché con i loro peccati siano divenuti simili agli animali; 2) essa si moltiplica in proporzione alla moltitudine dei peccatori (7). – b) nei riguardi dei giusti nel cielo; 1) essa li copre con una provvidenza speciale ed una singolare affezione (8); 2) inebria la loro volontà con il suo amore; 3) inonda tutti i loro sensi col torrente delle divine voluttà; 4) unisce la loro volontà a Dio con la luce della gloria (10). – c) nei riguardi dei giusti della terra, Dio fa loro sentire la misericordia e la giustizia (11), 1) la misericordia, dando loro la virtù dell’umiltà; difendendoli contro i superbi (12); 2) la giustizia, abbassando i loro nemici, impedendo loro di rivelarsi rendendo la loro rovina irrevocabile (13).

Spiegazioni e Considerazioni

I — 1-4.

ff. 1. – Il salmista ci traccia qui un’immagine molto somigliante di un grande numero di uomini che peccano, non solo per sorpresa o per debolezza, ma per volontà determinata e con ferma premeditazione. Qualunque cosa si faccia per dissuaderli, essi hanno detto in se stessi che vogliono assolutamente peccare e non vanno al di là dei loro propositi, e questo solo in odio a Dio (Dug.). – Ma colui che si è proposto di peccare, lo dice pubblicamente, o piuttosto non lo dice in se stesso? Perché lo dice soltanto in se stesso? Perché gli uomini non possono vederlo, come mai? Perché gli uomini non vedono in fondo al loro cuore, ove dice che peccherà, e Dio non vede ugualmente? Certamente Dio vi guarda. Ma ascoltate ciò che segue: « Il timore di Dio non è davanti ai loro occhi » (S. Agost.). – La causa di tutti i misfatti che si commettono nel mondo, è la mancanza di questo timore. Cosa fanno gli empi prima di bestemmiare contro tutti i misteri della Religione? Cominciano col negare la vita futura e i giudizi di Dio. Una volta rotto questo freno, nulla più li arresta; quando sussiste la fede nei giudizi di Dio, nulla è ancora perduto per i peccatori. È per questo che tutti i libri Sacri raccomandano con forza il timore del Signore (Berthier).

ff. 2. –  Non c’è nulla che renda l’iniquità più degna dell’odio di Dio che la dissimulazione e l’inganno. Ora, è questo l’agire con artificio alla presenza di Dio:  apparire di essere suo amico, quando si è invece amico del mondo; è agire con l’inganno alla sua presenza dare al mondo tutto il suo interno e gli effetti reali, e non dare a Dio che l’esteriorità e le apparenze; è agire con la dissimulazione in sua presenza, il difendere il proprio peccato o facendo in modo negligente l’esame di coscienza (Hug. Card.).

ff. 3. – È uno stato funesto, uno stato deplorevole, e nello stesso tempo molto più comune di quanto si pensi: essere malato e sapere come guarire; essere cieco e non voler uscire dalla propria cecità, né aver l’intelligenza necessaria per fare il bene; ed anche non volersi istruire nei propri doveri, per paura di sentirsi obbligato a metterli in pratica, fuggire i predicatori ed i confessori, che dicono la verità, perché non si vuole apprendere nulla da loro, né si vuole seguirli (Duguet). – È questo un peccato di un’infinità di Cristiani che non vogliono essere illuminati su determinati fatti, su certi dubbi, su certe turbe di coscienza, perché sentono bene, per poco che sondino se stessi, che non sono nella disposizione di compiere dei doveri ai quali questi chiarimenti poi li obbligherebbero … Se in una moltitudine di circostanze, si volesse entrare nella discussione delle cose e pesare tutto nella bilancia del santuario, è evidente che si troverebbero tanti conti da rendere, tante ingiustizie da riparare, restituzione di beni da fare; ora, tutto questo imbarazzerebbe e si risolverebbe in estremi incresciosi. Che si fa allora? Per togliersi l’inquietudine e lo scrupolo, se ne ignora la conoscenza; ci si indurisce su questo, e si prende la decisione di non pensarci affatto (Bourd.: Aveugl. spirit.). – Questo rifiuto di comprendere, questa fuga dalla luce, è uno dei tratti che meglio caratterizzano l’uomo vizioso. Allora, la legge di Dio, proprio perché apre l’intelligenza, rischiara la vista e non serve più che ad importunare. Ciò che si era appreso e che è più capace di indurre rimorsi, diviene allora odioso e penoso, si cessa di leggere e vedere ciò che sarebbe istruttivo, edificante e salutare, perché non lo si ama più, essendosi resoluti nel non osservare alcun dovere, anche il più piccolo, e di obliarli. Un tale disgusto della virtù e della verità conduce ben presto ad una indisposizione ancor più criminale. Il male diviene un’occupazione tanto seria, che lungi dal detestarlo, se ne fa uno studio: lo si medita di notte, lo si esegue di giorno (Degu, Rendu).

ff.4. – Naturalmente colui che si mantiene nella via dell’errore, medita l’ingiustizia, la malizia, che dovrebbe odiare. Il Salmista dice che costui si è arrestato in questa via. In un altro Salmo egli proclama felice colui che non indugia nella via dei peccatori, ma non colui che non smette di soggiornarvi. (S. Ambrog.). – Quando un uomo è interamente votato all’iniquità, non pensa che al male, anche nel tempo consacrato al riposo. Il silenzio della notte è destinato a formare iniqui progetti, a cercare i mezzi per soddisfare una passione odiosa; ci si alza ancora più colpevole di quanto ci si era addormentati, ed il giorno è impiegato solo per mettere in pratica quanto si è immaginato durante le tenebre. I santi ritengono il sonno come tempo perso per la salvezza, mentre i malvagi lo ritengono molto utile per i progetti che formano nelle loro passioni. (Berthier). – Così si applicano all’odio del bene e alla ricerca del male, con cui il profeta ci intrattiene. La grandezza e la bontà di Dio sono precisamente ciò che acceca ed indurisce i malvagi. Una misericordia inesauribile, delle verità sublimi, una giustizia lenta a punire, dei giudizi che sembrano degli impenetrabili abissi, una Provvidenza che fa sorgere il sole e cadere la pioggia su tutte le creature: tutto questo, è fatto per suscitare l’ammirazione e la riconoscenza nei cuori retti e puri, ma è mortale per i cuori dei mal disposti. Essi ne concludono o che Dio non esista, o che non si preoccupi affatto, nel supremo giudizio del bene e del male, di ciò che avviene sulla terra. Da questo traggono un’ultima conseguenza, che cioè essi possono, senza alcun rischio per l’eternità, abbandonarsi alle loro passioni (Rendu). – Letto funesto, riposo maledetto, è la falsa pace di una cattiva coscienza. Il peccatore riposa nella sua iniquità come in un letto piacevole; ma quale riposo può trovare un cuore nel quale tutto è pieno di turbamento ed agitazione? Egli va per ogni tipo di strada; segue indifferentemente tutte le vie; fugge la buona, che è la via stretta che sola porta alla vita, e si ferma in quelle larghe che non sono buone. – Quando non si amasse il male, è sufficiente, per essere colpevoli, il non detestarlo, non averne avversione, essere insensibile a tutti gli oltraggi che si fanno incessantemente a Dio (Duguet).

II — 5-13.

ff. 5, 6. –  « Voi salverete, o Signore, gli uomini e gli animali » Cosa vuol dire? Le creature ragionevoli e quelle prive di ragione. Per le prime la giustizia; per le seconde, la misericordia. Le une sono governate, dirette, le altre sono sottomesse, così il salmista aggiunge: « Ma i figli degli uomini sperano all’ombra delle vostre ali »; cioè i figli degli uomini che vivono ad immagine e somiglianza di Dio, non sono condotti al pascolo, ma si siedono al banchetto. Agli uni le fertili praterie; agli altri i privilegi insigni dei Sacramenti; per gli imperfetti il latte, per i perfetti questa tavola dove essi riparano le loro forze e dove lo stesso salmista ha detto in un altro luogo: « Voi avete preparato davanti a me una tavola » (Ps. XXII, 5). – La misericordia di Dio è ineffabile, essa si estende dalla terra al cielo, è più elevata del cielo, e sorpassa infinitamente i nostri pensieri. La verità si eleva fino alle nubi, poiché non c’è nulla di più sublime, ma essa ha anche, in questa via, l’oscurità delle nubi. Il sole di giustizia ci rischiara attraverso queste ombre, ma non quanto ci rischiarerà nella patria celeste. Tre epoche sono in rapporto alla verità: quella della legge, in cui la verità era figurativa; quella del Vangelo, in cui la verità è rivelata, ma avvolta da ombre affinché possiamo avere il merito della fede; infine quella della vita futura, in cui la verità è messa allo scoperto, perché Dio la rivela pienamente in Se stesso (Berthier). – La giustizia di Dio non è meno elevata sopra di noi della sua misericordia. Essa è, come le montagne di Dio, inaccessibile a tutti gli uomini. I giudizi di Dio sono un abisso impenetrabile che oltrepassa la pochezza della nostra intelligenza (S. Agost.). – « L’uno sarà preso, l’altro lasciato ». Un grande peccatore si converte, fa penitenza e si salva; un giusto che è vissuto nella virtù soccombe ad un movimento di orgoglio, decade dal suo stato e si danna. Saggi agli occhi del mondo ed ai loro occhi, che sono abbandonati alle loro tenebre; la luce di Dio è data agli umili ed ai piccoli. « O profondità dei tesori della saggezza e della scienza di Dio, che i suoi giudizi sono impenetrabili e le sue vie incomprensibili » (Rom. XI, 33). – La giustizia di Dio è elevata, perché nessuno merita che Dio non gli renda molto più di quello che meriti. La verità è più elevata, perché Dio ci ha promesso e ci ha dato le grazie che noi non abbiamo mai meritato, come l’Incarnazione e tutto quel che ha rapporto con la Redenzione. Ma la misericordia è molto più elevata, perché essa ci ha dato delle cose alle quali il nostro pensiero non può giungere, secondo quanto ci dice San Paolo: « ciò che l’occhio dell’uomo non ha visto, etc. ». (S. Tommaso). – I vostri giudizi sono come abissi infiniti. Il sublime Apostolo era confuso dinanzi a questi abissi, ed era questo un grido di stupore ed ammirazione: « O abisso della saggezza e della sapienza di Dio, quanto incomprensibili sono i suoi giudizi, ed inscrutabili le sue vie! Chi ha conosciuto il pensiero del Signore? Chi penetra le sue profondità nascoste? Chi penetra nei suoi segreti impenetrabili ». Cosa! Un’anima resta per un’altra anima un mondo assolutamente chiuso nell’oscurità, e noi pretendiamo di entrare nell’Essenza divina, la sola infinita, la sola inaccessibile, come una volgare soglia, aperta a tutti, e noi pretendiamo di annullare o rivedere i suoi giudizi? « O Dio i vostri giudizi sono come degli abissi », i vostri misteri si elevano davanti a me, intercettano tutti i sentieri della mia intelligenza, oltrepassano i più potenti sforzi della mia sapienza, e bruciano le ali della mia investigazione più perspicace. Il mistero è dappertutto, dappertutto ombre pericolose mi circondano, dappertutto io devo adorare senza vedere, inchinare davanti alla vostra infinita sapienza ed ai vostri incomprensibili pensieri, la mia debole ed orgogliosa ragione (Doublet, Psaumes etc. III, 218).

ff. 7. – La vostra misericordia è così abbondante, che essa non si espande solo sugli uomini, ma pure sugli animali; essa è così potente che fa sì che il sole si elevi sui buoni e sui cattivi, e che voi spandiate la vostra rugiada sui giusti e sui peccatori (Matt. V, 45). – Ma i vostri santi non avranno nulla di particolare? Il giusto non riceverà nulla che gli sia proprio e che l’empio non spartirà con lui?. Sì, senza dubbio; ascoltate ciò che segue: « Ma i figli degli uomini »? e gli uomini non sono forse i figli degli uomini? Voi, Signore, conservate gli uomini e gli animali; ma i figli degli uomini? Ebbene, cosa avranno essi di particolare? « I figli degli uomini spereranno all’ombra delle vostre ali » (Ps. XXXV, 7, etc.). – Ecco cosa non sarà in comune con gli animali. Perché dunque questa distinzione tra gli uomini? E gli uomini non sono forse i figli degli uomini? Senza alcun dubbio, c’è un uomo che non sia figlio di un uomo? Adamo era uomo, ma non figlio dell’uomo; Gesù Cristo era nel contempo Uomo e Figlio dell’uomo. Ora, come tutti muoiono per Adamo, tutti rivivono per Gesù-Cristo (I Cor. XV, 22). – Coloro che muoiono e che muoiono senza ritorno, cercano la loro salvezza con gli animali, e non la cercano con i figli dell’uomo, nella speranza della vita eterna. I primi sono nel novero degli uomini, ma i figli dell’uomo appartengono al Figlio dell’uomo (S. Agost.). – La provvidenza generale che veglia sulla conservazione e la sopravvivenza degli animali di ogni specie, è una sorta di dimostrazione in favore del desiderio che il Signore ha di salvare tutti gli uomini. Senza la salvezza eterna, gli uomini sarebbero più sciagurati delle bestie, e Dio avrebbe – sembrerebbe – meno provvidenza per gli uomini che per le bestie, anche in apparenza i più vili (Berthier). – L’eredità dei giusti, come figli della casa, è dunque quella di essere al coperto sotto le ali dell’Onnipotente, contro i pericoli che li minacciano, e di sostenersi con la speranza che essi hanno di prendere parte, un giorno, all’eredità del Padre loro.

ff. 8. – È in questi termini che il Re-profeta, sollevando un angolo del velo dei nostri destini immortali, e facendoci vedere in enigma ciò che contempleremo un giorno faccia a faccia, ci rivela la felicità degli eletti. Egli ha cercato di esprimere, per mezzo di qualche comparazione con le cose umane, ciò che egli voleva dire, e siccome vedeva che gli uomini piombavano nella ebrezza, nel bere vino smoderatamente e perdere la ragione, egli ha creduto di poter esprimere il suo pensiero con questa immagine, perché sotto l’espressione di questa gioia ineffabile, la ragione umana si perderà in qualche modo, diventerà divina e sarà inebriata dall’abbondanza che è nella casa di Dio (S. Agost.). Il torrente differisce dai fiumi nel fatto che questi scorrono incessantemente e le loro acque sono più tranquille. Il torrente si precipita con più violenza, trascina e travolge tutto ciò che incontra nel suo passaggio; noi temeremo allora il torrente, poiché si tratta di un torrente di voluttà. Ma la felicità celeste invaderà le nostre anime con una effusione così rapida, che la sola impetuosità del torrente ce ne può dare solo una pallida idea. Tuttavia, è bene sperare in un altro torrente, il torrente della persecuzione, della sofferenza, prima di essere bagnati dal torrente della voluttà, che deve essere la nostra ricompensa. Ricordiamo le parole di San Paolo. « Tutte le sofferenze di questo mondo non sono degne di essere assimilate alla gloria che ci sarà rivelata un giorno » (Rom. VIII, 18). Non temiamo più di bere nel corso del nostro cammino l’acqua del torrente; non temiamo più le pene, le persecuzioni, le sofferenze, poiché ci dovremo un giorno inebriare del torrente delle eterne delizie. Opponiamo la povertà, la carestia, l’indigenza a tutti i piaceri della terra, che lasciano sempre l’anima tormentata dalla fame, all’abbondanza, alla pienezza, alla società perfetta che si trova nella casa di Dio; … quest’acqua morta e melmosa che non fa che alterare coloro che ne bevono, all’acqua viva, all’acqua pura, al torrente di delizie tutte divine di cui Dio inonda l’anima degli eletti. – Tale è la gioia dei beati, la cui pienezza è infinita, di cui i trasporti sono inconcepibili e gli eccessi tutti divini. Lungi dalla nostra idea le gioie sensibili, che turbano la ragione e non permettono all’anima di possederla, di modo che non si osi dire che essa gioisca di alcun bene, poiché uscita da se stessa, sembri non essere in sé per gioirne. Qui essa è veramente toccata nel fondo più intimo, nella parte più delicata e più sensibile: tutta fuor d’essa, tutta a se stessa, possedendo Colui che la possiede, la ragione sempre attenta e sempre contenta (Bossuet, III Serm. Fete de tous Saints).

ff. 9. –  « In voi è la sorgente della vita, ed è nella vostra luce che vedremo la luce ». Nostro Signore Gesù Cristo è questa sorgente di vita abbondante ed inesauribile che è discesa sulla terra per irrorare la secchezza della nostra anima. Egli è lo splendore della gloria di Dio Padre, l’immagine della sua sostanza, ed è così che in questa luce vera che rischiara ogni uomo che viene in questo mondo, noi vedremo il Padre, perché Dio è luce. Il Re-profeta dice con giustezza rimarchevole di espressione: « è nella vostra luce che noi vedremo la luce », secondo quella parola del Salvatore: « Colui che mi vede, vede il Padre mio » (Joann. XIV, 9). In Voi dunque è la sorgente della vita, in Voi noi vedremo il Padre. Fin dal principio, Voi, il Dio, il Verbo, eravate con vostro Padre, così il Padre è sempre in Voi (S. Ambr.). – Sulla terra, la sorgente è diversa dalla luce. Voi cercate una sorgente per estinguere la vostra sete e, per venire a questa sorgente, voi cercate la luce, e se è durante la notte, voi accendete una lampada per dirigere i vostri passi verso questa sorgente. Ma questa sorgente nello stesso tempo è la luce: per colui che ha sete, è una sorgente, per colui che è cieco, è una luce; aprite i vostri occhi per vedere la luce, aprite la bocca del vostro cuore per bere a questa fonte: ciò che bevete lo vedete, lo comprendete. Dio diventa tutto per voi, perché Egli riunisce in Lui tutte le cose che amate: voi affamati,… Egli è vostro pane; voi assetati, … Egli è l’acqua che vi rinfranca; voi siete nelle tenebre, Egli per voi è la luce, perché Egli resta sempre incorruttibile; se ignudo, Egli è per voi un vestito di immortalità (S. Agost. Traité XIII sur Saint Jean, 5). – « Dio è luce, e luce senza mescolanza di tenebre » (Joann, I, 5), e comunica all’uomo questa luce in tre gradi differenti: Dio dà all’uomo dapprima la luce della ragione, quella che lo distingue dal bruto, quella che fa che noi pensiamo, giudichiamo, compariamo, percepiamo la verità. Ma noi siamo creati per un fine che oltrepassa e lascia molto dietro tutti i limiti della propria natura: vedere Dio e contemplarlo faccia a faccia, tale è il destino umano! Ora, ci dice il Dottore angelico, come l’uccello nella notte, a causa dell’infermità dei suoi occhi, non può sopportare il chiarore del giorno, allo stesso modo l’uomo, a causa dell’infermità della sua ragione, non può contemplare lo splendore di Dio. Per vedere la sua luce infinita, non c’è di meglio per l’uomo, che questa luce stessa di Dio. È l’espressione del Re-profeta: « … noi vedremo la vostra luce nella vostra luce ». Questa è la luce di quel libro che rischiara gli eletti nel cielo, e che Dio comunica all’anima per renderla capace di vederlo faccia a faccia. Tuttavia, aggiunge San Tommaso, così come tra le tenebre della notte ed il chiarore del giorno pieno, ci sono gli intermedi del crepuscolo e dell’aurora, così pure Dio, per abituare l’uomo, ed iniziarlo poco a poco col suo occhio infermo alla luce grande e completa che deve un giorno vedere, comincia già da questo mondo ad aggiungere alla ragione umana una seconda luce, che già metta l’uomo in rapporto con verità di un ordine superiore alla sua natura. È la luce della grazia, luce di fede e di amore, lampada brillante che rischiara lo spirito e riscalda il cuore (S. Tommaso, Summa theol. I, p. III.). – È così che Dio ci ha tracciato i gradini luminosi attraverso i quali dobbiamo salire fino a Lui. Egli ci eleva di luce in luce: Egli ci rischiara sempre più nella misura in cui ci avviciniamo alla sua chiarezza divina, e quando, infine, nella sua luce, noi vedremo la sua luce faccia a faccia, allora soltanto avremo raggiunto il termine del nostro destino immortale.

ff. 11. « Che il piede del superbo non giunga fino a me », vale a dire che io non cada nell’orgoglio. Guardiamoci dall’orgoglio, che può causare la nostra rovina anche in mezzo alla più prospera situazione. Adamo in paradiso ha fatto una caduta ben più rovinosa di quella che avrebbe fatto sulla terra. Cadere da queste altezze, è precipitare in un precipizio; sul terreno più umile, questa è una semplice caduta. Ora il piede del superbo si smarrisce, perché non è guidato dalla testa, perché gli occhi del saggio sono nella sua testa. Nulla di sorprendente se il piede fuorvia, quando non è diretto dall’occhio. L’occhio precede, ed il piede segue. Come un viaggiatore potrebbe camminare nelle tenebre? Il piede viene ben presto a smarrirsi, se l’astro delle notti, che è come l’occhio del mondo, non gli mostra la via. Ora, voi siete nella notte di questo secolo. La Chiesa vi mostra il cammino, il Sole di giustizia vi illumina dall’alto del cielo, perché non abbiate a temere alcuna caduta (S. Ambr.). – Il salmista ci parla del piede dell’orgoglio; aggiunge: « … e che la mano del peccatore non mi disperda ». Siccome i Santi sono le membra di Gesù-Cristo, così gli empi sono le membra del demonio. « … Che la mano del peccatore non mi disperda », cioè che le azioni di coloro peccano contro di Voi, non mi facciano uscire dal sentiero della giustizia. Sovente, in effetti, quando noi vediamo tutte le imprese dei peccatori coronate dal successo, la nostra anima è smarrita. E la mano dei peccatori sembra volerci separare dalla radice della giustizia. Prendiamo dunque cura che una mano nemica non venga a sradicare ciò che la mano di Dio ha piantato nella sua casa (Idem).

ff. 12. –  « Essi sono stati abbattuti, e non possono rialzarsi ». Breve questa conclusione, ma piena di gravi insegnamenti! Che io non sia superbo, per non peccare; che io non pecchi per non essere abbattuto; che io non sia abbattuto per on cadere, che o non cada per non essere espulso, come Adamo lo è stato dal paradiso, perché in lui, per primo, il piede dell’orgoglio, non ha potuto rialzarsi » (S. Ambr.). – Questa abbondanza della casa di Dio, questa sorgente di vita, questa luce di Dio, i doni ineffabili della sua misericordia, sono precisamente l’eredità di coloro che lo conoscono bene, cioè di coloro che Lo conoscono col cuore, che praticano esattamente tutti i suoi comandamenti, Lo intrattengono familiarmente con la preghiera, Gli parlano e Lo ascoltano quando Egli si degna parlare con loro (Dug.). – Coloro il cui cuore è retto sono coloro che, in questa vita, si conformano alla volontà di Dio. La volontà di Dio è la medesima, sia quando siete in salute, sia quando siete malati: se, quando siete in salute, la volontà di Dio è dolce, ma vi è amara quando siete malato, voi non avete il cuore retto. Perché? Perché vi rifiutate di regolare la vostra volontà sulla volontà di Dio, e volete piegare la volontà di Dio alla vostra volontà. La sua volontà è retta, e la vostra non lo è: occorre dunque raddrizzare la vostra volontà sulla sua, e non piegare la sua conformemente alla vostra: allora voi avrete il cuore retto (S. Agost.). – La felicità eterna è nello stesso tempo una misericordia ed una giustizia: una misericordia, perché è una grazia puramente gratuita per cui da peccatori si diventi giusti e si fanno buone opere. È anche una corona di giustizia e la ricompensa delle buone opere. Così la ricompensa è dovuta alle buone opere, se si fanno; ma la misericordia, che non è dovuta, precede, affinché le si facciano. (Conc. Arauc. II, can. 16). – Rimarchiamo David che esalta queste due cose: la conoscenza di Dio e la rettitudine del cuore. L’una e l’altra sono doni preziosi dello Spirito Santo. La conoscenza di Dio bisogna conquistarla con la meditazione e lo studio, fatti ai piedi della croce; la rettitudine del cuore, bisogna meritarla con l’amore sincero dei beni celesti, preferiti a tutte le cose della terra. Allora si realizza il doppio augurio del Re-profeta: la vittoria sull’orgoglio, il nostro più grande nemico interiore, e la vittoria sui nemici esterni. Ogni pensiero orgoglioso è respinto dal lavorio fatto ai piedi della croce; e cosa può temere l’uomo che, andando dritto a Dio, sempre attento ai suoi doveri, usando di questo mondo senza mai servirsene per le sue vanità e i suoi capricci, non stimi realmente e non ambisca al cielo? Egli sa bene che ogni operatore di iniquità, dopo qualche successo momentaneo che avrà esaltato le sue ambizioni e gonfiato il suo orgoglio, deve finire con una caduta eterna (Rendu). – Il Re-Profeta temeva la radice del peccato e la testa del peccato; ecco perché egli dice. « Che l’orgoglio non prenda piede in me ». Perché parla del piede dell’orgoglio? Perché l’orgoglio allontana da Dio e Lo lascia; dicendo il piede, egli vuol dire l’affezione. « Che la mano del peccatore non mi disperda »; cioè che le azioni del peccatore non mi allontanino da Voi, e mi attirino nell’imitarle » (S. Agost.). – Il piede dell’orgoglioso conduce all’orgoglio che è il primo ed il principe di tutti i peccati; la mano del peccatore spinge al peccato, e se non sempre abbatte, comunque fa vacillare.

ff. 13. –  Tutti coloro che sono ora nell’iniquità sono caduti dapprima nell’orgoglio, primo peccato del cielo e della terra: del cielo, con la caduta degli angeli; della terra, con la caduta del primo uomo: « … essi sono stati cacciati e non si sono rialzati ». Il primo è il demonio, che non si è tenuto nella verità; in seguito coloro che Dio, a causa dello stesso, ha cacciato dal Paradiso (S. Agost.). – Ciò che è vero per gli individui, lo è egualmente per le nazioni e per i popoli: l’impunità non avrà mai lunga durata per una nazione che camminerà, come nazione, nelle vie dell’infedeltà e dell’apostasia, e che immolerà i diritti sacri a Dio ai pretesi diritti dell’uomo. Essa sarà sempre sul punto di perdere l’equilibrio e non potrà tenersi in piedi. Nessuno dei regimi che piacerà ad essa darsi, potrà durare; il minimo soffio li sconvolgerà l’uno dopo l’altro, la loro espulsione sarà affare di un istante. Così sono caduti tutti i poteri che abbiamo visto succedersi nelle stesse condizioni; un semplice scossone li ha gettati a terra, perché non avevano in se stessi la potenza per tenersi in piedi (Mgr. Pie, VII, 101).

LA GRAZIA (NOTE DI TEOLOGIA DOGMATICA) – 1-

La questione della grazia, come già in altri post abbiamo potuto vedere (v. link), è una questione centrale nel Cristianesimo, fulcro della dottrina e dell’azione spirituale che conduce alla salvezza eterna. Continuiamo quindi l’approfondimento di questo argomento vitale per la Fede Cattolica e per ottenere l’eterna Gloria. Ci sono momenti in cui l’argomento è apparentemente ostico, ma con un po’ di pazienza, con una rilettura attenta e meditata, invocando la luce dello Spirito Santo, si possono ottenere lumi decisivi nel progresso spirituale dell’anima cristiana. In questa breve serie di articoli ne esaminiamo le basi teologiche, passando poi alle considerazioni di teologia ascetica. Senza comprendere il ruolo della Grazia nella vita del Cristiano, tutto diventa incerto e permane un grado di oscurità nell’azione salvifica lungo il cammino spirituale del Cattolico che vuol giungere all’eterna salvezza. [n.d.r.-]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/09/03/la-grazia-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/09/05/la-grazia-2/

LA GRAZIA

(Note di Teologia Dogmatica) (1)

[Ludovico Ott: Compendio di Teologia Dogmatica; Marietti Torino-Herder Roma – imprim. Can. Oddone, Vis. Gen. 7/VI/1955]

INTRODUZIONE

Della grazia in generale.

§ I. La redenzione soggettiva in generale.

Gesù Cristo, Uomo-Dio, con la sua soddisfazione vicaria e col suo merito redentivo ha riconciliato l’umanità con Dio in linea di principio e oggettivamente. La redenzione oggettiva però deve essere partecipata ad ogni singolo uomo, diventando così soggettiva. L’atto della distribuzione del frutto della redenzione ai singoli uomini si chiama giustificazione (iustificatio) o santificazione (santificatio) e il frutto stesso grazia di Cristo. Il principio della redenzione soggettiva è Dio uno e trino. La comunicazione della grazia essendo opera dell’amore divino, è attribuita allo Spirito Santo, l’amore divino personale, sebbene essa sia effettuata in comune dalle tre divine Persone. – La redenzione soggettiva però non è solo opera di Dio, ma richiede anche la libera cooperazione dell’uomo, come s’addice alla sua natura dotata di ragione e di άlibertà (Denz. 799). – Nell’intima cooperazione e compenetrazione della potenza divina e della libertà umana sta l’imperscrutabile mistero della dottrina della grazia. Tutte le eresie e le controversie concernenti la grazia traggono inizio di qui. – Nel processo della redenzione soggettiva Dio aiuta l’uomo non solo mediante un principio interno, la potenza della grazia, ma anche mediante un principio esterno, l’attività della Chiesa che insegna, governa e santifica con l’amministrazione dei Sacramenti. La redenzione soggettiva termina nel compimento eterno della visione beatifica di Dio.

§ 2. Il concetto della grazia.

1. Nella Sacra Scrittura.

Grazia (χάρις – karis = gratia) secondo l’uso della Scrittura significa:

a) in senso soggettivo la condiscendenza e benevolenza di una persona di grado superiore verso una di grado inferiore, in particolare di Dio verso l’uomo (gratia = benevolentia). Cfr. Gen. 30, 27; Lc. 1, 30.

b) in senso oggettivo, il dono gratuito derivante dalla benevolenza (gratia = beneficium o donum gratis datum). Il dono come tale è l’elemento materiale, la mancanza di ogni esigenza o la gratuità l’elemento formale. Cfr. Rom. II, 6;

c) graziosita, amabilità. Cfr. Sal. XLIV, 3; Prov. XXXI, 30.

2. Nella teologia.

La teologia prende la parola grazia in senso oggettivo ed intende con essa un dono indebito da parte di Dio e non meritato da parte dell’uomo. In questa più ampia accezione si può anche parlare di grazia naturale(per es. la creazione, doni dell’ordine naturale come la salute del corpo e la sanità della mente).

In senso più stretto e proprio si intende un dono soprannaturale concesso gratuitamente da Dio alle creature ragionevoli in ordine alla salvezza eterna: donum supernaturale gratis a Deo creaturæ rationali concessum in ordine ad vitam æternam. – Vi appartengono in primo luogo i doni soprannaturali « quoad substantiam » che nella loro intima essenza trascendono l’essere, le forze e le esigenze della natura creata (la grazia santificante, la visione beatifica di Dio); poi i doni soprannaturali « quoad modum », che superano nel modo con cui vengono concessi la capacità naturale della creatura che li riceve (guarigione miracolosa, dono delle lingue, dono della profezia) e i doni preternaturali, che perfezionano la natura umana nell’ambito del suo proprio ordine (immunità dalla concupiscenza, dai dolori e dalla morte).

3. Cause della grazia.

La causa efficiente principale della grazia è Dio uno e trino; la causa efficiente strumentale sono l’umanità di Cristo e i Sacramenti; la causa meritoria della grazia concessa all’umanità decaduta è Gesù Cristo, Uomo-Dio, a motivo della sua opera redentrice; la causa finale primaria è la glorificazione di Dio, la causa finale secondaria è la salvezza eterna dell’uomo.

§ 3. Divisione della grazia.

1. Grazia creata – grazia increata.

La grazia increata è Dio stesso in quanto nel suo amor eterno è fonte di tutti i doni, in quanto si comunica all’umanità di Cristo nell’incarnazione (gratia unionis), in quanto abita nell’anima dei giusti e in quanto si dona in possesso e godimento nella visione beatifica. L’atto dell’unione ipostatica, dell’inabitazione e della visione beatifica è bensì una grazia creata, ma è increato il dono che in questi atti vien dato alla creatura. — La grazia creata è un dono soprannaturale distinto da Dio e suo effetto.

2. Grazia di Dio – grazia di Cristo.

La grazia di Dio e del Creatore è quella che Dio ha concesso agli Angeli e ai nostri progenitori nel Paradiso terrestre per il solo motivo dell’amore senza guardare ai meriti di Cristo, poiché essi erano senza peccato e quindi solo negativamente indegni (non digni) di riceverla. — La grazia di Cristo o del Salvatore, è quella che Dio concede, per duplice motivo dell’amore e della misericordia, in vista dei meriti di Cristo, agli uomini decaduti i quali col peccato se ne sono resi positivamente indegni (indigni). Sia la grazia di Dio sia quella di Cristo elevano chi la riceve nell’ordine soprannaturale dell’essere e dell’agire (gratia elevans); la grazia di Cristo inoltre ha il compito di sanare le ferite prodotte dal peccato (gratia elevans et sanans vel medicinalis). – Vi sono teologi i quali con Scoto e Suarez sostengono che l’Incarnazione sarebbe avvenuta egualmente anche senza la caduta originale e che, di conseguenza, ogni grazia è grazia di Cristo, anche quella degli Angeli e del Paradiso terrestre. – Nondimeno questa grazia manca della caratteristica della Redenzione: non è grazia di Cristo in quanto Redentore, bensì grazia di Cristo in quanto capo degli Angeli e degli uomini ossia di tutta la creazione.

3. Grazia esterna – grazia interna.

La grazia esterna è qualsiasi beneficio di Dio per la salvezza degli uomini, che è fuori dell’uomo e agisce moralmente su di lui, per es. rivelazione, dottrina ed esempio di Cristo, prediche, liturgia, sacramenti, esempi di virtù. — La grazia interna afferra nell’intimo l’anima e le sue potenze ed influisce fisicamente su di esse, per es. la grazia santificante, le virtù infuse, la grazia attuale. La grazia esterna è ordinata alla grazia interna come a suo fine. Cfr. 1 Cor. III, 6.

4. Gratia gratis data – gratia gratum faciens.

Sebbene ogni grazia sia un libero dono della bontà divina, tuttavia, in senso stretto si dice gratia gratis data (Mt. X, 8 « gratis accepistis, gratis date ») quella che viene concessa ad alcune persone per la salute di altre e non dipende dalla condizione morale o collaborazione del soggetto (cfr. Mt. VII, 22; Gv. XI, 49-52). Vi appartengono i doni straordinari (carismi, profezie, dono dei miracoli, delle lingue; 1 Cor. XII, 8 ss.) e i poteri ordinari dell’ordine e della giurisdizione. — La gratia gratum faciens o grazia santificante è destinata a tutti gli uomini e vien concessa per la santificazione personale. – Essa rende chi la riceve gradito (gratum) agli occhi di Dio o santificandolo formalmente (grazia santificante) o preparandolo alla santificazione (grazia attuale). La gratia gratum faciens è il fine della gratia gratis data ed è perciò intrinsecamentepiù elevata e più preziosa di questa. Cfr. 1 Cor. 12, 31.

5. Grazia abituale (santificante) – grazia attuale.

La gratia gratum faciens o grazia santificante è abituale o attuale. La grazia abituale è una qualità soprannaturale permanente dell’anima, che santifica interiormente l’uomo e lo rende giusto e accetto a Dio (grazia santificante o giustificante).

La grazia attuale è un influsso soprannaturale transeunte di Dio nell’anima per il compimento di un atto salutare che ha per fine l’acquisizione della grazia santificante o la conservazione e aumento di essa.

6. La grazia attuale viene distinta:

a) secondo le potenze dell’anima che essa muove, in grazia di intelligenza e in grazia di volontà, ossia di illuminazione (gr. illuminationis) o di ispirazione(gr. inspirationis);

b) secondo il rapporto con la volontà, in grazia preveniente(gr. præveniens, antecedens, excitans, vocans, operans), inquanto precede la libera decisione della volontà e in grazia adiuvante e concomitante(gr. subsequens, adiuvans, concomitans,cooperans) in quanto accompagna e sostiene l’azionelibera dell’uomo;

c) secondo il suo effetto, in grazia sufficientee grazia efficace. La prima dà la pura possibilità di compiere l’atto salutare, la seconda lo fa effettivamente compiere.

§ 4. Le principali eresie sulla grazia. (omissis …)

…..

SEZIONE PRIMA

La grazia attuale.

La dottrina della grazia attuale viene qui esposta in quattro capitoli che trattano rispettivamente della sua natura, della sua necessità, della sua distribuzione gratuita e universale (rimandiamo, poiché complessi e di natura eminentemente teologica, in questa sede, i relativi problemi della predestinazione e riprovazione, delle sue relazioni con la libertà umana –ndr. -).

CAPITOLO PRIMO

La natura della grazia attuale.

§ 5. La grazia di illuminazione e di ispirazioni

1. Concetto di grazia attuale.

La grazia attuale è un influsso (qualità) soprannaturale transeunte di Dio sulle facoltà spirituali dell’uomo per muoverla all’atto salutare, cioè relativo alla santificazione e alla vita eterna. Essa come influsso transeuntesi distingue di quella abituale e dalle virtù infuse che ineriscono all’animi a guisa di qualità permanenti; come soprannaturale si distingui dalla cooperazione di Dio nelle azioni naturali delle creatura (concursus Dei naturalis). Il termine « gratia actualis » compare nella tarda scolastica (Capreolus) e, dopo il Concilio di Trento, che non l’usa ancora, diviene di uso corrente.

2. Natura della grazia attuale.

a) Dottrina della Chiesa.

La grazia attuale illumina l’intelletto e fortifica la volontà interiormente ed immediatamente. Sent. certa.

Il Concilio di Orange (529) dichiarò eretica la proposizione seguente: l’uomo può con le sole forze della natura, senza l’illuminazione e l’ispirazione dello Spirito Santo concepire come si conviene, un buon pensiero relativo alla salvezza eterna 0 sceglierlo, ossia dare il suo assenso al messaggio evangelico (D. 180). Cfr D. 1791, 104, 797. È pertanto dottrina della Chiesa che l’uomo per compiere atti salutari abbisogna di una forza che trascenda le sue naturali possibilità e perciò soprannaturale. L’aiuto soprannaturale divino per le azioni salutari si estende ad ambedue le facoltà spirituali umane e consiste in una illuminazione immediata e interna dell’intelligenza e in una collaborazione parimenti immediata e interna della volontà. Occorre distinguere l’illuminazione e la collaborazione immediata, di cui si tratta qui, dall’illuminazione mediata proveniente da aiuti esterni (gratiæ externæ), quali ad es. l’insegnamento della rivelazione, le prediche, le buone letture, e dalla collaborazione pure mediata che deriva dall’illuminazione. – Un atto salutare si ha soltanto quando le facoltà dell’anima sono immediatamente e internamente influenzate dalla grazia.

b) Prova della Scrittura e della Tradizione.

La realtà e la necessità di una illuminazione divina immediata e interiore dell’intelligenza per compiere atti salutari sono attestate dai passi seguenti: 2 Cor. III, 5: « Non che da noi stessi siamo in grado di pensare alcunché, come se venisse proprio da noi, ma la capacità nostra viene da Dio ». Paolo insegna con ciò che noi per natura non siamo capaci di pensare alcunché che sia in stretto rapporto con la nostra salvezza eterna. Tale capacità ci viene da Dio, il quale illumina la nostra intelligenza e la rende atta a pensieri soprannaturali. 1 Cor. III, 6: « Io ho piantato, Apollo ha innaffiato, ma è Dio che ha fatto crescere; di modo che nulla è il piantatore né l’innaffiatore, ma è tutto Dio che fa crescere ». Con questa immagine l’Apostolo esprime il pensiero che la predicazione apostolica rimane infruttuosa se all’illuminazione esteriore per opera del predicatore non si aggiunge quella interiore per opera di Dio. Cfr. Ef. 1, 17-18; 1 Gv. II, 27.

La fortificazione o ispirazione interna della volontà è attestata in Fil. II, 13: « Dio infatti è colui che opera in voi e la volontà e l’agire ». Gv. VI, 44: « Nessun può venire a me (cioè credere a me), se non lo attiri il Padre, che mi ha mandato ».

Tra i Padri è soprattutto AGOSTINO che pone in risalto, combattendo i pelagiani, la necessità della grazia interiore dell’intelligenza e della volontà. Cfr. In ep. 1 Ioan. tr. 3, 1 De gratia Christi 26, 27. – L’illuminazione immediata, interna dell’intelligenza e fortificazione della volontà sono richieste dall’intima connessione che esiste tra il fine ultimo soprannaturale e gli atti salutari. I mezzi devono avere la stessa natura del fine,

il fine è soprannaturale, perciò anche i mezzi, cioè le azioni derivanti dall’intelligenza e dalla volontà, devono essere soprannaturali.

§ 6. La grazia preveniente e la grazia cooperante.

1. La grazia preveniente.

C’è un influsso soprannaturale di Dio sulle facoltà spirituali che previene la libera decisione della volontà. De fide.

In questo caso opera Dio solo « in noi senza di noi » (in nobis sine nobis, sc. libere cooperantibus) e produce atti spontanei, non liberi dell’intelligenza e della volontà (actus indeliberati). Questa grazia vien detta preveniente, antecedente, eccitante, operante. – La dottrina della Chiesa circa l’esistenza di siffatta grazia e la sua necessità per il giungere alla giustificazione fu definita nel Concilio di Trento: « L’inizio della giustificazione negli adulti va ricercato nella grazia proveniente di Dio per mezzo di Gesù Cristo » (a Dei per Iesum Christum præveniente gratia; D. 797. Cf. D. 813).

La Scrittura allude all’operazione della grazia preveniente quando dice che Cristo sta alla porta e picchia (Ap., 20), che il Padre attira (Gv. VI, 44), che Dio chiama (Ger. XVII, 23; Sal. XCIV, 8).

2. La grazia cooperante.

C’è un influsso soprannaturale di Dio sulle facoltà spirituali che coopera con la libera attività della volontà umana. De fide.

In questo caso Dio e l’uomo agiscono insieme. Dio agisce « in noi con noi » (in nobis nobiscum; cfr. D. 182) di modo che l’atto salutare è opera comune della grazia di Dio e della libertà dell’uomo. Questa grazia che sostiene e accompagna la libera attività della volontà vien detta sussequente, adiuvante, concomitante, cooperante.

La dottrina della Chiesa circa la realtà e necessità della grazia cooperante è stata espressa nel Decreto della giustificazione del Concilio di Trento. D. 797: Il peccatore si dispone alla giustificazione « assentendo e cooperando liberamente alla grazia » (gratiæ libere assentiendo et cooperando). D. 810: « L’amore di Dio per tutti gli uomini è così grande da volere che siano loro meriti (in virtù della loro libera attività) quelli che sono i suoi doni (in virtù della sua grazia) ». Cfr. D. 141. – S. Paolo pone in risalto l’aiuto dato dalla grazia di Dio alla libera attività dell’uomo. 1 Cor. XV, 10: « Ma per grazia di Dio sono quel che sono e la grazia di Lui verso di me non fu cosa vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non già io, ma la grazia di Dio con me (gratia Dei mecum) ». – S. AGOSTINO cosi descrive l’operazione della grazia preveniente e di quella cooperante: « Dio opera nell’uomo molte cose buone senza che l’uomo operi; però l’uomo non può operarne alcuna se Dio non interviene e non opera » (Contr. duas ep. Pel. II, 9, 21 = D. 193). « Dio prepara la volontà e perfeziona cooperando con noi, ciò che Egli aveva cominciato operando in noi. Infatti è Lui che comincia facendo sì che noi vogliamo, e quando poi vogliamo è lui che perfeziona cooperando con noi… Così affinché vogliamo Egli agisce senza di noi; quando poi vogliamo, e vogliamo efficacemente, Egli coopera con noi. Se Egli non opera per deciderci a volere e non coopera quando ci siamo decisi a volere, noi non possiamo assolutamente compiere alcuna opera buona » (gratia et lib. arb. 17, 33). Cfr. GREGORIO MAGNO, Moralia XV 25, 30 e la preghiera Actiones nostras.

§ 7. Controversia sull’essenza della grazia attuale

1. Si deve respingere la dottrina di Pascasio Quesnel, secondo cui la grazia attuale si identifica con la volontà onnipotente di Dio. Cfr. la 19 proposizione condannata: « Dei gratia nihil aliud est quam eius omnipotens voluntas » (D. 1369; 1360-1361). La volontà onnipotente di Dio si identifica con la sua essenza. La grazia attuale invece è un effetto finito della sua volontà salvifica e quindi da Lui distinto (gratia creata). Quesnel con questo suo concetto intendeva fondare la pretesa efficacia irresistibile della grazia.

2. Secondo i molinistila grazia attuale consiste formalmente in atti vitali indeliberati dell’anima, cioè in atti dell’intelligenza o della volontà, prodotti immediatamente da Dio nell’anima. Per provare la loro dottrina essi si rifanno alla Scrittura, alla Tradizione ed alle dichiarazioni del Magistero che chiamano la grazia attuale « cogitatio pia, cognitio, scientia e « bona voluntas, sanctum desiderium, cupiditas boni, voluptas, delectatio » ecc., espressioni che designano atti vitali dell’anima.

3. I tomistidefiniscono la grazia attuale un dono o energia che precede tali atti indeliberati ed eleva in modo transeunte l’intelletto e la volontà rendendoli capaci di produrli. Questa energia soprannaturale concessa da Dio si unisce con le facoltà spirituali dell’uomo formando così un unico principio dal quale scaturisce l’atto salutare. I tomisti si appellano alle espressioni della Scrittura, dei Padri e dei Concili, in cui la grazia preveniente vien presentata come un chiamare, illuminare, picchiare, destare, attirare e toccare da parte di Dio. Tutte queste espressioni denotano un’attività divina che precede gli atti vitali dell’anima e li produce. L’energia che eleva transitoriamente le facoltà dell’anima rendendole capaci di atti soprannaturali è caratterizzata dai tomisti come una qualità transeunte o « fluente » (qualitas fluens) per distinguerla dalla grazia santificante, che è una qualità permanente. Non diverso è il pensiero di S. TOMMASO (S. th. I – II, 110, 2) sebbene dica espressamente che la grazia attuale « non è una qualità, ma un moto dell’anima (non est qualitas, sed motus quidem animæ), poiché per qualità egli intende alcunché di permanente e per « moto dell’anima » intende non un atto vitale, ma il ricevere la mozione di Dio (anima hominis movetur a Deo ad aliquid cognoscendum vel volendum vel agendum). Contro l’opinione molinista si fa valere soprattutto la considerazione che gli atti vitali soprannaturali vengono prodotti a un tempo da Dio e dalle potenze dell’anima, mentre la grazia è causata solo da Dio.

CAPITOLO SECONDO

La necessità della grazia attuale.

§ 8. La necessità della grazia

per gli atti dell’ordine soprannaturale.

1. Necessità della grazia per ogni atto salutare. Per ogni atto salutare è assolutamente necessaria la grazia soprannaturale di Dio (gratia elevans). De fide.

Il II Concilio di Orange (529) insegna nel can. 9: « Ogni qualvolta noi facciamo opere buone (salutari) è Dio che opera in noi e con noi perché le facciamo » (quoties bona agimus, Deus in nobis atque nobiscum, ut operemur, operatur; D. 182) e nel can. 20: « L’uomo non può fare opere buone (salutari) senza che Dio non gli conceda di farle » (nulla facit homo bona, quæ nel Deus præstat, ut faciat homo; D. 193; cfr. 180). Il Concilio di Trento confermò questa dottrina nel Decreto sulla giustificazione, can. 1-3 (D. 811-813). Sono contro la dottrina della Chiesa il pelagianesimo ed il razionalismo moderno. – Cristo, con l’immagine della vite e dei tralci ( Gv. XV, 1 ss.), mostra chiaramente il suo influsso di grazia nelle anime, che produce frutti di vita eterna, ossia atti salutari: « Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me ed Io in lui, produce molto frutto; perché senza di me voi non potete fare nulla » (sine me nihil potest facere; v. 5). Paolo esprime lo stesso pensiero con l’immagine dell’unione tra il capo e le membra (Ef. IV, 15 ss. Col. II, 19). Per ogni pensiero salutare (2 Cor. III, 5) per ogni decisione della volontà (Rom. IX, 16) e per ogni opera buona (Fil. II, 13; 1 Cor. XII, 3) l’Apostolo richiede l’aiuto della divina grazia. 1 Cor. XII, 3: « Nessuno può dire: Gesù Signore, se non in Spirito Santo ». I Padri accolsero la dottrina di Pelagio come una innovazione contraria alla fede tradizionale della Chiesa. S. AGOSTINO spiega cosi il passo di Gv. XV, 5: « Perché nessun creda che il tralcio possa da se stesso fare almeno un piccolo frutto, Egli non dice: « senza di me potere fare poco », ma « non potete far nulla ». Dunque sia poco sia molto non « può fare fuori di Colui senza del quale non si può far nulla. (In Ioan. tr. 81, 3). – Che la grazia sia assolutamente necessaria per ogni atto salutare la ragione stessa lo deduce da ciò che essendo il fine ultimo, la visione beatifica, essenzialmente soprannaturale, anche gli atti che servono a raggiungerlo devono essere soprannaturali ossia fatti con la grazia. Cfr. S. th. I – II, 109, 5.

2. Necessità della grazia per l’inizio della fede e della salvezza.

Per l’inizio della fede e della salvezza è assolutamente necessaria la grazia interna soprannaturale. De fide.

II Il Concilio di Orange (529) dichiara nel can. 5 contro la dottrina dei semipelagiani: « Chi dice che l’inizio della fede e la stessa pia inclinazione a credere… sono in noi per natura e non per il dono della grazia, ossia per ispirazione dello Spirito Santo… si dimostra contrario agli insegnamenti apostolici »: Si quis… initium fidei ipsumque credulitatis affectum… non per gratiæ donum, id est per inspirationem Spiritus Sancti… sed naturaliter nobis inesse dicit, Apostolicis dogmatibus adversarius approbatur (D. 178). Similmente il Conciliodi Trento insegna che l’inizio della giustificazione è costituitodalla grazia preveniente di Dio. Cfr. D. 797-798,813.La Scrittura insegna che la fede, condizione soggettiva della giustificazione, è dono di Dio. Ef. II, 8:«È per mera grazia che voi siete stati salvati mediantela fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; nonè in virtù di opere affinché nessuno se ne gloria  ». Gv.VI, 44: « Nessuno può venire a me (cioè credere in me),se non lo attira il Padre, che mi ha mandato ». Cfr.Gv. VI, 66. Secondo Ebr. XII, 2 Cristo è « autore e consumatoredella fede ». Cfr. Fil. 1, 6; 1, 29; 1 Cor. IV, 7.I testi biblici a cui si richiamavano i semipelagiani (Zac. I , 3: « Tornate a me e io tornerò a voi »; Prov. VIII, 17: « Io amoquelli che mi amano »; Mt. VII, 7: « Chiedete e vi sarà dato »;Atti XVI, 31: « Credi nel Signore Gesù e sarai salvato »; E f . V, 14: « Destati… ed il Cristo ti illuminerà ») vanno spiegati in armoniacon gli altri luoghi della Scrittura, tenendo presenteche il rivolgersi dell’uomo verso Dio è già sotto l’influssodella grazia attuale. L’attività libera della volontà non escludela grazia. Il rivolgersi di Dio verso l’uomo non va riferitoalla concessione della prima grazia, ma alla comunicazionedi grazie ulteriori.S. AGOSTINO nell’opera De dono perseverantiæ (19, 48-50)adduce già una prova della tradizione con testimonianze di Cipriano, Ambrogio e Gregorio Nazianzeno. Egli si richiamaalla preghiera della Chiesa per la conversione degli infedeli: « Se la fede è esclusivamente un prodotto della libera volontàe non è un dono di Dio, perché dunque preghiamo per coloro che non vogliono credere, affinché credano? » (De gratiaet lib. arb. 14, 29). In scritti anteriori alla sua elezione episcopale (395), Agostino stesso aveva sostenuto l’idea erroneache la fede non è un dono di Dio, ma opera esclusiva dell’uomo. Soprattutto il passo di 1 Cor. IV, 7: « Che cosa hai che non ricevesti? » lo indusse ad ammettere che anche la fede è dono di Dio. Cfr. De præd. sanct. 3, 7.Non poche espressioni patristiche preagostiniane che sannodi semipelagianesimo si spiegano agevolmente se si tengaconto della lotta contro il fatalismo pagano ed il manicheismoche negavano la libertà. S. GIOVANNI CRISOSTOMO, al quale soprattutto si appellavano i semipelagiani, osserva in Ebr. XII, 2: « Egli stesso ha piantato in noi la fede, Egli stesso vi ha dato inizio » (In ep. ad Hebr. hom. 28, 2).La gratuità della grazia esige che anche il principio dellafede e della salvezza sia opera di Dio. Quando ha luogo l’attodi fede, il primo giudizio sulla credibilità della rivelazione(iudicium credibilitatis) e l’inclinazione a credere (pius credulitatis affectus) è da ascrivere all’influsso della grazia immediata di illuminazione e di ispirazione.

3. Necessità della grazia attuale per gli atti salutari del giustificato.

Anche l’uomo giustificato, ossia in stato di grazia, ha bisogno della grazia attuale per compiere atti salutari. Sent. communis.

Poiché le facoltà spirituali di chi è giustificato sono elevate in modo permanente dalla grazia abituale, la grazia attuale opera in lui non come elevante ma come eccitante e adiuvante, in quanto fa passare le facoltà dalla potenza dell’atto e accompagna il compimento dell’atto, ed opera pure come sanante in quanto guarisce le rimanenti ferite del peccato. Non esiste una precisa decisione del magistero ecclesiastico sulla necessità di questa grazia. Il II Concilio di Orange e quello di Trento parlano tuttavia di un influsso della grazia divina o di Cristo sulle opere buone del giusto, senza distinguere espressamente tra grazia attuale e abituale. D. 809: « Gesù Cristo stesso… infonde continuamente la sua virtù nei giustificati. E questa virtù sempre antecede, accompagna e sussegue le loro buone opere ». Cfr. D. 182. Secondo la prassi della Chiesa anche i giusti pregano per impetrare la grazia dell’assistenza divina (Actiones nostras ecc.). La frase di Cristo: « Senza di me non potete far nulla » (Gv. XV, 5) dimostra che anche il giusto ha bisogno dell’aiuto della grazia attuale per fare atti salutari. – Paolo insegna che Dio stimola e compie le opere buone dei giusti. Fil. II, 13: « Dio è quello che opera in voi e il volere e l’agire in virtù della sua benevolenza ». 2 Tess. II, 16: « Dio… consoli i vostri cuori e vi confermi in ogni opera buona e in ogni buona parola ». Ebr. XIII, 21: « Il Dio della pace… vi renda atti a ogni opera buona, sicché possiate fare la sua volontà». – S. AGOSTINO estende la necessità della grazia attuale anche ai giusti: « Come l’occhio del corpo, benché perfettamente sano, non può vedere senza lo splendore della luce, così anche l’uomo, benché completamente giustificato, non può vivere rettamente se non è divinamente aiutato dall’eterna luce della giustizia » (De nat. et grat. 26, 29). – La necessità della grazia attuale per le buone opere dei giusti, si fonda sul fatto che ogni creatura, a cagione della sua completa dipendenza dal Creatore, ha bisogno perché le sue facoltà passino all’atto di un attuale influsso divino (gratia excitans et adiuvans). Inoltre poiché le conseguenza del peccato originale permangono anche nei giusti, questi abbisognano di un particolare aiuto della grazia, che ne sani le debolezze morali (gratia sanans). Cfr. S. th. I – II, 109, 9.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/09/19/la-grazia-note-di-teologia-dogmatica-2/

SALMI BIBLICI: “JUDICA DOMINE, NOCENTES ME” (XXXIV)

SALMO 34: JUDICA DOMINE, nocentes me …”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR RUE DELAMMIE, 13 – 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

[1] Ipsi David.

    Judica, Domine, nocentes me;

expugna impugnantes me.

[2] Apprehende arma et scutum, et exsurge in adjutorium mihi.

[3] Effunde frameam, et conclude adversus eos qui persequuntur me; dic animæ meæ: Salus tua ego sum. (1)

[4] Confundantur et revereantur quærentes animam meam; avertantur retrorsum et confundantur cogitantes mihi mala.

[5] Fiant tamquam pulvis ante faciem venti, et angelus Domini coarctans eos.

[6] Fiat via illorum tenebrae, et lubricum; et angelus Domini persequens eos.

[7] Quoniam gratis absconderunt mihi interitum laquei sui, supervacue exprobra-verunt animam meam. (2)

[8] Veniat illi laqueus quem ignorat, et captio quam abscondit apprehendat eum, et in laqueum cadat in ipsum.

[9] Anima autem mea exsultabit in Domino, et delectabitur super salutari suo.

[10] Omnia ossa mea dicent: Domine, quis similis tibi? eripiens inopem de manu fortiorum ejus; egenum et pauperem a diripientibus eum.

[11] Surgentes testes iniqui, quae ignorabam interrogabant me.

[12] Retribuebant mihi mala pro bonis, sterilitatem animae meae.

[13] Ego autem, cum mihi molesti essent, induebar cilicio; humiliabam in jejunio animam meam, et oratio mea in sinu meo convertetur. (3)

[14] Quasi proximum et quasi fratrem nostrum sic complacebam; quasi lugens et contristatus sic humiliabar.

[15] Et adversum me laetati sunt, et convenerunt; congregata sunt super me flagella, et ignoravi.

[16] Dissipati sunt, nec compuncti, tentaverunt me, subsannaverunt me subsanna-tione; frenduerunt super me dentibus suis.

[17] Domine, quando respicies? Restitue animam meam a malignitate eorum, a leonibus unicam meam.

 [18] Confitebor tibi in ecclesia magna; in populo gravi laudabo te.

[19] Non supergaudeant mihi qui adversantur mihi inique, qui oderunt me gratis, et annuunt oculis.

[20] Quoniam mihi quidem pacifice loquebantur; et in iracundia terræ loquentes, dolos cogitabant. (4)

[21] Et dilataverunt super me os suum; dixerunt: Euge, euge! viderunt oculi nostri. (5)

[22] Vidisti, Domine, ne sileas; Domine, ne discedas a me.

[23] Exsurge et intende judicio meo, Deus meus; et Dominus meus, in causam meam.

 [24] Judica me secundum justitiam tuam, Domine Deus meus, et non super-gaudeant mihi.

[25] Non dicant in cordibus suis: Euge, euge, animæ nostræ; nec dicant: Devoravimus eum.

[26] Erubescant et revereantur simul qui gratulantur malis meis; induantur confusione et reverentia qui magna loquuntur super me.

[27] Exsultent et lætentur qui volunt justitiam meam; et dicant semper: Magnificetur Dominus, qui volunt pacem servi ejus.

[28] Et lingua mea meditabitur justitiam tuam, tota die laudem tuam.

[Vecchio Testamento secondo la Volgata

Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XXXIV

Argomento principale è l’orazione di Cristo al Padre contro i persecutori suoi e della sua Chiesa.

Salmo dello stesso David.

1. Giudica, o Signore, coloro che mi offendono; combatti coloro che mi combattono.

2. Prendi l’armi e lo scudo, e levati a darmi aita.

3. Tira fuori la spada, e serra la strada a coloro che mi perseguitano; di’ all’anima mia: Io sono la tua salute. (1)

4. Rimangan confusi e svergognati tutti coloro che tendono insidie alla mia vita.

Sian messi in fuga e in iscompiglio quei che ordiscon del male contro di me.

5. Il Signore come polvere al soffiar del vento, e l’Angelo del Signore li prema.

6. La loro via sia tenebrosa e sdrucciolevole; e l’Angelo del Signore gl’incalzi.

7. Perocché senza ragione mi tesero occultamente il loro laccio di morte; ingiustamente caricarono di obbrobri l’anima mia. (2)

8. Venga sopra di lui un laccio, a cui egli non pensa; e dalla rete, lesa occultamente da lui, egli sia preso, e cada nello stesso suo laccio.

9. Ma l’anima mia esulterà nel Signore, e si rallegrerà per la salute che vien da lui.

10. Tutte quante le ossa mie diranno: Signore, chi è simile a te? Tu che liberi il povero dalle mani di quei che ne possono più di lui, l’abbandonato e il povero da quelli che lo spogliavano.

11. Testimoni iniqui, levatisi su, mi domandavan conto di cose ch’io ignoravo.

12. Pel bene mi rendevan dei mali: la sterilità all’anima mia.

13. Ma io, mentre quelli mi molestavano, mi rivestii di cilizio. Umiliai col digiuno l’anima mia, e nel mio seno si aggirava la mia orazione. (3)

14. Quasi parente e quasi fratello lo trattai con amore; mi umiliai come uno che è in duolo e in tristezza.

15. Ed essi eran lieti, e si adunarono contro di me; furon messi insieme flagelli contro di me, e io non li conoscevo.

16. Vennero in discordia, ma non si compunsero; mi tentarono, m’insultarono grandemente; digrignavano i denti contro di me.

17. Signore, quando porrai tu mente? Sottrai l’anima mia dalla malignità di costoro, dai leoni l’unica mia.

18. Te io confesserò in una chiesa grande; in mezzo a un popolo numeroso li loderò.

19. Non abbiano da godere del mio male  quelli che ingiustamente mi sono avversi; quelli che mi odiano senza cagione, e ammiccano gli occhi.

20. Imperocché meco parlavan parole di pace, ma nella commozion della terra meditavano inganni. (20)

21. Dilatarono la loro bocca contro di me; dissero: Bene sta, bene sta, i nostri occhi han veduto. (21)

22. Tu hai veduto, o Signore, non restare in silenzio; Signore, non ritirarti da me.

23. Levati su, e abbi a cuore il mio giudizio, la mia causa, Dio mio e Signor mio.

24. Giudicami secondo la tua giustizia, o Signore Dio mio, e coloro di me non trionfino.

25. Non dicano nei loro cuori: Bene sta, buon per noi; e non dicano: Lo abbiam divorato.

26. Sieno tutti insieme confusi e svergognati quelli che si rallegrano dei miei mali. Siano vestiti di confusione e di rossore loro che parlan superbamente contro di me.

27. Esultino e si rallegrino quei che favoriscono la mia giustizia e dicano sempre: magnificato il Signore; quei che la pace desiderano del servo di lui.

28. E la mia lingua mediterà la tua giustizia, le lodi tue tutto il giorno.

***

(1) Parola per parola: vuota la lancia, cioè tirala dal fodero.

(2) Gli antichi, per prendere le bestie feroci, tendevano un filo sul davanti o su di una fossa.

(3) Vale a dire, io pregavo con la testa abbattuta dal dolore e riversata sul mio seno. La Vulgata, in accordo con i Settanta, traduce cum mihi molesti essent; ma il termine ebraico “bacaloutham” diverge da questa traduzione. Esso significa letteralmente “tum ægrotarum, cum infirmarentur”, “quando erano malati”. Così l’ha inteso Gerolamo e Bossuet, Duguet, Agier, e Galion, come pure D. Calmet, Sacy, e la Bibbia di Vence e M. le Hir nelle loro note. L’intenzione del Profeta ne fa un pensiero tutto evangelico: quando questi uomini, miei nemici, erano “pieni di infermità, io mi coprivo di cilicio, digiunavo, mi umiliavo, raddoppiavo le mie preghiere per ottenere la loro guarigione.

(4) Nella loro collera contro la terra per turbare la terra. L’ebraico riporta: «contro questi pacifici della terra ». Ora parlare per irritare o per turbare la terra, è parlare contro gli uomini pacifici della terra.

(5) Coraggio! Noi andiamo a vedere la sua rovina ed i nostri disegni compiuti.

Sommario analitico

Davide, perseguitato da Saul, pressato da tutti i lati dai suoi nemici, invoca Dio come giudice, e Lo prega di prendere in mano la sua difesa e la sua causa. Egli è figura di Gesù Cristo in preda al furore dei farisei, soprattutto nella sua Passione, e di tutti i santi perseguitati.

I – Egli descrive in questo combattimento:

1. Le armi di Dio, a) la sentenza di condanna che pronuncerà contro i suoi nemici (1) ; b) lo scudo di protezione con cui lo coprirà (2); c) la spada della sua collera con la quale colpirà i suoi persecutori (3).

2. le armi dei suoi nemici e la loro vergognosa sconfitta, a) la crudeltà con la quale cercheranno di togliergli la vita, ma essi saranno messi in fuga e coperti di ignominia (4); b) la malizia con la quale essi gli hanno teso dei tranelli e lo hanno coperto di oltraggi quando vi è finito, ma 1) essi saranno dispersi, come la polvere portata via dal vento (5); essi saranno messi in fuga ed inseguiti dall’Angelo del Signore; 3) il loro cammino sarà coperto dalle tenebre e scivoloso (6); 4) saranno presi nelle proprie reti (7, 8).

3 Le sue armi personali, – a) l’amore di Dio che lo fa gioire in Dio e lodareLo con tutte le forze dell’anima (9): 1) perché Egli ha strappato il povero dalle mani di coloro che erano più forti di lui (10); 2) di coloro che lo accusavano ingiustamente (11); 3) di coloro che lo opprimevano dopo che averli ricolmati di benefici (12); – b) l’amore della sua salvezza che lo porta: 1) a rivestirsi del cilicio con pazienza, 2) a digiunare con umiltà, 3) ad applicarsi alla preghiera con perseveranza (13); – c) l’amore per i suoi nemici, che egli ama come suoi fratelli (14), benché essi: 1) abbiano gioito interiormente per le sue sciagure, 2) si siano uniti per attaccarlo (15); 3) lo abbiano ingiuriato con insulti digrignando di denti contro di lui(16).

II. – Egli decreta alla fine del combattimento:

1° la vittoria di Dio che: – a)con il solo sguardo ha messo i nemici in fuga; – b) ha liberato dalla loro crudeltà la sua anima desolata (17); – c) ha aperto la sua bocca perché possa celebrare le lodi di Dio (18); – d) ha distrutto la gioia dei suoi nemici, che sono ingiusti, malvagi, ipocriti, collerici, ingiuriosi e oltraggiosi, pieni di orgoglio e di alterigia (19-21).

2° Dall’alto dei cieli tutto considera Dio, al Quale egli domanda: – a) di non mantenere il silenzio e di terrorizzarli con la sua voce terribile; – b) di non allontanarsi da lui (22); – c) di non tardare nel venire in suo aiuto; – d) di prestare un’attenzione favorevole alla giustizia della sua causa, e di giudicarlo secondo le regole della sua giustizia (23-24); – e) di non permettere che i suoi nemici gioiscano su di lui e si vantino di averlo divorato (25); – f) di coprirli di onta e di confusione (26); – g) di dare ai suoi amici la gioia del cuore (27) e la riconoscenza dei suoi benefici, riconoscenza che, dal canto suo, sarà eterna (28).

Spiegazioni e Considerazioni

I. – 1-16.

ff. 1-3. – Qual grande e consolante spettacolo per gli occhi della nostra fede, vedere Dio stesso armato a nostra difesa, « se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? » (Rom. IX, 31S. Agost.). – Dio non ha bisogno di armi esteriori per difendere o attaccare, ma vuole accomodarsi alla nostra debolezza e conformarsi al nostro linguaggio. È nei tesori dell’amore ineffabile di Dio per noi, che sono chiusi, come un arsenale tutto divino, le armi difensive ed offensive delle quali Egli si serve per trionfare di coloro che ci perseguitano. « Signore voi ci coprite col vostro amore come una scudo » (Ps. V, 13). – Chi sono quelli che vi perseguitano? Forse è un vostro vicino, o colui che avete ferito, ingiuriato, o colui che viene a rapire ciò che voi possedete, o colui contro il quale voi predicate la verità, o colui al quale voi rimproverate le colpe, o colui che, vivendo male, è obbligato da Voi a vivere bene? Questi qui, in effetti, sono nostri nemici e ci perseguitano; ma noi siamo informati nel conoscere ancora altri nemici, come quelli contro i quali l’Apostolo Paolo ci mette in guardia (Efes. VI, 12) e che sono da combattere in maniera invisibile (S. Agost.). – « Dite alla mia anima, dite nel fondo del mio cuore », cioè imprimetevi, con l’unzione del vostro divino Spirito, questa parola sì dolce, sì consolante e sì capace di calmare le mie inquietudini: « sono Io la tua salvezza ». – Coloro che cercano la mia anima siano confusi e arrossiscano, la mia anima alla quale avete detto: « Io sono la vostra salvezza ». Io non chiederò altra salvezza se non quella che viene dal Signore mio Dio. Vanamente la creatura si offre di salvarmi, la salvezza è in Dio, e se io alzo gli occhi verso le montagne da cui esso viene, il soccorso mi sarà inviato, e non è che il soccorso mi viene da queste montagne, « ma mi viene dal Signore che ha fatto cielo e terra » (Ps. CXX, 1). Dio è venuto in vostro soccorso, nelle vostre angosce temporali per mezzo di un Uomo: è Lui la vostra salvezza. Tutte le cose Gli sono sottomesse ed Egli provvede ai bisogni di questa vita temporale, in vario modo con questa o tal altra maniera; ma quanto alla vita eterna, Egli non la dà che per se stesso. Se siete nelle angosce del dolore, voi non avete sempre sotto mano ciò che cercate; ma Colui che voi cercate è sempre là. Cercate dunque Colui che non può mai mancarvi. Vi si può togliere ciò che vi è stato dato, ma Colui che ve lo ha dato, chi ve lo toglierà? (S. Agost.). – O Gesù, il vostro cuore ha delle parole conoscono solo coloro che le hanno intese da Voi. Vi piaccia, o divino Maestro, di dirne una al mio cuore! Questa parola, che Gli chiedo da molto tempo, mi darà la vita ed ogni bene. Gesù, dite alla mia anima. « Io sono la tua salvezza »; dite questa parola e la mia anima sarà guarita. Ma questa parola siete Voi, e la salvezza siete ancora Voi, o Gesù, o Salvatore! E quando il vostro cuore la dice così al mio cuore, genera se stessa in colui che l’ascolta; essa lo rende simile a Voi, che siete la parola che dice il Padre; essa lo fa vivere della vita che Voi vivete; e colui che l’ascolta unito a Colui che parla, è un solo spirito, un solo cuore con Lui; se non ha la consustanzialità dell’essere, non di meno ha la consustanzialità della vita (Mgr. Baudhy, Le cœur de Jesus, 92).

ff. 4-8. – La confusione per un nemico, è il non poter nuocere a colui che l’attacca, confusione ancor più disonorevole, quando questo nemico, avendo prevalso, lo si supera con la pazienza, e si ricevono tutti i suoi colpi senza lamentarsi.- La polvere trasportata dal vento, immagine che rende la leggerezza e la debolezza dei peccatori: essi sono costanti solo nel fare il male, ma sono incostanti nella maniera di farlo. Costantemente schiavi delle loro passioni, hanno spesso desideri ed intenzioni contrarie. La loro debolezza è simile alla loro leggerezza. – « Il loro cammino diventi tenebroso e scivoloso », immagine ancora più vera della debolezza e delle leggerezza degli empi. Essi non si fermano mai nel male, passano di crimine in crimine, di precipizio in precipizio; essi marciano nelle vie oscure in un cammino scivoloso, segno dell’accecamento dello spirito e dell’abitudine alla voluttà. Essi pensano di essere liberi, quando sono invece rinchiusi in una schiavitù. Essi si considerano illuminati, quando non vedono neppure il cammino per il quale procedono. Prima specie di persecuzione che i giusti soffrono ordinariamente da parte dei malvagi, sono le insidie segrete che si tendono loro, e questo senza alcun soggetto. Più si testimonia la buona volontà a questa sorta di nemici, più li si irrita, perché questa condotta provoca la loro confusione. – È la strana malignità dell’invidia, che si nutre anche della carità del prossimo: quanto è pericoloso permettere l’entrata nel cuore a questa passione implacabile, poiché le ingiurie e i benefici l’offendono allo stesso modo! (Duguet). – « Ricadano nella rete che hanno teso ». È come se un uomo preparasse per un altro una coppa di veleno e poi la bevesse egli sbadatamente; o ancora come se un uomo scavasse una fossa perché un suo nemico vi cadesse nelle tenebre, e poi, dimenticando di averla scavata, vi cadesse egli per primo. È assolutamente così: ogni malvagio nuoce essenzialmente a se stesso. Si può comparare la malvagità al fuoco. Voi volete incendiare qualcosa: l’oggetto che si avvicina, brucia per prima, perché se non bruciasse, non potrebbe incendiare. Voi avete una torcia, avvicinate questa torcia per metter fuoco a qualcosa; non è vero che questa torcia brucia per prima per poter comunicare il fuoco ad un oggetto qualunque? La malvagità esce dunque da voi, e chi divora innanzitutto, se non voi? Se essa colpisce il ramo ove si conficca, come non colpirebbe la radice dalla quale esce? E ve lo dico in verità, « … può darsi che la vostra malvagità non nuoccia agli altri, ma è impossibile che non nuoccia a voi stessi » (S. Agost.).

ff. 10. – « La mia anima al contrario, sarà trasportata con allegrezza nel Signore » perché essa ha inteso da Lui queste parole: « … Io sono vostra salvezza »; perché essa non cerca all’esterno altre ricchezze, essa non desidera vedere attorno ad essa con abbondanza le voluttà ed i beni terreni, essa ama il suo vero Sposo con un amore disinteressato, che non chiede di ricevere da Lui altre delizie che non siano Egli stesso, e non chiede di possederle per trovare solo in Lui ogni delizia. « Chi potrebbe darmi ciò che vale, meglio del mio Dio? » (S. Agost.). – Non è in se stessa, ma in Dio solo che un’anima cristiana debba trovare la sua consolazione e la sua gioia, gioia che non somiglia a quella del mondo, una gioia falsa, simulata, passeggera, e sempre mista a paura o disgusto. La gioia del Signore è pura ed inonda talmente tutte le facoltà dell’anima che ridonda anche sul corpo. – Tutte le mie ossa diranno: « Signore, chi è simile a Voi? » Quanto a me, io penso che queste parole vadano solo riportate e non spiegate: perché dunque andate alla ricerca di questa o di tal altra cosa? Cosa vi è di simile al vostro Signore? Egli è Lui stesso davanti ai vostri occhi. « Tutte le mie ossa diranno: Signore, chi è simile a voi? ». « Gli empi mi hanno raccontato le delizie che li affascinano; ma esse, o Signore, non sono, comparabili alla vostra legge » (Ps. CXVIII, 85). Dei persecutori hanno detto al giusto: Adorate gli idoli; no, io non adoro gli idoli, egli ha risposto: Signore, chi è simile a Voi? « Questi idoli hanno degli occhi ma non vedono; hanno delle orecchie ma non sentono » (Ps. CXIII, 5). Signore, chi è simile a Voi, che avete l’occhio per vedere e l’orecchio per ascoltare? Io non adoro gli idoli, perché essi sono l’opera di un artigiano. Adorate quest’albero e questa montagna, è un artigiano che li ha fatti? Ed il giusto dice subito: Signore, chi è simile a Voi? Mi si mostrano delle cose terrestri, ma Voi siete il Creatore della terra. E forse si rivolgeranno verso creature di un ordine più elevato, e mi diranno: adoriamo la luna, adoriamo il sole che, per la sua luce, simile ad una lampada immensa, diffonde il giorno dall’alto del cielo. E qui ancora io rispondo apertamente: Signore, chi è simile a Voi? Siete Voi che avete creato la luna e le stelle; siete Voi che avete fatto rilucere il sole per produrre il giorno; siete Voi che avete formato il cielo. Ci sono ancora degli altri esseri invisibili ben superiori a queste meraviglie. Ma forse mi si viene a dire: abbiate un culto per gli Angeli, adorate gli Angeli! Ed io risponderò di nuovo: Signore, chi è simile a Voi? Siete ancora Voi che avete creato gli Angeli. Gli Angeli sono qualcosa perché essi gioiscono della vostra vista. È meglio possedervi con essi, che decadere dal vostro possesso per averli adorati (S. Agost.).

ff. 11, 12. –  Questo salmo è come la vita, è un’alternativa perpetua tra gioia e tristezza, tra fiducia e timore, tra pace e guerra. Il Profeta ha appena dipinto la felice sorte che attende i giusti affrancati dalla morte delle miserie del secolo presente, e ridiscende sulla terra richiamandoci al combattimento. Egli espone qui una delle prove più dure alle quali il cuore dell’uomo possa essere sottomesso: l’ingratitudine, divenuta troppo spesso l’unica ricompensa dei benefici più segnalati; l’amicizia, indegnamente tradita, dopo le più eclatanti testimonianze di affetto e devozione (Rendu). – Una seconda specie di persecuzione, con la quale gli empi perseguitano i giusti, non è più solamente l’indirizzar loro delle insidie segrete, ma pubblicamente attribuire loro dei falsi crimini, appoggiandoli sulla deposizione di ingiusti falsi testimoni. È questa l’immagine troppo fedele di ciò che l’invidia possa fare tutti i giorni contro i veri Cristiani e gli uomini dabbene. Si prende la risoluzione di renderli persi, poi se ne cercano i mezzi, per quanto ingiusti questi possano essere; li si suppone o li si dichiara criminali, poi ci si sforza di attribuire loro dei crimini. Si cercano dei « testimoni ingiusti, e si interrogano su cose di cui non hanno alcuna conoscenza », e poiché non possono rispondere, questo è sufficiente a renderli colpevoli (Duguet).

ff. 13, 14. – C’è qui per noi un insegnamento: che in tutte le nostre tribolazioni, noi non dobbiamo cercare come dover rispondere ai nostri nemici, ma come ci renderemo propizio Dio con la preghiera, affinché, soprattutto, non veniamo vinti dalla tentazione, e di conseguenza che quelli stessi che ci perseguitano, ritornino alla sana giustizia. Nulla di più importante, nulla di meglio c’è nella tribolazione, che allontanarsi dai brusii esterni e ritirarsi nel segreto del più profondo dell’anima (Matt. VI, 6), … invocare Dio in modo nascosto, ove nessuno veda il gemito dell’uomo, né il soccorso di Dio, chiudere la porta di questa camera ad ogni attacco che viene dall’esterno; infine glorificare e lodare Dio allo stesso modo, nei castighi e nelle consolazioni (S. Agost.). – Tutti i Santi hanno combattuto la tentazione con la mortificazione della carne. È così che Davide si copriva con un rude cilicio, quando si sentiva turbato dai propri pensieri ed i desideri del cuore lo portavano al male e lo tentavano. È per questo che San Paolo trattava rigorosamente il suo corpo e lo riduceva all’obbedienza. La grazia è di altra tempra nelle nostre mani che in quelle dell’Apostolo? Abbiamo noi forse uno spirito più fervente o una carne più sottomessa di quella di Davide? Il nemico ci spinge verso altri combattimenti, e siamo forse noi più forti di tanti religiosi e solitari, gli eletti e gli amici di Dio (Bourd. Sur les Tent.)? – « Io umiliavo la mia anima, etc. ». Siano i giovani santificati in tutta umiltà di spirito, indeboliscano il loro corpo senza gonfiare l’anima, per timore che un’opera di umiltà non divenga causa di orgoglio e che i vizi non prendano origine dalla virtù stessa (S. Girolamo). – Davide, perseguitato sì crudelmente ed ingiustamente, non solo rende bene per male, cosa esteriore, ma ancora ha un’affezione veramente sincera per gli autori di queste persecuzioni. Egli li ama come suo prossimo, come suoi fratelli. Egli compatisce i loro mali, fino ad esserne abbattuto dal dolore e dalla tristezza. Grande confusione, o piuttosto terribile condanna per un gran numero di Cristiani, che sono tanto lontani da queste disposizioni, anche dopo l’esempio che ha loro lasciato il loro divino Maestro e modello: Nostro Signore Gesù Cristo (Dug.).

ff. 15, 16. – In questi due versetti, si sottolineano tutti i caratteri della malvagità al naturale. I malvagi cominciano con il rallegrarsi quando trovano l’occasione di nuocere: essi si riuniscono in seguito, per mettere in atto con più sicurezza i loro complotti. Quando essi hanno preso il sopravvento, e non si può resistere loro, moltiplicano le vessazioni, le calunnie, i processi ingiusti, mentre il giusto che è l’oggetto del loro odio, non conosce nulla dei loro oscuri disegni, e non ha la minima conoscenza dei fatti dei quali li si accusa. Quando questo uomo giusto cerca di giustificarsi e mostrare l’ingiustizia delle loro accuse al tribunale della ragione, questi accusatori sono confusi, ma non per questo abbandonano la loro impresa. Essi ostentano delle rette intenzioni, delle giuste vedute, dei motivi di zelo per illudere il pubblico. In fondo questi uomini empi sono trasportati dal furore: essi insultano in modo oltraggiante; aggiungono la burla ai loro colpi più crudeli (Berthier). – Dio dissipa talvolta i cattivi disegni dell’empio, ma l’empio non diventa per questo migliore. Se non può nuocere alla persona del giusto, mira alla sua reputazione; egli fa della sua virtù, della sua pietà, l’oggetto delle sue prese in giro, delle sue burle, delle sue blasfemie. Infine, se non riesce nei suoi disegni, digrigna i denti contro il giusto, ribolle di rabbia e di stizza. – E noi pure, qual uso abbiamo fatto dei beni e dei mali della vita? « Il popolo non è tornato verso colui che lo colpiva, e non ha cercato il Dio degli eserciti ». – Quando Dio ha diminuito i nostri beni, abbiamo pensato nel contempo a moderare i nostri eccessi? Quando la fortuna ci ha abbandonato, abbiamo distolto il nostro cuore dai beni che non sono di nostra spettanza e dominio? O al contrario siamo stati di coloro dei quali è scritto: « … essi sono stati afflitti senza essere stati toccati dalla compunzione »? Servitori protervi ed incorreggibili, che si rivoltano anche sotto la verga, colpiti e non corretti, abbattuti e non umiliati, castigati e non convertiti. Il faraone indurì il suo cuore sotto i colpi raddoppiati della giustizia; il mare l’inghiotti nei suoi abissi (Bossuet, I Serm. Pour la Quinquag.). Tali sono ancora coloro dei quali è scritto nell’Apocalisse che Dio, avendoli colpiti con una piaga orribile, per la rabbia mordevano le loro lingue e bestemmiavano il Dio del cielo, non facendo penitenza. Tali uomini non sono come i dannati, che conducono il loro inferno alla vista del mondo, per sgomentarci con il loro esempio e che la croce precipita nella dannazione, come il ladrone indurito. Si strappano loro i beni di questa vita, essi si privano di quelli della vita futura, benché frustrati da ogni parte, pieni di rabbia e di disperazione, non sapendo con chi prendersela, scagliano contro Dio la loro lingua insolente per i loro mormorii e le loro blasfemie, e sembra, dice Salvien, che i loro crimini si moltiplichino con le loro suppliche, e che la pena stessa dei loro peccati sia la madre di nuovi disordini (Idem II, Serm. p. le Dim. des Ram.).

II. 17-28.

ff. 17. Sembra ora che Dio abbia gli occhi chiusi su tutto ciò che avvenga sulla terra; ma un giorno aperti saranno, questi occhi che sembravano chiusi, per vedere e punire il male e per liberare il giusto dalla cattiva volontà dei malvagi. Se il nostro Giudice differisce nel salvarci, non è per il fastidio delle nostre importunità, come il giudice del Vangelo (Luc. XVIII, 3), ma per amore; è con ragione e non per impotenza; non è per mancanza nel poterci soccorrere da subito, ma perché il numero dei nostri martiri possa completarsi fino alla fine. E noi cosa Gli domandiamo, nella violenza dei nostri desideri? « Signore, quand’è che aprirete gli occhi »? Il tempo dell’attesa è lungo per l’uomo che soffre, e Dio, che con una parola può far cessare la sofferenza, permette alla sua debole creatura un pianto umile, sottomesso e fiducioso: Signore, quando vedrete? (Rendu).

ff. 18. –  Solo nella grande assemblea della Chiesa Cattolica, si loda veramente Dio. – « Io vi loderò in mezzo ad un popolo importante, che non è leggero » (senso particolare per S. Agost.). In effetti, il nome di Dio è confessato dall’intera moltitudine, ma Dio non è lodato da tutti: la folla intera intende che noi confessiamo il nome di Dio, ma Dio non trova la sua lode nell’intera folla; perché in mezzo a tutta questa folla, cioè nella Chiesa sparsa su tutta la terra, c’è la paglia ed il frumento: la paglia vola via, il frumento resta. Ecco perché il Profeta dice. « io vi loderò in mezzo ad un popolo che non è leggero, e che non si solleva al vento della tentazione », perché la paglia è sempre causa di blasfemia riguardo a Dio. Quando si esamina la vostra paglia, cosa si può dire? Ecco dunque come vivono i Cristiani; ecco ciò che fanno i Cristiani, ed allora si compie ciò che è scritto: « … a causa vostra il mio nome è blasfemato in mezzo ai gentili » (Is. LII, 5; Rom. II, 24). Se voi esaminate l’aria del granaio con spirito di ingiustizia e di invidia, voi vi trovate in mezzo alla paglia, e vi sarà difficile incontrare il grano; ma cercate e troverete questo popolo che non è leggero e loderete con esso il Signore. Volete trovarlo? Rassomigliategli, perché se non gli somigliate, è difficile che non vi sembrino essere tutti quelli che voi stessi siete (S. Agost.). – Io voglio, o Signore, come il Profeta, confessare il vostro santo Nome, ma io voglio « confessarlo nella vostra Chiesa ». Io voglio rendere pubbliche le vostre grandezze, e celebrare le vostre lodi, ma io le voglio celebrare nella vostra Chiesa. È la santa montagna dalla quale dalla quale deve uscire la vostra legge, è il tempio augusto ove i popoli dovevano riunirsi da tutte le parti del mondo, per offrirVi il loro incenso ed indirizzare a Voi le loro voci; è il santuario ove volete ricevere il vostro culto, è la Cattedra ove Voi insegnate le vostre vie con la bocca dei vostri predicatori e dei vostri profeti (Bourd.: Pensèes, Act. de gr. d’une ame inviol. attach. à l’Eglise).

ff. 19-21. – Ipocrisia dei falsi amici: questi, con apparenze esteriori, vogliono sembrare ben altro di quel che sono. Questa persecuzione è dapprima esercitata contro Gesù Cristo nella sua vita mortale e nella sua passione, ed Egli la soffre ancor oggi da parte di un gran numero dei suoi membri. – Essi parlano talvolta di Gesù-Cristo in termini convenienti, quando si trovano con persone di pietà, fin quando le si credono dalla propria parte; essi riveriscono anche in apparenza le sue parole; ma quando si trovano con il mondo, parlano con il linguaggio odioso del mondo e si dichiarano apertamente contro i fedeli servitori di Gesù-Cristo. – È la triste e funesta soddisfazione dei malvagi, riportata sui buoni, che sono visti infine nello stato che essi avevano desiderato, cioè sotto i loro piedi.

ff. 22-24. – Tristi sono le ragioni che obbligano a dimorare nel silenzio: o perché non si vede la cosa di cui si tratta, o perché non vi si possa rimediare, o infine perché non lo si voglia. Nessuna di queste ragioni è per Dio (Dug.). – Che vuol dire: « Rompete il silenzio? Giudicateli ». È in effetti a proposito del giudizio che è detto in qualche luogo: « Per molto tempo, ho taciuto, ho fatto silenzio, mi sono contenuto »; (Is. XLII, 14). Come potrebbe mantenere il silenzio Colui che parla con i profeti, che parla con la propria bocca nei Vangeli, che parla per mezzo degli Evangelisti, che parla per mezzo di noi tutti ogni volta che proclamiamo la verità? Che ne è dunque? Egli tace in ciò che riguarda il giudizio, non per ciò che tocca i suoi Comandamenti e la sua dottrina. Ora è il giudizio che il Profeta invoca in qualche modo e che predice: « Voi l’avete visto, Signore, rompete il silenzio »; cioè, Voi interrompete il silenzio, perché è necessario che Voi giudichiate. « Signore, non vi allontanate da me ». Fino al giorno del giudizio non vi allontanate da me, così come mi avete promesso: « Io sarò con voi fino alla consumazione dei secoli » (S. Agost.). – « Dedicatevi al mio giudizio ». Forse perché siete nella tribolazione, perché oberati da lavoro e dolore? Ma pure tanti malvagi non soffrono gli stessi mali? Quale giudizio dunque? Voi siete giusto solo perché soffrite così? No! Di cosa si tratta infine? Del mio giudizio. Vediamo il seguito: « Applicatevi al mio giudizio, o mio Signore e mio Dio, per apprezzare la mia causa » (Ibid.). Giudicatemi non su ciò che io patisco, ma sul valore della mia causa; non su ciò che un ladro può avere in comune con me, ma sul fatto che « felici sono coloro che soffrono la persecuzione a causa della giustizia » (Matt. V, 10). Perché la differenza è nella causa; la pena può essere la stessa per i buoni e per i malvagi. Ma non è la pena che fa il martire, bensì la causa della loro pena: discerniamo la causa del supplizio. Che nessuno dica: poiché io soffro, allora son giusto; perché il Cristo, che ha sofferto per prima, ha sofferto a causa della giustizia; ecco perché aggiunge alla sua parola questa importante restrizione « Felici coloro che soffrono persecuzioni a causa della giustizia » (S. Agost.).

ff. 25, 26. – Gioia estrema è per i malvagi quando essi siano giunti al loro scopo di sopraffare l’uomo giusto, gioia che si manifesta nel loro contegno, nei loro discorsi, nei loro scritti. – Il successo dei peccatori è una grande insidia per essi, perché così prendono l’ardire di proseguire nelle loro criminali imprese. – Funesta è la preda che divora coloro che pensano di divorarla, o coloro che prendendo, si trovano presi, come un pesce che ingioiando l’amo coperto da un’esca, ingoia la sua morte (Duguet).

ff. 27, 28. le stesse cose ripetute più volte in questo salmo, ci danno ad intendere che non è stato solo Davide ad essere stato oltraggiato dai suoi nemici, ma che è la figura di un altro David che deve essere ugualmente oltraggiato, e dai Giudei, che erano il suo popolo, e dai Cristiani, dei quali un gran numero continuerà ad insultarLo per una via tutta opposta alla sua, fino alla fine del mondo. – « la mia lingua mediterà la vostra giustizia », espressione straordinaria, perché è proprio dello spirito il meditare, come è proprio della lingua il parlare. E la lingua non deve altro proferire se non le lodi del Signore, come frutto della meditazione del suo cuore (Duguet). – Chi potrebbe lodare il Signore tutto il giorno? E quale lingua potrebbe cantare tutto il giorno le lodi del Signore? Ecco un mezzo per lodare tutto il giorno, se volete. Qualunque cosa facciate, fatelo bene, ed avrete lodato Dio. Quando cantate un inno, voi lodate Dio; ma cosa fa la vostra lingua se il vostro cuore non lo loda ugualmente? Avete finito di cantare questo inno, e vi ritirate per il pasto? Guardatevi da ogni eccesso, e avrete lodato Dio. Voi rincasate per dormire? Non vi rialzate per fare il male, e avrete lodato Dio. State per concludere un affare? Guardatevi dal non commettere frode alcuna, ed avrete lodato Dio. Che l’innocenza delle vostre azioni sia dunque per voi una maniera per lodare Dio tutto il giorno (S. Agost.).