LA GRAZIA
(Note di Teologia Dogmatica) (5)
[Ludovico Ott: Compendio di Teologia Dogmatica; Marietti Torino-Herder Roma – imprim. Can. Oddone, Vis. Gen. 7/VI/1955]
§ 21. Il corteggio della grazia santificante.
Con la grazia santificante vanno uniti doni soprannaturali distinti ma ad essa intimamente connessi, designati dal Catechismo romano come il suo nobilissimo corteggio: « L’infusione della grazia è accompagnata dal nobilissimo corteggio (nobilissimus comitatus) di tutte le virtù, che entrano nell’anima battezzata » (II, 2, 50).
1. Le virtù teologali.
Con la grazia santificante vengono infuse le tre virtù divine o teologali della fede, della speranza e della carità. De fide.
Il Concilio di Trento insegna: « Nella giustificazione l’uomo, per mezzo di Gesù Cristo, cui viene inserito, riceve con la remissione dei peccati l’infusione della fede, della speranza e della carità » (D. 800). Queste virtù sono conferite all’anima come abiti, non come atti: l’espressione «infondere» (infundere) designa appunto la comunicazione di un abito. Per quanto riguarda la carità il Concilio dichiara espressamente che essa è diffusa nel cuore degli uomini e inerisce in loro, cioè rimane come stato (D. 821: quæ [se. caritas] in cordibus eorum per Spiritum Sanctum diffundatur atque illis inhaereat).
La dichiarazione del Concilio si fonda soprattutto su Rom. V, 5: « L’amore di Dio è largamente diffuso nei nostri cuori, per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato ». Cfr. 1 Cor. XIII, 8: « La carità non viene mai meno ». Come la carità, così anche la fede e la speranza sono alcunché di permanente nel giusto. 1 Cor. XIII, 13: « Queste tre cose adunque rimangono: la fede, la speranza, la carità ». – S. GIOVANNI CRISOSTOMO, riferendosi agli effetti del Battesimo dice: « Tu hai la fede, la speranza, la carità che rimangono. Cercale; sono più grandi che i miracoli. Nulla è eguale all’amore » (In Actus Apostol. hom. 40, 2). Se anche la carità infusa non è oggettivamente identica con la grazia santificante, come insegnano gli scotisti, tuttavia l’una è indissolubilmente congiunta con l’altra. L’abito della carità viene infuso contemporaneamente con la grazia e si perde con quella. Cfr. D. 1031. – Gli abiti della fede e della speranza sono invece separabili dalla grazia. Si perdono, non come la grazia e la carità per mezzo di peccati gravi, ma soltanto per mezzo dei peccati diretti contro la loro natura, la fede con l’incredulità, la speranza con l’incredulità e la disperazione. Cfr. D. 808, 838. Per il fatto che le virtù teologali si possono separare dalla grazia e dalla carità, parecchi teologi (per es. Suarez) ammettono che esse, quando vi fosse una disposizione sufficiente, vengano infuse già prima della giustificazione come virtù informi (virtutes informes). Questa opinione non contraddice la dottrina del Concilio di Trento (D. 800: simul infusa), che intese parlare soltanto della fede e della speranza « formate », cioè operanti per mezzo della carità.
2. Le virtù morali.
Con la grazia santificante vengono infuse anche le virtù morali. Sent. communis.
Il Concilio di Vienne (1311-12) parla in generale, senza limitarsi alle virtù teologali, dell’infusione, a modo di abiti, delle virtù e della grazia santificante: virtutes ac informans gratia infunduntur quoad habitum (D. 483). – Il Catechismo romano (II, 2, 50) parla del « nobilissimo corteggio di tutte le virtù ».L’infusione delle virtù morali non si può provare con certezza mediante la Scrittura; tuttavia si può intravedere in Sap. VIII, 7 (le quattro virtù cardinali sono una dote della sapienza divina), in Ez. II, 19-20 (seguire i precetti del Signore è un effetto del cuore « nuovo ») specialmente in 2 Piet. 1, 4-7,dove con la partecipazione della natura divina vien nominata tutta una serie di altri doni (fede, probità, continenza,pazienza, pietà, amor fraterno, amore di Dio). – S. AGOSTINO dice delle quattro virtù cardinali a cui si possono ricondurre tutte le virtù morali: « Queste virtù ci vengono date adesso nella valle del pianto, per grazia di Dio » (Enarr. in Ps. LXXXIII, 11). Cfr. AGOSTINO, In ep. I Joan., tr. 8, 1. Cfr. 5. S. th. I – II, 63, 3.
3. I doni dello Spirito Santo.
Con la grazia santificante vengono infusi anche i doni dello Spirito Santo. Sent. communis.
Il fondamento biblico si trova in Is. XI, 2-3, ove sono descritte le doti spirituali del futuro Messia: « E si poserà su lui (il Messia) lo Spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di timore di Dio, e nel timore del Signore è la sua ispirazione » (Settanta e Volgata: « … spirito di scienza e di pietà, e lo riempirà lo spirito del timor di Dio »). Il testo ebraico enumera, oltre lo Spirito del Signore, sei doni; i Settanta e la Volgata ne contano sette perché traducono distinguendo il concetto di « timor di Dio » del versetto 2 da quello del versetto 3. Il numero settenario che risale ai Settanta non è essenziale. La liturgia, i Padri (per es. AMBROGIO, De Sacramentis I I , 2, 8; De mysteriis 7, 42) ed i teologi hanno dedotto da questo passo che gli stessi doni vengono partecipati a tutti i giustificati, poiché essi sono conformati a Cristo (Rom. VIII, 29). Cfr. il rito della Cresima e gli inni liturgici Veni Sancte Spiritus e Veni Creator Spiritus, e l’enciclica sullo Spirito Santo Divinum illud di LEONE XIII (1897).
– Secondo la dottrina di S. TOMMASO, oggi comunemente seguita, i doni sono abiti permanenti e soprannaturali dell’anima, realmente distinti dalle virtù infuse, per i quali l’uomo è reso docile e pronto a seguire gli impulsi dello Spirito Santo: dona sunt quidem habitus perficientes hominem ad hoc, quod prompte sequatur instinctum Spiritus Sancti (S. th. I – II, 86, 4). Essi perfezionano parte le potenze intellettive (sapienza, intelletto, consiglio, scienza) e parte quelle volitive (fortezza, pietà, timor di Dio). Si distinguono dalle virtù infuse in quanto il principio motore delle virtù sono le potenze dell’anima perfezionate soprannaturalmente, mentre quello dei doni è immediatamente lo Spirito Santo: le virtù danno la capacità di compiere le azioni ordinarie della vita virtuosa cristiana, i doni di compiere atti straordinari ed eroici. Si distinguono anche dai carismi in quanto sono concessi per la salvezza di chi li riceve e sono sempre infusi nella giustificazione. Cfr. S. th.I – II, 68, 1-8.
§ 22. Le proprietà dello stato di grazia.
1. Incertezza.
Senza una particolare rivelazione divina nessuno può sapere con certezza di fede se egli si trovi in stato di grazia. De fide.
Contro la dottrina protestante secondo cui il giustificato possiede un’assoluta certezza di fede circa la propria giustificazione, il Concilio di Trento dichiara: « Chiunque, guardando la propria debolezza e indisposizione può temere e tremare della sua grazia, dacché nessuno può sapere con certezza di fede, che esclude la possibilità dell’errore, se abbia conseguito la grazia di Dio » (D. 802). – La Scrittura attesta l’incertezza dello stato di giustificazione. 1 Cor. IV, 4: « Non ho coscienza, no, di verun mancamento, ma non per questo mi sento giustificato » Fil. II, 12: « Operate la vostra salvezza con timore e tremore ». Cfr. 1 Cor. IX, 27.
La ragione di tale incertezza sta nel fatto che nessuno senza una particolare rivelazione può conoscere con certezza di fede se ha adempiuto a tutte le condizioni che sono necessarie per raggiungere la giustificazione. L’impossibilità della certezza di fede non esclude però una grande certezza morale che si appoggia sulla testimonianza della coscienza, e appunto per questo il Cattolicesimo non è una religione d’incertezza e di angoscia.
2. Ineguaglianza.
Il grado di grazia non è uguale per tutti i giustificati. De fide. La grazia ricevuta può essere aumentata mediante le opere buone. De fide.
I protestanti, sostenendo che la giustificazione positivamente considerata non è altro che l’estrinseca imputazione della giustizia di Cristo, dovevano concludere che essa è eguale per tutti i giustificati. Contro di essi il Concilio di Trento dichiarò che il grado della grazia santificante ricevuta varia nei singoli giusti a seconda della misura della libera distribuzione di Dio e secondo la propria disposizione e cooperazione di ciascuno (D. 799). Quanto poi all’aumento della grazia il Concilio dichiarò contro gli stessi protestanti, i quali consideravano le opere buone solo come frutti della giustificazione raggiunta, che le medesime buone opere sono anche cause o mezzi per aumentarla: Si quis dixerit, iustitiam acceptam non conservari atque etiam non augeri coram Deo per bona opera… A.S. (D. 834).Cfr. 803, 842. È poi evidente che l’ineguaglianza delle buone opere condiziona nei singoli giusti un ineguale accrescimento dello stato di grazia. – Secondo la dottrina della Scrittura, la misura della grazia data a ciascuno non è eguale. Ef. IV, 7: « A ciascuno di noi è stata concessa la grazia secondo la misura del dono di Cristo». 1 Cor. XII, 11: « Egli (lo Spirito) distribuisce a ciascuno i suoi doni, come a lui piace ». – La Scrittura attesta anche l’accrescimento della grazia. – 2 Piet. 3, 18: « Crescete nella grazia! ». Ap. 22, 11: « Chi è giusto diventi ancor più giusto, e chi è santo, si santifichi di più ».
S. GEROLAMO combatte l’errore di Gioviniano, il quale, per l’influsso della dottrina stoica dell’eguaglianza di tutte le virtù, attribuiva a tutti i giusti un identico grado di giustizia e a tutti i beati un identico grado di gloria (Adv. Iovin. 11, 23). – S. AGOSTINO insegna: « I santi sono rivestiti di giustizia, l’uno più e l’altro meno » (Ep. 167, 3, 13). L’intrinseca ragione della possibilità di diversi gradi di grazia sta nel fatto che questa è una qualità fisica: come tale è suscettibile di un più e di un meno. La ragione estrinseca è la volontà di Dio che dispone tale varietà per la bellezza della Chiesa: « (Deus) diversimode suæ gratiæ dona dispensat ad hoc quod ex diversis gradibus pulchritudo et perfectio Ecclesiæ consurgat » (S. th. I – II, 112, 4). L’aumento della grazia comporta pure un aumento delle virtù teologali; la cosa è certa almeno per la carità. Tale aumento poi va concepito come un aumento di intensità e non di estensione.
3. Amissibilità.
a) Perdita della grazia.
La grazia santificante si può perdere e si perde con ogni peccato grave. De fide.
Contro la dottrina di Calvino della assoluta inamissibilità della grazia e contro quella di Lutero per cui la giustizia si perderebbe soltanto con il peccato di incredulità, cioè cessando la fede fiduciale, il Concilio di Trento dichiarò che lo stato di grazia si perde non solo per l’incredulità, bensì anche per ogni altro peccato grave (D. 808). Cfr. 833, 837. Il peccato veniale non distrugge né diminuisce lo stato di grazia (D. 804). La Scrittura insegna l’amissibilità della grazia a parole e con esempi (gli angeli decaduti, i progenitori, Giuda, Pietro). Cfr. Ez. XVIII, 24; XXXIII, 12; Mt. XXVI, 41: « Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione ». 1 Cor. X, 12: « Chi crede di stare in piedi, badi bene di non cadere ». Paolo in 1 Cor. VI, 9-10 enumera insieme alla incredulità numerosi altri peccati che escludono dal regno di Dio e causano la perdita della grazia santificante. – S. GEROLAMO difese l’amissibilità della grazia contro Gioviniano (Ad. Jov. II, 1-4) che cercava di dimostrare il contrario con il passo di Gv. III, 9. – S. GIOVANNI GRISOSTOMO, commentando 1 Cor. X, 12, scrive: « Finché non siamo liberati dai flutti della vita presente e non siamo giunti al porto della salvezza, nessuno sta in piedi che non possa cadere. Non inorgoglirti, non confidare in te stesso, ma sta’ ben attento e vigilante per non cadere. Se temette Paolo, fra tutti fortissimo, molto più noi dobbiamo temere ». D’altronde tutta la prassi penitenziale della Chiesa presuppone la convinzione che lo stato di grazia si perde con ogni peccato mortale. La ragione intrinseca di tale verità si fonda, da un lato nella libertà umana, che importa la possibilità di peccare, e, dall’altro, nell’essenza del peccato mortale, che essendo distacco da Dio e attacco alla creatura, è proprio l’opposto della grazia santificante, che è soprannaturale comunione di vita con Dio.
b) Perdita delle virtù infuse e dei doni dello Spirito Santo.
Con la grazia santificante si perde sempre anche la virtù teologale della carità. La carità ed il peccato mortale si escludono a vicenda. La dottrina contraria di Baio fu condannata (D. 1031-1032).
La virtù teologale della fede, come definì espressamente il Concilio di Trento, non si perde sempre insieme con lo stato di grazia; quella che rimane è vera fede, anche se non è fede viva (D. 838). Si perde invece con il peccato di incredulità che va direttamente contro la sua natura.
La virtù teologale della speranza può esistere senza la carità (cfr. D. 1407), ma non senza la fede. La si perde mediante il peccato di disperazione che va direttamente contro la sua natura, e mediante il peccato di incredulità.
Le virtù morali infuse ed i doni dello Spirito Santo si perdono, secondo la dottrina comune dei teologi, insieme con la grazia e la carità.
CAPITOLO TERZO
Il frutto della giustificazione o il merito.
§ 23. La realtà del merito.
1 . Eresie.
I protestanti negarono la realtà del merito soprannaturale. Mentre LUTERO da principio insegnò che tutte le opere del giusto sono in sé cattive, a motivo del peccato che rimane in lui (cfr. D. 771: In omni opere bono iustus peccat), più tardi ammise che il giusto con l’aiuto dello Spirito Santo può e deve compiere opere buone (cfr. Conf. Aug. art. 20: docent nostri, quod necesse sit bona opera facere), negando però che avessero valore di merito. Secondo CALVINO (Inst. III, 12, 4) tutte le opere dell’uomo davanti a Dio sono « sporcizia! e sudiciume »: inquinamenta et sordes. Nella Dottrina Cattolica del merito il protestantesimo scorge a torto una derogazione alla grazia e ai meriti di Cristo (cfr. D. 843), un incoraggiamento ad una santità di opere esteriori, ad una ricerca interessata del premio e a una giustizia farisaica.
2. Dottrina della Chiesa.
Mediante le buone opere il giusto si guadagna veramente un titolo alla ricompensa soprannaturale da parte di Dio. De fide.
Il II Concilio di Orange dichiarò con Prospero di Aquitania e con Agostino: « Benché nessun merito da parte nostra preceda la grazia, una ricompensa è dovuta alle buone opere, se son fatte; ma la grazia, che non ci è dovuta, le precede affinché sian fatte » (D. 191). Il Concilio di Trento insegna che la vita eterna è per i giustificati e una grazia promessa da Cristo e la ricompensa per i loro meriti e opere buone (D. 809). Dato che la grazia di Dio è il presupposto ed il fondamento delle opere buone (soprannaturali) con cui si guadagna la vita eterna, esse sono nello stesso tempo un dono di Dio e un merito dell’uomo: cuius (sc. Dei) tanta est erga omnes homines bonitas, ut eorum velit esse merita, quæ sunt ipsius dona (D. 810; cfr. 141). Il Concilio pone l’accento sul fatto che si tratta di un « vero merito » (vere mereri; D. 842), cioè di un merito de condigno. Cfr. D . 835.
3. Fondamento nelle fonti della fede.
Secondo la Scrittura la beatitudine eterna nel cielo è la ricompensa (merces, remuneratio, retributio, bravium) per le opere buone compiute durante la vita terrena. Ora ricompensa e merito sono concetti correlativi. Gesù promette a coloro che saranno oltraggiati e perseguitati per causa sua, grande ricompensa in cielo: « Gioite ed esultate, perché grande sarà la vostra ricompensa nei cieli » (Mt. V, 12). Il Giudice universale emette la sua sentenza sui giusti in base alle opere buone: «Venite, o benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno, che vi è preparato sin dalla creazione del mondo; perché ebbi fame e mi deste da mangiare » (Mt. XXV, 34-35). Il motivo della ricompensa ritorna frequentemente nei discorsi di Gesù. Cfr. Mt. XIX, 29; XXV, 21; Lc.. VI, 38. Paolo, che accentua assai la grazia, pone pure in risalto la meritorietà delle opere buone compiute con la grazia, insegnando che la ricompensa è regolata secondo le opere: « Egli renderà a ciascuno secondo le sue opere » (Rom. II, 6). « Ciascuno riceverà la propria mercede a proporzione del suo lavoro » (1 Cor. III, 8). Cfr. Col. III, 24; Ebr. X, 35; XI, 6. Definendo la ricompensa eterna come « la corona di giustizia, che il giusto giudice darà in premio » (2 Tim. IV, 8), egli mostra che le opere buone del giusto fondano presso Dio un vero diritto alla ricompensa (meritum de condigno). Cfr. Ebr. VI, 10. – La Tradizione, sin dai Padri apostolici, testimonia la meritorietà delle opere buone. S. IGNAZIO DI ANTIOCHIA scrive a Policarpo: « Dov’è maggiore la fatica, è più grande il guadagno » (1, 3). « Cercate di piacere a Colui per il quale militate e dal quale ricevete lo stipendio… I vostri depositi siano le vostre opere, affinché possiate avere (un giorno) rimborsi considerevoli » (6, 2). Cfr. GIUSTINO, Apol. I, 43. TERTULLIANO ha introdotto il concetto di merito, senza tuttavia alterare per nulla la dottrina tradizionale. S. AGOSTINO, nella lotta contro il pelagianesimo, ha accentuato con più forza che non i Padri anteriori la parte della grazia nel compimento delle buone opere, ma ha pure anche sempre insegnato la meritorietà di queste. Ep. 194, 5, 19: « Come potrà dunque l’uomo meritare la grazia, dato che ogni merito è in noi opera della grazia e che quando Dio corona i nostri meriti, non corona che i suoi doni? ». La ragione non può di per sé provare la realtà del merito soprannaturale, dato che questo si fonda sulla libera promessa divina della ricompensa. Tuttavia, appellandosi ai principii universali della coscienza umana, è in grado di mostrare la convenienza di una ricompensa soprannaturale per azioni buone soprannaturali e liberamente compiute. S. th. I – II, 114, 1.
§ 24. Le condizioni del merito.
1. Da parte dell’opera.
L’opera meritoria deve essere:
a) moralmente buona, cioè conforme, per l’oggetto, l’intenzione, le circostanze, alla legge morale. Cfr. Ef. VI, 8: « Voi sapete che ciascuno, schiavo o libero che sia, sarà rimeritato dal Signore, di quanto avrà fatto di bene ». Dio, l’assolutamente Santo, non può ricompensare che il bene.
b) libera tanto da costrizione esterna quanto da necessità interna. Innocenzo X condannò come eretica la dottrina giansenistica, secondo cui, nello stato di natura decaduta, basta per meritare e demeritare la libertà da coazione esterna (D. 1094). Cfr. Eccli. XXXI, 10; Mt. XIX, 17: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti ». Mt. XIX, 21; 1 Cor. IX, 17.
S. GEROLAMO dice: « Dove vi è necessità non vi è ricompensa (ubi necessitas est, nec corona est; Adv. Iov. II, 3). Secondo la testimonianza della coscienza umana soltanto un’azione libera merita ricompensa o punizione.
c) soprannaturale, cioè fatta sotto l’azione della grazia attuale e per un motivo soprannaturale. Anche il giustificato ha bisogno della grazia attuale per compiere atti salutari (§ 8, 3). È richiesto un motivo soprannaturale, poiché colui che agisce è dotato di ragione e di libertà e deve quindi orientare coscientemente la sua azione a tal fine. Gesù promette ricompensa per le opere che vengono compiute per Lui. Mc. IX, 40: « Chiunque vi darà un bicchier d’acqua appunto perché siete di Cristo, in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa ». Cfr. Mt. X, 42; XIX, 29; Lc. IX, 48. Paolo ammonisce di compiere tutto in nome del Signore Gesù Cristo o per la gloria di Dio. Col. III, 17: « Qualunque cosa facciate o con parole o con opere tutto fate nel nome del Signore Gesù! ».
1 Cor. X, 31: « Sia che mangiate dunque, sia che beviate, sia che facciate altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio! ». – Il motivo più perfetto è il perfetto amor di Dio. Secondo i passi della Scrittura or ora citati, possono però bastare anche motivi meno perfetti, per es. l’ubbidienza al precetto divino, la speranza della beatitudine eterna (cosi Suarez, De Lugo contro l’opinione della maggioranza dei tomisti).
2. Da parte dell’uomo.
Chi merita dev’essere:
a) nello stato di via (in statu viæ) dato che, secondo la disposizione positiva di Dio, la possibilità del merito è ristretta al tempo della vita terrena. Cfr. Gv. IX, 4: « Viene la notte, quando più non si può operare ». Gal. VI, 10: « Mentre ne abbiamo il tempo facciamo del bene a tutti ». La ricompensa è commisurata a quello che è stato fatto « mediante il corpo », cioè nella vita terrena (2 Cor. II, 10). Cfr. Mt. XXV, 34; Lc. XVI, 26. I Padri negano, contro Origene, che nell’altra vita vi sia la possibilità di convertirsi e di procacciarsi dei meriti. – FULGENZIO dice: « Dio ha dato all’uomo la possibilità di guadagnare la vita eterna soltanto in questa vita » (De fide ad Petrum III, 36).
b) nello stato di grazia (in statu gratiæ), se si prende il merito in senso proprio (meritum de condigno). Le decisioni dottrinali del Concilio di Trento sul merito si riferiscono espressamente ai giustificati (D. 836, 842). La dottrina contraria di Baio fu condannata (D. 1013 ss.). Gesù esige la continua unione con Lui quale condizione indispensabile per produrre frutti soprannaturali: « Siccome il tralcio da sé non può portare frutto, se non rimane congiunto con la vite, così nemmeno voi, se non rimanete in me » (Gv. 15, 4). PAOLO richiede per l’azione meritoria la carità inseparabilmente congiunta con lo stato di grazia (1 Cor. XVI, 2-3). S. AGOSTINO insegna che soltanto « il giustificato dalla fede può vivere giustamente ed agire bene », e procacciarsi così la vita eterna (Ad Simplicianum I , 2, 21). La necessità dello stato di grazia è fondata sul fatto che tra l’opera meritoria e la sua ricompensa vi è reale equivalenza, solo quando chi merita è elevato, con la grazia abituale, allo stato di amicizia e figliolanza divina.
3. Da parte di Dio.
Il merito dipende dalla libera disposizione di Dio di ricompensare con la beatitudine eterna le opere buone compiute con l’aiuto della sua grazia. Per l’infinita distanza tra il Creatore e la creatura, l’uomo di per sé non può fare che Dio gli sia debitore, se Dio stesso con la sua libera disposizione non lo stabilisca. E che Dio abbia così disposto, risulta dalla promessa della ricompensa eterna. Cfr. Mt. V, 34 ss. (le otto beatitudini); XIX, 29 (ricompensa del centuplo); XXV, 34 ss. (sentenza del Giudice universale). Paolo parla della « speranza nella vita eterna, la quale Dio, che non mentisce, promise dall’eternità » (Tit. 1, 2). Cfr. 1 Tim. IV, 8; Giac. 1, 12. — S. AGOSTINO dice: « Il Signore si è fatto da sé debitore, non ricevendo, ma promettendo. Non gli si può dire: ritornaci ciò che hai ricevuto, ma soltanto: dacci quello che hai promesso» (Enarr. in Ps. LXXXIII, 16). S. th. I – II, 114, 1 ad 3. Secondo l’opinione dei nominalisti e degli scotisti la ragione della meritorietà delle opere buone sta esclusivamente nella libera accettazione di Dio, di modo che Egli potrebbe accettare come meriti anche le opere buone naturali e ricompensarle con la vita eterna. Secondo la concezione, meglio fondata, dei tomisti, la ragione della meritorietà sta nel valore intrinseco delle opere buone compiute nello stato di grazia; poiché tale stato produce un’intrinseca proporzione tra le azioni buone e la ricompensa eterna, come è nel concetto del merito de condigno.
NOTA. Le condizioni per il merito de congruo (merito di convenienza) sono le stesse che per il merito de condigno (merito di giustizia), fatta eccezione dello stato di grazia e della promessa divina.
§ 25. L’oggetto del merito.
1. Oggetto del merito de condigno.
Il giustificato si merita con le sue opere buone l’aumento della grazia santificante, la vita eterna e l’aumento della gloria celeste. De fide.
Il Concilio di Trento dichiarò: Si quis dixerit, iustificatum bonis operibus… non vere mereri augmentum gratiæ, vitam aeternam et ipsius vitæ aeternæ (si tamen in gratia decesserit) consecutionem, atque etiam gloriæ augmentum, A.S. (D. 842). Secondo questa definizione si devono distinguere tre oggetti del merito vero e proprio:
a) l’aumento della grazia santificante. Dato che la grazia è il preludio della gloria, e che la gloria si misura dalle buone opere, anche il grado della grazia deve aumentare con le opere buone. Come la gloria è oggetto del merito, così lo è anche l’aumento della grazia. Cfr. D. 803, 834. – Secondo S. Tommaso la grazia santificante non aumenta sempre appena compiuta un’opera buona, ma solo quando l’anima sia sufficientemente disposta. S. th. I – II, 114, 8 ad 3.
b) la vita eterna, più precisamente il diritto alla vita eterna e, se nell’istante della morte si è nello stato di grazia, il reale conseguimento di essa. Secondo la dottrina della Scrittura la vita eterna è la ricompensa delle opere buone compiute quaggiù. Cfr. Mt. XIX, 29; XXV, 46; Rom. II, 6-7; Giac. 1, 12. La perdita della grazia santificante a causa del peccato mortale importa la perdita di tutti i meriti anteriori. Le opere buone vengono in un certo senso uccise (opera mortificata). Esse tuttavia rinascono, secondo la dottrina generale dei teologi, quando si riacquista la grazia (opera vivificata).
c) l’aumento della gloria celeste. Dato che, secondo la dichiarazione del Concilio generale di Firenze, il grado della gloria varia nei beati a seconda dei loro meriti (prò meritorum diversitate; D. 693), è evidente che l’aumento dei meriti comporta un aumento della gloria. Paolo attesta: « Chi semina scarsamente, scarsamente mieterà, e chi semina abbondantemente, raccoglierà con abbondanza » (2 Cor. IX, 6). Cfr. Mt. XVI, 27; Rom. II, 6; 1 Cor. III, 8; Ap. XXII, 12.
– Osserva TERTULLIANO: « Perché ci sono presso il Padre molte dimore (Gv. XIV, 2), se non per la varietà dei meriti? » (Scorp. 6). L’errore di Gioviniano, che sosteneva l’eguaglianza della gloria celeste per tutti i beati, fu respinto da Gerolamo (Adv. Iov. II, 32-34).
2 . Oggetto del merito de congruo.
Non ci sono al riguardo decisioni del magistero della Chiesa. Dato poi che il concetto di merito de congruo non ha uno stesso significato in quanto per il motivo che lo fonda può essere più o meno ampio, le opinioni dei teologi non sono concordi.
a) Ciò che può meritare il peccatore.
Chi è in peccato mortale può meritare (de congruo), con la libera cooperazione della grazia attuale, ulteriori grazie attuali per prepararsi alla giustificazione e, in ultimo, la stessa grazia giustificante. Sent. probabilis.
Cfr. Sal. L, 19: « Un cuore contrito ed umiliato, o Signore, tu non lo disprezzerai ». AGOSTINO dice del pubblicano ( Lc. XVIII, 9-14) che « per merito della sua umiltà (merito fidelis humilitatis) se ne andò giustificato » (Ep. 194, 3, 9).
b) Ciò che può meritare il giusto.
1) Il giusto può meritare (de congruo fallibili) la grazia della perseveranza finale, in quanto è conveniente che Dio conceda a colui che coopera fedelmente con la sua grazia, la grazia attuale richiesta per durare nello stato di grazia. Sent. probabilis.
Il titolo del giusto alla grazia di perseveranza, fondato sulle buone opere è molto debole, e quindi l’effetto è incerto. Più sicuro è l’effetto dell’umile e costante preghiera. Mt. VII, 7: « Chiedete e vi sarà dato ». Gv. XVI, 23: « Quanto domanderete al Padre, ve lo darà in nome mio ». Cfr. AGOSTINO, De dono persev. 6, 10.
2) Il giusto può meritarsi (de congruo fallibili) di riavere la grazia santificante dopo un eventuale peccato, in quanto è conveniente che Dio per sua misericordia ridoni lo stato di grazia a colui che, quando era in tale stato, ha compiuto molte opere buone. Sent. probabilis.
Quando S. Tommaso insegna (S. th. I – II, 114, 7) che non si può meritare né de condigno né de congruo la conversione dopo la caduta in peccato, egli intende il merito de congruo in senso molto stretto. Commentando la Lettera agli Ebrei (cap. VI, lect. 3) egli ne allarga il senso e afferma la possibilità di un siffatto merito.
3) Per gli altri il giusto può meritare (de congruo) quello che può meritare per sé stesso, e in più la prima grazia attuale. Sent. probabilis.
La possibilità di meritare per gli altri ha il suo fondamento nella amicizia divina del giusto e nella comunione dei Santi. Occorre notare che per gli altri è più efficace la preghiera del merito. Giac. V, 16: « Pregate gli uni per gli altri per essere salvi. Molto vale la preghiera assidua del giusto ». Cfr. 1 Tim. II, 1-4.
4) I beni temporali sono oggetto di merito soprannaturale solo in quanto costituiscono un mezzo per conseguire la salute eterna. Sent. probabilis. Cfr. 5. S. th. I – II, 114, 10.
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