DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE (2019)
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps LXXXV: 1; 2-3
Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die. [Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]
Ps LXXXV: 4
Lætífica ánimam servi tui: quia ad te, Dómine, ánimam meam levávi. [Allieta l’ànima del tuo servo: poiché a Te, o Signore, levo l’anima mia.]
Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die. [Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]
Oratio
Orémus.
Ecclésiam tuam, Dómine, miserátio continuáta mundet et múniat: et quia sine
te non potest salva consístere; tuo semper múnere gubernétur. [O
Signore, la tua continua misericordia purífichi e fortífichi la tua Chiesa: e
poiché non può essere salva senza di Te, sia sempre governata dalla tua
grazia.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti s. Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V: 25-26; 6: 1-10
Fratres: Si spíritu vívimus, spíritu et ambulémus. Non efficiámur inanis glóriæ cúpidi, ínvicem provocántes, ínvicem invidéntes. Fratres, et si præoccupátus fúerit homo in áliquo delícto, vos, qui spirituáles estis, hujúsmodi instrúite in spíritu lenitátis, consíderans teípsum, ne et tu tentéris. Alter alteríus ónera portáte, et sic adimplébitis legem Christi. Nam si quis exístimat se áliquid esse, cum nihil sit, ipse se sedúcit. Opus autem suum probet unusquísque, et sic in semetípso tantum glóriam habébit, et non in áltero. Unusquísque enim onus suum portábit. Commúnicet autem is, qui catechizátur verbo, ei, qui se catechízat, in ómnibus bonis. Nolíte erráre: Deus non irridétur. Quæ enim semináverit homo, hæc et metet. Quóniam qui séminat in carne sua, de carne et metet corruptiónem: qui autem séminat in spíritu, de spíritu metet vitam ætérnam. Bonum autem faciéntes, non deficiámus: témpore enim suo metémus, non deficiéntes. Ergo, dum tempus habémus, operémur bonum ad omnes, maxime autem ad domésticos fídei.
Omelia I
[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]
CONOSCI TE STESSO
Fratelli: Se viviamo di spirito, camminiamo secondo lo spirito. Non siamo avidi di vanagloria, provocandoci a vicenda, a vicenda inviandoci. Fratelli, quand’anche uno venisse sorpreso in qualche fallo, voi che siete spirituali ammaestratelo con lo spirito di dolcezza, e bada a te stesso che tu pure non cada nella tentazione. Gli uni portate i pesi degli altri, e così adempirete la legge di Cristo. Poiché, se alcuno crede di essere qualche cosa, e invece non è nulla, costui inganna sé stesso. Piuttosto ciascuno esamini le proprie opere, e allora avrà motivo di gloriarsi soltanto in se stesso, e non nel confronto con gli altri. Perché ciascuno porterà il proprio fardello. Chi poi viene istruito nella parola faccia parte di tutti i beni a chi lo istruisce. Non vogliate ingannarvi: Dio non si lascia schernire. Ciascuno mieterà quello che avrà seminato. Così, chi semina nella sua carne, dalla carne mieterà corruzione: chi, semina nello spirito, dallo spirito mieterà la vita eterna. Non stanchiamoci dunque dal fare il bene; poiché se non ci stanchiamo, a suo tempo mieteremo. Perciò mentre abbiamo tempo facciamo del bene a tutti, e in modo speciale a quelli che, per la fede, sono della nostra famiglia. (Gal. 5, 25-26: 6, 1-10).
L’Epistola di quest’oggi è la continuazione di quella della domenica scorsa, nella quale si inculcava di vivere secondo lo spirito. Per vivere secondo lo spirito, prosegue l’Apostolo, bisogna fuggire la vanagloria e l’invidia. Si deve correggere chi sbaglia con spirito di dolcezza; tutti hanno a sopportarsi vicendevolmente. Persuasi del proprio nulla, devono esaminar spassionatamente le proprie azioni. Siamo, inoltre, generosi con chi ci istruisce nella fede. E conclude esortando di non stancarci di fare il bene, essendo la nostra vita il tempo della semina. Se in questa vita non ci stancheremo a seminare nello spirito, a suo tempo, mieteremo la vita eterna. – Accogliamo l’invito di S. Paolo, a esaminare le nostre opere. Questo esame:
1 È necessario, data la nostre debolezza.
2 Dev’essere spassionato.
3 Deve prendere a guida il Vangelo.
1.
Non siamo avidi di vana gloria. Se l’uomo conoscesse bene se stesso, si convincerebbe che non ha troppi motivi di vanagloriarsi. La dignità dell’uomo è certamente grande. Dio lo ha costituito re del creato. Noi ammiriamo certi appartamenti dei palazzi reali. Tappeti, arazzi, quadri, affreschi, intarsi, fermano l’attenzione del visitatore, che non sa staccarsi da quelle sale. Queste sono le abitazioni che gli uomini hanno preparato per i re di questo mondo. Senza confronto più splendida è l’abitazione che Dio ha preparato per l’uomo. Salomone, nello splendore e nel lusso superò tutti i re d’Israele. Pure Gesù dichiara che un giglio del campo, cresciuto senza alcuna cura di giardiniere, veste più splendidamente di Salomone. E quel che si dice del giglio, si dica di tutta la creazione, che Dio ha apparecchiata per dimora dell’uomo. Nessun tappeto può gareggiare con la magnifica armonia di verde e di fiori, che ornano le nostre pianure, con lo strato di candida neve che copre le vette dei monti. Nessun pennello potrà uguagliare, riproducendole, certe scene della natura. Dev’esser pur grande l’uomo, se Dio ha preparato per lui una tale abitazione. Molto più grande ancora ci appare, se consideriamo la sua creazione. Dio, creandolo, disse: «Facciamo l’uomo a immagine e somiglianza nostra, e abbia potere sui pesci del mare e su gli uccelli del cielo, e su tutti gli animali e su tutta la terra» (Gen. I, 26). L’uomo, creato a somiglianza di Dio, è da Lui costituito re della creazione. Quale grandezza e quale dignità! Si comprende come Davide, rivolto a Dio, esclamasse: «Chi è mai l’uomo? Tu l’hai fatto di poco inferiore agli Angeli, l’hai coronato di gloria e di onore; gli hai dato il dominio su le opere delle tue mani, e ogni cosa hai posto sotto i suoi piedi» (Ps. VIII, 5-7). – Ma lo stesso Davide domanda ancora: « O Signore, che cosa è l’uomo, a cui hai voluto farti conoscere, o il Figlio dell’uomo che tu ne fai conto? L’uomo è simile al nulla, i giorni di lui passano come ombra» (Ps. CXLIII, 3-4). È questo dal lato fisico. Dal lato morale egli è costretto ogni giorno a confessare: «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole » (Matth. XXVI, 41). Se l’uomo dovesse pensare alla instabilità della sua vita e alle miserie che l’accompagnano, invece di coltivare la vanagloria per la sua dignità, dovrebbe esaminare, se a questa dignità non venga meno con la sua condotta. Nessuno vorrà certamente confondere la dignità con la virtù. La dignità dell’uomo, creato a somiglianza di Dio, non gli impedisce di scendere al livello degli animali irragionevoli. E siccome le azioni che non corrispondono alla sua dignità saranno un giorno giudicate da Dio, la più elementare prudenza suggerisce di prevenir questo giudizio, col metterci noi a giudicar noi stessi; e così vedere, dove c’è da continuare, dove c’è da riformare. È un giudizio che non bisogna, naturalmente, ripetere sempre, perché la chiamata al giudizio di Dio può venire da un momento all’altro.
2.
Se alcuno crede di essere qualche cosa, mentre non è nulla, costui illude se stesso. E noi siamo veramente nulla. Anche se presentemente uno non è peccatore, non deve credersi qualche cosa. « Avessi anche esercitato la virtù dai primi anni, avrai anche commessi molti peccati. Che se credi di non averne, pensa che questo non avvenne per tua virtù, ma per la grazia di Dio » (S. Giov. Cris. In Ep. Ad Tit. Hom. V, 3). Ma è poi proprio vero che sei senza peccati? È tanto facile illudersi! « Se vi fu peccato in cielo, quanto più in terra? Se vi fu delitto in quelli che sono liberi dalla tentazione corporale, quanto più in noi che siamo circondati da una carne fragile e diciamo con l’Apostolo: Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte?» (S. Girol. Epist. 122, 3 ad Rust.). La nostra illusione deriva dal fatto che non conosciamo noi stessi. Ci sono di quelli che conoscono a meraviglia città e paesi molto lontani, e non conoscono i luoghi che confinano col loro paese o con la loro città. Ci sono quelli che parlano speditamente lingue straniere, e non sanno parlare la lingua propria. Ci sono Cristiani che conoscono le mancanze e i difetti degli altri e non conoscono le mancanze e i difetti propri. Il Battista, ai sacerdoti e ai leviti mandati dai Giudei a interrogarlo, risponde, parlando del Messia: « In mezzo a voi sta uno che non conoscete » (Joan. I, 26). Questa risposta è a proposito di un gran numero di Cristiani.
— In mezzo a voi sta uno che non conoscete: non conoscete il vostro cuore; non conoscete il vostro interno. Non vi date cura di osservare se l’anima vostra conserva ancora la grazia di Dio, o se l’ha perduta, se i vostri affetti sono per Dio o per il mondo. — E non conoscendo il nostro interno, non possiamo essere che degli illusi. – Generalmente non si vuole interrogare il proprio interno, perché si ha paura delle risposte che ci potrebbe dare. Se la nostra coscienza ci rivelasse sempre cose a noi grate, non avremmo difficoltà a interrogarla. S. Paolo, in mezzo dell’Areopago di Atene, tiene un mirabile discorso, che attira l’attenzione di tutti. Ma quando viene a parlare del giudizio e della risurrezione dei morti la scena cambia. « Sentita nominare la risurrezione dei morti; gli uni se ne burlarono, gli altri poi dissero: Ti ascolteremo sopra di ciò un’altra volta » (Act. XVII, 32). Quella verità non piaceva ai superbi o gaudenti filosofi della Grecia: bisognava far tacere, bellamente, chi ne parlava, e licenziarlo. Quando i responsi della coscienza non ci piacciono, quando da essa si leva qualche voce ammonitrice, cerchiamo di tutto per farla tacere. — T’ascolteremo un’altra volta — diciamo dentro di noi. E intanto il danno è tutto nostro. Un uomo d’affari, non si contenta di esaminare l’attivo, ma esamina con attenzione il passivo, altrimenti non saprà mai come guidarsi nei suoi affari. Noi dobbiamo interrogare la nostra coscienza non con il proposito di trovarvi tutto bene; ma con il proposito di trovarla qual è realmente. Non solamente dobbiamo interrogare la coscienza su quel che abbiamo, ma anche, e specialmente, su quel che ci manca. «Perciò — dice S. Bernardo — non sii pigro nell’indagare che cosa ti manca, né di arrossire di confessare che qualche cosa ti manca» (De cons. l. 2. c. 7). – Coloro che negli affari riscontrano delle perdite, indagano le cause per poter porvi rimedio; così devesi fare anche quando si esamina la propria coscienza. A un esame superficiale non si scorgeranno sempre queste cause, ma a un esame diligente esse non possono sfuggire. – Un foro praticato da una talpa, da una biscia, la penetrazione d’una radice di albero nell’argine d’un fiume, in tempo di piena, sotto la pressione della corrente, possono facilmente aprir la via all’acqua, che, aumentando sempre più, aprirebbe una breccia nell’argine, e andrebbe a riversarsi sulle campagne. I profani passano sull’argine del fiume, senza badare a queste piccolezze: ma gli incaricati, esaminano l’argine attentamente e frequentemente; e quando scorgono uno di questi piccoli guasti, con la costruzione della coronella, un piccolo argine esterno di forma arcuata, provvedono a eliminare il pericolo. — Certe tendenze, trascurate perché sono ancora deboli, certe mancanze di cui non facciamo conto, perché non ci tolgono la grazia di Dio, ci possono predisporre sotto la violenza delle passioni, in circostanze impreviste, a dei gravi crolli spirituali. Un’occhiata attenta anche ad esse nel nostro esame.
3.
Si dice che la più difficile cosa che vi sia, è conoscer se stesso. I motivi di questa difficoltà sono molti. Non ultimo, però, è la falsa norma che si adotta per conoscer se stessi. Generalmente si giudica se stessi nel confronto con gli altri; e così avviene che crede di aver motivo di gloriarsi chi, giudicato davanti a Dio, non avrebbe che motivo di arrossire. È un sistema molto comodo di accontentar il nostro amor proprio, e di esimerci dall’obbligo di migliorar noi stessi. Se nessuno va esente da mancanze, o per lo meno, da difetti, è facile trovarli in coloro che ci circondano. Ma il nostro egoismo non ci lascia vedere che i difetti degli altri: non ce ne lascia scorgere la virtù. Inoltre, ci dà occhi di lince per vedere quello che fa il prossimo, e ci lascia ciechi per vedere quel che facciamo noi. Siamo come quelle macchine, che coi loro fanali gettano fasci di luce che rischiarano la strada, ma esso rimangono nell’oscurità. È facile, con questo sistema, il ragionamento: “in fondo, sono migliore di tanti altri; non faccio quel che fanno essi, quindi posso esser tranquillo. Se si salveranno essi, a maggior ragione mi salverò io”. Contro questa illusione ci premunisce l’Apostolo: Ciascuno esamini le proprie opere, e allora avrà motivo di gloriarsi in se stesso. Non ci dice: Confrontate le vostre azioni con quelle del vostro prossimo. Se in qualche cosa vi trovate migliori del prossimo vostro, state tranquilli: non avete più nulla da fare. Ci dice: Ciascuno esamini le proprie opere. Il che vuol dire : «Esaminiamo noi stessi e le nostre opere per vedere se vengono da Dio» (S. Efrem. in h. 1). Le azioni del prossimo non centrano, dunque, pur nulla in questo affare del nostro esame. Per vedere se le nostre azioni vengono da Dio, non abbiamo che da confrontarle con la dottrina del Vangelo.
Il Vangelo è una norma infallibile, e prendendolo per norma nel nostro esame non cadremo nel pericolo di essere ingannati. Mettendo la nostra coscienza di fronte al Vangelo, vedremo ciò che c’è da levare, ciò che c’è da aggiungere. Uno troverà che è dominato dalla superbia, l’altro dall’avarizia. Questi vedrà che è schiavo dell’ira, quell’altro dell’invidia, della lussuria, della gola. Chi, alla fine della giornata, trova che non ha messo via nulla di buono per l’eternità, si persuaderà che è un servo inutile. – Confrontando le nostre azioni con la legge di Dio, conosceremo veramente noi stessi. Siccome però, « ogni uomo, quantunque santo, quantunque giusto, quantunque progredito, in molte cose è un abisso » (S. Agostino. Enarr. in Ps. XLI, 13), domandiamo a Dio che ci aiuti ad acquistar questa conoscenza, dicendogli con Davide: «Scrutami, o Dio, ed esamina il mio Cuore: interrogami e ti siano manifesti i miei pensieri, E vedi se è in me la via dell’iniquità, e guidami per la vita eterna» (Ps. CXXXVIII, 23-24).
Graduale
Ps XCI: 2-3.
Bonum est confitéri Dómino: et psallere nómini tuo, Altíssime. [È cosa buona lodare il Signore: inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]
V. Ad annuntiándum mane misericórdiam tuam, et veritátem tuam per noctemm. [È bello proclamare al mattino la tua misericordia, e la tua fedeltà nella notte.].
Alleluja
Allelúja, allelúja Ps XCIV: 3 Quóniam Deus magnus Dóminus, et Rex magnus super omnem terram. Allelúja. [Poiché il Signore è Dio potente e Re grande su tutta la terra. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc VII: 11-16
“In illo témpore: Ibat Jesus in civitátem, quæ vocátur Naim: et ibant cum eo discípuli ejus et turba copiósa. Cum autem appropinquáret portæ civitátis, ecce, defúnctus efferebátur fílius únicus matris suæ: et hæc vidua erat: et turba civitátis multa cum illa. Quam cum vidísset Dóminus, misericórdia motus super eam, dixit illi: Noli flere. Et accéssit et tétigit lóculum. – Hi autem, qui portábant, stetérunt. – Et ait: Adoléscens, tibi dico, surge. Et resédit, qui erat mórtuus, et coepit loqui. Et dedit illum matri suæ. Accépit autem omnes timor: et magnificábant Deum, dicéntes: Quia Prophéta magnus surréxit in nobis: et quia Deus visitávit plebem suam.
Omelia II
[[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino, 1921]
SPIEGAZIONE XLIII.
“In quel tempo avvenne che Gesù andava a una città chiamata Naim: e andavan seco i suoi discepoli, e una gran turba di popolo. E quand’ei fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato fuori alla sepoltura un figliuolo unico di sua madre, e questa era vedova: e gran numero di persone della città l’accompagnavano. E vedutala il Signore, mosso di lei a compassione, le disse: Non piangere. E avvicinossi alla bara, e la toccò (e quelli che la portavano si fermarono). Ed egli disse: Giovinetto, dico a te, levati su; e il morto si alzò a sedere, e principiò a parlare. Ed egli lo rendette a sua madre. Ed entrò in tutti un gran timore; e glorificavano Dio, dicendo: Un profeta grande è apparso tra noi; e ha Dio visitato il suo popolo” (Luc. VII, 11-16).
Il Vangelo di questa domenica ci offre a considerare una scena assai pietosa. Gesù in compagnia dei discepoli e di una gran furia di popolo andava ad una città chiamata Naim. Et reliqua. – Quale scena! o miei cari. Non è egli vero che rincresce perché l’Evangelista San Luca ce la narri cosi brevemente? Ma se dessa è una scena tanto pietosa, non è tuttavia meno istruttiva per noi. Epperò tra i molti ammaestramenti che se ne potrebbero ricavare, scegliamone qualcuno dei più pratici e più utili per noi.
1. Ed anzi tutto diamo uno sguardo a colui che si portava a seppellire. Egli era giovine, era ricco, era unico figlio, eppure né la giovinezza, né le ricchezze, né le lagrime della madre valsero a mantenerlo in vita: egli morì e come morto veniva portato ad essere sepolto. Or ecco il terribile ammaestramento, che ne viene da questo giovane defunto; che la morte cioè non guarda in faccia a nessuno, che nulla vale a rattenerla, ma che inesorabile esecutrice dei decreti di Dio mena tuttodì la sua falce, cogliendo anche coloro, i quali o per la loro gioventù e robustezza, o per i beni di cui sono in possesso, e che solo pensano a godere, o per l’affetto, di cui si vedono circondati, pensano meno degli altri a morire. Ad ogni modo, quand’anche la morte avesse riguardo a coglier le vite degli uomini con un certo qual ordine, che cosa è mai la vita umana? Essa non lascerebbe perciò di essere simile ad un vapore, che ad un poco di vento sparisce e non è più. La vita dell’uomo è breve, dice Giobbe; l’uomo è come un fiore che nasce, e tosto è reciso. Essa, dice il profeta Isaia, è come una pianticella di fieno, che vive pochissimo tempo e poi secca e muore. La morte ci corre all’incontro più presto d’un cursore, e noi in ogni momento, in ogni passo, in ogni respiro corriamo alla morte. Tutti siamo mortali, e scorriamo sulla terra come l’acqua che non ritorna più in dietro. Vedete là come corre quel ruscello al mare, e quelle acque che scorrono non tornano più indietro; così, o giovane, passano i tuoi giorni e ti avvicini alla morte: passano i piaceri, passano gli spassi, passano gli onori, le lodi, le acclamazioni, e che resta? Solo ci resta il sepolcro. Sarem buttati in una fossa, ed ivi avremo da stare a marcire spogliati di tutto. Ma come è certo che ben presto finirà la nostra vita, così è certissimo che fluirà tanto più spaventosamente, quanto meno ci pensiamo. Al presente i peccatori discacciano la memoria e il pensiero della morte, e così cercano di trovar pace, benché non la trovino mai nel vivere che fanno in peccato; ma quando si troveranno nell’angustie della morte, prossimi ad entrare nell’eternità, allora non potranno sfuggire il tormento della loro mala coscienza; cercheranno la pace, ma che pace può trovare un’anima, ritrovandosi aggravata di colpe, che come tante vipere la mordano? I peccati, come tanti satelliti, dice S. Bernardo, terranno afferrato il peccatore moribondo e gli diranno: Noi siamo tuoi, non vogliamo lasciarti, ti accompagneremo all’altra vita, e teco ci presenteremo all’eterno Giudice. – Vorrà egli allora sbrigarsi di tali nemici, ma per sbrigarsene bisognerebbe odiarli, bisognerebbe convertirsi di tutto cuore a Dio, e come lo farà con la mente ottenebrata e il cuore indurito? Sant’Agostino ebbe da combattere dodici anni per superare i suoi mali abiti; come potrà dunque un moribondo, che sempre è stato con la coscienza imbrattata, in mezzo ai dolori, agli stordimenti della testa e nella confusione della morte, fare facilmente una vera conversione? E poi chi sa dire gli sforzi, che faranno allora contro di lui i demoni che innumerabili lo assisteranno per non perderne più mai la padronanza? Uno gli dirà: non temere che sanerai: Un altro gli dirà: e come! tu per tanti anni sei stato sordo alla voce di Dio, ed ora esso vorrà usarti pietà? Un altro: come ora puoi rimediare a quei danni fatti? A quelle fame tolte? Un altro: non vedi che le tue confessioni sono state tutte nulle, senza vero dolore, senza proposito? Come puoi ora più rifarle? Allo spavento cagionato dalla vista dei peccati e dagli assalti del demonio, si aggiungerà la rimembranza di tutti i diletti goduti in vita, di tutti gli onori acquistati; e non servirà che ad accrescere la pena e la diffidenza di ottenere la salute eterna. Dunque, allora dirà il misero mondano, la mia casa, i miei giardini, quei mobili di buon gusto, quelle pitture, quelle vesti tra poco non saranno più mie? Solo per me vi resterà il sepolcro? Ah! che allora niun bene di questa terra si guarda, se non con pena da chi l’ha amato con attacco; e questa pena non gli servirà ad altro, che a mettere in maggior pericolo la salute dell’anima, vedendosi con la esperienza che tali persone attaccate al mondo, in morte non vogliono sentir parlar d’altro che della loro infermità, di medici che possono chiamarsi e di rimedi che possono giovare: e quando si discorre loro dell’anima, subito si tediano e vi dicono che li lasciate riposare, perché loro duole il capo e non possono parlare. E se talvolta rispondono, si confondono, né sanno che dirsi. E spesso dai confessori si dà loro l’assoluzione, non perché si conoscano disposti, ma perché non v’è tempo d’aspettare. Così muoiono quei che poco pensano alla morte. Che pazzia adunque, per i miseri e brevi diletti di questa così breve vita, mettersi a rischio di fare una mala morte, e con quella incominciare un’eternità infelice! Anche un gentile Antistene domandato qual fosse in questo mondo la miglior fortuna, rispose: Una buona morte. E che dirà un Cristiano, il quale ha per fede, che da quel momento principia l’eternità, sicché in quel momento si afferra una delle due ruote, che seco tira o un eterno godere o un eterno patire? Se in una borsa vi fossero due cartelle, in una delle quali vi stesse scritto l’inferno, nell’altro il paradiso che avesse a toccarti, qual diligenza non useresti per indovinare a prendere quella del paradiso? Miei cari, se credete che si ha da morire, e che vi è un’eternità, e che una volta sola si ha da morire, sicché se allora la sgarrate, l’avrete sgarrata per sempre senza speranza di rimedio, come non vi risolvete di cominciare da questo punto a far quanto potete per assicurarvi una buona morte? Tremava un S. Andrea d’Avellino dicendo: Chi sa qual sorte mi toccherà nell’altra vita? se mi salverò o mi dannerò? Tremava ancor S. Luigi Beltrando talmente, che la notte non poteva prender sonno al pensiero che gli diceva: E chi sa se ti danni? E voi che farete? Presto risolvete di darvi davvero a Dio, e cominciate almeno da questo tempo una vita, che non vi affligga, ma vi consoli in morte. Datevi all’orazione, frequentate i Sacramenti, lasciate le occasioni pericolose; e se bisogna lasciate ancora il mondo, assicurate la vostra salute eterna; e intendete che per assicurare la salute eterna non vi è sicurtà che basti.
2. Ma se il defunto giovanetto di Naim ci richiama così efficacemente al pensiero della morte del corpo, non ci richiama meno a quello della morte dell’anima. E poiché il cadavere di questo giovane veniva già portato fuori di città, all’aperto, tanto che un popolo intero poteva vederlo e compiangerlo, perciò dice il venerabile Beda, significa non solo qualsiasi peccatore, che è morto spiritualmente alla vita della grazia, ma quello specialmente, che non nasconde più il suo stato di morte nel segreto del suo cuore, ma lo pubblica e lo propala con la impudenza dei suoi discorsi, con la sfacciataggine delle sue opere, col menar vanto della sua malvagità, con l’essere insomma un peccatore pubblico e scandaloso. E purtroppo sono veri scandalosi tutti coloro che lasciano conoscere i loro peccati: poiché lo scandalo, come ha detto Tertulliano, non è che l’esempio che si dà agli altri di far male: Scandalum, exemplum rei malæ. Ed infatti, ogni peccato conosciuto ha una efficacia funesta di diminuire in quelli che lo conoscono, il disonore, l’infamia, l’orror del peccato, è uno sforzo diabolico con cui si indebolisce il freno della santa verecondia, del salutare rimorso in coloro, che non sono troppo fermi nel proposito di vivere cristianamente; è una ferita che si fa alle coscienze delicate, anzi è persino una scossa che si dà alle anime forti e ferventi, le quali al vedere come tanti pecchino con tanta disinvoltura e spudoratezza, si turbano ed hanno bisogno di ricorrere prontamente per aiuto a Dio, affine di non cadere ancor esse. – Sì, o miei cari, come ogni azione virtuosa che si conosce è una lezione, un incoraggiamento, uno stimolo di virtù, così ogni peccato che si conosce è una lezione, un incoraggiamento, uno stimolo di peccato. Coloro pertanto che non soddisfatti delle loro colpe, le lasciano ancor scoprire, le lasciano conoscere, e peggio poi le mettono essi stessi in pubblico, commettendole all’aperto o menandone vanto coi loro compagni ed amici, come scandalosi, sono rei non solo di quelle colpe che commettono essi, ma di quelle ancora, che col loro esempio funesto fanno commettere agli altri. Perciò costoro per rimettersi nella via del bene non solo dovranno reprimere le loro malvagie passioni, ma dovranno ancora riparare nel miglior modo possibile agli scandali dati, ciò che costituisce una difficoltà maggiore ad operare veramente la loro conversione e la loro salute. E questo appunto, dice Sant’Agostino, ha voluto significarci il Signore con l’aver dimostrata una certa difficoltà nel risuscitare il figlio della vedova di Naim. E difatti se risuscitò la figlia di Giairo quasi scherzando, nel risuscitare invece il giovine di Naim dapprima mostrossi commosso al pianto della sua madre; quindi si avvicinò alla bara, v’impresse un tocco misterioso, fermò i becchini, fece risuonare all’orecchio dell’estinto la sua voce onnipotente. Ed a questa voce rivisse bensì il giovanetto, ma stette tuttavia a sedere sul feretro e fu necessario che Gesù lo pigliasse per mano, lo facesse discendere, lo aiutasse nei suoi primi passi, affine di renderlo sano e vegeto alla madre. Quanto adunque è felice la condizione del Cristiano che dà buon esempio con le sue buone opere, tanto è triste e funesta la sorte di colui, che commettendo in pubblico il male, o manifestandolo, scandalizza. Colui che dà buoni esempi procaccia il bene suo e altrui; quegli che scandalizza rovina sé e gli altri; e la maledizione di Dio non tarderà a pesargli sopra del capo anche nel corso di questa vita. – Tuttavia, o miei cari, per coloro i quali, portando in pubblico i loro peccati, avessero scandalizzato il prossimo, non vi sarà più alcuno scampo? Oh no! risponde lo stesso S. Agostino, non bisogna creder questo. Poiché Gesù Cristo con l’aver detto al giovanetto di Naim: Risorgi; ci ha chiaramente fatto comprendere, che anche i peccatori scandalosi raffigurati in quel giovanetto, possono essi pure risorgere alla grazia di Dio, e che anche per essi vi è speranza di salute. Ma a tal fine bisogna fermarsi anzi tutto sulla via che conduce all’abisso, lasciando tosto il peccato; quindi bisogna esser docili alla voce di Dio, che con le ispirazioni, e con gli altrui consigli, e specialmente con le lacrime di una madre, chiama alla conversione; sorgere dalla bara delle proprie colpe per mezzo di una buona confessione, e non facendo più nessuna ricaduta, affìdarsi nelle braccia della nostra madre, la Chiesa, per vivere unicamente al suo amore nell’osservanza esatta dei precetti di Dio e della Chiesa. E come il giovinetto di Naim risuscitato che fu si mise tosto a parlare della sua nuova vita al popolo circostante, così chi ripiglia davvero una vita cristiana, dopo aver dato degli scandali, deve far conoscere la sua conversione a coloro che ha scandalizzati, affine di riparare al male che ha fatto. Egli deve imitare lo zelo di Davide, il quale, ritornato a Dio dopo le sue gravi colpe, protestava di voler insegnare ai malvagi le vie del Signore: Docebo iniquos vias tuas, affinché quelli che si erano per cagione sua dati al male si convertissero; et impii ad te convertentur. No, non bisogna arrossire della nuova vita cristiana, non bisogna curare il sarcasmo dei cattivi; conviene calpestare ogni umano rispetto, e parlare sovente di Dio, della sua bontà; soprattutto poi bisognerà farsi vedere alieno dal mondo, assiduo alle pratiche di religione, pio e fervoroso nelle chiese, riservato nelle parole, nel tratto, negli sguardi, umile, paziente, caritatevole. Allora chi per tal modo, anche dopo aver dato scandali, ripiglierà una vita veramente cristiana, non solo in privato, ma anche in pubblico, non abbia alcun timore, che gli riuscirà anche facilmente di pareggiare le sue partite con la divina giustizia ed assicurarsi la sua salute eterna.
3. Da ultimo, o miei cari, diamo ancora uno sguardo alla madre di quel giovane risuscitato. Questa vedova che prova un cordoglio così acerbo per la morte del suo figlio, che sparge tante lacrime dietro la bara, che cammina circondata da un gran popolo, che divide con lei il dolore ed il pianto, dice ancora S. Agostino, è la santa ed augusta nostra Madre, la Chiesa, la quale dopoché il suo divino Sposo è salito al Cielo, e non lo vede più corporalmente a sé dappresso, è rimasta come vedova su questa terra. E questa Madre vedova piange ancor essa continuamente con tutto quanto il popolo, veramente cristiano, che partecipa ai suoi dolori come alle sue gioie; piange sopra la morte dei poveri peccatori e di tanti infelici, che, non avendo ancor conosciuto l’Autor della vita, giacciono ancor nelle tenebre e nell’ombra di morte. E con le sue lagrime e preghiere incessanti si adopra a presentare avanti a Dio tale spettacolo di compassione, che Dio ne resti commosso e si degni operare i miracoli delle spirituali risurrezioni. Or bene, o miei cari, apparteniamo noi al bel numero di quelle persone che tengono dietro a questa Madre piangente, condividendo le sue lagrime e le sue preghiere? Ricordiamo, o carissimi, che il massimo tra gli uffìzi della carità cristiana è l’adoperarsi per la salute spirituale dei prossimi, per la conversione dei poveri peccatori. – S. Giacomo termina la sua lettera cattolica col dire che chi riuscirà a convertire con le sue preghiere, con le sue opere un peccatore, salverà l’anima di lui dalla morte e coprirà la moltitudine dei peccati suoi, vale a dire renderà se stesso sicuro della sua salute: Qui converti fecerit peccatorem ab errore viæ suæ, salvabit animam ejus a morte, et operiet multitudinem peccatorum (V. 20). Preghiamo adunque volentieri, perché si convertano a Dio quelli che ne sono lontani; preghiamo tutti, che tutti potremo commuovere a compassione il cuore di Dio; ma preghino, piangano soprattutto le madri, che avessero figliuoli morti alla vita cristiana. Così faceva appunto la madre di S. Agostino, come attesta egli stesso. Mia madre, diceva egli, mi piangeva con un dolore più vivo che non piangono le madri i loro figliuoli, quando li vedono portare alla sepoltura, perciocché mi vedeva morto innanzi a Voi, o mio Dio! Quindi Voi avete ascoltata la sua voce e non avete disprezzato i torrenti di lagrime ch’ella versava in vostra presenza in tutti i luoghi, dove offrivavi la sua prece. Oh! le lagrime di una madre cristiana, le sue preghiere sono l’olocausto più gradito al trono di Dio, e se pure qualche volta, come fece con la stessa madre di Sant’Agostino, Iddio pei suoi giusti motivi ritarda ad esaudirle, non le lascia certamente andare perdute. O amabilissimo Salvatore! degnatevi accostarvi a quei cuori che noi amiamo; fermateli sul cammin della morte; comandate a quelle passioni, che li trascinano verso l’abisso e ne han giurata la perdita; spezzate, spezzate quelle catene del peccato, che li tengono avvinti; rendeteli pieni di vita, di grazia alla Chiesa che li piange; ed allora anche noi, pieni di sacro entusiasmo e di viva gratitudine, vi loderemo, vi glorificheremo, e ripeteremo a tutti: Il gran Profeta è comparso tra noi! Iddio ha visitata la sua plebe.
Credo …
Offertorium
Orémus
Ps XXXIX: 2; 3; 4
Exspéctans exspectávi Dóminum, et respéxit me: et exaudívit deprecatiónem meam: et immísit in os meum cánticum novum, hymnum Deo nostro. [Ebbi ferma fiducia nel Signore, il quale si volse verso di me e ascoltò il mio grido: e pose nella mia bocca un càntico nuovo, un inno al nostro Dio.]
Secreta
Tua nos, Dómine, sacramenta custodiant: et contra diabólicos semper tueántur incúrsus. [I tuoi sacramenti, o Signore, ci custodiscano e ci difendano sempre dagli assalti del demonio.]
Communio
Joann VI: 52
Panis, quem ego dédero, caro mea est pro sæculi vita. [Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo.]
Postcommunio
Orémus.
Mentes nostras et córpora possídeat, quǽsumus, Dómine, doni cœléstis operátio: ut non noster sensus in nobis, sed júgiter ejus prævéniat efféctus. [L’azione di questo dono celeste dòmini, Te ne preghiamo, o Signore, le nostre menti e nostri corpi, affinché prevalga sempre in noi il suo effetto e non il nostro sentire.]
Per l’ordinario della Messa:
https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/