DOMENICA XIII dopo PENTECOSTE (2019)
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps LXXIII: 20; 19; 23
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te. [Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le anime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]
Ps LXXIII: 1
Ut quid, Deus, reppulísti in finem: irátus est furor tuus super oves páscuæ tuæ? [Perché, o Signore, ci respingi ancora? Perché arde la tua ira contro il tuo gregge?]
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te. [Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]
Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, da nobis fídei, spei et caritátis augméntum: et, ut mereámur asséqui quod promíttis, fac nos amáre quod præcipis. [Onnipotente e sempiterno Iddio, aumenta in noi la fede, la speranza e la carità: e, affinché meritiamo di raggiungere ciò che prometti, fa che amiamo ciò che comandi.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti S. Pauli Apóstoli ad Gálatas. [Gal. III: 16-22]
“Fratres: Abrahæ dictæ sunt promissiónes, et sémini ejus. Non dicit: Et semínibus, quasi in multis; sed quasi in uno: Et sémini tuo, qui est Christus. Hoc autem dico: testaméntum confirmátum a Deo, quæ post quadringéntos et trigínta annos facta est lex, non írritum facit ad evacuándam promissiónem. Nam si ex lege heréditas, jam non ex promissióne. Abrahæ autem per repromissiónem donávit Deus. Quid igitur lex? Propter transgressiónes pósita est, donec veníret semen, cui promíserat, ordináta per Angelos in manu mediatóris. Mediátor autem uníus non est: Deus autem unus est. Lex ergo advérsus promíssa Dei? Absit. Si enim data esset lex, quæ posset vivificáre, vere ex lege esset justítia. Sed conclúsit Scriptúra ómnia sub peccáto, ut promíssio ex fide Jesu Christi darétur credéntibus”.
Omelia I
[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]
UNO SGUARDO AL CROCIFISSO
“Fratelli: Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua discendenza. Non dice la scrittura: E ai suoi discendenti, come si trattasse di molti; ma come parlando di uno solo: E alla tua discendenza; e questa è Cristo. Ora, io ragiono così; un’alleanza convalidata da Dio non può, da una legge venuta quattrocento anni dopo, essere annullata, così da rendere vana la promessa. Poiché, se l’eredità viene dalla legge, non vien più dalla promessa. Ma Dio l’ha donata ad Abramo in virtù d’una promessa. Perché dunque la legge? E’ stata aggiunta in vista delle trasgressioni, finché non venisse la discendenza a cui era stata fatta la promessa, e fu promulgata per mezzo degli Angeli per mano di un mediatore. Ora non si dà mediatore di uno solo, e Dio è uno solo. Dunque la legge è contraria alle promesse di Dio? Niente affatto. Se fosse stata data una legge capace di procurarci la vita, allora, sì, la giustizia verrebbe dalla legge. Ma la Scrittura ha racchiuso tutto sotto il peccato, affinché la promessa, mediante la fede in Gesù Cristo, fosse data ai credenti»”. (Gal. III, 16-22).
S. Paolo aveva insegnato ai Galati che la giustificazione non dipende dalla legge di Mosè, ma dalla fede in Gesù Cristo, morto per noi in croce. Ma Gesù Crocifisso. dipinto tanto vivamente dall’Apostolo ai Galati, era stato ben presto dimenticato da essi, lasciatisi affascinare da coloro che insegnavano dover noi attendere la nostra salvezza dalla legge. S. Paolo, rimproverata la loro stoltezza, nota come Gesù, morendo sulla croce, maledetta dalla legge, libera i Giudei dalla maledizione, e conferisce a tutti, Giudei e Gentili, che si uniscono nella fede in Gesù Cristo, lo Spirito promesso. Passa poi a far osservare come vediamo nell’epistola di quest’oggi, che la promessa dei beni celesti, fatta ad Abramo e alla sua discendenza. cioè al Cristo, nel quale si sarebbero unite tutte le nazioni a formare un solo popolo, essendo incondizionata, fatta ad Abramo direttamente da Dio, e da Dio confermata, aveva tutto il carattere d’un patto irremissibile. Non poteva, quindi, venir indebolita o modificata dalla legge di Mosè venuta 430 anni dopo, con un contratto temporaneo. La legge, del resto, non escludeva la promessa, dal momento che essa non poteva giustificare e dare la vita, come fa la promessa. E neppure fu inutile; perché, facendo conoscere i numerosi doveri da compiere, senza porgere l’aiuto necessario, metteva l’uomo nella condizione di dover sperimentare tutta la propria debolezza e di sentir la necessità d’un Redentore; e di riconoscere, per conseguenza, che le celesti benedizioni non possono essere effetto della legge, ma della promessa, e che non si ottengono che con la fede in Gesù Cristo. Gesù Cristo, che morendo in croce, adempie le promesse fatte da Dio, sarà l’argomento di questa mattina. – Gesù Cristo Crocifisso, così presto dimenticato dai Galati, fermi la nostra attenzione. Consideriamo come il Crocifisso:
1. È il centro dei cuori
2. È la nostra guida,
3. È la causa della nostra salvezza.
I.
La legge mosaica non ci dà l’eredità né le benedizioni promesse, Essa è stata aggiunta in vista delle trasgressioni, finché non venisse la discendenza a cui era stata fatta la promessa. La legge aveva lo scopo di indicare le trasgressioni e di far sentire il peso dei peccati, risvegliando così e tenendo desta l’aspirazione al Salvatore, senza la grazia del quale era impossibile l’osservanza dei precetti. L’eredità e le benedizioni noi le abbiamo in Gesù Cristo, che muore per noi sulla croce. Dopo la risurrezione di Lazzaro, i pontefici e i farisei, che volevano sbarazzarsi di Gesù, radunato il consiglio, si pongono la domanda: «Che facciamo? Poiché quest’uomo opera grandi meraviglie. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui». E Caifa, il pontefice di quell’anno, consiglia di disfarsene: «Conviene che un uomo muoia per il popolo» (Joan. I, 47). Che cosa si aspettavano costoro dalla morte di Gesù? Forse di seppellirne col corpo anche la memoria? Accecati dall’odio, questi orgogliosi che si vantavano di aver per padre Abramo, non avevano voluto riconoscere l’unica sua discendenza, cioè il Cristo, al quale erano state fatte tutte le promesse. Ragionando da veri insensati, confessano che Gesù compie dei miracoli, e invece di trarne la conseguenza: — Con questi miracoli egli prova che è veramente il Messia promesso, l’inviato di Dio, — concludono: — Sopprimiamolo: con la sua soppressione scompariranno anche i seguaci. — E lo sopprimono con la morte di croce. – Ma l’uomo propone e Dio dispone. Gesù Cristo aveva detto: «E io, quando sarò innalzato da terra, tutto trarrò a me (Joan. XII, 32). – Quando egli è innalzato sulla croce gli animi di buona volontà si rivolgono a Lui. Non è solamente il discepolo prediletto con la Madre e un gruppo di pie donne, che sono attratti a colui che muore sul patibolo. Uno dei due ladroni, che gli stanno di fianco, crocifisso come Lui, riconosce il Messia, che non vollero riconoscere i Giudei, e, rivolgendosi a Lui, lo pregò: «Signore, ricordati di me quando giungerai nel tuo regno. E Gesù gli rispose: Ti dico in verità; oggi sarai con me in Paradiso ». (Luc. XXIII, 42-43). Gesù è spirato sulla croce, e continua a conquistare anime e a piegare i cuori. Il centurione, che stava di rimpetto a Gesù crocifisso, proclama la sua divinità e dà gloria a Dio. Coloro che erano andati al Calvario per vedere il supplizio di Gesù, riconoscono l’ingiustizia commessa contro di Lui, ed esprimono il loro dolore percuotendosi il petto. Sulla croce Gesù inaugura il regno dell’amore che conquisterà tutti i popoli della terra. E la Chiesa può cantare solennemente: «Dio regnò dal legno» (Vexilla Regis). – Gli Apostoli, mandati alla conquista di coloro che erano sotto il giogo di Satana, presentano Gesù Crocifisso. armati di nient’altro che del crocifisso partirono alla conquista dei popoli i loro successori. Armati di quest’unica arma compiono ancora oggi le loro conquiste i missionari tra gente barbara e selvaggia. – Il Crocifisso cerca con lo sguardo e con l’anima colui che sta per partire da questo mondo: davanti al Crocifisso si reca a cercar il balsamo lenitore chi è provato dal dolore: nelle piaghe del Crocifisso cerca il suo porto di salvezza chi è agitato dalle tentazioni: baciando il Crocifisso, trova la rassegnazione e la pace chi muore per la mano della giustizia terrena. Il Crocifisso è veramente la pace, il gaudio la vita dei Cristiani; è il centro dei loro cuori.
2.
Se fosse stata data una legge capace di procurarci la vita, allora, si, la giustizia verrebbe dalla legge. Ma Dio non volle dare alla legge antica il potere di comunicare all’uomo la vita della giustizia. E così, l’uomo non deve cercare la sua salute nelle opere della legge. Deve cercarla, mediante la fede e la carità, in Gesù Cristo, salito sulla croce a immolarsi per tutti, a esser «guida e luce nella via dell’esilio». – Le inclinazioni degli uomini non sono, senza dubbio, un incitamento alla virtù. Gli uomini desiderano le ricchezze, e Gesù Cristo, che fu poverissimo durante la sua vita, sulla croce è spogliato dell’unica veste. Gli uomini bramano gli onori, la gloria. Gesù, che aveva rifiutato di esser fatto re durante gli anni della sua vita pubblica, sulla croce sopporta con animo mansuetissimo i disprezzi che gli si fanno da parte di tutti, dopo esser stato percosso, sputacchiato, da vili sgherri e dalla plebaglia. È là come l’aveva dipinto Isaia: «Come tu fosti lo stupore di molti, così il tuo aspetto sarà senza gloria tra gli uomini e la tua faccia tra i figli degli uomini» (Is. LII, 14). La disubbidienza spopolò il cielo d’una gran quantità di Angeli, e portò la rovina del genere umano. Gesù Cristo, che nella bottega di Nazaret passò la vita nell’ubbidienza a Maria e a Giuseppe, sulla croce ubbidisce ai carnefici, ai giudici iniqui, che un giorno saranno da Lui giudicati. Raramente noi ci manteniamo calmi nei contrasti, nelle pene. Ci ribelliamo, e dichiariamo ingiuste le afflizioni che ci provano. Gesù sulla croce, dissanguato dai flagelli, con le mani e i piedi trapassati da chiodi, con spine confitte nel capo, agnello senza macchia, sopportò il peso della pena dovuta ad altri, e tace. – Duro è per noi dimenticare le offese ricevute, amare coloro che ci fanno del male. Ma diventerebbe leggero, se dessimo uno sguardo a Gesù, che dalla croce, perdona a suoi offensori, li scusa, prega per loro. – Il Beato Vincenzo Maria Strambi, era stato incaricato dal Papa Pio VI di predicare una missione al popolo di Roma nella vastissima Piazza Colonna. Una sera, nella foga dell’orazione, gli venne a mancare la voce. Riusciti inutili gli sforzi per farsi sentire, prese nelle mani Crocifisso, e lo mostrò al popolo, additandone le piaghe grondanti sangue, e, come poté, disse: «Popolo mio, io non posso più parlare; questo crocifisso parlerà per me». E il crocifisso parlò veramente al cuore dei Cristiani, poiché nessuno partì da quella piazza senza di aver concepito il proposito d’una vita migliore. – Se noi amiamo Gesù Crocifisso, ogni volta che gli diamo uno sguardo parlerà al nostro cuore con parola ora ammonitrice, ora esortatrice, che ci farà progredire sempre più nella via del bene.
3.
Quando Gesù pende in croce, popolo, sacerdoti, senior e perfino il brigante che gli è crocifisso a fianco concordi nello scherno atroce : «Scenda dalla croce » (Matth. XXVII, 40-44). Se Gesù avesse voluto, sarebbe certamente sceso dalla croce. Poche ore prima solamente, aveva dato prova del suo potere, quando con due parole: «Sono io», dimostrò tanta potenza, che i soldati mandatigli incontro « diedero indietro e stramazzarono per terra» (Joan. XVIII, 6). Egli pende in croce, ma è sempre quel Gesù «potente in opere e in parole» (Luc. XXIV, 19) che guariva le malattie corporali e spirituali, che ridava la vita ai corpi e alle anime. Egli pende in croce come un malfattore, ma dalla croce dà la vita eterna al ladrone che gli sta vicino; e, spirando in croce, apre i sepolcri, da cui risorgono i morti addormentati nel Signore. Egli muore in croce, e la sua morte segna l’adempimento della promessa… data ai credenti. – Col peccato il giogo di satana era stato posto sul collo degli uomini, e nessuna forza umana avrebbe potuto scuoterlo. Gesù Cristo sulla Croce compì quello che nessun uomo avrebbe potuto compiere. Egli carica sopra di sé le colpe di tutti gli uomini; si presenta a Dio in abito di peccatore, e chiede che su Lui si compia la giustizia che doveva compiersi sui mortali. L’offerta è gradita al Padre, la sostituzione è accettata. Pene esterne e interne lo avvolgeranno come in un mare, e tutto sarà suggellato con la morte. Ma con questa morte il decreto di condanna è stracciato, il potere di satana è infranto. «Nel paradiso (terrestre) germogliò la morte; sulla croce la morte fu tolta » (S. Giov. Cris. In Epist. ad Eph. Hom. 20, 3). satana si era servito del frutto proibito per introdurre nel mondo il suo regno; per mezzo dell’albero della Croce Gesù Cristo prende la rivincita su satana. Sulla croce Gesù sta non come un giustiziato, ma come un conquistatore, che, conquiso e debellato il suo nemico, dall’alto del trono proclama la vittoria; e annuncia ai popoli tutti della terra la liberazione dalla schiavitù, la fine del regno della maledizione e il principio del regno della grazia. – Dall’alto della croce Gesù ci dice con le sue piaghe che il prezzo del riscatto è di valore così grande che nessuno, per quanto gravi siano i Suoi peccati, ne va escluso; dall’alto della croce, con le braccia aperte, Gesù ci dice tutta la sua brama di vederci vicini a Lui, di poterci abbracciare. – Non dimentichiamo, come i Galati, l’immagine del Crocifisso; ma frequentemente «si dia uno sguardo alla croce, su cui, per mezzo del gran delitto dei Giudei, ebbe compimento la volontà di Dio misericordioso, il quale volle che fosse ucciso il suo unico Figlio per la nostra salvezza ».
Graduale
Ps LXXIII:20; 19; 22.
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum: et ánimas páuperum tuórum ne obliviscáris in finem.
[Signore, abbi riguardo al tuo patto: e non dimenticare per sempre le ànime dei tuoi poveri.]
Exsúrge,
Dómine, et júdica causam tuam: memor esto oppróbrii servórum tuórum. Allelúja,
allelúja
[V. Sorgi, o Signore, e difendi la tua
causa e ricordati dell’oltraggio a Te fatto. Allelúia,
allelúia].
Alleluja
Ps LXXXIX: 1
Dómine, refúgium factus es nobis a generatióne et progénie. Allelúja. [O Signore, [Tu fosti il nostro rifugio in ogni età. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XVII: 11-19
“In illo témpore: Dum iret Jesus in Jerúsalem, transíbat per médiam Samaríam et Galilaeam. Et cum ingrederétur quoddam castéllum, occurrérunt ei decem viri leprósi, qui stetérunt a longe; et levavérunt vocem dicéntes: Jesu præcéptor, miserére nostri. Quos ut vidit, dixit: Ite, osténdite vos sacerdótibus. Et factum est, dum irent, mundáti sunt. Unus autem ex illis, ut vidit quia mundátus est, regréssus est, cum magna voce magníficans Deum, et cecidit in fáciem ante pedes ejus, grátias agens: et hic erat Samaritánus. Respóndens autem Jesus, dixit: Nonne decem mundáti sunt? et novem ubi sunt? Non est invéntus, qui redíret et daret glóriam Deo, nisi hic alienígena. Et ait illi: Surge, vade; quia fides tua te salvum fecit.”
OMELIA II
[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino, 1921]
SPIEGAZIONE XLI.
“In quel tempo andando Gesù in Gerusalemme, passava per mezzo alla Samaria e alla Galilea. E stando por entrare in un certo villaggio, gli andarono incontro dieci uomini lebbrosi, i quali si fermarono in lontananza, e alzarono la voce dicendo: Maestro Gesù, abbi pietà di noi. E miratili, disse: Andate, fatevi vedere da’ sacerdoti. E nel mentre che andavano, restarono sani. E uno di essi accortosi di essere restato mondo, tornò indietro, glorificando Dio, ad alta voce: e si prostrò per terra ai suoi piedi, rendendogli grazie: ed era costui un Samaritano. E Gesù disse: Non sono eglino dieci que’ che son mondati? E i nove dove Sono? Non si è trovato chi tornasse, e gloria rendesse a Dio, salvo questo straniero. E a lui disse: Alzati, vattene, la tua fede ti ha salvato” (Luc. XVII, 11-19).
Allora che l’Apostolo ci dice che è volontà di Dio che noi ci facciamo santi, affinché apprendiamo in che cosa ha da consistere massimamente la nostra santificazione, ce lo dice con chiarissimi termini: Che vi teniate lontani da qualsiasi immondezza. E più volte nelle sue lettere, ora sotto un aspetto ed ora sotto un altro, ci ripete la medesima cosa e di niun’altra parla con tanta veemenza ed energia, perché come osserva S. Giovanni Grisostomo, nella virtù della castità è riposta in modo particolarissimo la santificazione delle anime, mentre nel vizio ad essa contrario è riposta la loro rovina, sia perché le tiene immerse come animali immondi nel fango di ogni laidezza, sia perché esso è un male che difficilmente si cura. Or bene, o carissimi, il Vangelo di questa mattina ci porge occasione di riconoscere il gran male che è un tal vizio, quali ne sono le cause principali e quali i rimedi. E sebbene sia questo un argomento poco piacevole, lo tratteremo tuttavia per il grande vantaggio, che ne possiamo ritrarre per la nostra salute.
1. Gesù, dice il Vangelo, andando a Gerusalemme, passava per mezzo la Samaria e la Galilea. E nell’entrare in un certo castello, se gli fecero incontro dieci lebbrosi. La lebbra era una malattia contagiosa,cagionata dai grandi calori e assai comune sotto il cielo della Giudea. Quindi chiunque aveva contratto quell’orribile malattia, secondo la legge, doveva lasciare il suo domicilio, rinunciare al commercio coi suoi simili, recarsi nella solitudine, fino a tanto che un sacerdote, dopo un maturo e coscienzioso esame, avesse riconosciuto e proclamato la totale guarigione da quella malattia; e questa legge veniva osservata con un’esattezza rigorosa. Ora tutti i commentatori della Sacra Scrittura hanno riguardato la lebbra come la figura del peccato, e soprattutto del peccato di disonestà; perciocché è massimamente questo peccato, che toglie all’anima, non solo la sua bellezza, ma ancora la sua innocenza e le comunica una bruttezza veramente spaventosa, ed è questo peccato ancora che più d’ogni altro si propaga per mezzo dello scandalo. Questo peccato è cosi brutto, che l’Apostolo Paolo vorrebbe che non si avesse neppure a nominare tra i Cristiani. E così non vi è peccato, che Iddio medesimo nelle Sacre Scritture dimostri di detestare tanto, quanto questo. Chi si dà a questo peccato nelle Sacre Scritture vien paragonato agli animali immondi. Il santo re Davide in uno de’ suoi salmi, di colui, che serve alle sue malvagie passioni, dice ripetutamente: L’uomo, che fu elevato alla più grande dignità, ha perduto l’intelletto ed è divenuto simile agli animali immondi, che si trascinano nel fango. Inoltre nelle Sacre Scritture si parla di tanti castighi mandati da Dio agli uomini per cagione di questo peccato. In esse si dice che Iddio mandò un diluvio sopra tutta la terra, perché il genere umano erasi abbandonato alla disonestà; che mandò un incendio sopra Sodoma, Gomorra e sopra le città vicine, perché quegli abitanti eransi abbandonati a questo brutto vizio; che Onan fu colpito da una morte repentina dopo un solo peccato, perché quello era un peccato di disonestà, che furono severissimamente puniti molti altri per lo stesso peccato. Nelle Sacre Scritture vi sono ancora le gravissime proibizioni fatteci dal Signore. E tra queste vi ha il sesto comandamento della sua divina legge, che dice: Non fornicare, cioè non far cose disoneste: ed il precetto di Gesù Cristo, col quale ci intima di non fissare lo sguardo, né trattenere il pensiero su ciò che può condurci al peccato della disonestà. Da questa dottrina, rivelata da Dio, voi potete già conoscere che gran male sia la disonestà: ma forse lo conoscerete molto più nel considerare nelle famiglie e domanderete la cagione di tante discordie, di tante miserie, di tanti patrimoni mandati a fondo, molti sono costretti a rispondervi che l’abbominevole vizio della disonestà ne fu la cagione. Se poi domanderete ai medici, che frequentano le case dei privati ed i pubblici ospedali, perché molti sul fior dell’età siano andati al sepolcro, vi risponderanno che ciò fu per il brutto vizio. E se le ceneri di taluni potessero parlare dalle tombe, quanti utili avvisi ci darebbero! Gli uni direbbero che la disonestà fu la cagione di risse, di guai, di affanni, di pazzie, di morte. Altri, che tal vizio loro indebolì la salute e li condusse anzi tempo alla tomba, avverandosi in essi ciò che dice lo Spirito Santo, che i peccati abbreviano la vita. Ma se sono già così gravi le sciagure, che questo vizio produce sopra il corpo, molto più gravi sono le sciagure che produce nello spirito. – Dice Iddio, che il darsi alle disonestà è lo stesso che diventare apostati, cioè perdere ad un tempo l’amor di Dio e la fede. Di fatto noi vediamo i giovani, ed in generale tutti gli uomini, essere molto amanti del Signore, pieni di fervore nelle pratiche religiose, assidui ai Sacramenti, finché non sono dominati dalla disonestà. Ma appena questo vizio si fa strada nel loro cuore, cominciano a diventare tiepidi, rilassati nell’amor di Dio, diminuiscono la frequenza dei Sacramenti, si annoiano della divina parola, parlano con indifferenza delle cose di Religione, dubitano delle medesime verità della Fede, e cadendo di abisso in abisso, finiscono col divenire increduli e talora veri apostati e spregiatori beffardi dei divini misteri. Sì, perché dominati dal brutto vizio non vogliono più lasciarlo, e bramando di continuare a prendersi quelle soddisfazioni senza che i rimorsi della coscienza diano loro alcuna molestia, si adoperano a persuadersi che non esiste Iddio, che il Paradiso e l’inferno non sono altro che sogni di mente inferma. Or bene il perdere la fede non è la massima delle sciagure, che possa capitare al Cristiano? Da tutto ciò si capisce quanto sia orribile la lebbra della disonestà, che tanto è odiata da Dio e che cagiona così gravi danni.
2. Ma quali sono le cause, che producono una malattia sì turpe e sì dannosa? La lebbra dicesi che fosse cagionata specialmente da tre cose: dai soverchi calori, dal trattar liberamente colle persone che ne erano infette, e dall’alimentarsi con cibi nocivi. Or bene, sono analoghe le principali cause della disonestà. Anzi tutto cagiona questo orrendo vizio il fuoco delle passioni acceso nei cuori degli uomini dal non mortificare i sensi, specialmente quelli della vista e del tatto. Voi avete inteso le cento volte, che chi disprezza il poco, a grado a grado passa al molto, che una goccia scava una dura pietra, che una scintilla risveglia un grande incendio. E così anche qui: talvolta le più piccole libertà, sia di sguardo, sia di pericolosa confidenza, bastano per condure alla rovina. Difatti nelle Sante Scritture non vediamo un Sansone così saggio e così forte essere caduto vergognosamente, perché non fece caso della famigliarità con una infame donna? Non vediamo Davide esser stato vittima di un solo sguardo licenzioso! Gli sguardi sopra oggetti, sopra figure, sopra persone pericolose, le confidenze e le libertà di tatto sono fuoco terribile per le passioni; fuoco che manda un nerissimo fumo e che offusca l’intelletto. Epperò a nulla vale il dire: Io son forte e non cadrò; io mi permetterò soltanto questo e quello, non di più; io andrò sino a quel punto e non più in là; che con tutti questi propositi, in seguito a quelle libertà, accesosi il fuoco della passione, e non ragionandosi più affatto, miseramente si cede all’impeto della medesima, e si cade anche in gravissimi peccati. Come colui che prende ad usare dei cibi e delle bevande più del dovere, li converte ben presto in perniciosi veleni per il suo corpo, così chi non vuol negare a se stesso certe libertà di sguardo, di confidenza, di tatto, ne resterà una povera vittima; poiché tali libertà, che in sulle prime non sembrano che cose da nulla ed innocenti dimostrazioni di affetto e forse anche tratti di civiltà, diventano in seguito mostruosi eccessi di peccato e causa eziandio di eterna rovina. Oh quanti Cristiani, e specialmente quanti poveri giovani, per avere assecondato questo cattivo spirito di libertà nei sensi perdettero in breve tempo il candore dell’anima e la fede cristiana, e si abbandonarono poscia ad ogni sorta di peccati disonesti! Altra principale cagione di disonestà si è il frequentare cattivi compagni, i quali, già essendo infetti di questo male, lo mettono fuori come alito cattivo in tutti i discorsi, che fanno. Oh qual peste, qual veleno sono le compagnie cattive! In esse si svelano i misteri più orribili di iniquità; si ammaestrano addirittura i semplici sui modi più iniqui d’offendere Dio; si mette in piazza ciò che la stessa natura impone di tacere, persino ai fanciulletti s’insegna la malizia più consumata; e se taluno mostra ribrezzo di questi discorsi, gli si dà dell’ipocrita, del collo torto, dello scimunito; mentre invece si chiama giovane franco, spregiudicato e spiritoso, chi sa parlar più male e gloriarsi di azioni più vergognose. Epperò quanti entrarono casti in un ritrovo d’amici e da un osceno discorso, da un beffardo sogghigno, da un atto licenzioso ebbero guasto il cuore! Tant’è; l’innocenza è cosa gelosa, o miei cari; poco ci vuole perché ella faccia naufragio; e lo Spirito Santo per la bocca dell’Apostolo ci avvisa, che la compagnia dei tristi è corruttrice del buon costume: Corrumpunt bonos mores colloquia prava (I. Cor. XV, 33). – Terza e principalissima cagione di disonestà si è la pessima alimentazione, che si riceve dalla lettura di cattivi giornali e di cattivi libri. Purtroppo, simile a certi animali che pigliano il colore delle piante e delle foglie di cui si cibano, l’uomo prende costumi e carattere conforme alla lettura, cui attende. Onde ne consegue che i lettori di opere frivole e romantiche divengono poco a poco frivoli, leggeri e sbadati; i lettori di scritti empi ed irreligiosi perdono la fede e la pietà; quelli dei libri osceni divengono mostri di libidine. Gli scrittori dei libri e giornali cattivi per certo non hanno altro di mira che d’infiammare le passioni, scavar le fondamenta della sana morale, e snervare e corrompere le anime; e ciò fanno col sostituire incessantemente la menzogna alla verità, la frivolezza alla gravità, col narrare ed inventare le cose più turpi, coll’esaltare il soddisfacimento delle più brutte passioni. La qual cosa non può tardare ad indebolire il gusto naturale, che Dio ci ha dato pel vero e pel bello, a riempire la mente di gravissimi errori e di turpissime immaginazioni, ed a suscitare nel cuore i più immondi desideri. E volesse il Cielo che ciò non accadesse con tanta facilità e frequenza! Ma pur troppo le stesse più robuste complessioni non tengono saldo contro il veleno di cotali letture. Esse distruggono i frutti d’ogni più sana educazione, dissipano l’innocenza de’ primi anni, tolgono l’amore a quanto vi ha di più doveroso e di più caro. Quel giovane era modesto, riservato, spirante amabile pudore, amante dello studio e del lavoro, rispettoso e docile coi genitori e superiori. Ma dopo aver fatto cattive letture, ha perduto e modestia e pudore, e amore alla fatica, e rispetto ai genitori e ai superiori, tutto. Egli più non pensa che a quello che ha letto; la sua mente e il suo cuore tutto si riempie di quelle cattive immagini, alle quali finisce per prestare il suo assenso e cadere e ricadere del continuo nella colpa. Sì, i libri ed i giornali cattivi sono il più pestifero veleno, massime della gioventù, uccidono la moralità e la tendenza al bene, sono la tomba dell’onore e d’ogni nobile sentimento, inaridiscono il germe d’ogni bene, sviluppano il germoglio di tutte le passioni, di tutti i vizi, di tutte le turpezze. Addio innocenza, pudore, castità, dal cuore di coloro, che spinti da una colpevole curiosità si danno a leggere libri dettati dal diavolo a scrittori, che ne sono gli schiavi. Queste pertanto sono le cause principali della lebbra della disonestà, epperò quelle da cui deve massimamente rifuggire il Cristiano, che desidera non cadere in così schifosa e dannosa malattia. Per carità adunque evitiamo sempre ogni libertà di sguardo sopra persone indebite, sopra oggetti qualunque essi siano, che possano commuovere i nostri sensi. Giobbe (XXXI, 1) diceva di aver fatto un patto cogli occhi suoi di non pensare mai malamente: pepigi fœdus cum oculis meis ut ne cogitarem quidem de virgine. Oh! e perché mai ha fatto patto con gli occhi di non pensare? È forse con gli occhi che si pensa? No, certamente; ma sono gli occhi, che trasmettendo alla mente gli oggetti, che essi vedono, fanno dalla mente pensare agli stessi. Epperò se alla mente si trasmette la figura di persona o cosa che la colpisce malamente, come non vi penserà sopra e, pensandovi sopra, come non se ne accenderà di impura fiamma il cuore? Ma intendiamolo bene, questa mortificazione degli occhi non è solo necessaria per ciò che è vivo e reale, ma eziandio per ciò che può offendere il nostro sguardo anche solo in figura. Dunque via assolutamente dalle case nostre quei gessi, quelle statue, quelle immagini rappresentanti nudità scandalose; via assolutamente quei giornali, quelle strenne, quei libri, ove le illustrazioni umoristiche non consistono in altro che in un intreccio di irreligione e di immoralità; ma poi, giacché per le strade e per le piazze non possiamo quasi più dare un passo senza temere che i nostri occhi siano contaminati da indecenti affissi, ritratti e figure, non fermiamo mai sopra di ciò il nostro sguardo, anzi volgiamolo prontamente altrove. Mortifichiamo poi il senso del tatto, evitando ogni confidenza e famigliarità specialmente con persone indebite. Guai a colui, dice lo Spirito Santo, che si mette a trattare domesticamente con chi non deve; molti sono andati perciò in perdizione (Eccl. IX, 11). Ed è pure perciò che va alla perdizione tanta povera gioventù. Con pretesti più o meno speciosi si trovano insieme quei due o tre amici che sono l’uno all’altro di pericolo, insieme a passeggio, insieme al divertimento, insieme alle conversazioni, insieme da per tutto, e quel che è peggio si permettono tra di loro certe libertà, certe smancerie, certi atti incivili, e cose simili. Epperò come potranno costoro preservarsi dalle colpe anche più gravi? Insomma come non brucerà la paglia unita al fuoco? Infine oltre al mortificare i nostri sensi, bisogna pure evitare, fuggire anzi le compagnie cattive, in cui si dicono parole indecenti, si tengono cattivi discorsi e si fomentano i vizi; e col massimo impegno bisogna guardarsi dalle cattive letture, poiché non vi ha veramente nulla che valga di più a precipitare specialmente la gioventù nella corruzione, quanto la lettura di libri e romanzi osceni. Lo stesso Gian Giacomo Rousseau, sebbene tristo, non esitò a sentenziare crudamente ogni anima giovanile così: È ella casta? dunque non ha letto romanzi. Donde non segue qual legittima deduzione: È ella lettrice di romanzi? Dunque non è più casta.
3. Se tuttavia qualcuno fosse caduto in questa malattia, che dovrà egli fare per guarirne presto? Bisogna che imiti la condotta di quei lebbrosi, di cui ci parla il Vangelo d’oggi. Quei dieci lebbrosi certamente vivevano in disparte, all’ombra di qualche boscaglia. Ma un giorno dal luogo, ove si trovavano, avendo veduto sulla pubblica strada Gesù, ed avendo potuto in qualche modo conoscere la sua bontà e la sua potenza, mossi dall’ardentissimo desiderio, che avevano di guarire, si avanzarono alquanto fermandosi tuttavia in lontananza, ed alzarono la voce dicendo: Maestro Gesù, abbi pietà di noi. Alla quale preghiera, che fece Gesù? Miratili, disse: Andate, fatevi vedere dai sacerdoti. Il divin Redentore volle prima provare la loro fede e la loro obbedienza. Ed in vero poteva Egli medesimo guarirli, ma invece li manda ai sacerdoti. E che cosa faranno i lebbrosi? Faranno essi, come Naaman Siro, quando andò a pregar il profeta Eliseo di guarirlo? Egli stupì allora che il profeta gli comandasse di lavarsi sette volte nel Giordano per esser purificato dalla lebbra. « Io credeva, » diceva egli, « che invocherebbe il nome del Signore suo Dio, che toccherebbe colla sua mano la mia lebbra, e mi guarirebbe. Non abbiamo noi a Damasco i fiumi d’Abana e di Farfar, migliori di quelli d’Israele per lavarci e diventar puri? » Povero idolatra! ignorava che solamente la fede e l’obbedienza attirano la misericordia del Signore. I lebbrosi del Vangelo lo compresero e la loro fede fu perfetta, e cieca fu la loro obbedienza. Eccoli già in cammino, e nel mentre che andavano, restarono sani. Così volle la divina Provvidenza, forse perché se i lebbrosi non fossero stati guariti che in presenza del sacerdote, avrebbero attribuito la lor guarigione al suo ministero, mentre invece non si operava che per virtù di Colui che li aveva mandati. Ecco pertanto quel che deve fare colui il quale, sgraziatamente colpito dalla lebbra del peccato disonesto, volesse davvero guarirne. Anzi tutto egli deve, al par dei lebbrosi, arrestarsi sulla strada del suo peccato, e poi con fervorosa preghiera volgersi a Dio, perché lo aiuti a guarire dalla sua infermità; quindi fiducioso nella bontà e nella potenza di chi può e vuole guarirlo vada a presentarsi al sacerdote. E qui si osservi che il sacerdote dell’antica legge, a cui presentavasi il lebbroso, aveva incarico di esaminare la lebbra, di giudicare la gravezza del male, di dichiarare la guarigione, allorché era avvenuta; ma, tale guarigione non poteva operarla egli stesso, non aveva nessun mezzo, nessun segreto per procurarla allo sventurato, che gli compariva innanzi. Ma invece il Sacerdote della nuova legge è ben più fortunato, giacché per la podestà, che egli ha ricevuto per mezzo di quelle divine parole: « Saranno rimessi i peccati a chi li rimetterai; » egli, quando nel lebbroso che gli si presenta, vi sia il pentimento del suo male e la sincerità nello scoprirlo, può con la sua autorità guarirlo dalla sua malattia e ridonargli la mondezza dell’anima insieme con la grazia di Dio. – Vada adunque il povero peccatore a mostrarsi con tali disposizioni al Sacerdote e si opererà in lui la desiderata guarigione. Ma guarito che egli sia non deve già imitare la incomprensibile condotta di quei nove lebbrosi, che non tornarono neppure a ringraziare Gesti del bene ricevuto. Oh guai a quei pretesi convertiti, che non si tengono al tutto vicini a nostro Signore, che da Lui si allontanano per la preoccupazione delle cose di questo mondo, della vita e per la smania di gustare ancora il piacere. La loro virtù non durerà a lungo, la loro guarigione non sarà perfetta, ed in breve ricadranno anche più gravemente. – Bisogna imitare invece il solo lebbroso, che tornò indietro a lodare e glorificare Gesù ed a porsi alla sua sequela. Bisogna cioè mantenersi ferrei nei propositi fatti di star sempre vicini a Gesù, specialmente con la preghiera e con la fuga delle occasioni pericolose, perché solamente con questi mezzi sarà possibile non ritornare al peccato. Dio voglia, che chi ne avesse bisogno, si appigliasse aquesta condotta! Egli certamente sentirebbe nel suo cuore a risuonare la voce di Gesù, che gli direbbe: Alzati da’ tuoi vizi: vattene pel cammino della virtù; la tua fede ti ha salvato.
Credo…
Offertorium
Orémus
Ps XXXIII:15-16
In te sperávi, Dómine; dixi: Tu es Deus meus, in mánibus tuis témpora mea. [O Signore, in Te confido; dico: Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono le mie sorti.]
Secreta
Popitiáre, Dómine, pópulo tuo, propitiáre munéribus: ut, hac oblatióne placátus, et indulgéntiam nobis tríbuas et postuláta concedas. [Sii propizio, o Signore, al tuo popolo, sii propizio alle sue offerte, affinché, placato mediante queste oblazioni, ci conceda il tuo perdono e quanto Ti domandiamo.]
Communio
Sap XVI: 20
Panem de coelo dedísti nobis, Dómine, habéntem omne delectaméntum et omnem sapórem suavitátis. [Ci hai elargito il pane dal cielo, o Signore, che ha ogni delizia e ogni sapore di dolcezza.]
Postcommunio
Orémus.
Sumptis, Dómine, coeléstibus sacraméntis: ad redemptiónis ætérnæ, quǽsumus, proficiámus augméntum. [Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, ricevuti i celesti sacramenti, progrediamo nell’opera della nostra salvezza eterna.]
Per l’Ordinario vedi: https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/