CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: OTTOBRE 2019

OTTOBRE  è il mese che la Chiesa Cattolica dedica al Santo Rosario, agli Angeli custodi, a CRISTO RE.

Indulgenze per il mese di OTTOBRE:

398

Fidelibus, qui mense octobri saltem tertiam Rosarii partem sive publice sive privatim pia mente recitaverint, conceditur:

Indulgentia septem annorum quovis die;

Indulgentia plenaria, si die festo B . M. V. de Rosario et per totam octavam idem pietatis obsequium præstiterint, et præterea admissa sua confessi fuerint, ad eucharisticum Convivium accesserint et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitationem instituerint;

Indulgentia plenaria, additis sacramentali confessione, sacra Communione et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitatione, si post octavam sacratissimi Rosarii saltem decem diebus eamdem recitationem persolverint (S. C. Indulg., 23 iul. 1898 et 29 aug. 1899; S. Pæn. Ap., 18 mart. 1932).

RECITATIO ROSARII

395

a) Fidelibus, si tertiam Rosarii partem devote recitaverint, conceditur: Indulgentia quinque annorum;

Indulgentia plenaria, suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem idem præstiterint (Bulla Ea quæ ex fidelium, Sixti Pp. IV, 12 maii 1479; S. C. Indulg., 29 aug. 1899 ; S. Pæn. Ap., 18 mart. 1932 et 22 ian. 1952).

ORATIO AD D. N. IESUM CHRISTUM REGEM

Indulg. plenaria suetis condicionibus semel in die (272)

DÒMINE Iesu Christe, te confiteor Regem universàlem. Omnia, quæ facta sunt, prò te sunt creata. Omnia iura tua exérce in me. Rénovo vota Baptismi abrenùntians sàtanæ eiùsque pompis et opéribus et promitto me victùrum ut bonum christiànum. Ac, potissimum me óbligo operàri quantum in me est, ut triùmphent Dei iura tuæque Ecclèsiæ. Divinum Cor Iesu, óffero tibi actiones meas ténues ad obtinéndum, ut corda omnia agnóscant tuam sacram Regalitàtem et ita tuæ pacis regnum stabiliàtur in toto terràrum orbe. Amen.

 La Festa di Cristo Re

Scopo della festa di Cristo Re

[SS. Pio XI: Quas primas]

… E perché più abbondanti siano i desiderati frutti e durino più stabilmente nella società umana, è necessario che venga divulgata la cognizione della regale dignità di nostro Signore quanto più è possibile. Al quale scopo Ci sembra che nessun’altra cosa possa maggiormente giovare quanto l’istituzione di una festa particolare e propria di Cristo Re. – Infatti, più che i solenni documenti del Magistero ecclesiastico, hanno efficacia nell’informare il popolo nelle cose della fede e nel sollevarlo alle gioie interne della vita le annuali festività dei sacri misteri, poiché i documenti, il più delle volte, sono presi in considerazione da pochi ed eruditi uomini, le feste invece commuovono e ammaestrano tutti i fedeli; quelli una volta sola parlano, queste invece, per così dire, ogni anno e in perpetuo; quelli soprattutto toccano salutarmente la mente, queste invece non solo la mente ma anche il cuore, tutto l’uomo insomma. Invero, essendo l’uomo composto di anima e di corpo, ha bisogno di essere eccitato dalle esteriori solennità in modo che, attraverso la varietà e la bellezza dei sacri riti, accolga nell’animo i divini insegnamenti e, convertendoli in sostanza e sangue, faccia si che essi servano al progresso della sua vita spirituale. – D’altra parte si ricava da documenti storici che tali festività, col decorso dei secoli, vennero introdotte una dopo l’altra, secondo che la necessità o l’utilità del popolo cristiano sembrava richiederlo; come quando fu necessario che il popolo venisse rafforzato di fronte al comune pericolo, o venisse difeso dagli errori velenosi degli eretici, o incoraggiato più fortemente e infiammato a celebrare con maggiore pietà qualche mistero della fede o qualche beneficio della grazia divina. Così fino dai primi secoli dell’era cristiana, venendo i fedeli acerbamente perseguitati, si cominciò con sacri riti a commemorare i Martiri, affinché — come dice Sant’Agostino — le solennità dei Martiri fossero d’esortazione al martirio. E gli onori liturgici, che in seguito furono tributati ai Confessori, alle Vergini e alle Vedove, servirono meravigliosamente ad eccitare nei fedeli l’amore alle virtù, necessarie anche in tempi di pace. – E specialmente le festività istituite in onore della Beata Vergine fecero sì che il popolo cristiano non solo venerasse con maggior pietà la Madre di Dio, sua validissima protettrice, ma si accendesse altresì di più forte amore verso la Madre celeste, che il Redentore gli aveva lasciato quasi per testamento. Tra i benefici ottenuti dal culto pubblico e liturgico verso la Madre di Dio e i Santi del Cielo non ultimo si deve annoverare questo: che la Chiesa, in ogni tempo, poté vittoriosamente respingere la peste delle eresie e degli errori. – In tale ordine di cose dobbiamo ammirare i disegni della divina Provvidenza, la quale, come suole dal male ritrarre il bene, così permise che di quando in quando la fede e la pietà delle genti diminuissero, o che le false teorie insidiassero la verità cattolica, con questo esito però, che questa risplendesse poi di nuovo splendore, e quelle, destatesi dal letargo, tendessero a cose maggiori e più sante. – Ed invero le festività che furono accolte nel corso dell’anno liturgico in tempi a noi vicini, ebbero uguale origine e produssero identici frutti. Così, quando erano venuti meno la riverenza e il culto verso l’augusto Sacramento, fu istituita la festa del Corpus Domini, e si ordinò che venisse celebrata in modo tale che le solenni processioni e le preghiere da farsi per tutto l’ottavario richiamassero le folle a venerare pubblicamente il Signore; così la festività del Sacro Cuore di Gesù fu introdotta quando gli animi degli uomini, infiacchiti e avviliti per il freddo rigorismo dei giansenisti, erano del tutto agghiacciati e distolti dall’amore di Dio e dalla speranza della eterna salvezza. – Ora, se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i Cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società.

Le feste del mese di OTTOBRE sono:

1 Ottobre S. Remigii Episcopi et Confessoris    Feria

2 Ottobre Ss. Angelorum Custodum    Duplex majus *L1*

3 Ottobre S. Theresiæ a Jesu Infante Virginis    Duplex

4 Ottobre S. Francisci Confessoris    Duplex majus

                      PRIMO VENERDI’

5 Ottobre Ss. Placidi et Sociorum Martyrum    Feria

                       PRIMO SABATO

6 Ottobre Dominica XVII Post Pentecosten II. Octobris    Semiduplex Dominica minor

                 S. Brunonis Confessoris

7 Ottobre Beatæ Mariæ Virginis a Rosario    Duplex II. classis *L1*

8 Ottobre S. Birgittæ Viduæ    Duplex

9 Ottobre S. Joannis Leonardi Confessoris    Duplex

10 Ottobre S. Francisci Borgiæ Confessoris    Semiduplex

11 Ottobre Maternitatis Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. classis *L1*

12 Ottobre Sanctae Mariae Sabbato    Simplex

13 Ottobre Dominica XVIII Post Pentecosten III. Octobris    Semiduplex Dominica minor

           S. Eduardi Regis Confessoris   

14 Ottobre S. Callisti Papæ et Martyris    Duplex

15 Ottobre S. Teresiæ Virginis    Duplex

16 Ottobre S. Hedwigis Viduæ    Semiduplex

17 Ottobre S. Margaritæ Mariæ Alacoque Virginis    Duplex

18 Ottobre S. Lucæ Evangelistæ    Duplex II. classis

19 Ottobre S. Petri de Alcantara Confessoris    Duplex

20 Ottobre Dominica XIX Post Pentecosten IV. Octobris    Semiduplex Dominica minor *I*

           S. Joannis Cantii Confessoris   

21 Ottobre S. Hilarionis Abbatis    Feria

24 Ottobre S. Raphaëlis Archangeli    Duplex majus *L1*

25 Ottobre Ss. Chrysanthi et Dariæ Martyrum    Feria

26 Ottobre S. Evaristi Papæ et Martyris    Feria

27 Ottobre Dominica XX Post Pentecosten V. Octobris    Semiduplex Dominica minor

   Domini Nostri Jesu Christi Regis    Duplex I. classis *L1*

28 Ottobre Ss. Simonis et Judæ Apostolorum    Duplex II. classis *L1*

SALMI BIBLICI: “BEATUS QUI INTELLEGIT SUPER EGENUM” (XL)

SALMO 40: “BEATUS QUI INTELLEGIT super egenum”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS

LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 40

[1] In finem. Psalmus ipsi David.

[2] Beatus qui intelligit super egenum

et pauperem: in die mala liberabit eum Dominus.

[3] Dominus conservet eum, et vivificet eum, et beatum faciat eum in terra, et non tradat eum in animam inimicorum ejus.

[4] Dominus opem ferat illi super lectum doloris ejus; universum stratum ejus versasti in infirmitate ejus.

[5] Ego dixi: Domine, miserere mei; sana animam meam, quia peccavi tibi.

[6] Inimici mei dixerunt mala mihi: Quando morietur, et peribit nomen ejus?

[7] Et si ingrediebatur ut videret, vana loquebatur; cor ejus congregavit iniquitatem sibi. Egrediebatur foras et loquebatur.

[8] In idipsum adversum me susurrabant omnes inimici mei; adversum me cogitabant mala mihi.

[9] Verbum iniquum constituerunt adversum me: Numquid qui dormit non adjiciet ut resurgat?

[10] Etenim homo pacis meae, in quo speravi, qui edebat panes meos magnificavit super me supplantationem.

[11] Tu autem, Domine, miserere mei, et resuscita me; et retribuam eis.

[12] In hoc cognovi quoniam voluisti me, quoniam non gaudebit inimicus meus super me.

[13] Me autem propter innocentiam suscepisti; et confirmasti me in conspectu tuo in æternum.

[14] Benedictus Dominus, Deus Israel, a sæculo, et usque in sæculum. Fiat, fiat.

[Vecchio Testamento Secondo la VolgataTradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XL

Anche questo Salmo è tutto della passione di Cristo, mentre Cristo stesso ne cita (in S. Giovanni, c. XIII) un versetto a mostrare predetto il tradimento di Giuda.

1. Per la fine; salmo dello stesso David.

2. Beato colui che ha pensiero del miserabile e del povero: lo libererà il Signore nel giorno cattivo.

3. Il Signore lo conservi, e gli dia vita e lo faccia beato sopra la terra; faccia beato sopra la terra; e noi dia in potere de’ suoi nemici.

4. Il Signore gli porga soccorso nel letto del suo dolore: tu, Signore, accomodasti da capo a pie il suo letto nella sua malattia.

5. Io dissi: Signore, abbi pietà di me; sana l’anima mia quantunque io abbia peccato contro di te.

6. I nemici miei bramarono a me sciagure: Quando morirà egli, e perirà il suo nome?

7. E se uno entrava a visitarmi, teneva bugiardi discorsi; il cuore di lui adunava in sé cose inique.

8. Usciva fuori, e ne parlava cogli altri. Contro di me tenevan consiglio segretamente  tutti i miei nemici; macchinavano sciagure contro di me.

9. Una iniqua cosa hanno determinato contro di me; ma uno che dorme, non si sveglierà adunque mai più?

10. Imperocché un uomo che era in pace con me, a cui io mi confidava, il quale mangiava il mio pane, mi ha ordito un gran tradimento.

11. Ma tu, o Signore, abbi pietà di me, e rendimi la vita; e darò ad essi la loro retribuzione.

12. Da questo ho conosciuto che tu mi hai amato, perché non avrà il mio nemico onde rallegrarsi riguardo a me.

13. Hai prese le mie difese a causa della mia innocenza; e mi hai posto in sicuro dinanzi a te per l’eternità.

14. Benedetto il Signore Dio d’Israele da un secolo fino all’altro secolo: così sia, così sia.

Sommario analitico

Davide in questo salmo parla nel nome e nella Persona di Gesù-Cristo tradito e messo a morte, ma che sta per trionfare per sempre. (Il Salvatore stesso ha applicato a Giuda il versetto 10 di questo salmo).

I. – Egli proclama beato colui che avrà esercitato la misericordia verso se stesso e verso gli altri poveri:

1° nel giorno del giudizio Dio lo libererà (1). – 2° Durante questa vita: – .a) Dio lo conserverà; – b) vivificherà la sua anima; – c) lo ricolmerà di onori e di ricchezze; – d) lo difenderà contro gli sforzi dei suoi nemici (2); – e) nelle prove e nelle malattie, gli porterà soccorso e ne addolcirà i dolori (3).

II. – Bisogna conoscere le cause della sua passione:

1° I peccati di tutti gli uomini (4).

2° I Giudei, dai quali fa uscire crimini molteplici: – a) il loro odio: “i miei nemici”; – b) i loro oltraggi. “essi hanno proferito imprecazioni contro di me”; – c) la loro crudeltà: “quando morirà, etc.” (5); – d) la loro ipocrisia e le loro menzogne: “chi viene a visitarmi, etc.” ; – e) la loro malvagità: “ il loro cuore è un cumulo ed un ammasso di iniquità …” (6); – f) la loro impudenza e le loro calunnie: “appena uscito parla contro di me” (7); – g) i loro mormorii segreti e la loro cospirazione contro il Salvatore (8); – h) l’ingiustizia sovrana del loro giudizio: “essi hanno emesso una sentenza iniqua”; – i) la loro incredulità nei confronti della resurrezione (9).

3° Il tradimento di Giuda: – a) la sua ipocrisia e la sua perfidia : “l’uomo con il quale vivevo in pace, etc.” (10); – b) la sua ingratitudine: “che mangiava il mio pane”; – c) la sua crudeltà: “ha alzato il suo calcagno contro di me”.

III. – Egli espone i frutti della sua resurrezione, richiesta a Dio; questi frutti sono:

1° Il potere dato a Gesù-Cristo di domare e punire i suoi nemici (11);

2° la testimonianza dell’amore del Padre celeste per Lui: “io ho conosciuto l’amore vostro per me”.

3° la gloria che è seguita alla sua resurrezione, nel ripagare tutti i suoi nemici (11). Per finire, indica:

4° la causa meritoria della sua resurrezione (12), vale a dire la sua innocenza, principio della eterna felicità della quale gode (13), e rende grazie a Dio per il grande beneficio della resurrezione (14).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-3.

ff. 1. – Beato colui che ha cura del povero e dell’indigente! Ecco una delle parole divine che distinguono il linguaggio divino da ogni altro linguaggio: questa parola risuona nel mondo da tre mila anni, quando in ogni popolo non c’era che un grido: beato colui che possiede la ricchezza e che sa procurarsela (Rendu). – La bella parola di Davide è stata consacrata da Gesù-Cristo stesso, quando ha messo in cima alle beatitudini evangeliche la stima e l’amore della povertà. Ripetiamola dunque dal più profondo del cuore: beato colui che comprende il povero! E non soltanto il povero ordinario, che ci appare così sovente nelle nostre città, senza danaro, senza pane, senza alloggio, e che la divina Provvidenza ci indirizza per soccorrerlo e alleviarlo; ma anche e soprattutto, il Povero per eccellenza, il povero volontario che, maestro sovrano di ogni cosa, ha così gloriosamente preferito, in tutto il corso della sua vita mortale, l’indigenza alla ricchezza, la sofferenza al piacere, l’ignominia agli onori, alfine di lasciare agli uomini che vogliono affrancarsi dalla schiavitù dei sensi, una consolazione ed un esempio. Beato chi comprende questo divino povero in se stesso e nei suoi rappresentanti, in coloro dei quali ha detto: « tutte le volte che avete assistito uno dei miei fratelli più piccoli, avete assistito me stesso » (S. Agost.).

ff. 2. – « Beato chi ha cura del povero e dell’indigente ». Non è sufficiente aprire sui poveri gli occhi della carne, ma bisogna considerarli con gli occhi dell’intelligenza guidata dalla fede. Coloro che li guardano con gli occhi corporali li vedono dal basso e li disprezzano; coloro che aprono su di essi gli occhi interiori, cioè l’intelligenza guidata dalla fede, vedono in essi Gesù-Cristo; essi vi scorgono l’immagine della povertà, i cittadini del suo reame, gli eredi della sua promessa, i distributori delle sue grazie, i veri figli della sua Chiesa, i primi membri del suo Corpo mistico. È questo che li induce ad assisterli con zelo di carità. Ma non è ancora molto il soccorrerli nei loro bisogni, questo assistere il povero non è l’intelligenza sul povero. Colui che distribuisce loro qualche elemosina per sovvenire a qualche pressante necessità o toccato da qualche compassione naturale, allevia la miseria del povero, ma non di meno ha intelligenza sul povero. Colui che comprende veramente il mistero della povertà, considera i poveri come i primi figli della Chiesa, e onorando questa qualità, si crede obbligato a servirli; non spera di partecipare alle benedizioni del Vangelo se non per mezzo della carità e della comunicazione fraterna (Bossuet, sur l’émin. dign. des pauv.). – Questa beata intelligenza del povero comprende tre cose: 1° l’intelligenza dell’elemosina, nel suo obbligo, nel suo credito presso Dio, nelle promesse che gli sono fatte, nel numero e nella misura che sa attendere, nella maniera di praticarla; 2° l’intelligenza del povero, nella dignità di cui il Signore lo ha rivestito, nella potenza che gli ha affidato; 3° l’intelligenza della miseria del povero, nel soccorso che dobbiamo dare al suo corpo, al suo spirito e al suo cuore (Mgr. Lecourtier, 2° conf. sur l’aum.). I giorni cattivi verranno, che lo vogliate o no, essi arriveranno; il giorno del giudizio arriverà, giorno cattivo, se non avrete compreso il povero e l’indigente. In effetti, ciò che vi rifiutate di credere ora, si manifesterà alla fine. Ma voi non sfuggirete, quando si manifesterà, alla verità alla quale non credete, mentre è ancora nascosta. Vi si invita a credere ciò che non vedete, per timore che non abbiate ad arrossire quando lo vedrete. (S. Agost.).

ff. 1. – Questo cattivo giorno è il giorno della morte. « Ora, in quest’ultimo giorno, l’elemosina sarà un gran garanzia davanti a Dio, per tutti quelli che l’avranno fatta! » (Tob. IV, 12). L’esperienza giustifica questa asserzione: « Da nessuna parte, scrive S. Girolamo a Nepotiano, mi ricordo di aver letto che abbia fatto una cattiva morte colui si era dato volontariamente alla pratica delle opere di carità; quest’uomo ha per lui numerose intercessioni, perché è impossibile che tanti molteplici suffragi non siano esauditi ». (Epist. Nep.). Ora, non solo la cattiva morte è evitata all’uomo misericordioso, ma pure gli vengono date delle grazie sensibili, eccezionali che gli vengono accordate nell’ora del terribile passaggio; e mentre altri Cristiani, esemplari e regolari nella loro vita, ma più chiusi o meno generosi, sono agitati da apprensioni sempre crescenti nei confronti del giudizio, si vedono al contrario le anime più timorate, quelle che avevano timore di tutte le loro opere a causa dell’implacabile giustizia del Signore, quelle che avevano affanni nel portare il peso di Dio e che li temevano come flutti sospesi sopra di loro (Iob. IX, XXXI), concepire tutto ad colpo sentimenti di fiducia e rivestirsi di una sicurezza che nulla avrebbe fatto presagire. Così si realizza la parola del salmista: « beato colui che comprende i bisogni del povero e dell’indigente, Dio lo proteggerà nel giorno cattivo ». (Bellarm.).

ff. 2. – In questo versetto (2) vi sono due tipi di promesse: Dio non vi abbandona sulla terra e vi promette qualche cosa nel cielo; Egli deve vivificarvi eternamente nel cielo, e nell’attesa, Egli vi conserva e vi rende beato sulla terra (S. Agost.).

ff. 3. – Il Profeta non dice che colui che ha l’intelligenza del povero sarà preservato da ogni male, poiché gli è necessario soffrire per Gesù-Cristo; ma Egli assicura che quest’uomo sarà protetto dal Signore nel giorno dell’afflizione. Quando Dio ha istruito i suoi fedeli servitori alla scuola dell’avversità, e ha insegnato loro che non si impara se non nel libro dell’esperienza e del dolore, allora viene in loro soccorso, ed usa con essi questa carità compassionevole e tenera che si testimonia verso i malati che non possono riposare, ed ai quali si muove il letto perché possano riposare più mollemente e trovare nel sonno una tregua ai loro dolori. – « Tu hai rivoltato il suo giaciglio nella sua malattia ». Dio, rigirare un letto! Confesso che queste figure non sono nella vostra retorica; esse non sono del vostro Essere supremo, ma sono del buon Dio dei Cristiani, che sanno che nulla è piccolo per la sua bontà (Laharpe) – Dio consacra così con il suo esempio, le nobili cure di queste anime caritatevoli che percorrono i letti del languore, mescolano felicemente l’olio ed il vino sulle piaghe del malato, lo sostengono, lo cambiano di posizione e rimuovono la paglia che serve loro da letto. Il suo Profeta ce lo rappresenta in qualche modo come sceso dallo splendore dei cieli per venire presso i malati, e queste stesse mani che sostengono il mondo, li sostengono nelle loro debolezze, preparando e rigirando Egli stesso il letto della loro infermità (De Boulogne, sur la Char. Chret.).

II. — 4-9

ff. 4. – Dio è il solo che conosce bene la profondità delle piaghe della nostra anima, ed è il solo di conseguenza che possa guarirle. Ricorrere a Lui e pregarlo di aver pietà di noi, non certo per risparmiarci i suoi castighi che possano guarire la nostra anima dalle piaghe prodotte per aver peccato contro di Lui. Se Colui che non ha conosciuto il peccato è stato punito così severamente, se il medico misericordioso che è venuto al mondo per salvarci da tutte le nostre malattie, non ha disdegnato di aumentare Egli stesso il numero dei malati, e non ha rigettato l’asprezza dei rimedi, non siamo noi ancor più obbligati a soffrire con pazienza la mano di questo Medico supremo, che ci fa qualche incisione dolorosa ma salutare, per guarirci dai nostri peccati? Affidatevi interamente alle mani di questo Medico celeste, che non si inganna fino a tagliar le carni sane in luogo delle carni gangrenose. Egli conosce quel che esamina; Egli conosce le nostre colpe, perché ha creato la nostra natura; Egli discerne ciò che ha creato in noi da ciò che i nostri desideri sregolati hanno aggiunto (Dug.; S. Agost.). – Diciamo a Dio come Davide, nello spirito di una umiltà sincera. « Guarite la mia anima, Signore, guarite la mia anima, perché ho peccato contro di Voi ». Si, io ho peccato, ed non è né il mio naturale, né il mio temperamento che io accuso; ero io che dovevo regolarlo, perché io sapevo, volendo, tenerlo in ordine; questa passione, che mi ha dominato in pregiudizio della vostra legge, non ha mai avuto su di me l’impero nel pregiudicare i miei interessi. Essa era semplice e sottomessa alla mia ragione quando ne temevo le conseguenze davanti agli uomini, e non c’erano né escandescenze, né asperità che io non reprimessi quando credevo che ne andasse di mezzo la mia reputazione o la mia fortuna. « Io ho peccato contro di voi », e avrei torto a prendermela con il mondo, perché il mondo, per quanto pernicioso possa essere, non ha avuto ascendenza su di me quando non mi soddisfaceva (Bourd. Sévér. de la Pén.).

ff. 5. – Queste parole convengono sì chiaramente a Gesù-Cristo, che non occorre pensare di applicarle ad altri. Quando i Giudei Gli facevano qualche azione criminosa, tutto il mondo seguiva; quando, testimoni delle sue opere meravigliose, Lo accusavano di sedurre il popolo, non facevano altro che dire: « Quando morirà, e quando perirà il suo nome »? Quel che si è fatto nei riguardi del Capo, si vede ancora oggi ai giorni nostri nei confronti dei suoi membri. Gli empi non possono soffrire le persone dabbene, perché senza che dicano una sola parola, la loro vita è una condanna lampante delle loro sregolatezze (S. Agost.).

ff. 6. – Giuda è qui chiaramente designato: egli entrava per vedere, cioè per osservare Gesù-Cristo, e cercare i mezzi più idonei per tradirlo e perderlo (S. Ambr.). – Questa è l’immagine reale di cosa spesso accade nella Chiesa, particolarmente rispetto ai suoi ministri. Falsi fratelli osservano tutti i loro movimenti, tutte le loro parole, danno un cattivo senso alle loro più rette intenzioni, inasprendo tutto ciò che dicono e fanno, inventando rapporti falsi e menzogneri di tutto ciò che hanno visto ed inteso. Non fanno in questo altra cosa se non che il loro cuore ammassi un cumulo di iniquità che li perderà mentre essi vogliono perdere gli altri. Ricordate l’appropriatezza di questa espressione applicata a Giuda il traditore: « egli usciva fuori ». All’esterno in effetti vi sono i lupi, oltre ai briganti; all’interno Mosè si trattiene nella nube con Gesù, mentre la moltitudine resta fuori; al di dentro lo Spirito Santo grida nel cuore verso il Padre, al di fuori il nostro nemico veglia, come un leone per ghermire la sua preda; all’esterno gli infedeli, all’interno i veri servi di Dio. Giuda esce dunque e parte, esce dalla fede, esce dal collegio e dal numero degli Apostoli; egli usciva dal banchetto di Cristo per il brigantaggio del demonio; egli usciva dalla grazia che santifica per gettarsi nelle insidie della morte, lui che usava il linguaggio del tradimento per i perfidi nemici del Salvatore; egli usciva fuori, lui che abbandonava i misteri della vita interiore, egli usciva fuori, lui che non conosceva questi misteri della vita interiore, perché, se li avesse conosciuti, avrebbe compreso chi gli diceva: « colui che dorme non potrà forse resuscitare? » (S. Agost.).

ff. 8, 9. – « Tutti i miei nemici mormorano contro di me », con pensiero unico, con una comune cospirazione. Quanto sarebbe stato meglio se si fossero invece accordati tutti insieme a Lui? (S. Agost.). Qual è l’innocenza che possa tener conto dei nemici di professione che hanno formato il proposito ben riuscito di arrestare a qualunque prezzo Colui del quale hanno meditato la perdita? – Qual è questa parola iniqua per cui hanno arrestato il Cristo, quando dissero. « È meglio che un solo uomo muoia per il popolo, e non che tutta la nazione perisca ». (Joan. XI, 50); « Se liberi quest’uomo, non sei amico di Cesare » (XIX, 12); o ancora quando dissero: « uccidiamolo e l’eredità sarà nostra » (Matth. XXI, 38). Insensati come potrà appartenervi l’eredità? Perché Lo avete ucciso? Ecco, ora che Lo avete ucciso, l’eredità non vi apparterrà. E Colui che dorme non avrà forse il potere di svegliarsi? Mentre voi trionfate per averlo ucciso, Egli si è addormentato sì, ma si è svegliato, perché aveva il potere di lasciare la vita e di riprenderla. « Io mi sono addormentato – dice dalla bocca del salmista – ho cercato il sonno, e mi sono svegliato. » (S. Agost.).

III. — 10-14.

ff. 10. – Giuda è chiaramente designato in queste parole dal Figlio di Dio stesso. – Ma come può dire che aveva sperato in lui, che aveva in lui la sua fiducia? Non lo conosceva forse fin dall’inizio? Non sapeva, prima che Giuda fosse nato, ciò che un giorno sarebbe stato? Come ha potuto dunque sperare in lui, e, parlando così anche ai suoi membri, per cui molti fedeli hanno ben sperato di Giuda, il Signore ha loro applicato il suo pensiero? (S. Agost.). Egli dice che ha sperato in lui perché aveva il diritto di presumere che questo maledetto apostolo si spogliasse dei suoi primitivi sentimenti per seguire una via migliore, e che Colui che aveva ricevuto il potere di santificare gli altri, avrebbe conservato Egli stesso la grazia della santificazione, e si sarebbe impegnato a compiere fedelmente l’ufficio che gli era stato affidato. Nulla di più giusto di questa espressione: « Io ho sperato », perché ho dato all’uomo la facoltà di scegliere la via che deve seguire. « Io ho posto davanti a lui – Egli dice – il bene e il male » (Deuter. XXX, 15). Se scegliete il male, non è la natura che pecca, ma l’affezione colpevole di colui che fa una cattiva scelta (S. Ambr.). – C’è nell’idea del banchetto ove ci si siede per bere e mangiare insieme, un grandissimo, divino pensiero: è l’idea della comunicazione della vita alla quale si partecipa insieme, è una comunione naturale, è il godimento della medesima bevanda riparatrice, è un atto di società fraterna, e quando ci si alza da tavola, sembra che l’amicizia sia più vera, che i legami del cuore si siano rinserrati; così il profeta considera come la perfidia più nera, come una scelleratezza che merita un castigo speciale, quella di un uomo che tradisce dopo aver mangiato alla vostra tavola (Mgr. Landriot, Euch. IV Conf.). Piacesse a Dio che questa tradizione non si sia verificata che una volta, e che il discepolo apostata non abbia mai avuto successori. Essere tradito da un amico che si è ricolmato di beni, beni di cui non si è servito se non per attentare alla fortuna e alla vita del suo benefattore, è per il cuore dell’uomo una ferita profonda, irrimediabile; egli non cessa di parlarne negli sfoghi dell’amicizia, ed il profeta mette sulla bocca di Gesù, tradito dal perfido discepolo, questo lamento da nessuno ignorato: ma questo prete che ho chiamato con il nome di amico, al quale amavo confidare tutti i miei segreti, che io nutrivo come tutti i miei eletti con il pane della verità, della giustizia, un prete tradirmi, abbandonarmi! Non posso soffrirlo, io devo alla mia giustizia una vendetta eclatante (Boyer, Serm.).

ff. 11-14. – Gesù-Cristo fa a Dio quella preghiera in ragione della forma di schiavo che Egli ha preso, della forma di povero ed indigente (S. Agos.). non certo che Egli dubiti della sua Resurrezione, Lui che poteva dire: « Distruggete questo tempio ed Io lo ricostruirò in tre giorni » (Joan. II, 19); ma Egli dà all’uomo l’esempio di come sperare da Dio solo la misericordia e la resurrezione (S. Ambr.). I giudei si sono rallegrati quando hanno visto il Cristo crocifisso, essi hanno creduto di esser riusciti nel loro disegno di perderlo e sterminarlo, essi hanno scosso la testa e detto: « se Egli è il Figlio di Dio, che scenda dalla croce » (Matt. XXVII, 26). Egli poteva scendere, ma non ne è disceso; Egli non mostrava la sua potenza, ma ci insegnava la penitenza. Ma dopo aver rifiutato di cedere alle loro provocazioni, ha compiuto qualcosa di più considerevole di ciò che essi domandavano. In effetti è necessaria più potenza nell’uscire dal sepolcro che nello scendere dalla croce (S. Agost.). – La gioia più grande di cui il nemico irreconciliabile dell’uomo, il demonio, sia capace, è quella di portarlo al peccato, tenerlo sotto la dura servitù del peccato e di tormentarlo poi eternamente nell’inferno. – La testimonianza più grande che Dio lo ama, è quella di non permettere che egli sia l’oggetto di questa gioia maledetta (Dug.). « Voi mi avete preso sotto la vostra protezione a causa della mia innocenza ». Innocenza vera in Gesù-Cristo, integrità esente da qualsiasi peccato, cambiale senza debito, castigo senza averlo mai meritato (S. Agost.). – Felice il Cristiano che a causa della sua innocenza conservata, o riparata dalla penitenza, merita che Dio lo prenda sotto la sua protezione, e lo conservi davanti ai suoi occhi. – « Benedetto sia il Signore, il Dio di Israele ». Santa conclusione del salmo, che deve essere l’inizio e la fine di tutte le nostre giornate, di tutti i nostri anni, di tutta la nostra vita, di tutte le nostre azioni, e l’unica occupazione della nostra eternità.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPATI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO X – “AD DIEM ILLUM LÆTISSIMUM”

In questi tempi di errori, eresie, scismi latenti, striscianti od operanti, di rifiuto delle leggi ecclesiastiche, divine ed addirittura delle leggi naturali più elementari, la lettura di questo piccolo trattato di teologia mariana, è un sorso di acqua viva che, come il cervo del salmo XLI, permette al “piccolissimo” resto di fedeli Cattolici (per non dire “microscopico”!), di attenuare la sete ardente di acque spirituali di cui soffre a contatto con gli empi “travestiti” del novus ordo, con le loro stampelle vacillanti dei disobbedienti fallibilisti gallicani eredi ed emuli del cavaliere kadosh di Lille, degli anarchici “ladri e briganti” sedevacantisti e dei tanti “cani sciolti” senza padrone ed autoreferenziati. La Vergine Maria Madre di Dio, ricordata, in questo splendido documento magisteriale, composto in occasione dei 50 anni dalla proclamazione solenne di Pio IX del dogma della Immacolata Concezione, rappresenta la nostra ancora di salvezza per superare questo funesto periodo di eclissi, anzi oramai di “sepolcro” della Chiesa Cattolica, che deve imitare la vita del suo Capo, Gesù Cristo, il Figlio unigenito di Dio e di Maria, incarnato, crocifisso, morto e sepolto per redimere e salvare l’umanità schiava del peccato e del demonio. Ella è, come opportunamente ricorda il Santo Papa Pio X, mediatrice di ogni grazia che Iddio ci concede per i meriti di Cristo, l’acquedotto, secondo l’espressione efficacissima di San Bernardo, il “collo mistico”, secondo l’espressione parimenti celebre di San Bernardino, che collega il Capo divino al Corpo mistico dei fedeli e della Chiesa tutta. Ogni grazia passa per la mediazione di Maria, e questo oggi è particolarmente importante nell’economia della salvezza, salvezza che si può ottenere mediante l’azione della grazia sacramentale e santificante impedita, oggi che i Sacramenti – quelli veri offerti da veri Sacerdoti con missione canonica ricevuta dal proprio legittimo Ordinario con giurisdizione conferita dall’Autorità del Sommo Pontefice “vero”, canonicamente eletto secondo le leggi cattoliche da validi Cardinali – sono di rara possibilità di ricezione. A questa grazia sacramentale, può supplire, in questi tempi di “Chiesa delle catacombe”, la grazia attuale dell’unione mistica col Padre mediante la filiazione al Cristo e l’azione dello Spirito Santo nelle anime sulla via della perfezione ed in stato di grazia. Ora, se tutte le grazie passano per Maria, l’amarla, l’onorarla, e lo sperare in Lei, Madre nostra, con una vita pura ed esente da peccati, è il modo oggi più efficace per ottenere grazie efficaci e santificanti per il merito e la gloria celeste. Ecco che allora questa lettera, oltre a costituire un meraviglioso esempio di teologia mariana, diventa uno strumento che recepito e messo in pratica, può meritarci le grazie di cui abbiamo bisogno per la salvezza (contrizione dei peccati commessi, proposito di evitare ogni peccato mortale e veniale abituale, perseveranza finale, aumento delle virtù teologali, cardinali e morali, santificazione di ogni azione, vita alla presenza di Dio, amore della croce e delle mortificazioni, buona morte, etc.) « … Ella ci procura de congruo, come dicono i teologi, ciò che Gesù Cristo ci ha procurato de condigno ed è la suprema dispensatrice di grazie … ». Leggiamola quindi con somma attenzione, facciamola nostra e pratichiamone i principi dogmatici, ascetici e mistici, così che il Signore Gesù, per opera dello Spirito Santo, per intercessione della sua e nostra Madre, la Vergine Immacolata, ci ottenga un aumento di grazia necessaria alla salvezza e all’eterna gloria.  

San Pio X

Ad diem illum lætissimum

Lettera Enciclica

Per celebrare il cinquantenario del dogma della Immacolata Concezione 1

Il Corso del tempo ci condurrà tra pochi mesi al giorno d’incomparabile letizia allorché, cinquant’anni or sono, circondato da una magnifica corona di Cardinali e di Vescovi, il Nostro Predecessore Pio IX, Pontefice di santa memoria, dichiarò e proclamò quale rivelazione divina per l’autorità del magistero apostolico, che Maria è stata, fin dal primo istante della Sua concezione, totalmente immune dal peccato originale. Proclamazione che nessuno ignora essere stata accolta da tutti i fedeli dell’universo con tale gioia e entusiasmo quale non si ebbe mai a memoria d’uomo e con manifestazione di fede, sia nei riguardi dell’Augusta Madre di Dio, sia per il Vicario di Gesù Cristo, così grandiosa e così unanime. – Oggi, Venerabili Fratelli, benché alla distanza di mezzo secolo, non possiamo sperare che il rinnovato ricordo della Vergine Immacolata provochi nelle nostre anime come una eco di quelle sante letizie e rinnovelli gli spettacoli magnifici di fede e d’amore verso l’Augusta Madre di Dio, spettacoli che si videro in questo passato già lontano? Ciò che Ce lo farebbe desiderare ardentemente è un sentimento, che Noi abbiamo sempre nutrito nel Nostro cuore, di devozione verso la Beata Vergine ed insieme di gratitudine profonda per i suoi benefizi. – Ciò che d’altra parte Ce ne darebbe la certezza è lo zelo dei cattolici, sempre vigile e sempre pronto e preparato ad ogni testimonianza d’amore da rendersi alla Grande Madre di Dio; e non vogliamo dissimulare che un’altra cosa ravviva grandemente questo Nostro desiderio: è che Ci sembra, se dobbiamo credere a un segreto Nostro istinto, che vi possiamo promettere il prossimo avverarsi di alte speranze nelle quali fu concepita, dal Nostro Predecessore Pio IX e da tutto l’episcopato, la definizione solenne del dogma dell’Immacolata Concezione. Queste speranze invero vi sono pochi che non si dolgano di non averle viste avverarsi e che non invochino le parole di Geremia: “Noi abbiamo atteso la pace e questo bene non è venuto; il tempo della guarigione ed ecco il terrore“. Ma non bisogna tacciare di poca fede gli uomini che trascurano di approfondire o di considerare sotto la loro vera luce le opere di Dio? Chi potrebbe infatti contare, chi valutare i tesori segreti di grazia che durante tutto questo tempo Iddio ha versato nella sua Chiesa per la preghiera della Vergine? E, lasciando a parte ciò, che dire del Concilio Vaticano così ammirabile di opportunità e della definizione dell’infallibilità Pontificia, formulata cosi a buon punto di fronte agli errori che stavano per sorgere? E di questo slancio di pietà che, cosa nuova e inaudita, ha fatto affluire da tanto tempo ai piedi del Vicario di Cristo, per venerarlo al suo cospetto, i fedeli di ogni lingua e di ogni parte? E non è un mirabile effetto della Divina Provvidenza, che i Nostri due Predecessori, Pio IX e Leone XIII, abbiano potuto in tempi così torbidi governare santamente la Chiesa, per un periodo così lungo quale prima non era stato concesso ad altro Pontificato? Al che bisogna aggiungere che non appena Pio IX aveva affermato la fede cattolica nella Concezione senza macchia della Madre di Dio, nella città di Lourdes si iniziavano le meravigliose manifestazioni della Vergine che furono l’origine dei templi elevati in onore dell’Immacolata Madre di Dio, opere di alta magnificenza e d’immenso lavoro, nei quali prodigi quotidiani, dovuti alla Sua intercessione, forniscono splendidi argomenti per combattere l’attuale incredulità umana. Tanti e così insigni benefizi accordati da Dio per le pietose sollecitazioni della Benigna Vergine durante i cinquant’anni che stanno per compiersi, non debbono farci sperare la salute per un tempo più vicino di quanto non abbiamo creduto? Così che, come ce l’insegna una legge della Provvidenza Divina, gli estremi mali non sono mai lontani dalla prossima liberazione: “Il suo tempo è vicino e i suoi giorni non sono lontani. Poiché il Signore prenderà Giacobbe sotto la sua pietà e avrà ancora il suo eletto in Israele“. È dunque completa fiducia che li sostiene di poter dire fra poco: “Il Signore ha infranto le verghe degli empi. La terra è nella pace e nel silenzio, essa si allieta ed esulta“. – Ma se il cinquantesimo anniversario dell’atto Pontificio per il quale fu dichiarata senza macchia la Concezione di Maria, deve provocare nel seno del popolo cristiano ardente entusiasmo, la ragione è soprattutto nella necessità che abbiamo esposta nella Nostra precedente Enciclica. Noi vogliamo dire di “tutto restaurare in Gesù Cristo“. Poiché chi non accetta che non vi è strada più sicura né più facile se non quella di Maria, per la quale gli uomini possono arrivare fino a Cristo e ottenere mediante Gesù Cristo questa perfetta adozione filiale che rende santi e senza macchia allo sguardo di Dio? – Certo, se è stato detto veramente alla Vergine: “O Beata che avete, creduto, perché le cose che Vi sono state dette dal Signore si avvereranno“, e cioè che Ella concepirebbe e darebbe alla luce il Figlio di Dio; se, conseguentemente, Ella ha accolto nel suo seno Colui che per natura è verità, di modo che “generato in un ordine nuovo… invisibile in sé, si rese visibile a noi“;dal momento che il Figlio di Dio è l’Autore e il Consumatore della nostra fede, è necessario che la Madre sia conosciuta come partecipante dei Divini Misteri e in qualche modo la loro custode e che su di Lei, come sul più nobile fondamento, dopo Gesù Cristo, riposi la fede di tutti i secoli. Come potrebbe essere altrimenti? Dio non avrebbe potuto per altra via mandarci il riparatore dell’umanità e il fondatore della fede? Ma dato che è piaciuto all’eterna Provvidenza del Signore che l’Uomo-Dio ci sia stato dato per il tramite di Maria e poiché questa avendolo ricevuto dalla feconda virtù dello Spirito Santo l’ha portato realmente nel suo seno, non ci rimane che ricevere Gesù dalle mani di Maria. Così noi vediamo nelle Sante Scritture, ovunque ci è profetizzata la grazia che deve giungere, dovunque o quasi il Salvatore degli Uomini vi appare insieme alla Sua Santissima Madre. Uscirà l’Agnello dominatore della terra, ma dalla pietra del deserto; il fiore crescerà, ma dalla radice di Jesse 2. Adamo trattiene le lacrime che la maledizione strappava al suo cuore, quando vede Maria nel futuro schiacciare la testa del serpente; Maria è oggetto del pensiero di Noè chiuso nell’arca liberatrice; di Abramo arrestato nel momento di immolare suo figlio; di Giacobbe quando vede la scala dove salgono e scendono gli Angeli; di Mosè in ammirazione davanti al cespuglio che arde senza consumarsi; di Davide cantando e danzando nel ricondurre l’Arca Santa; di Elia vedendo la piccola nube che sale dal mare. E senza aggiungere altro, noi troviamo sempre Maria dopo Cristo nella legge, nella verità delle immagini e delle profezie 3. Che appartenga alla Vergine, a Lei soprattutto, di condurci alla conoscenza di Cristo, non si può dubitare, se si considera fra l’altro che Ella sola al mondo ha avuto con Lui, come si conviene una madre col figlio, una comunità di vita di oltre trent’anni. I mirabili misteri della nascita e dell’infanzia di Cristo, e quelli che si collegano alla Sua assunzione dell’umana natura, principio e fondamento della Nostra Fede, a chi possono essere stati rivelati meglio che alla Madre? “Ella conservava e riviveva nel suo cuore“ciò che aveva visto fare da Lui a Betlemme, ciò che Ella aveva visto a Gerusalemme nel Tempio; non solo ma, iniziata al Suo pensiero e ai Suoi segreti progetti, Ella ha vissuto la vita stessa del Suo Figlio. No, nessuno al mondo quanto Lei ha conosciuto a fondo Gesù; nessuno è miglior maestro e miglior guida per far conoscere Cristo. – Di conseguenza, come abbiamo già accennato, nessuno è più efficace della Vergine per unire gli uomini a Gesù. Se, infatti, secondo la dottrina del Divino Maestro: “La vita eterna consiste nel conoscere Te che sei l’unico, il vero Dio e Colui che hai inviato, Gesù Cristo“, come noi giungiamo attraverso Maria a conoscere Gesù Cristo, cosi pure attraverso Lei ci è più facile ottenere quella vita di cui Egli è il principio e la fonte. – E ora, se consideriamo un momento quante e urgenti ragioni vi siano perché la Madre Santissima sia con noi generosa di quei tesori, quanto aumenteranno le nostre speranze! – Non è Maria la Madre di Dio? Dunque è anche nostra Madre 4. Poiché ciascuno deve avere la ferma convinzione che Gesù, Verbo incarnato, è anche il Salvatore del genere umano. Ora, in quanto Dio Uomo, Egli ha un corpo come gli altri uomini: in quanto Redentore della nostra razza, ha un Corpo spirituale o, come si dice, mistico,il quale non è altro che la società dei Cristiani legati a Lui dalla fede. “Numerosi come siamo, formiamo un solo corpo in Gesù Cristo“. La Vergine non ha concepito il Figlio di Dio soltanto perché ricevendo da Lei natura umana divenisse uomo; ma anche affinché diventasse il Salvatore degli uomini appunto per mezzo di quella natura che aveva ricevuto da Lei. Questa è la spiegazione delle parole degli Angeli ai pastori: “Oggi è nato a voi il Salvatore, Cristo Signore“. – Così, nel casto grembo della Vergine dove ha preso la carne mortale, Gesù ha preso anche il Corpo spirituale, formato da tutti coloro “che erano destinati a credere in Lui“: e si può dire che Maria, portando in seno Gesù, vi portava anche tutti coloro la vita dei quali era contenuta nella vita del Salvatore. – Dunque, tutti noi che uniti a Cristo siamo, come dice l’Apostolo: “le membra del suo corpo formate dalla sua carne e dalle sue ossa“, dobbiamo considerarci usciti dal grembo della Vergine come un corpo attaccato alla sua testa. – Per questo in verità noi siamo chiamati, in un senso spirituale e tutto mistico, i figli di Maria ed Ella, per parte Sua, è madre di noi tutti. “Madre secondo lo spirito, ma non per questo meno madre delle membra di Gesù Cristo che siamo noi“. – Se dunque la Beatissima Vergine è nello stesso tempo madre di Dio e degli uomini, chi può dubitare che Ella non impiegherà tutte le Sue forze presso Suo Figlio, “testa del Corpo della Chiesa“, perché Egli diffonda su di noi che ne siamo le membra i doni della Sua grazia, soprattutto quello di conoscerlo e di “vivere per Lui“? Ma la Vergine non ha soltanto la lode di aver fornito “la materia della Sua carne al Figlio unico di Dio che doveva nascere con membra umane” e di aver così preparato una vittima per la salvezza degli uomini; Ella dovette anche custodirla, quella vittima, nutrirla e presentarla nel giorno stabilito all’altare. Così vi fu tra Maria e Gesù una continua comunione di vita e di sofferenza, di modo che si può applicare tanto all’uno che all’altra la sentenza del profeta: “La mia vita si è consumata nel dolore, i miei anni sono trascorsi nei lamenti“. E quando venne per Gesù l’ultima ora e “Sua Madre stava presso la Croce“, oppressa dal tragico spettacolo e nello stesso tempo felice “perché Suo Figlio si immolava per la salvezza del genere umano e d’altronde Ella partecipava talmente ai Suoi dolori, che Le sarebbe sembrato infinitamente preferibile prendere su di sé tutti i tormenti del Figlio, se fosse stato possibile“. – La conseguenza di questa comunione di sentimenti e di sofferenze fra Maria e Gesù è che Maria “divenne legittimamente degna di riparare l’umana rovina“e perciò di dispensare tutti i tesori che Gesù procurò a noi con la Sua morte e il Suo sangue. Certo, solo Gesù Cristo ha il diritto proprio e particolare di dispensare quei tesori che sono il frutto esclusivo della Sua morte, essendo egli per Sua natura il mediatore fra Dio e gli uomini. Tuttavia, per quella comunione di dolori e d’angosce, già menzionata tra la Madre e il Figlio, è stato concesso all’Augusta Vergine di essere “presso il Suo unico Figlio la potentissima mediatrice 5 e conciliatrice del mondo intiero“. La fonte è dunque Gesù Cristo e “noi tutti abbiamo derivato qualcosa dalla Sua pienezza; da Lui tutto il corpo reso compatto in tutte le giunture dalla comunicazione prende gli incrementi propri del corpo ed è edificato nella carità“. Ma Maria, come osserva giustamente San Bernardo, è l’”acquedotto“, o anche quella parte per cui il capo si congiunge col corpo e gli trasmette forza e efficacia; in una parola, il collo. Dice San Bernardino da Siena 6: “Ella è il collo del nostro capo, per mezzo del quale esso comunica al suo corpo mistico tutti i doni spirituali“. È dunque evidente che noi dobbiamo attribuire alla Madre di Dio una virtù produttrice di grazie: quella virtù che è solo di Dio. Tuttavia, poiché Maria supera tutti nella santità e nell’unione con Gesù Cristo ed è stata associata da Gesù Cristo nell’opera di redenzione, Ella ci procura de congruo, come dicono i teologi, ciò che Gesù Cristo ci ha procurato de condignoed è la suprema dispensatrice di grazie. Gesù “siede alla destra della Maestà Divina nell’altezza dei Cieli“; Maria siede Regina alla destra di Suo Figlio, “rifugio cosi sicuro e ausilio cosi fedele in tutti i pericoli, che non si deve temere nulla né disperare sotto la sua guida, i suoi auspici, la sua protezione e la sua benevolenza“. – Dati questi principi, e per tornare al Nostro proposito, chi non riconoscerà che giustamente Noi abbiamo affermato che Maria, assidua compagna di Gesù dalla casa di Nazareth fino al luogo del Calvario, iniziata più di chiunque altro ai segreti del suo cuore, dispensatrice per diritto di Madre dei tesori dei suoi meriti, è per tutte queste cause l’aiuto più sicuro ed efficace per arrivare alla conoscenza e all’amore di Gesù Cristo? Una prova troppo evidente ce ne dànno, ahimè, con la loro condotta, quegli uomini che, sedotti dagli artifici del demonio o ingannati da false dottrine, credono di poter fare a meno del soccorso della Vergine. Disgraziati che trascurano Maria col pretesto di rendere onore a Gesù! Non sanno che non si può “trovare il Figlio se non con sua Madre“. – Stando così le cose, o Venerabili Fratelli, Noi vogliamo che mirino a questo scopo tutte le solennità che si preparano per ogni dove in onore della Santa e Immacolata Concezione di Maria. Nessun omaggio infatti Le è più gradito e più dolce che la nostra conoscenza e il nostro vero amore di Gesù Cristo. Folle di fedeli riempiano dunque le Chiese, si celebrino feste solenni, vi sia gioia nelle città: queste cose sono molto efficaci per ravvivare la fede. Ma se non si aggiungono a queste cose i sentimenti del cuore, non vi sarà che pura forma e semplice apparenza di devozione. A questo spettacolo la Vergine, usando le parole di Gesù Cristo, cosi giustamente ci rimprovererà: “Questa gente mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me“. – Poiché, infine, è efficace il culto della Madre di Dio che viene spontaneo dal cuore, gli atti del corpo non hanno in questo caso né utilità né valore, se sono separati dagli impulsi dell’animo. E questi impulsi debbono essere diretti a quest’unico oggetto: che noi osserviamo pienamente ciò che comanda il Divino Figlio di Maria. Infatti, se il vero amore è soltanto quello che ha la virtù di unire le volontà, necessariamente noi dobbiamo avere la stessa volontà di Maria, cioè di servire Gesù Cristo Nostro Signore. La sapientissima Vergine fa a noi la stessa raccomandazione che fece ai servitori delle nozze di Cana: “Fate tutto ciò che Egli vi dirà“. Ecco la parola di Gesù Cristo: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti“. Ciascuno si persuada dunque che se la devozione che professa verso la Beatissima Vergine non lo trattiene dal peccato o non gli ispira il desiderio di espiare le sue colpe, si tratta di una devozione falsa e menzognera, sprovvista del suo effetto e del suo frutto naturale. – Se qualcuno desidera una conferma a queste cose, può trovarla facilmente nel dogma stesso dell’Immacolata Concezione di Maria. Infatti, per tralasciare la Tradizione cattolica che è fonte di verità anche essa come le Sacre Scritture, come mai questa convinzione della Concezione Immacolata della Vergine è sempre stata casi consona al sentimento cattolico che la si può ritenere come incorporata e innata nell’anima dei fedeli? Citiamo la risposta di Dionisio il Certosino 7: Abbiamo orrore di dire che questa creatura femminile destinata a schiacciare un giorno la testa del serpente, è stata da lui sopraffatta e che, Madre di Dio, è stata figlia del diavolo“. No: l’intelletto del popolo cristiano non avrebbe potuto concepire che la carne di Cristo, pura, innocente e senza macchia, avesse avuto origine nel grembo di Maria da una carne contaminata anche solo per un attimo. E perché tutto questo, se non per il fatto che Dio è infinitamente lontano dal peccato? È questa, senza discussione, l’origine della convinzione comune a tutti i Cristiani: che Gesù Cristo, prima di rivestire la natura umana e di “lavare noi dai nostri peccati nel Suo sangue“, dovette accordare a Maria la grazia e il privilegio speciale di essere preservata e immune, al principio della concezione, da ogni macchia del peccato originale. Se dunque Dio aborrisce tanto il peccato da aver voluto la futura madre di Suo Figlio, libera, non solo di quelle macchie che ci contaminano per nostra volontà, ma per favore speciale e in previsione dei meriti di Gesù Cristo anche di quell’altra il cui triste marchio è trasmesso a tutti noi figli di Adamo per una specie di tragica ereditarietà; chi può dubitare che chiunque vuoi conquistarsi con la devozione il cuore di Maria, non abbia il dovere di emendare le proprie abitudini viziose e depravate e di domare le passioni che lo spingono al male? – Inoltre, chiunque vuole, e tutti devono volerlo, che la sua devozione verso la Vergine sia degna di Lei e perfetta, deve andare più oltre e sforzarsi in tutti i modi di imitare i suoi esempi. Per leggi divine, infatti, ottengono l’eterna beatitudine soltanto coloro che hanno imitate fedelmente la pazienza e la santità di Gesù Cristo: “In fatti coloro che Iddio ha conosciuti nella sua prescienza, li ha predestinati a essere conformi all’immagine di Suo Figlio, perché questi sia il primogenito fra molti fratelli“. Ma tale è la nostra debolezza, che la grandezza di simile esempio facilmente ci scoraggia; perciò Dio ha voluto provvedere proponendocene un altro, tanto vicino a Cristo quanto è permesso all’umana natura e più conforme alla nostra debolezza. Si tratta della Madre di Dio. A questo proposito dice Sant’Ambrogio: “Tale fu Maria che soltanto la sua vita è per tutti un insegnamento“. E conclude giustamente: “Abbiate dunque davanti agli occhi dipinte come in un quadro la verginità e la vita della Beatissima Vergine, che riflette come uno specchio lo splendore della purezza e l’aspetto stesso della virtù“. – Sebbene poi convenga che i figli imitino tutte le virtù di questa SS. Madre, tuttavia Noi desideriamo che i fedeli seguano preferibilmente quelle che sono le principali e come i nervi e le giunture della vita cristiana, cioè la fede, la speranza e la carità verso Dio e verso il prossimo. Tutta la vita di Maria porta la radiosa impronta di queste virtù in tutte le sue fasi; ma esse raggiunsero il più alto grado di splendore nel tempo in cui Ella assistette il Figlio Suo morente. Gesù è crocifisso e gli si rimprovera maledicendolo “di essersi fatto figlio di Dio“. Maria con ferma costanza riconosce e adora in Lui la divinità. Lo seppellisce dopo morto, senza dubitare un attimo della Sua resurrezione. La Sua ardente carità verso Dio la rende partecipe dei tormenti di Gesù Cristo e compagna della Sua passione; e con Lui, quasi dimentica del proprio dolore, implora perdono per i carnefici benché questi gridino ostinatamente: “Che il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli“. – Ma perché non si creda che Noi abbiamo perduto di vista il Nostro argomento, che è il mistero dell’Immacolata Concezione, quali grandi ed efficaci aiuti si trovano in questa per conservare quelle medesime virtù e praticarle come conviene! E in realtà, da quali principî partono i nemici della Religione per seminare tanti errori e così gravi che la fede di tanti comincia a vacillare? Cominciano col negare la caduta primitiva dell’uomo e la sua decadenza. Sostengono che sono favole il peccato originale e i danni che ne sono conseguiti, cioè la corruzione originaria dell’umanità destinata a corrompere a sua volta tutta la razza umana; e quindi che è una favola l’introduzione del male per gli uomini e l’implicita necessità di un Redentore. Posti questi principi, si comprende facilmente che non rimane più posto né per Cristo, né per la Chiesa, né per la Grazia, né per nulla che vada al di là della natura; in una parola, tutto l’edificio della fede è capovolto. Ora, se i popoli credono e professano che la Vergine Maria è stata fin dall’istante della Concezione preservata da ogni contaminazione, allora è necessario che ammettano il peccato originale, la riabilitazione dell’umanità operata da Gesù Cristo, il Vangelo, la Chiesa e infine la stessa legge della sofferenza; e grazie a questo, tutto ciò che nel mondo esiste di razionalismoe di materialismoviene sradicato e distrutto e rimane alla saggezza cristiana la lode di aver conservata e difesa la verità. – Inoltre è una malvagità comune ai nemici della fede soprattutto in questa nostra epoca, asserire e proclamare che bisogna rifiutare ogni rispetto e ogni obbedienza all’autorità della Chiesa e anche a ogni potere umano pensando che sarà più facile in seguito farla finita con la fede. E questa è l’origine dell’anarchia, la dottrina più nociva e più pericolosa che vi sia per ogni ordine di cose, naturale e soprannaturale. Ora, questa peste, fatale nello stesso tempo per la società e per il nome Cristiano, trova la propria rovina nel dogma dell’Immacolata Concezione di Maria; dogma che obbliga a riconoscere alla Chiesa un potere al quale deve piegarsi non solo la volontà, ma anche lo spirito. Poiché è per l’effetto di simile sottomissione che il popolo cristiano innalza alla Vergine questa lode: “Tu sei tutta bella o Maria e in Te non vi è macchia originale“. E con questo è giustificato ancora una volta ciò che la Chiesa afferma di Lei, cioè che: “Ella da sola ha sterminato le eresie in tutto il mondo“. E se la fede, come dice l’Apostolo, non è altro che “sostanza di cose sperate“, tutti saranno d’accordo nel riconoscere che se l’Immacolata Concezione di Maria rafforza la nostra fede, per la stessa ragione ravviva in noi la speranza. Tanto più che se la Vergine è stata resa immune dalla macchia originaria, è perché doveva essere la Madre di Cristo: ora Ella fu Madre di Cristo perché le nostre anime potessero risorgere alla speranza. – E ora, per tralasciare qui la carità verso Dio, chi non troverebbe nella contemplazione della Vergine Immacolata una spinta a osservare religiosamente il precetto di Gesù Cristo, quello che Egli ha dichiarato suo per eccellenza, e cioè che noi ci amiamo gli uni e gli altri, come Egli ci ha amato? – “Un grande segno— con queste parole l’Apostolo San Giovanni descrive una visione divina — un grande segno è apparso nel cielo: una donna vestita di sole coi piedi sulla luna e una corona di dodici stelle attorno al capo“. Tutti sanno che quella donna rappresenta la Vergine Maria che, rimanendo integra, partorì il nostro Capo. L’Apostolo continua: “Avendo il frutto nel suo seno, il parto le strappava alte grida e le causava crudeli dolori“. San Giovanni, dunque, vide la SS. Madre di Dio già in atto di godere l’eterna beatitudine e tuttavia travagliata da un misterioso parto. Quale parto? Il nostro certamente; di noi che, trattenuti ancora in questo esilio, abbiamo bisogno di essere generati al perfetto amore di Dio e all’eterna felicità. Quanto ai dolori del parto, significano l’ardore e l’amore coi quali Maria veglia su di noi dall’alto dei Cieli e lavora con infaticabili preghiere per completare il numero degli eletti. – Desideriamo che tutti i fedeli cerchino di acquistare quella virtù della carità e soprattutto approfittino per questo delle feste straordinarie che stanno per essere celebrate in onore dell’Immacolata Concezione di Maria. Con quale odio, con quale frenesia viene oggi attaccato Gesù Cristo e la religione che Egli ha fondato! E quindi, quale pericolo per molti; pericolo attuale e imminente di lasciarsi trascinare dall’errore e di perdere la fede! Perciò “Colui che pensa di essere in piedi, si guardi dal cadere“. E, nello stesso tempo, tutti rivolgano a Dio con l’intercessione della Vergine umili e insistenti preghiere perché riconduca sul sentiero della verità coloro che hanno avuto la disgrazia di allontanarsene. Sappiamo per esperienza che la preghiera che sgorga dalla carità e che si appoggia sull’intercessione di Maria nonè mai stata vana. Certamente non ci si può aspettare che gli attacchi contro la Chiesa abbiano mai a finire: “Infatti è necessario che vi siano le eresie perché le anime di fede provata siano palesi fra di voi“. Ma la Vergine non smetterà per conto Suo di sostenerci nelle nostre prove, per quanto siano dure, e di continuare la lotta che ha incominciato al momento della Sua Concezione, di modo che ogni giorno noi potremo ripetere: “Oggi è stata spezzata da Lei la testa dell’antico serpente“. – E affinché i tesori delle grazie Celesti, elargiti più abbondantemente del solito, ci aiutino a congiungere l’imitazione della Beatissima Vergine con gli omaggi che Le renderemo più solenni durante tutto quest’anno, e per arrivare cosi più facilmente a restaurare ogni cosa nel nome di Gesù Cristo, seguendo l’esempio dei Nostri Predecessori all’inizio del loro Pontificato, abbiamo deciso di accordare a tutto il mondo una indulgenza straordinaria sotto forma di Giubileo. – Perciò, appoggiandoCi sulla misericordia di Dio Onnipotente e sull’autorità dei Beatissimi Apostoli Pietro e Paolo, in base a quel potere di legare e di sciogliere che Ci è stato dato malgrado la Nostra indegnità: a tutti i fedeli in generale, e a ciascuno in particolare, dì ambo i sessi, che abitano qui a Roma o vi si trovano di passaggio, che avranno visitato tre volte le quattro basiliche patriarcali a cominciare dalla prima domenica di Quaresima 21 febbraio, fino al 2 giugno, compreso il giorno nel quale si celebra la solennità del SS. Sacramento; e che per un certo periodo avranno devotamente pregato per la libertà e l’esaltazione della Chiesa Cattolica e della Sede Apostolica, per l’estirpazione delle eresie e la conversione dei peccatori, per la concordia di tutti i Principi cristiani, per la pace e l’unità di tutto il popolo fedele, e secondo la Nostra intenzione; e che avranno, durante il periodo indicato, eccettuato i giorni non compresi nell’indulto quaresimale, digiunato una volta usando soltanto alimenti magri; che, avendo confessati i loro peccati, abbiano ricevuto il Sacramento dell’Eucaristia e così pure a tutti gli altri, di tutti i paesi fuori di Roma, che nel suddetto periodo o durante tre mesi da designarsi esattamente dall’ordinario, anche non continui se ciò risulti più comodo per i fedeli, ma in ogni caso prima dell’8 dicembre, avranno visitato tre volte la Chiesa cattedrale e in mancanza di questa la Chiesa parrocchiale e ancora in mancanza di questa la principale Chiesa del luogo; e che avranno devotamente compiute le altre opere più sopra indicate; concediamo e accordiamo l’indulgenza plenaria di tutti i loro peccati: permettendo anche che questa indulgenza, che si può ottenere una sola volta, possa essere applicata a guisa di suffragio alle anime che hanno lasciato questa vita nella grazia di Dio. – Permettiamo inoltre che i viaggiatori di terra e di mare, compiendo le opere più sopra indicate appena tornati al loro domicilio, ottengano la stessa indulgenza. – Ai confessori approvati di fatto dai loro ordinari, diamo la facoltà di commutare in altre opere di pietà quelle da Noi prescritte; questo a favore dei regolari di ambo i sessi e di tutte le altre persone, comunque siano, che non possano compiere queste opere; con facoltà anche di dispensare dalla Comunione quei bambini che non siano ancora stati ammessi a riceverla. – Inoltre, a tutti i fedeli in generale e a ciascuno in particolare, laici o ecclesiastici, regolari o secolari, di qualsiasi Ordine o Istituto, compresi quelli che esigerebbero menzioni speciali, Noi accordiamo il permesso di scegliersi a questo effetto un prete qualunque regolare o secolare fra i sacerdoti approvati (e di questa facoltà potranno essere anche le religiose, le novizie e le altre persone abitanti nei monasteri, purché il confessore in questo caso sia approvato per le monache); questo prete, ove le suddette persone si presentino a lui in questo periodo e gli si confessino nell’intento di ottenere l’indulgenza del Giubileo e di compiere le altre opere che esigono per questo, potrà per questa volta soltanto e unicamente nel foro interiore assolverli da ogni scomunica, sospensione e altre sentenze e censure ecclesiastiche, inflitte per qualunque causa dalla legge o dal giudice, anche nei casi particolarmente riservati a chicchessia, anche al Sovrano Pontefice e alla Sede Apostolica, come pure da tutti i peccati o delitti riservati agli ordinari e a Noi stessi e alla Sede Apostolica; non tuttavia senza avere imposta una salutare penitenza a tutte le altre ingiunzioni prescritte e, se si tratta di eresie, non senza l’abiura e la ritrattazione dovuta di diritto degli errori; lo stesso prete potrà inoltre commutare ogni specie di voto, anche pronunciato sotto giuramento e riservato alla Sede Apostolica (eccetto quello di castità, di religione o quelli che implicano un’obbligazione accettata da un terzo); potrà commutare i voti, dunque, in altre opere devote e salutari e se si tratta di penitenti costituiti negli Ordini, anche regolari, potrà dispensarli da ogni irregolarità contraria all’esercizio dell’Ordine o all’avanzamento a qualche Ordine superiore, ma contratta solamente per violazione di censura. Non intendiamo, d’altronde, con questa lettera, dispensare dalle altre irregolarità, qualunque esse siano e in qualunque modo contratte o per delitto o per difetto, sia pubblicamente, sia nascostamente, o per nota infamante o per qualche altra incapacità o inabilità; così pure non vogliamo derogare alla Costituzione promulgata da Benedetto XIV di felice memoria, che comincia con le parole: “Sacramentum poenitentiæ“, né alle dichiarazioni che sono in essa contenute; e finalmente non intendiamo che la presente lettera possa o debba essere di qualche utilità a coloro che Noi stessi e questa Sede Apostolica o qualche prelato o giudice ecclesiastico avrà espressamente scomunicati, sospesi, interdetti o colpiti con altre sentenze o censure, o che saranno stati pubblicamente denunciati a meno che abbiano dato soddisfazione nel periodo suddetto e che si siano accordati se possibile con le parti. – Siamo lieti di aggiungere che permettiamo che durante tutto il tempo del Giubileo ciascuno conservi interamente il privilegio di ottenere tutte le indulgenze anche plenarie, che sono state accordate da Noi o dai Nostri Predecessori. – Finiamo questa lettera, Venerabili Fratelli, esprimendo ancora la grande speranza che abbiamo nel cuore: e cioè che, per mezzo delle grazie straordinarie di questo Giubileo che Noi accordiamo sotto gli auspici dell’Immacolata Vergine, molti che si sono miserabilmente separati da Gesù Cristo, torneranno a Lui e che rifiorirà nel popolo cristiano l’amore delle virtù e l’ardore della pietà. Cinquant’anni fa, quando Pio IX Nostro Predecessore dichiarò che la Immacolata Concezione della Beatissima Madre di Gesù Cristo doveva essere ritenuta fondamentale nella Fede Cattolica si vide, l’abbiamo ricordato, un’incredibile abbondanza di grazie spargersi sulla terra e l’aumentata speranza nella Vergine apportare dappertutto un notevole progresso nell’antica religione dei popoli. Che cosa dunque ci impedisce di aspettarci qualcosa di meglio ancora per l’avvenire? Certamente noi viviamo in un’epoca triste e abbiamo il diritto di lamentarci con le parole del Profeta: “Non c’è più verità, non c’è più misericordia, non c’è più scienza sulla terra. La maledizione e la menzogna e l’omicidio e il furto e l’adulterio, invadono ogni cosa“. Ciononostante, in questo che si può chiamare un diluvio di male, l’occhio contempla, simile a un arcobaleno, la Vergine misericordiosa arbitra di pace tra Dio e gli uomini. “Io porrò un arco nelle nuvole e sarà un segno d’alleanza tra me e la terra“. Si scateni dunque la tempesta e una densa oscurità invada il cielo: nessuno deve tremare; la vista di Maria placherà Iddio ed Egli perdonerà. “L’arcobaleno sarà nelle nuvole e nel vederlo io mi ricorderò del patto eterno. E non ci sarà più diluvio per ingoiare la carne del mondo“. Non c’è dubbio che, se noi ci affidiamo come conviene a Maria, soprattutto nel tempo in cui solennizzeremo con più ardente devozione la sua Immacolata Concezione; non c’è dubbio che noi sentiremo che Ella è sempre quella Vergine potentissima “che col suo virgineo piede ha schiacciato la testa del serpente“. – Come augurio di queste grazie, o Venerabili Fratelli, vi impartiamo nel nome del Signore, con grande affetto, come pure ai vostri popoli, l’Apostolica Benedizione.

Roma, presso San Pietro, 2 febbraio 1904, anno I dei Nostro Pontificato.

NOTE

1 Il dogma dell’Immacolata Concezione, privilegio in virtù del quale la Vergine fu dal momento stesso della sua concezione esente dalla macchia del peccato originale, fu definito da Pio IX con la bolla Ineffabilis dell’8 dicembre 1854.

2 È il nome che viene dato a Isaia, padre di Davide. Radice di Jesse, vale “stirpe di Davide”.

3 Si allude ai vari passi biblici dai quali i teologi traggono argomento, riconoscendoli quali premonitori della missione divina di Maria.

4 Qui si fa richiamo alla definizione del Concilio di Efeso dell’anno 431, che attribuì a Maria la sublime maternità di Dio. L’unione ipostatica in Gesù Cristo della doppia natura divina ed umana porta a Maria di potere e dover essere chiamata Madre di Dio.

5 A Maria assunta alla gloria del Cielo (come al dogma definito solamente nel 1950) è dovuto il massimo culto che a creatura possa essere dedicato (iperdulia): come alla più sicura mediatrice di grazia presso il Figlio.

6 Nato a Siena nel 1380, morto all’Aquila nel 1444. A lui è dovuta l’opera di apostolato svolta durante la pestilenza che desolò Siena nel 1400. Di famiglia abbiente, abbandonò ogni ricchezza ai poveri e si fece religioso nell’Ordine dei Francescani.

7 Dei numerosi santi e teologi di questo nome è qui ricordato Denys le Chartreux (in italiano Dionisio il Certosino) che si ritrova anche citato con il nome di Denys di Reken dal nome del paese fiammingo dove era nato nel 1394. Teologo di grande fama: si contano a circa duecento le opere da lui composte. Morì nel 1471.

29 SETTEMBRE: S. MICHELE

29 Settembre: In Dedicatione S. Michælis Archangelis ~ Duplex I. classis

Doppio di 1′ classe. – Paramenti bianchi.

Il 29 settembre era una volta consacrato a tutti gli Angeli (Intr., Or., Grad., Com.); il Papa Bonifacio II, verso il 530, scelse questadata per dedicare a S. Michele una chiesa nel gran circo, a Roma.La Messa, usata per la circostanza, fu quella della 18a Domenica dopo la Pentecoste e si riferisce ad una dedicazione dellaChiesa. Quella attuale è di epoca più recente. Il nome di Michele significa in ebraico: «Chi come Dio?» e ci ricorda il combattimento che si scatenò In cielo tra « l’Arcangelo di Dio, che meritò di essere messo alla testa della milizia celeste » e il demonio. Caduti noi in potere di satana per il peccato, tocca a S. Michele continuare la lotta per liberarci (All. e Preghiera dopo la Messa). Egli ha vinto l’orgoglio di satana e ci ottiene l’umiltà. Egli presiede al culto di adorazione che si rende all’Altissimo, perché offre a Dio le preghiere dei Santi, simbolizzate dall’incenso il cui fumo sale verso il cielo (Off. Benedizione dell’incenso). Quando un Cristiano ha abbandonato questo mondo, si prega che il vessillifero S. Michele lo faccia entrare nel cielo: sovente viene rappresentato con la bilancia della giustizia divina, dove sono pesate le anime. Il suo nome si trova nel Confiteor dopo quello di Maria, che è la Regina degli Angeli. Angelo protettore della Sinagoga, S. Michele è anche quello della Chiesa che le succedette La liturgia attribuisce a lui la rivelazione del futuro fatta a San Giovanni nella sua Apocalisse (Ep.).

[Messale Romano di S. Bertola e G. De Stefani; L.I.C.E – R. Berruti & c. Torino, 1936]

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps CII: 20.
Benedícite Dóminum, omnes Angeli ejus: poténtes virtúte, qui fácitis verbum ejus, ad audiéndam vocem sermónum ejus. [Benedite il Signore, voi tutti Ángeli suoi: gagliardi esecutori dei suoi ordini, pronti ad una sua parola].Ps CII: 1
Benedic, ánima mea. Dómino: et ómnia, quæ intra me sunt, nómini sancto ejus.
[
Benedici, ànima mia, il Signore, e tutto il mio intimo benedica il suo santo nome].

Benedícite Dóminum, omnes Angeli ejus: poténtes virtúte, qui fácitis verbum ejus, ad audiéndam vocem sermónum ejus. [Benedite il Signore, voi tutti Ángeli suoi: gagliardi esecutori dei suoi ordini, pronti ad una sua parola].

Oratio

Orémus.
Deus, qui, miro órdine, Angelórum ministéria hominúmque dispénsas: concéde propítius; ut, a quibus tibi ministrántibus in coelo semper assístitur, ab his in terra vita nostra muniátur. [O Dio, che con ordine meraviglioso distribuisci gli uffici degli Angeli e degli uomini, concédici, propizio, che da coloro che in cielo continuamente servono alla tua presenza, sia difesa in terra la nostra vita].

Lectio

Léctio libri Apocalýpsis beáti Joánnis Apóstoli.
Apoc 1: 1-5
In diébus illis: Significávit Deus, quæ opórtet fíeri cito, mittens per Angelum suum servo suo Joánni, qui testimónium perhíbuit verbo Dei, et testimónium Jesu Christi, quæcúmque vidit. Beátus, qui legit et audit verba prophetíæ hujus: et servat ea, quæ in ea scripta sunt: tempus enim prope est. Joánnes septem ecclésiis, quæ sunt in Asia. Grátia vobis et pax ab eo, qui est et qui erat et qui ventúrus est: et a septem spirítibus, qui in conspéctu throni ejus sunt: et a Jesu Christo, qui est testis fidélis, primogénitus mortuórum et princeps regum terræ, qui diléxit nos et lavit nos a peccátis nostris in sánguine suo.
[In quel tempo: Dio rivelò le cose che presto debbono accadere, inviando per mezzo del suo Angelo il messaggio al suo servo Giovanni, il quale attesta che tutto quello che vide è parola di Dio e testimonianza di Gesù Cristo. Beato chi legge e ascolta le parole di questa profezia: e serba le cose che in essa sono scritte, poiché il tempo è vicino. Giovanni alle sette Chiese che sono nell’Asia. Grazia a voi e pace da parte di Colui che è, era e sta per venire; e dei sette spiriti che sono dinanzi al suo trono, e di Gesù Cristo che è il testimonio fedele, il primogenito tra i morti e il principe dei re della terra, il quale ci amò e ci lavò dai nostri peccati col proprio sangue].

Graduale

Ps CII: 20; :1
Benedícite Dóminum, omnes Angeli ejus: poténtes virtúte, qui fácitis verbum ejus.
V. Benedic, ánima mea, Dóminum, et ómnia interióra mea, nomen sanctum ejus. Allelúja, allelúja.  

V. Sancte Míchaël Archángele, defénde nos in proelio: ut non pereámus in treméndo judício. Allelúja.


[Benedite il Signore, voi tutti Ángeli suoi, gagliardi esecutori dei suoi ordini, pronti ad una sua parola.
V. Benedici, ànima mia, il Signore, e tutto il mio intimo benedica il suo santo nome. Allelúia, allelúia.
V. San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia, affinché non periamo nel tremendo giudizio. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XVIII: 1-10
In illo témpore: Accessérunt discípuli ad Jesum, dicéntes: Quis, putas, major est in regno cœlórum? Et ádvocans Jesus parvulum, statuit eum in médio eórum et dixit: Amen, dico vobis, nisi convérsi fuéritis et efficiámini sicut párvuli, non intrábitis in regnum cœlorum. Quicúmque ergo humiliáverit se sicut párvulus iste, hic est major in regno coelórum. Et qui suscéperit unum párvulum talem in nómine meo, me súscipit. Qui autem scandalizáverit unum de pusíllis istis, qui in me credunt, expédit ei, ut suspendátur mola asinária in collo ejus, et demergátur in profúndum maris. Væ mundo a scándalis! Necésse est enim, ut véniant scándala: verúmtamen væ hómini illi, per quem scándalum venit! Si autem manus tua vel pes tuus scandalízat te, abscíde eum et prójice abs te: bonum tibi est ad vitam íngredi débilem vel cláudum, quam duas manus vel duos pedes habéntem mitti in ignem ætérnum. Et si óculus tuus scandalízat te, érue eum et prójice abs te: bonum tibi est cum uno óculo in vitam intráre, quam duos óculos habéntem mitti in gehénnam ignis. Vidéte, ne contemnátis unum ex his pusíllis: dico enim vobis, quia Angeli eórum in cœlis semper vident fáciem Patris mei, qui in cœlis est.
[In quel tempo: Si presentarono a Gesú i discepoli e gli dissero: Chi ritieni tu il piú grande nel regno dei cieli? E Gesú, chiamato a sé un fanciullo, lo pose in mezzo ad essi e rispose: In verità vi dico che, se non vi convertirete e non diverrete come fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli. Quindi, chiunque si farà piccolo come questo fanciullo, questi sarà il piú grande nel regno dei cieli. E chiunque accoglierà nel nome mio un fanciullo come questo, accoglie me stesso. Chi poi scandalizzerà uno di questi piccoli, che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una màcina d’àsino e fosse immerso nel profondo del mare. Guai al mondo per gli scandali. Poiché è inevitabile che vi siano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale viene lo scandalo. Che se la tua mano e il tuo piede ti è di scandalo, troncali e gettali via da te: è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che essere gettato nel fuoco eterno con tutte e due le mani o i piedi. E se il tuo occhio ti è di scandalo, lévatelo e géttalo via da te: è meglio per te entrare nella vita con un solo occhio, che essere gettato nel fuoco della geenna con due occhi. Guardatevi dal disprezzare qualcuno di questi piccoli: vi dico che i loro Ángeli nei cieli vedono sempre il volto del Padre mio che è nei cieli].

Omelia

[Dom P. Guéranger. L’Anno liturgico, vol. II, Ed Pailine, Alba, 1956]

La dedicazione di S. Michele è la festa più solenne che la Chiesa celebra nel corso dell’anno in onore di questo Arcangelo, e tuttavia lo riguarda meno personalmente perchè vi si onorano tutti i cori della gerarchia angelica. Nell’inno dei primi Vespri la Chiesa propone alla nostra preghiera l’oggetto della festa di oggi con le parole di Rabano Mauro, abate di Fulda: Celebriamo con le nostre lodi Tutti i guerrieri del cielo, Ma soprattutto il capo supremo Della milizia celeste: Michele che, pieno di valore, Ha abbattuto il demonio (versione antica del Breviario monastico).

Origine della festa.

La festa dell’otto maggio richiama il ricordo dell’apparizione al monte Gargano e nel Medioevo si celebrava soltanto nell’Italia del Sud. La festa del 29 settembre è propria di Roma e segna l’anniversario della Dedicazione di una basilica, oggi scomparsa, che sorgeva sulla via Salaria, a Nord-Est della città. Il fatto della dedicazione spiega il titolo conservato alla festa nel Messale Romano: Dedicatio sancti Michaèlis. Le Chiese di Francia e Germania, che nel Medioevo seguivano la liturgia romana, hanno attenuato spesso nei loro libri liturgici il titolo originario della festa, che venne presentata come festa In Natale o In Veneratione sancti Michaèlis, così che dell’antico titolo non restava altro che il nome dell’Arcangelo.

L’ufficio di san Michele.

Anche l’Ufficio non poteva conservare il ricordo della dedicazione. Infatti gli antichi Uffici relativi alle dedicazioni celebravano il Santo in onore del quale la chiesa era consacrata e non l’edificio materiale in cui egli era onorato; non avevano perciò niente di impersonale e rivestivano anzi un carattere molto circostanziato. – L’Ufficio di san Michele può essere considerato una delle più belle composizioni della nostra liturgia e ci fa contemplare ora il Principe delle milizie celesti e capo degli Angeli buoni, ora il ministro di Dio, che assiste al giudizio dell’anima di ogni defunto, ora ancora l’intermediario, che porta sull’altare della liturgia celeste le preghiere dell’umanità fedele.

L’Angelo turiferario.

I primi Vespri cominciano con l’Antifona Stetit Angelus, che deriva il testo dall’Offertorio della Messa del giorno: « Un Angelo stava presso l’altare del tempio e aveva un incensiere in mano: gli diedero molto incenso e il fumo profumato si elevò fino a Dio ». L’Orazione della benedizione dell’incenso alla Messa solenne designa il nome di questo Angelo turiferario: « Il beato Arcangelo Michele ». Il libro dell’Apocalisse dal quale son presi i testi liturgici ci spiega che i profumi, che salgono alla presenza di Dio sono le preghiere dei giusti: « Il fumo degli aromi formato dalle preghiere dei santi salgono dalla mano dell’angelo davanti a Dio » (Apoc. 8, 4). –

Il Mediatore della Preghiera eucaristica.

È ancora Michele che presenta al Padre l’offerta del Giusto per eccellenza ed Egli infatti è designato nella misteriosa preghiera del Canone della Messa in cui la santa Chiesa chiede a Dio di portare sull’altare sublime, per mano dell’Angelo Santo, l’oblazione sacra in presenza della divina Maestà. È cosa molto sorprendente notare negli antichi testi liturgici romani che san Michele è sovente chiamato l’Angelo Santo, l’Angelo per eccellenza. Probabilmente sotto il pontificato di Papa Gelasio fu compiuta la revisione del testo del Canone nel quale l’espressione al singolare Angeli tui fu sostituita con quella al plurale Angelorum tuorum. Proprio a quell’epoca, sul finire del v secolo, l’Angelo era apparso al vescovo di Siponto, presso il Monte Gargano.

Vocazione contemplativa degli Angeli.

Come si vede la Chiesa considera san Michele mediatore della sua preghiera liturgica; egli è posto tra l’umanità e la divinità. Dio, che dispose con ordine ammirabile le gerarchie invisibili (Colletta della Messa) impiega, per opulenza, a lodare la sua gloria il ministero degli spiriti celesti, che contemplano continuamente l’adorabile faccia del Padre (Finale del Vangelo della Messa) e, meglio che gli uomini, sanno adorare e contemplare la bellezza delle sue infinite perfezioni. Mi-Ka-El: Chi è come Dio? Il nome esprime da solo, nella sua brevità, la lode più completa, la più perfetta adorazione, la riconoscenza totale per la trascendenza divina e la più umile confessione della nullità delle creature. – Anche la Chiesa della terra invita gli spiriti a benedire il Signore, a cantarlo, a lodarlo e esaltarlo senza soste (Introito, Graduale, Communio della Messa; Antifona dei Vespri). La vocazione contemplativa degli Angeli è modello della nostra e ce lo ricorda un bellissimo prefazio del Sacramentario leoniano: « È cosa veramente degna… rendere grazie a Te, che ci insegni, per mezzo del tuo Apostolo, che la nostra vita è trasferita in cielo, che, con benevolenza comandi, di trasportarci in spirito là dove quelli che noi veneriamo servono e di tendere verso le altezze, che nella festa del beato Arcangelo Michele contempliamo nell’amore, per il Cristo nostro Signore ».

Aiuto dell’umanità.

La Chiesa sa pure che a questi spiriti consacrati al servizio di Dio è stato affidato un ministero al fianco di coloro, che devono raccogliere l’eredità della salvezza (Ebr. I, 14). Senza attendere la festa del 2 ottobre, dedicata in modo speciale agli Angeli custodi, la Chiesa già oggi chiede a san Michele e ai suoi Angeli di difenderci nei combattimenti che dobbiamo sostenere (Alleluia della Messa; Preghiera ai piedi dell’altare dopo l’ultimo Vangelo). Chiede ancora a san Michele di ricordarsi di noi e di pregare per noi il Figlio di Dio, perché nel giorno terribile del giudizio non abbiamo a perire. Nel giorno terribile del giudizio il grande Arcangelo, vessillifero della milizia celeste, difenderà la nostra causa davanti all’Altissimo (Antif. Del Magnificat ai secondi Vespri) e ci farà entrare nella luce santa (Offertorio della Messa dei defunti).

Preghiera.

Da questa terra, nella lotta contro le potenze del male, possiamo rivolgere all’Arcangelo la preghiera di esorcismo che Leone XIII inserì nel rituale della Chiesa Romana: « Principe gloriosissimo della celeste milizia, san Michele Arcangelo, difendici nel combattimento contro le forze, le potenze, i capi del mondo delle tenebre e contro lo spirito di malizia. Vieni in soccorso degli uomini, che Dio ha fatti a sua immagine e somiglianza e riscattati a duro prezzo dalla tirannia del diavolo. » La Santa Chiesa ti venera come custode e patrono; Dio ti ha confidato le anime redente per portarle alla felicità celeste. Prega il Dio della pace, perché schiacci satana sotto i nostri piedi, per strappargli il potere di tenere gli uomini in schiavitù e di nuocere alla Chiesa. Offri le nostre preghiere all’Altissimo perché sollecitamente scendano su noi le misericordie del Signore e il dragone, l’antico serpente, chiamato diavolo e satana, sia precipitato, stretto in catene, nell’abisso, perché non possa più sedurre i popoli ».

 Credo …

Offertorium

Orémus
Apoc VIII: 3; 4
Stetit Angelus juxta aram templi, habens thuríbulum áureum in manu sua, et data sunt ei incénsa multa: et ascéndit fumus aromátum in conspéctu Dei, allelúja.  [L’Angelo si fermò presso l’altare del tempio, tenendo un turíbulo d’oro in mano, e gli fu dato molto incenso: e il fumo degli aromi salí al cospetto di Dio, allelúia].

Secreta

Hóstias tibi, Dómine, laudis offérimus, supplíciter deprecántes: ut easdem, angélico pro nobis interveniénte suffrágio, et placátus accípias, et ad salútem nostram proveníre concédas. [Ostie di lode Ti offriamo, o Signore, pregandoTi supplichevoli: affinché, per intercessione degli Ángeli, le accetti propizio e le renda proficue alla nostra salvezza].

Communio

Dan III: 58
Benedícite, omnes Angeli Dómini, Dóminum: hymnum dícite et superexaltáte eum in sǽcula. [Benedite il Signore, Angeli tutti del Signore: cantate inni e superesaltatelo nei secoli].

Postcommunio

Orémus.
Beáti Archángeli tui Michælis intercessióne suffúlti: súpplices te, Dómine, deprecámur; ut, quod ore prosequimur, contingamus et mente.
[Sostenuti dall’intercessione del tuo beato Michele Arcangelo: súpplici Ti preghiamo, o Signore, affinché di quanto abbiamo ricevuto con la bocca, conseguiamo l’effetto nell’ànima].

Per l’ordinario vedi:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2019)

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2019)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXXV: 3; 5
Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te. [Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].
Ps LXXXV: 1
Inclína, Dómine, aurem tuam mihi, et exáudi me: quóniam inops, et pauper sum ego.
[Porgi l’orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi, perché sono misero e povero].

Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te. [Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].

Oratio

Orémus.
Tua nos, quǽsumus, Dómine, grátia semper et prævéniat et sequátur: ac bonis opéribus júgiter præstet esse inténtos.
[O Signore, Te ne preghiamo, che la tua grazia sempre ci prevenga e segua, e faccia che siamo sempre intenti alle opere buone].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios
Ephes III: 13-21

Fratres: Obsecro vos, ne deficiátis in tribulatiónibus meis pro vobis: quæ est glória vestra. Hujus rei grátia flecto génua mea ad Patrem Dómini nostri Jesu Christi, ex quo omnis patérnitas in cœlis et in terra nominátur, ut det vobis secúndum divítias glóriæ suæ, virtúte corroborári per Spíritum ejus in interiórem hóminem, Christum habitáre per fidem in córdibus vestris: in caritáte radicáti et fundáti, ut póssitis comprehéndere cum ómnibus sanctis, quæ sit latitúdo et longitúdo et sublímitas et profúndum: scire etiam supereminéntem sciéntiæ caritátem Christi, ut impleámini in omnem plenitúdinem Dei. Ei autem, qui potens est ómnia fácere superabundánter, quam pétimus aut intellégimus, secúndum virtútem, quæ operátur in nobis: ipsi glória in Ecclésia et in Christo Jesu, in omnes generatiónes sæculi sæculórum. Amen.

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,D

IL PROGRESSO DELLA VITA INTERIORE

“Fratelli: Vi scongiuro di non perdervi di coraggio a motivo delle tabulazioni che io soffro per voi. Esse sono la vostra gloria. Perciò io piego i ginocchi davanti al Padre del Nostro Signore Gesù Cristo, dal quale prende nome ogni famiglia, in cielo e in terra, affinché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, d’essere fortemente corroborati, mediante il suo spirito, nell’uomo interiore: che Cristo per mezzo della fede abiti nei vostri cuori, affinché, profondamente radicati e fondati nella carità, possiate comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità; e d’intendere anche quell’amore di Cristo che sorpassa ogni coscienza, di modo che siate ripieni di tutta la pienezza di Dio. A Lui che, secondo la possanza che opera in noi, può tutto infinitamente di là di quanto noi domandiamo e pensiamo: a Lui sia gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni di tutti i secoli”. (Efes. III, 33-21).

L’Epistola è tolta dalla lettera agli Efesini. Quei di Efeso sono stati chiamati alla fede. Per questo, S. Paolo, che si trova in prigionia a Roma, si rivolge a Dio, Padre degli Angeli e degli uomini, pregandolo ardentemente che spanda sugli Efesini la ricchezza della sua gloria, fortificandoli, per mezzo della grazia dello Spirito Santo, nella vita spirituale incominciata con il Battesimo, unendoli, mediante la fede e la carità in Gesù Cristo, con unione così intima, che la vita in Lui sia costante e in tutta la pienezza. E così diventino capaci di comprendere l’amor di Dio, che abbraccia tutta la creazione, che non conosce limiti di tempo, di spazio, di misura; e siano ricolmi di tutti quei doni, la cui piena sorgente si trova in Dio. L’Apostolo domanda molto; ma Dio, nella sua onnipotenza sa far di più di quanto noi possiamo domandare e comprendere. A Lui, dunque, si renda gloria per tutti i secoli. Il desiderio ardente dell’Apostolo per il progresso degli Efesini nella vita spirituale incominciata, si riferisce anche a noi. La nostra vita interiore:

1 Deve progredire,

2 Sostenuta dalla fede,

3 E dalla carità.

1.

Io piego i ginocchi davanti al Padre del nostro Signore Gesù Cristo… affinché vi conceda… d’essere fortemente corroborati, mediante il suo spirito, nell’uomo interiore.Con queste parole l’Apostolo assicura agli Efesini che trale angustie della prigionia non li dimentica, ma prega il Signore che, per mezzo delle grazie dello Spirito Santo, li rassodi e li fortifichi quanto alla vita interiore, cioè quanto alla vita dell’anima rigenerata alla grazia. Il Cristiano, che con il Battesimo è nato alla vita spirituale, sarebbe irragionevole se si accontentasse di vivere una vita spirituale stentata. Nessuno rinuncerebbe a una vita piena di sanità e di vigore per vivere una vita stentata, malaticcia, zoppicante. Il Cristiano che si accontenta di tirare innanzi come si può, di non commettere disordini gravi, di non perdere la grazia di Dio; … e non si dà premura di fortificarsi, rassodarsi nella vita spirituale, più che vivere, sonnecchia, più che camminare, zoppica. E se seguiamo Gesù Cristozo ppicando, resteremo molto indietro, con pericolo di perderlo.Dirai: quando uno ha lavorato, ha diritto a un riposo. Qualche cosa di buono ho fatto nella vita spirituale. Adesso basta. Ci sono dei lavori in cui non si può dir basta. Chi costruisce un edificio sarebbe burlato da tutti e stimato per pazzo se, arrivato a metà, dicesse: — Adesso basta. Questo edificio non ha più bisogno di altri lavori. Si è fatto abbastanza. — Nella costruzione del nostro edificio spirituale, sarebbe una pazzia fermarsi a metà. «Questa — dice S. Agostino — è la tua perfezione: l’aver superate alcune cose in modo che ti appresti a superarne altre» (En. in Ps. XXXVIII, 14). Col procedere degli anni, dunque, il Cristiano deve procedere anche nel bene. La sua vita spirituale, al contrario di quanto avviene rispetto alla vita fisica, col procedere degli anni, invece di affievolirsi deve ingagliardirsi sempre più. È evidente. Se Dio prolunga la vita all’uomo, lo fa per il suo maggior bene. «Dio non prolunga a nessuno il tempo, perché con il vivere a lungo abbia a cadere, e allontanarsi dalla retta fede nella sua longevità; dovendosi tra i benefici di Dio annoverare appunto la longevità, nella quale l’uomo non deve essere peggiore, ma migliore»  (S. Prospero d’Aquit. Sent. sup. cap. Gall. 3.) – «Progredite sempre più», diceva l’Apostolo ai Tessalonicesi (I Tess. IV, 1). E quanto a sé dichiarava: «Dimentico di quel che ho dietro le spalle, e stendendomi verso le cose che mi stanno davanti, mi avanzo verso il segno» (Filipp. III, 13-14). Imitiamolo.

2.

Io prego ancora — dice S. Paolo rivolto agli Efesini che Cristo per mezzo della fede abiti nei vostri cuori. Con ferma adesione a tutte le verità rivelate Cristo abiterà nei cuori degli Efesini in modo sempre più perfetto. Una ferma adesione alle verità della fede è più che mai necessaria per una vita spirituale vigorosa. Nel principio della vita spirituale sentiamo molte dolcezze. Dio provvede alla nostra infanzia spirituale con il cibo delicato delle consolazioni. Ma poi a questo cibo ne sostituisce uno più solido: quello delle amarezze. La fede ci sostiene nell’ora della prova, tenendo il luogo delle consolazioni. Quando Gesù, salendo al cielo, si sottrasse alla vista degli Apostoli; questi non sapevano decidersi a discendere dal monte: pareva loro di essere abbandonati. Ma presto si risovvennero delle parole di Gesù: «Ecco, Io sono con voi tutti i giorni fino al compimento del secolo» (Matth. XXVIII, 20). E in queste parole trovano coraggio e spinta a proseguire l’opera loro. Noi pure troviamo forza e vigore a proseguire nella vita spirituale cominciata negli insegnamenti della fede. Siano pochi o tanti gli ostacoli, siano da poco o molto grandi li vinceremo tutti con una fede viva nell’aiuto di Dio. Quando Giuda Maccabeo, con poca gente, si fece incontro al potente esercito di Siria, comandato da Seron, i suoi furono presi da grande scoraggiamento. « Come potremo  noi — gli osservarono, — sì poco numerosi, combattere contro una moltitudine tanto grande e potente, spossati come siamo oggi dal digiuno? Giuda rispose: « È cosa facile che molti restino preda di pochi. Per il Dio del cielo non c’è differenza tra il salvar per mano di molti o per mano di pochi. Poiché la vittoria in guerra non dipende dal numero delle schiere: la forza viene dal cielo » (1 Mac. III, 17-19). Animati da tale fede, Giuda e i suoi pochi si gettarono sull’esercito di Seron e lo sconfissero pienamente. Animati da una tale fede nell’aiuto e nelle promesse di Dio, non ci arresteremo e non vacilleremo mai, nella via dello spirito, davanti a ostacoli di qualsiasi genere e di qualsiasi numero: procederemo, anzi più fortificati e invigoriti. Quei che sono deboli nella fede cadono facilmente neitranelli che tendono i seminatori di errori, o, come dice più avanti l’Apostolo agli Efesini, sono come i « fanciulli vacillanti, portati qua e là da ogni vento di dottrina per gli inganni degli uomini; per le astuzie che rendono seducente l’errore » (Efes. IV, 14). Ma se la fede è ben radicata e fondata nei cuori, non sarà scossa dagli errori che gente superba o dal cuor guasto cerca di seminare ovunque, e che ci tolgono di vivere secondo i precetti di Dio, in stretta unione con Lui. Non deve recar meraviglia se coloro che vivono nell’idolatria, essendo privi del lume della fede, nella loro condotta seguano cecamente la via tracciata dalle passioni. È  incomprensibile, invece, che vivano una tale vita i Cristiani, i quali, nelle verità della fede, alla scuola di Gesù Cristo, trovano l’insegnamento della santità e l’impulso a praticarla. « Il sentiero dei giusti è come luce splendente, è come luce che cresce fino a pieno giorno », dice Salomone (Prov. IV, 18). Luce splendente e perfetta sono gli insegnamenti della fede, gli esempi che ci ha lasciati Gesù Cristo. Seguendo questi la nostra vita spirituale si rafforzerà di giorno in giorno.

3.

« La mente del credente assume le ali della fede, affinché, sollevato dalla terra e tutto assorto nello spirito possa comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza e la lunghezza e la profondità della scienza di Dio» (S. Gaudenzio di Brescia. Sermo 14, De div. cap. 4). Il credente, sull’ali della fede animata dalla carità, s’inoltra sempre più, per quanto a mente umana è possibile, nella cognizione di Dio e di quell’amore di Cristo, senza misura, che Egli ci ha dimostrato nell’Incarnazione. La sempre maggior cognizione di Dio, del suo amore immenso servono mirabilmente a far progredire il Cristiano nella sua vita spirituale; poiché quanto più conosciamo Dio, tanto più siamo spinti ad amarlo, con un amore che dia vita a tutte le nostre azioni. Come un albero, per mezzo dalle radici assorbisce l’umore che gli dà vita e incremento; così per mezzo della carità, o amor di Dio, il Cristiano vive e consolida la sua vita interna. L’amor di Dio fa trovar più gusto nella preghiera, nei sacramenti nell’ascoltar la parola del Vangelo, che non nei perditempi e nelle dissipazioni del mondo. L’amor di Dio fa preferire la mortificazione, il distacco dai beni terreni, le opere di misericordia, ai godimenti dei sensi, alla cupidigia, ai divertimenti pericolosi. L’amor di Dio dà il coraggio di mostrarsi pubblicamente Cristiani fra i motteggi e i sarcasmi del mondo; dà la costanza fra le dure prove. L’Apostolo chiede a Dio non solo che gli Efesini abbiano la carità, ma chiede che siano profondamente radicati e fondati nella carità, « affinché — come nota il Crisostomo — non possa essere smossa dai venti, né abbattuta da qualsiasi altra forza » (In Ep. ad Efes. hom. 7, 2). La maggior conoscenza di Dio e del suo amore immenso per noi ci renderà sempre più irremovibili nella buona via intrapresa. Fede viva e carità ardente ci renderanno saldi come quegli alberi che resistono all’infuriare di tutti i venti; e, passata la tempesta, sollevano la cima in atto di tendere sempre più in alto, al cielo. Dio non ci negherà il chiesto aiuto, Egli che può fare tutto infinitamente di là di quanto noi domandiamo o possiamo. Noi da parte nostra ricordiamoci che chi più lavora, più raccoglie.

Graduale

Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore, e tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua. [Poiché il Signore ha edificato Sion e sarà veduto nella sua maestà.]

Alleluja

Allelúja, allelúja
Ps XCVII: 1
Cantáte Dómino cánticum novum: quia mirabília fecit Dóminus. Allelúja.
[Cantate al Signore un cantico nuovo: perché Egli fece meraviglie. Allelúia.]

 Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIV: 1-11
In illo témpore: Cum intráret Jesus in domum cujúsdam príncipis pharisæórum sábbato manducáre panem, et ipsi observábant eum. Et ecce, homo quidam hydrópicus erat ante illum. Et respóndens Jesus dixit ad legisperítos et pharisaeos, dicens: Si licet sábbato curáre? At illi tacuérunt. Ipse vero apprehénsum sanávit eum ac dimísit. Et respóndens ad illos, dixit: Cujus vestrum ásinus aut bos in púteum cadet, et non contínuo éxtrahet illum die sábbati? Et non póterant ad hæc respóndere illi. Dicebat autem et ad invitátos parábolam, inténdens, quómodo primos accúbitus elígerent, dicens ad illos: Cum invitátus fúeris ad núptias, non discúmbas in primo loco, ne forte honorátior te sit invitátus ab illo, et véniens is, qui te et illum vocávit, dicat tibi: Da huic locum: et tunc incípias cum rubóre novíssimum locum tenére. Sed cum vocátus fúeris, vade, recúmbe in novíssimo loco: ut, cum vénerit, qui te invitávit, dicat tibi: Amíce, ascénde supérius. Tunc erit tibi glória coram simul discumbéntibus: quia omnis, qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XLIV.

“In quel tempo Gesù entrato in giorno di sabato nella casa di uno de’ principali Farisei per ristorarsi, questi gli tenevano gli occhi addosso. Ed eccoti che un certo uomo idropico se gli pose davanti. E Gesù rispondendo prese a dire ai dottori della legge e ai Farisei: È egli lecito di risanare in giorno di sabato? Ma quelli si tacquero. Ed egli toccandolo lo risanò, e rimandollo. E soggiunse, e disse loro: Chi di voi, se gli è caduto l’asino o il bue nel pozzo, non lo trae subito fuori in giorno di sabato? Né a tali cose poterono replicargli. Disse ancora ai convitati una parabola, osservando com’ei si pigliavano i primi posti dicendo loro: Quando sarai invitato a nozze, non ti mettere a sedere nel primo posto, perché a sorte non sia stato invitato da lui qualcheduno più degno di te: e quegli che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedi a questo il luogo; onde allora tu cominci a star con vergogna nell’ultimo posto. Ma quando sarai invitato va a metterti nell’ultimo luogo, affinché venendo chi ti ha invitato, ti dica: Amico, vieni più in su. Ciò allora ti fia d’onore presso tutti i convitati. Imperocché chiunque si innalza, sarà umiliato; e chi si umilia sarà innalzato”.

Chi per poco considera la vita pubblica di nostro Signor Gesù Cristo, riconosce tosto, che la maggior parte dei suoi miracoli furono da Lui operati in giorno di sabbato. E il giorno di sabbato nell’antica legge, presso gli Ebrei, era il giorno festivo, al quale nella legge nuova dagli Apostoli, a ricordare i grandi misteri della Risurrezione di Gesù Cristo e della Pentecoste, fu sostituito il giorno di Domenica, che vuol dire appunto giorno del Signore. E perché mai il Salvatore fece preferibilmente i suoi miracoli in giorno di sabato? Soprattutto per due ragioni. La prima: per reagire contro i pregiudizi degli Ebrei, i quali dell’osservanza del sabbato erano andati a tale eccesso da contare sino a 39 i lavori interdetti in quel giorno e di aver formulate sino a 1279 regole in proposito! Così ogni miracolo operato da Gesù Cristo in giorno di sabbato faceva sentire agli Ebrei che il rigorismo dei loro Dottori della legge era un’esagerazione, e che l’amor di Dio e l’amor del prossimo debbono vincerla sulla legge del riposo, che è puramente positiva. La seconda poi, perché nel giorno di sabbato, in cui il popolo si asteneva dal lavoro, più facilmente poteva vedere ancor esso quei miracoli ed ascoltare le istruzioni, con cui li accompagnava. Imperciocché, dice San Giovanni Grisostomo, per quanto grande fosse la modestia del Salvatore, pure non tralasciava di provvedere a che i suoi miracoli non passassero inosservati, né potessero essere invocati in dubbio, onde confermare così sempre più efficacemente la dottrina, che andava predicando. Or bene il miracolo, che ci racconta il Vangelo di questa domenica, sebbene da Gesù Cristo operato in una casa privata, fu tuttavia operato in giorno di sabbato, e specialmente per la prima delle ragioni sopradette.

1. In quei tempi adunque, – dice il Vangelo – Gesù Cristo entrato in giorno di sabbato nella casa di uno dei principali Farisei per ristorarsi, questi gli tenevano gli occhi addosso. Or bene, che i Farisei, nemici dichiarati del Redentore, attentamente lo spiassero non ci deve recar meraviglia: già molte volte nel Vangelo abbiamo potuto conoscere la perfida condotta di questi maligni ipocriti contro di Gesù. Ciò che può far meraviglia sono queste due cose: la prima, che Gesù accetti di andar a pranzo; la seconda accetti di andarvi presso uno dei principali Farisei. Riguardo a quest’ultima osserva tosto San Cirillo, che Gesù accettò l’invito in quella casa allo scopo di essere utile a quei che vi erano presenti e con le parole e con i miracoli. Riguardo poi alla prima, Gesù ha voluto farci intendere che non è proibito anche ad un buon Cristiano il prender parte a qualche onesta allegria. Adunque sull’esempio del Figliuol di Dio un Cristiano può accettare qualche invito, che gli venga fatto, e sedere ad un banchetto. Simili adunanze non sono in se stesse cattive, e possono contribuire a stringere i vincoli, che uniscono le famiglie, ed a perpetuare fra parenti e vicini una dolce ed edificante armonia. I primi Cristiani avevano le loro agapi, ossia sacri banchetti, in cui i ricchi alimentava i poveri e con essi sedevano a mensa facendo per tal modo scomparire ogni distinzione sociale, e guardandosi davvero come fratelli e figliuoli d’un medesimo Padre, che è nei cieli. Ciò che tuttavia Gesù Cristo non intende assolutamente di approvare col suo esempio sono quei banchetti, in cui regna la prodigalità e la gozzoviglia, quei pasti in cui non si cerca altro che d’accontentare la gola. Difatti nel sacro testo del Vangelo è detto, che Gesù Cristo accettò di andare dal Fariseo manducare panem, per mangiare il pane, ossia quasi per prendere soltanto quel cibo, che da tutti è stimato di prima necessità. Quanti invece vi hanno fra i ricchi, i quali in un banchetto spendono e sprecano centinaia e migliaia di lire, che con tanta utilità potrebbero impiegare a soccorrere i poveri! Quanti poi vi sono tra i Cristiani, i quali dominati dallo sregolato amore al mangiare ed al bere si danno agli eccessi, ai disordini, alle ingordigie, a servire insomma, a contentare la gola. Eppure quanto detestabile è questo vizio! Ha detto molto bene un antico, che la gola uccide uomini più della spada; ed in vero questo vizio trae all’ubriachezza, all’intemperanza, alla disonestà, cose tutte che logorano il corpo, lo rendono infermo, e lo spingono precocemente alla tomba. E non è dunque una vergogna per un uomo ragionevole lasciarsi vincere dalla gola, anziché reprimerne gli stimoli? La gola inoltre porta al disprezzo delle leggi della Chiesa. Quando si ha questo vizio, non si è disposti gran fatto a praticare il digiuno e le altre astinenze ordinate dalla Chiesa; s’ignora che cosa voglia dire mortificazione, sembrano giogo insopportabile le leggi, che ordinano certe privazioni, si cercano pretesti per dispensarsene, e si viene non solo a violare il precetto del digiuno, ma anche a mangiare senza scrupoli cibi vietati. Da ultimo, la gola è cagione di contese. Dall’intemperanza nascono le querele, i risentimenti e le violenze. Ce ne fa fede lo Spirito Santo nella Scrittura dicendo: A chi dirassi misero? per chi i precipizi, le querele e le cadute? per chi le ferite? se non per coloro che passano il tempo a bere? e pongono il loro piacere nel vuotare tazze?Bisogna adunque abborrire un vizio sì indegno dell’uomo e molto più del Cristiano. Nel mangiare pratichiamo la cristiana sobrietà, la virtù che ci regola nel bere e nel mangiare secondo il bisogno, la virtù che rende più robusto il corpo e più lunga la vita. Vigiliamo su noi stessi per non sorpassare i limiti del bisogno in un’azione, che di per sé tende ad assecondare la natura. Un Cristiano considera il cibo come una necessità, non pensa quindi all’avidità o alla sensualità, sfugge la delicatezza e lo squisito di ciò che solletica i sensi: a dir breve pensa ad imitare Gesù Cristo, che ha voluto assoggettarsi a quest’azione per esserci modello, ed ha sempre presente l’avviso salutare che Egli dà nel Santo Vangelo: « Vigilate attentamente su voi stessi, perché i vostri cuori non diventino pesanti a cagione delle troppe carni e del troppo vino, ed improvvisamente non vi colga il giorno del Signore ». (Luc. XXI, 34).E il miglior mezzo per farci ricordare le regole della sobrietà, e darci forza di seguirle, si è dire bene l’orazione prima e dopo il pranzo o la cena. Se alcuno non avesse ancora questa santa pratica, la prenda tosto, imperciocché con siffatto modo trarremo su noi la benedizione di Dio ed otterremo la grazia di non offenderlo.

2. Dice in seguito il Vangelo: « Ed eccoti che un certo uomo idropico se gli pose davanti ». Non dice adunque in che modo fosse là entrato, quindi è che molti commentatori della Sacra Scrittura pensano che esso fosse stato posto maliziosamente in presenza del Salvatore dagli stessi Farisei, per vedere se lo guarisse ad onta del giorno di sabbato. In questo caso non avrebbero mancato di fargliene un delitto. E quanto allo stesso infermo, S. Cirillo pensa ch’egli non osò chiedere al Salvatore la sua guarigione, rattenuto come era dal timore dei Farisei, ma che essendo a Lui innanzi sperava muoverlo a compassione e riceverne la sanità. Ma il divin Salvatore, a cui nulla è occulto, e che scruta le reni e i cuori, vide quel che nell’animo loro pensavano i Farisei, là convenuti; epperò ancorché essi non gli avessero mossa alcuna domanda « … rispondendo prese a dir loro: È egli lecito di risanare in giorno di sabbato? Bastò questa interrogazione per metterli nel massimo imbarazzo. Se rispondono: No, non è permesso sanare in giorno di sabbato, e il Salvatore se ne astiene, eglino niente hanno a rimproverargli; se all’opposto dicono: È permesso, non possono più accusarlo d’essere un prevaricatore e di calpestare indegnamente la legge di Mosè. Eccoli dunque ridotti al silenzio. Nell’odio del loro cuore, nella gelosia che li rodeva, volevano tendere un laccio al Salvatore, fargli commettere ciò che avrebbero chiamato una colpa, un delitto. Ed il Salvatore con una sola parola li sconcerta; niente sanno rispondere alla divina interrogazione. Ma quelli tacquero, dice il Vangelo.Allora  il Salvatore interpretando il loro silenzio in un senso affermativo, « … toccando il poverello, lo risanò e lo rimandò a casa. » E così nostro Signor Gesù Cristo fece chiaramente intendere quale sia lo spirito del precetto del riposo festivo, che cioè se Iddio nel giorno di festa proibisce le opere servili, non intende proibire la pratica del bene e l’esercizio della carità, che anzi per ciò appunto sono proibite le opere servili, affinché l’uomo più liberamente possa consacrare i suoi pensieri, le sue parole, le sue opere nell’amor di Dio e del prossimo. Difatti, operato che ebbe il miracolo, Gesù Cristo rivoltosi a quei Farisei, che là erano presenti « soggiunse: Chi di voi, se gli è caduto l’asino o il bue nel pozzo, non lo trae subito fuori anche in giorno di sabbato? » Né crediate, o miei cari, che Gesù Cristo rivolgesse qui una domanda strana. In oriente è assai facile che un asino od un bue possa cader nel pozzo, perché i pozzi sono larghi assai e senza riparo di sorta, e ben sovente l’asino e il bue sono impiegati a far girare l’apposito meccanismo per attinger l’acqua. La domanda adunque del Redentore era assai a proposito, ed era di tal forza « … che non potevano replicargli ». Imperciocché era un dir loro: Come! o Farisei ingiusti, voi vi credete autorizzati ad interrompere il riposo del giorno festivo per salvare la vita ad un animale senza intelligenza, ed oserete condannar me, perché pratico la carità a riguardo di un uomo? Ed un uomo sarebbe dunque meno di una bestia? Ecco dunque perché a questo ragionamento non sapevano rispondere parola. Non dimentichiamo adunque il vero spirito del precetto, che riguarda il giorno del Signore.In questo giorno dobbiamo fare ancor maggior bene che negli altri, e dare a Dio dei segni più numerosi della nostra riconoscenza ed amore. Il giorno festivo appartiene a Dio, perché accordandoci gli altri giorni pei nostri affari materiali si è riservato questo. Ma Egli vuole che nel giorno festivo, lasciando da banda ogni opera servile, ci occupiamo soprattutto in ciò che spetta alla sua gloria, agli interessi dell’anima nostra ed all’adempimento delle opere di carità cristiana. Perciò oltre l’ascoltar bene la santa Messa e la parola di Dio, oltre al pregare con maggior fervore del solito ed al far buone letture, il visitare ed assistere gli infermi, il consolare gli afflitti, il far elemosine ai poveri, il prestar qualche soccorso a chi ne avesse bisogno sono pure opere bellissime, con le quali possiamo decorare dinanzi a Dio ed agli uomini il giorno festivo: epperò presentandocene l’occasione non ce la lasciamo sfuggire.

3. Osserva poi S. Gregorio che con ragione il Figliuol di Dio guarì quell’idropico in presenza dei Farisei, giacché dalla corporale malattia dell’uno era figurata la malattia della mente e del cuore degli altri. Ed in vero la terribile malattia dell’idropisia, che consiste in una enfiagione del corpo per radunamento di cattivi umori in qualche parte del corpo medesimo, è l’immagine dell’enfiagione spirituale, da cui erano travagliati i Farisei a cagione soprattutto di tre umori maligni che in misura sovrabbondante si adunavano nella loro mente e nel loro cuore, vale a dire l’invidia, l’interesse e la superbia. Di fatti quei maligni, ancorché alla presenza di Gesù si rimanessero muti, non lasciavano poi, Lui assente od in mezzo al popolo, di fargli continui rimproveri, perché operasse miracoli e guarisse infermi in giorno di sabbato. E perché tenevano riguardo a Gesù tale condotta? Perché  anzitutto erano divorati dall’invidia. Essi vedevano i felici successi del divin Salvatore, come il popolo sempre più gli si stringeva dappresso per i grandi miracoli che andava operando, epperò non vi voleva di più per rinfiammare del continuo la loro invidia contro di Lui, e per seguire il partito che avevano preso, di biasimare tutto quel che faceva nostro Signore. Oh qual trista consigliera è adunque l’invidia! Guardiamoci bene dal porgere orecchi alla perfida sua voce: essa ci renderebbe veramente ingiusti, guasterebbe il nostro intelletto, e falserebbe il nostro giudizio. Allontaniamo con grande premura codeste nubi dell’invidia, per timore, come dice il profeta Isaia (V, 12), che non pigliamo il bene per il male e il male per bene, che diamo alle tenebre il nome di luce, e alla luce quello di tenebre; che facciam passar per dolce ciò ch’è amaro e per amaro quello ch’è dolce. Se troviamo in noi questo vizio orribile, affrettiamoci a respingerlo, come respingeremmo il serpe che assalisse il nostro seno per roderlo. – In secondo luogo i Farisei oltre all’essere invidiosi, erano anche interessati ed avidi, poiché se in giorno di sabbato si sarebbero adoperati a salvare la loro bestia da soma, mentre invece acconsentivano di lasciare un povero infermo in preda ai cocenti suoi dolori, si è che in essi l’interesse, l’amor del denaro, l’avarizia la vinceva sulla carità. E così, o miei cari, si ha da dire lo stesso di tanti ricchi ai giorni nostri. Essi hanno una cura straordinaria, e direi pazza, pei loro cavalli e pei loro cani; impiegano delle somme vistosissime per ben nutrirli; se osassero li metterebbero a tavola con loro, come fece appunto Caligola col suo cavallo di nome Incitato; ma che cosa fanno a prò di tanti poveri, che soffrono nell’indigenza e nelle infermità? Che gran conto dovranno rendere a Dio questi signori! Ma quanti altri vi sono ancora, i quali sebbene non tanto ricchi, potrebbero tuttavia fare qualche elemosina, eppur non la fanno per amor del denaro, che talvolta vanno accumulando, anche facendo una vita stentata e misera! Anche costoro non devono temer meno i giudizi di Dio. Finalmente ciò che travagliava in modo speciale i Farisei era la superbia. Fieri della loro vana scienza, pieni di pretensione e di sdegno pei loro fratelli, orgogliosi al sommo, essi dappertutto cercavano i primi posti e segni di particolare rispetto. Anche in questa circostanza ne avevano dato prova e lo stesso divin Redentore aveva osservato come entrando nella sala del convito taluni si erano affannati per avere i primi posti. Così che voltosi ai convitati diceva ancor loro come per parabola: Quando sarai invitato a nozze, non ti mettere a sedere nel primo posto, perché potrebbe darsi che fosse stato invitato dal padrone di casa qualcheduno più ragguardevole di te, e in tal caso il padrone verrebbe a dirti: Cedi a questo il tuo luogo; e tu allora cominceresti a star con vergogna nell’ultimo posto. Quando adunque sarai invitato, va a metterti nell’ultimo posto, affinché venendo colui che ti ha invitato, ti dica: Amico, vieni più in su. Ciò allora ti sarà di onore presso tutti i convitati. Imperocché chiunque si innalza, sarà umiliato, e chi si umilia, sarà esaltato. Per tal guisa il divin Redentore condannava la superba condotta dei Farisei e faceva comprendere come la superbia sia ordinariamente punita anche quaggiù con la confusione e con la vergogna. Ed in vero colui che sopra di questa terra va in cerca di onori con tanta avidità, oltre al dispetto che prova nell’incontrare dei rivali o degli ostacoli, che costringono la sua ambizione a fermarsi, quando pure egli è arrivato a conseguire l’onore ambito, con molta facilità lo perderà, e con tanta maggior vergogna e confusione, quanto più alto era l’onore che aveva conseguito. Ad ogni modo quand’anche il Signore permetta, che il superbo goda su questa terra sino all’ultimo la soddisfazione del suo orgoglio, egli è certo che immensa ed eterna sarà la vergogna e la confusione a cui condannerà il superbo nel giorno dell’universale giudizio. Il superbo, che nel mondo si tenne dappiù degli altri, che gli altri guardò con disprezzo, che agli altri volle sempre andar innanzi, allora separato da coloro che in vita furono veramente umili, si vedrà e sarà veduto da tutti in tutta quanta la sua nullità e miseria, perciocché invano chiamerà i monti a riversarsi sopra di lui e a ricoprire la sua ignominia. Iddio vorrà allora nella sua giustizia far pubblicamente conoscere e castigare la stoltezza del superbo, adempiendo la sua parola: Chi si innalza sarà umiliato. Miei cari giovani e cari Cristiani, guardiamoci adunque da questo detestabile vizio. Non cerchiamo, no, di comparire in faccia agli uomini, di metterci innanzi, di far sapere e valere i nostri meriti, che con tutto ciò noi lavoreremmo a nostro danno. Amiamo invece la vita nascosta, amiamo sinceramente di essere creduti capaci a poco, di non essere presi in considerazione, e per tal modo ci prenderà in considerazione Iddio, e facendoci un dì risplendere della sua luce celeste al cospetto dell’universo, adempirà anche per noi l’altra parte della sentenza: chi si umilia, sarà innalzato.

Credo…

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 14; 15
Dómine, in auxílium meum réspice: confundántur et revereántur, qui quærunt ánimam meam, ut áuferant eam: Dómine, in auxílium meum réspice.
[Signore, vieni in mio aiuto: siano confusi e svergognati quelli che insidiano la mia vita per rovinarla: Signore, vieni in mio aiuto.]

Secreta

Munda nos, quǽsumus, Dómine, sacrifícii præséntis efféctu: et pérfice miserátus in nobis; ut ejus mereámur esse partícipes. [Puríficaci, Te ne preghiamo, o Signore, in virtù del presente Sacrificio, e, nella tua misericordia, fa sí che meritiamo di esserne partecipi].

Communio

Ps LXX: 16-17;18
Dómine, memorábor justítiæ tuæ solíus: Deus, docuísti me a juventúte mea: et usque in senéctam et sénium, Deus, ne derelínquas me. [O Signore, celebrerò la giustizia che è propria solo a Te. O Dio, che mi hai istruito fin dalla giovinezza, non mi abbandonare nell’estrema vecchiaia.]

Postcommunio

Orémus.
Purífica, quǽsumus, Dómine, mentes nostras benígnus, et rénova coeléstibus sacraméntis: ut consequénter et córporum præsens páriter et futúrum capiámus auxílium.
[O Signore, Te ne preghiamo, purifica benigno le nostre anime con questi sacramenti, affinché, di conseguenza, anche i nostri corpi ne traggano aiuto per il presente e per il futuro].

Per l’Ordinario della Messa vedi:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (79)

LO SCUDO DELLA FEDE (79)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA.

CONSEGUENZE DEL PERDERE LA S. FEDE E MODI DI PREVENIRLE

CAPITOLO II.

ALTRI BENI CHE CI VOGLIONO TOGLIERE I PROTESTANTI.

Ma non crediate che io abbia finito di rappresentarvi tutti i beni che vi vogliono rapire quei felloni che si brigano di nascosto a togliervi la S. Fede. Ne sentirete ben delle altre. Voi avete una gran fiducia nella protezione della Madonna SS. ed avete ragione di averla, perché tante volte quella buona Madre vi ha consolati, vi ha protetti, vi ha aiutati con le sue preghiere presso Gesù. Questo onore che voi rendete alla Madonna è molto giusto, molto doveroso e molto santo, perché la Madonna è la gran Madre del nostro Divin Salvatore Gesù, e perché quando onorate la Madre, voi onorate anche il Figliuolo, anzi tanto più onorate il Figliuolo, quanto più onorate la Madre. – Imperocché chi non direbbe che voi portate gran riverenza al padrone, quando per amore di lui riveriste perfino la madre di lui? Ora così facciamo noi. Amiamo tanto Gesù, che per amor suo amiamo moltissimo anche la Madre. Non è chiaro tutto ciò? E tuttavia questi Protestanti ingannatori non vogliono che voi onoriate la Madonna, che a Lei vi raccomandiate: sognano questa sciocchezza ed empietà, che se onorate la Madonna fate torto a Gesù, mentre anzi gli fate il più grande onore. E con tutte queste loro dicerie vi vogliono rubare la confidenza ed il patrocinio di Maria. Vogliono ridurvi ad essere figliuoli senza la buona vostra Madre: sicché quando siete afflitti non abbiate più quel cuore materno in cui consolarvi; quando i vostri peccati vi abbattono e vi fan perdere di coraggio, non abbiate più quel dolce rifugio che vi riceva e che pregando per voi Gesù suo figliuolo con Lui vi riconcili: vogliono levarvi il presidio sicuro di tutta la vostra famiglia, quella che protegge i vostri figliuoli, quella che ve li custodisce. Ah scellerati, quanti beni vi vogliono rapire! Anche dai vostri Santi Protettori voi ricevete molte grazie: perché, oltre all’esempio di ogni virtù che ci hanno lasciato qui sulla terra mentre vivevano con noi, adesso che sono nel cielo non lasciano mai di pregare per noi: e pregano particolarmente per quelli che si raccomandano a loro e che li onorano. Ora i Protestanti non vogliono sapere nulla di essi. Dicono anche qui che noi facciamo torto a Gesù, se ci raccomandiamo ai Santi. Eppure può dirsi sciocchezza più grande di questa? Dite: farebbe torto al Re, al Principe chi dovendo domandargli un favore, gli facesse presentare la supplica da uno della corte che è nella sua buona grazia? Ora che torto facciamo noi a Gesù se mandiamo al suo trono i Santi che Egli ha tanto cari? Tutto il contrario, noi lo onoriamo anche più di quel che faremmo se lo supplicassimo noi soli. E ben si vede poi dalle grazie che Dio ci concede per l’impetrazione dei Santi, quanto abbia caro che li invochiamo. Chi può dire tutte le grazie stupende che la Madonna ed i Santi c’impetrano di continuo? Basta andare ad un loro Santuario per vederne in tanti voti che pendono, in tante guarigioni ottenute, in tante disgrazie dalle quali hanno liberato i loro devoti, una prova solenne; ma tant’è, ci vogliono i Protestanti spogliare di tutto. – Sono dunque contenti di tutto ciò? Ci resta più altro da rubare togliendoci la S. Fede? Sì, dopo che ci hanno rubato tutto quel che avevamo di buono in vita, vorrebbero rubarci anche quello che abbiamo dopo la morte. Voi sapete che la S. Chiesa, Madre pietosa, dopo di averci aiutati in vita con tutti i suoi Sacramenti, con le sue preghiere, con l’intercessione della Vergine e dei Santi e con tanti altri mezzi. non ci dimentica neppure dopo la morte, ma con le sue orazioni, con le sue sante Indulgenze ci refrigera quando siamo nel Purgatorio. Ora i Protestanti ci vorrebbero rapire anche questo aiuto, che ella ci darà allora. Direte che non è possibile tanta malizia. Eppure è proprio così. Essi negano tutto il valore dei suffragi, delle orazioni, delle limosine, delle indulgenze per i defunti. Bestemmiano che non vi èPurgatorio, vi proibiscono di pregare pel vostro povero padre, per la vostra madre, per vostro marito, per la vostra sposa, per tutti i vostri parenti, e si beffano di tutta la vostra pietà. Snaturati che essi sono! Infuriare perfino contro dei morti! Eppure è così. Se dunque vi è qualcuno che si senta coraggio di rinunziare alla protezione della Madonna, all’intercessione dei Santi, alle preghiere della Chiesa, ai suffragi che essa ci farà dopo la nostra morte, faccia pure, rinunzi pure alla S. Fede Cattolica e si faccia Protestante, chela Fede Cattolica sarà più onorata col perdere un tal mostro che col ritenerlo.

SALMI BIBLICI: EXSPECTANS EXSPECTAVI DOMINUM” (XXXIX)

Salmo 39: “EXSPECTANS exspectavi Dominum”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo XXXIX

In finem. Psalmus ipsi David.

[1] Exspectans exspectavi Dominum,

et intendit mihi.

[2] Et exaudivit preces meas, et eduxit me de lacu miseriæ et de luto fæcis. Et statuit super petram pedes meos, et direxit gressus meos.

[3] Et immisit in os meum canticum novum, carmen Deo nostro. Videbunt multi, et timebunt, et sperabunt in Domino.

[4] Beatus vir cujus est nomen Domini spes ejus, et non respexit in vanitates et insanias falsas.

[5] Multa fecisti tu, Domine Deus meus, mirabilia tua; et cogitationibus tuis non est qui similis sit tibi. Annuntiavi et locutus sum, multiplicati sunt super numerum.

[6] Sacrificium et oblationem noluisti; aures autem perfecisti mihi. Holocaustum et pro peccato non postulasti; (1)

[7] tunc dixi: Ecce venio. In capite libri scriptum est de me,(2)

[8] ut facerem voluntatem tuam. Deus meus, volui, et legem tuam in medio cordis mei.

[9] Annuntiavi justitiam tuam in ecclesia magna, ecce labia mea non prohibebo; Domine, tu scisti.

[10] Justitiam tuam non abscondi in corde meo; veritatem tuam et salutare tuum dixi; non abscondi misericordiam tuam et veritatem tuam a concilio multo.

[11] Tu autem, Domine, ne longe facias miserationes tuas a me; misericordia tua et veritas tua semper susceperunt me.

[12] Quoniam circumdederunt me mala quorum non est numerus; comprehenderunt me iniquitates meae, et non potui ut viderem. Multiplicatæ sunt super capillos capitis mei, et cor meum dereliquit me.

[13] Complaceat tibi, Domine, ut eruas me; Domine, ad adjuvandum me respice.

[14] Confundantur et revereantur simul, qui quærunt animam meam, ut auferant eam; convertantur retrorsum et revereantur, qui volunt mihi mala.

[15] Ferant confestim confusionem suam, qui dicunt mihi: Euge, euge!

[16] Exsultent et lætentur super te omnes quærentes te, et dicant semper: Magnificetur Dominus, qui diligunt salutare tuum.

[17] Ego autem mendicus sum et pauper; Dominus sollicitus est mei. Adjutor meus et protector meus tu es; Deus meus, ne tardaveris.

[Vecchio Testamento Secondo la VolgataTradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XXXIX

Il salmo non è per morbo corporale, che Davide non ebbe mai; ma tutto di Cristo, che parla a Dio della redenzione, prima in persona del suo corpo, la Chiesa, poi in persona propria. — Vedi agli Ebrei, c. 10, ove a Cristo sono applicati diversi versetti.

Per la fine; salmo dello stesso David.

1. Aspettai ansiosamente il Signore, ed egli a me si rivolse

2. Ed esaudì le mie orazioni; e dall’alto della miseria mi trasse e dal sordido fango. E a’ piedi miei die fermezza sopra la pietra, e assicurò i miei passi.

3. E mise a me in bocca un nuovo cantico, una lauda al nostro Dio. Vedranno molti, e temeranno; e spereranno nel Signore.

4. Beato l’uomo, di cui la speranza è il nome del Signore, e gli occhi non rivolse alla vanità e alle follie dell’errore.

5. Molte sono le meraviglie fatte da te, o Signore Dio mio; e i tuoi consigli non v’ha chi possa raggiungerli. Gli annunziai, e li raccontai: la lor moltitudine sorpassa ogni numero.

6. Non hai voluto sacrifizio, né oblazione; ma a me tu formasti le orecchie. (1)Non hai richiesto olocausto e sacrifizio per lo peccato:

7. Allora dissi: Ecco che io vengo. (Nel complesso del libro, di me sta scritto). (2)

8. Per tare la tua volontà: Dio mio, io volli in mezzo al cuor mio aver la tua legge.

9. Ho annunziato la tua giustizia in una chiesa grande, ecco che non terrò chiuse le labbra: tu il sai o Signore.

10. Non ascosi dentro di me la tua giustizia; dimostrai la tua verità e il tuo salvatore. Non tenni ascosa la tua misericordia e la tua verità alla numerosa adunanza.

11. Ma tu, o Signore, non allontanare le tue misericordie da me: la tua pietà e la tua verità mi sostennero in ogni tempo.

12. Imperocché sono circondato da mali, che non han numero; mi hanno cinto le mie iniquità, ed io non potea vederle. Sono di maggior numero che i capelli della mia testa, e il cuore mi è mancato.

13. Piaccia a te, o Signore, di liberarmi: Signore, volgiti a darmi aita.

14. Siano confusi e svergognati coloro che cercano la mia vita, affin di rapirla. Siano messi in fuga e svergognati coloro che a me bramano il male.

15. Ricevano tosto l’ignominia che meritano coloro che a me dicono: Bene sta, bene sta.

16. Esultino, e in te si rallegrino tutti coloro i quali ti cercano; e quelli che amano la salute che vien da te, dicano in ogni tempo: Glorificato sia il Signore.

17. Io per me son mendico e senza aiuto: il Signore ha cura di me. Tu sei aiuto mio e mio protettore: Dio mio non tardare.

(1) Presso i giudei, si bucavano le orecchie agli schiavi giudei che quando arrivava l’anno sabbatico, non volevano riprendere la loro libertà e si rendevano così schiavi perpetui (Es. XXI, 6; Deut. XV, 17). Qui c’è un’allusione a questo uso: il Verbo, nel seno della Trinità, non poteva essere schiavo di suo Padre, occorreva pertanto che Egli prendesse un corpo, era così che poteva avere l’orecchio bucato. Anche “I Settanta” e San Paolo, appoggiati alla tradizione che ne aveva determinato il senso dei passaggi dogmatici, hanno tradotto esattamente, quasi parola per parola: « Voi mi avete formato un corpo ».

(2) In ebraico, in luogo di « in capo al libro » in capite libri, si dice in volumine libri, «nel rotolo del libro ». Si sa che anticamente i libri si arrotolavano. Sono qui menzionati quattro tipi di sacrifici: 1° « sacrificium », è il sacrificio eucaristico, 2° « oblationem », l’offerta di un pane composto da farina, olio e incenso, è il sacrificio impetratorio; 3° l’« olocaustum », in cui la vittima era consumata intera, è il sacrificio latreutico; 4° « victimam pro peccato », è il sacrificio propiziatorio.

Sommario analitico

Davide in questo salmo, che egli forse compose poco dopo essere stato liberato dalla persecuzione di Saul ed Assalonne, è figura di Gesù-Cristo, che di volta in volta parla nel nome e nella persona del suo corpo, che è la Chiesa, e nel suo nome, come capo della Chiesa (v. Ebr. X, 5). Qualche autore, trovando una grande affinità tra questo salmo ed i salmi XXX e XXXIV, pensa che siano stati composti tutti dallo stesso autore, cioè Geremia, l’immagine vivente del Messia Nostro Signore.

I. – Gesù-Cristo, in nome e nella persona della Chiesa, di cui Egli è il Capo, esprime i desideri ardenti di tutti i giusti per la venuta del Messia, ed espone i frutti di questa lunga attesa e di questa perseveranza nella preghiera:

1° L’incarnazione, oggetto di tante voci e preghiere (1).

2° I doni e le grazie di cui l’incarnazione era principio e causa, vale a dire: a) gli uomini liberati dai loro peccati e dalle loro miserie, b) e conformati nella fede, nella dottrina e negli esempi di Gesù Cristo (2); c) le luci che furono loro date per camminare con sicurezza nelle vie di Dio (2); d) la gioia spirituale ed i canti di lodi e di riconoscenza ispirati da questa grazia ineffabile (3); e) la conversione di tutto l’universo; f) l’eterna beatitudne celeste accordata a coloro che per Gesù-Cristo, hanno disprezzato tutte le vanità della terra (4).

II. – Gesù-Cristo, nel suo nome e come capo della Chiesa celebra:

1° il mistero dell’incarnazione, – a) che il Padre celeste ha decretato come l’opera più mirabile ed il sacrificio più eccellente (5, 6); – b) che Gesù-Cristo ha compiuto con un’obbedienza perfetta dell’intelligenza e della volontà (7, 8).

2° La sua predicazione, il cui oggetto è stato soprattutto la giustizia, la verità, la salvezza e la misericordia di Dio, proclamate in ogni luogo ed in piena libertà (9, 10).

3° La sua Passione, – a) che Egli ha sofferto con la speranza di essere soccorso dalla misericordia di Dio e dalla sua verità, che non è mai venuta a mancare (11); – b) che è stata per Lui la causa dei dolori più vivi e più numerosi di cui Dio solo poteva farlo trionfare (12, 13).

4° La sua Resurrezione, che ha avuto luogo, – a) per la confusione dei malvagi (14, 15), – b) per la gioia dei buoni (16); – c) per la gloria di Dio e di Gesù-Cristo, liberato dalle miserie e da tutti i pericoli di questa vita (17).

Spiegazioni e Considerazioni

I. – 1-4.

ff. 1. – Io ho atteso senza annoiarmi, non che qualche uomo mi avesse fatto una promessa, che potesse ingannarmi ed essere ingannato, non qualche uomo che mi consolasse, che potesse consumarsi per primo nella sua tristezza, piuttosto che darmi sollievo. Ogni uomo che mi è fratello, mi consola rattristandosi con me, cosicché gemiamo insieme, piangiamo insieme, preghiamo insieme, aspettiamo insieme. Ma cosa aspettiamo se costui non è il Signore, il quale non ritira le sue promesse, ma ne differisce il compimento. Egli le compirà certamente, perché già molte ne ha compiute; e noi non dobbiamo temere nulla della verità di Dio, quand’anche non ci desse più nulla. Io ho atteso senza stancarmi, dice il Profeta, ho atteso il Signore. E cosa ha fatto il Signore? Si è allontanato da voi? Vi ha disprezzato quando Lo aspettavate? O per caso non vi ha più visto? Non è sicuramente così! Cosa ha fatto dunque? « … Egli è stato attento verso di me ed ha esaudito la mia preghiera ». (S. Agost.). – Non piangete, anime sante, anime che vivete nell’attesa, non piangete se le vostre attese sono differite; aspettate, attendete ancora una volta. Non avete atteso per lungo tempo, aspettate ancora; aspettate nell’attesa, non vi stancate mai di attendere: Dio è fedele, e vuole essere atteso con fede. Ci sono delle grazie uniche in se stesse, il cui tratto iniziale non ritorna più, ma che si continuano e si rinnovano con il ricordo. Dio le fa attendere lungamente perché si eserciti la fede e per rendere la prova più viva. Dio le da quando gli piace, in modo improvviso e rapido; esse passano in un momento, ma ne resta un tenero ricordo, come un profumo: Dio le richiama, Dio le moltiplica, Dio le aumenta; ma Egli non vuole che siano richiamate da se stesse, con sforzi violenti; Egli vuole che le si attendano sempre, e che non si debbano permettere che dolci e come insensibili ritorni sulle sue antiche bontà (Bossuet, Elév. XVIII, Serm. V, El.). – Che cosa è l’abisso della miseria? Sono le profondità dell’iniquità, scavate dalle bramosie della carne. È quel che vuole anche dire: « pantano di fango ». Da dove lo avete tratte? Da un certo abisso da dove gridate verso di Lui in un altro salmo: « dal profondo abisso, io grido a Voi, Signore » (Ps. CXXIX, 1). – Ma coloro che gridano dalle profondità di un abisso, non vi sono piombati ancora interamente, e non gridano se non perché ne siano risollevati. Vi sono altri che si trovano ancor più profondamente sprofondati nell’abisso, al punto da non avvertire che vi sono dentro. Tali sono gli orgogliosi, pieni di un superbo disprezzo; non coloro che gridano chiedendo pietà, non quelli che gridano con le lacrime, ma coloro che somigliano a quei peccatori di cui parla la Scrittura in ultra parte: « … quando il peccatore è sprofondato nel più profondo del male, egli disprezza tutto ». (Prov. XVIII, 3). – Colui per il quale è poco essere solo un peccatore, e che non contento di non confessare le proprie colpe osa ancora difenderle, costui è nel più profondo dell’abisso. Ma colui che ha gridato dal fondo dell’abisso, ha già, nel gridare, sollevato la testa dalle profondità dell’abisso, ed è stato ascoltato, è stato tirato su dall’abisso della miseria, e dal pantano di fango. Egli ha già la fede che non aveva prima, e la speranza che gli mancava, cammina sulla strada di Cristo, egli che errava lungo la via del demonio. È per questo, in effetti, che il profeta ha detto. « Egli ha posato i miei piedi sulla pietra ed ha diretto i miei passi » (S. Agost.). – Dio ci ritira dall’abisso della miseria e della corruzione, non solo con la redenzione generale, di cui noi riceviamo gli effetti nei Sacramenti del Battesimo e della Penitenza, ma pure mediante una infinità di grazie delle quali si serve per impedire di ricadere nuovamente. – Ora, la pietra è il Cristo; saliamo allora sulla pietra e i nostri passi ne seguano la direzione (S. Agost.). – Se io mi appoggio alla pietra solida, essa mi stabilizza e mi sostiene; è per questo che Gesù-Cristo, nel suo Vangelo, consiglia all’architetto prudente di fondare il suo edificio non sulla sabbia mobile che le tempeste trascineranno, ma sulla solida pietra che resisterà alla tempesta. Colui, aggiunge, che ascolta la parola e la mette in pratica, sarà comparato al saggio che fonda la sua casa sulla pietra (S. Matt. VII). – Mio Dio, questo è vero, cosa sono tutte le parole umane? Un soffio le porta via! E cosa è la saggezza degli uomini? « … io perderò – dice l’Apostolo – la saggezza dei saggi ». Tutto si cancella e tutto perisce. « Il cielo e la terra passeranno, la vostra parola soltanto resta eternamente ». Questa vostra parola è la pietra sulla quale ci si posa con sicurezza, e che garantisce l’edificio contro le tempeste ed i marosi: è su questa pietra che io mi appoggerò e sulla quale fonderò una dimora per sempre (De La Bouillerie, Symb. I, 230). – Qual è questo nuovo cantico? « Un inno al nostro Dio ». Direte forse degli inni a degli dei stranieri, alle cupidigie del mondo, ai piaceri della carne: questi erano degli inni antichi, perché era l’uomo antico che li diceva, e non l’uomo nuovo. L’uomo nuovo dica allora un cantico nuovo; essendo rinnovato, egli ama le cose nuove che lo hanno rinnovato. Ma che cos’è più antico di Dio, che è prima di tutte le cose, senza fine e senza inizio? Egli diviene nuovo per voi che tornate a Lui, perché traendovi da Lui siete divenuto vecchio e dite. « Io sono invecchiato in mezzo a tutti i vostri nemici » (Ps. VI, 8), (S. Agost.). – Il timore salutare è misto alla speranza, e la vera speranza è sempre accompagnata dal timore filiale, che evita di offendere Dio, perché Lo ama come suo Padre.

ff. 4. – Così dunque coloro che vogliono riporre la loro speranza nel Signore, coloro che vedono e temono, rifiutano di marciare nelle cattive strade, nelle vie larghe, e preferiscono la via stretta ove i passi sono diritti ed aderenti alla pietra… La via larga è mortale; la sua larghezza piace per un tempo, ma la sua uscita è stretta per l’eternità. Ciò malgrado la folla fa un grande brusìo, la folla canta, la folla si dà pubblicamente alla gioia, corre e va veloce: … non fuorviate mai, queste sono vanità e follie menzognere. L’unica speranza sia il Signore vostro Dio. In effetti sono molti quelli che sperano da Dio del denaro, sperano dei fragili onori, sperano tutt’altro che Dio stesso. Ma voi chiedete lo stesso vostro Dio; ancor più, disprezzate tutto ciò che non è Lui, e avanzate verso di Lui; dimenticate ogni altra cosa e ricordatevi di Lui; lasciate indietro tutto il resto e slanciatevi verso di Lui. È sicuramente Lui che ha rimesso in cammino l’uomo che si allontanava da Lui, è Lui che lo dirige quando cammina rettamente, e lo conduce fino al termine. Per dove e a qual termine conduce l’avarizia terrena? Voi cercate dei terreni, volete possedere una terra, spodestare i vostri vicini, ed eliminati questi, voi vorreste ingoiare il vostro nuovo vicino, estendere la vostra avarizia fino ai limiti del fiume; eccovi al fiume, e adesso concupite le isole del mare; se voi possedeste tutta la terra, forse vorreste impadronirvi del cielo. Lasciate tutti questi vani attaccamenti: Colui che ha fatto il cielo e la terra è più desiderabile di tutto questo (S. Agost.).

II. 5-17.

ff. 5. – Cosa dare in cambio al Cristiano che ha cessato di posare il suo sguardo sulle vanità e le follie menzognere del mondo? Ascoltate quel che segue: « … Signore mio Dio, Voi avete fatto un gran numero di opere mirabili ». Egli si riferisce alle meraviglie degli uomini, che considera le meraviglie di Dio (S. Agost.). – Le opere di Dio, sono innumerevoli ed incomprensibili. Tutta l’occupazione degli uomini sulla terra doveva essere quella di ammirarle, adorarne l’Autore, cosa che costituirà l’esercizio continuo dei beati in cielo. – I pensieri di Dio sono infinitamente lontani da quelli dell’uomo. Essi si formano dalle idee di Dio, dai suoi disegni, dalla sua condotta, sono conformi alla debolezza o alla piccolezza della loro immaginazione. Ma essi ascoltano Dio stesso che dice loro: « I miei pensieri non sono i vostri pensieri, la mia condotta non è la vostra condotta; quanto i cieli sono elevati sopra la terra, tanto la mia condotta è elevata al di sopra della vostra condotta, ed i mie pensieri sopra i vostri pensieri. » (Isai. LV, 8). – Più si pensa alle meraviglie di Dio, più le si annuncia; e più se ne parla, più se ne scoprono di nuove. Non è più necessario che i cieli raccontino la gloria di Dio, né che il firmamento renda pubbliche le opere delle sue mani: un arboscello, un insetto, un piccolo fiore, contengono tante cose meravigliose che è impossibile ai grandi filosofi spiegarne i misteri (Duguet).

ff. 6-8. – Tutte le opere del Signore sono veramente meravigliose, in tutte risplende la grandezza dei suoi disegni, ma l’opera della Redenzione dell’uomo sopravanza tutte le altre (Bellarm.). Dio, spirito e verità, non può accettare dei sacrifici carnali e figurativi, incapaci di riparare l’ingiuria infinita che l’uomo ha fatto a Dio con i suoi crimini. Invano il genere umano, terrorizzato dal sentimento del suo crimine, ha cercato delle vittime e degli olocausti per surrogarli al posto suo; si dovettero spopolare tutti i loro greggi con ecatombi di immolazioni davanti ai suoi altari, ma è impossibile che la vita delle bestie ripaghi la vita degli uomini, la compensazione non è sufficiente; ecco perché questa massima dell’Apostolo è sempre di una eterna verità, « … non è possibile che i peccati siano lavati dal sangue dei tori e dei capri. » (Ebr. X, I). – Poiché dunque tra noi non c’era alcuna risorsa, che altra cosa restava se non che Dio stesso riparasse Egli stesso l’ingiustizia del nostro crimine con la giustizia della nostra pena, e soddisfacesse alla sua giusta vendetta a nostra giusta punizione? In questa crudele estremità, che saremmo diventati se il Figlio unico di Dio non avesse proposto questo felice scambio, profetizzato da Davide e riportato dal santo Apostolo: « … O Padre, olocausti non più volete »; è inutile che gli uomini lasciano al loro posto sacrificare altre vittime, esse non Vi sono gradite; ma Io dirò da me stesso di mettermi al loro posto; tutti gli uomini sono degni della tua vendetta, ma una Vittima della mia dignità può ben prendere giustamente il posto anche di una infinità di peccatori (Bossuet, 3° Serm. Sur la Passion). – Dio era sordo alle nostre preghiere, e noi Lo abbiamo indegnamente oltraggiato. Ma ci viene dato Gesù, riconciliazione e pace! Egli ha ascoltato le grida della nostra miseria. Ed ora Dio ci ama, e per Gesù, Egli ascolta le preghiere della terra, le riceve come la voce armoniosa della creazione che rallegra il suo cuore. Così Gesù Mediatore ha il segreto di Dio ed il segreto della creatura. Il cielo e la terra parlano per Lui. Egli ascolta, Egli dice, Egli unisce, ed il suo cuore è il legame d’amore, è la fede mutua della Chiesa e del Dio che Essa adora e che Essa ama. Tutto il mistero dell’Incarnazione del Verbo, tutta l’economia della riparazione del mondo è racchiusa in queste parole di Gesù-Cristo a Dio suo Padre: «Padre, Voi non gradite gli olocausti, » le vittime dell’antica legge, ma « … Voi avete dato le orecchie al mio cuore », un orecchio per ascoltare il Creatore, un orecchio per ascoltare la creatura; ora, eccomi » (Mgr. Baudry, Le sacre Coeur). – C’è un libro eterno, dove è scritto ciò che Dio vuole da tutti i suoi eletti, alla cui testa Egli vuole in particolare Gesù Cristo, che ne è il capo. Il primo articolo di questo libro è che Gesù Cristo sarà messo al posto di tutte le vittime, facendo la volontà di Dio con un’obbedienza completa. Ad essa si sottomette, e Davide Gli fa aggiungere: « … mio Dio, Io l’ho voluto, e la vostra legge è al centro del mio cuore » (Bossuet, Elév. XIII, S. VII, E.). – La prima oblazione di Gesù-Cristo, facendo la sua entrata nel mondo, è stato un atto di sottomissione universale, una promessa di obbedienza; il primo uso della sua volontà è stato il sottomettersi a quella del Padre suo, fino a soffrire la morte della Croce. « Io sono disceso dal cielo, non per fare la mia volontà, ma la volontà del Padre mio che è nei cieli » (Giov. VI). – Questo è il sacrificio incomparabilmente più gradito a Dio che non tutte le oblazioni, tutti gli olocausti ed i sacrifici che Egli stesso aveva in precedenza ordinato. « Non sono gli olocausti e le vittime che Dio domanda, ma piuttosto che si obbedisca alla sua voce. L’obbedienza è migliore delle vittime, vale più sottomettersi a Dio che offrire i montoni più grassi del gregge. » (I Re, XV, 22). – Fare la volontà di Dio, avere la sua santa legge impressa nel proprio cuore, questo riassume tutta la professione, tutto il dovere, tutto l’oggetto di un Cristiano.

ff. 9, 10. – Gesù-Cristo parla ai suoi membri e li esorta a fare ciò che Egli stesso ha fatto: Egli ha reso pubblica la legge di Dio: essi ora la rendano pubblica; Egli ha sofferto, soffrano essi con Lui; Egli è stato glorificato, anche noi saremo glorificati con Lui. « Io ho manifestato la vostra giustizia in una grande assemblea ». Quale grande assemblea? Quella di tutte le nazioni. Perché l’assemblea di tutte le nazioni? Perché Egli è quel virgulto di Abramo nel quale devono essere benedette tutte le Nazioni (S. Agost.). Il dovere di un buon servitore di Dio, soprattutto di un ministro fedele, è quello di manifestare dappertutto la sua giustizia, la sua bontà, affinché Egli sia glorificato da tutti gli uomini: « … è bene nascondere il segreto del re, ma è cosa onorevole manifestare le opere di Dio. » (Tob. XII, 7). « Guai a me, perché sono rimasto in silenzio » (Isai. VI, 5); « guai a me se non predicassi il Vangeli, perché per me il farlo è un obbligo » (1 Cor. IX, 16). – Poiché noi abbiamo uno stesso spirito di fede, secondo il quale è scritto: « … io ho creduto, perciò ho parlato; noi pure crediamo, ed è per questo che parliamo » (II Cor. IV, 13). – « Conservare la verità tra l’ingiustizia », è un peccato molto comune tra i Cristiani tiepidi e timidi che si contentano di conservare la verità nel loro cuore e non osano manifestarla in presenza dei propri nemici. – Ci sono in effetti dei Cristiani che hanno la fede in fondo al cuore; ma in mezzo alle beffe amare degli empi o per i loro miserabili rispetti in mezzo a Cristiani infedeli, inetti, prodighi di ingiurie, temono di confessare con le labbra ciò che hanno nel cuore ed impediscono alle loro labbra di proclamare le verità che essi conoscono, ed i sentimenti che custodiscono in se stessi. Ma ascoltate ciò che li attende: « … se qualcuno, dice Gesù Cristo, si vergogna di me davanti agli uomini, Io mi vergognerò di lui davanti al mio Padre » (Marc., VIII). – Che le labbra dicano dunque ciò che il cuore racchiude, e questo contro ogni timore; che il cuore racchiuda ciò che le labbra dicono e questo contro ogni dissimulazione; poiché talvolta per timore, voi non osate dire ciò che conoscete molto bene e a cui credete; talvolta per dissimulazione parlate senza avere nel cuore ciò che dite. Si accordino le vostre labbra dunque col vostro cuore. Cercando la pace che viene da Dio, siate prima in pace con voi stessi, e non lasciate che si stabilisca tra la vostra bocca ed il vostro cuore un’indegna lotta (S. Agost.). – I predicatori, sull’esempio di Gesù-Cristo, devono soprattutto nei loro discorsi, annunciare: – 1° la giustizia di Dio. « Fate penitenza, il regno di Dio è vicino, ogni albero etc. »; – 2° la verità: « io sono nato, e sono venuto in questo mondo a rendere omaggio alla verità »; – 3° la salvezza, il Salvatore, l’economia della redenzione: « è una verità degna di fede che Gesù-Cristo sia venuto sulla terra per salvare i peccatori, etc. »; – 4° La misericordia, l’amore di Dio per gli uomini: a) « Dio ha fatto esplodere il suo amore per noi, perché quando noi eravamo ancora peccatori, Gesù-Cristo è morto per noi, nei tempi stabiliti » (Rom. V, 8, 9.). – « Io non ho nascosto la vostra misericordia e la vostra verità ad una grande assemblea ». Siamo di questa assemblea, facciamoci annoverare in questo corpo, e non nascondiamo la misericordia e la verità di Dio. Volete conoscere la misericordia di Dio? Allontanatevi dal peccato, e Dio perdonerà i vostri peccati. Volete conoscere la verità di Dio? Osservate fermamente la giustizia, la giustizia sarà coronata. Ora vi è predicata la misericordia, più tardi apparirà la verità; perché non è misericordioso per essere ingiusto, né giusto per non essere misericordioso. (S. Agost.).

ff. 11, 12. – Io non avrei mai la forza di convertirmi, se non fossi sicuro della remissione dei miei peccati; io non avrei la forza di perseverare, se non fossi sicuro del compimento delle vostre promesse. « La vostra misericordia e la vostra verità mi hanno sempre sostenuto ». Io considero che Voi siete buono, considero che siete giusto: buono, io Vi amo; giusto, io Vi temo, l’amore ed il timore mi conducono al fine perché la vostra misericordia e la vostra verità mi hanno sostenuto incessantemente (S. Agost.). – Rappresentiamoci il divino Salvatore sul Quale sono cadute tutte le iniquità della terra: da un lato i tradimenti e le perfidie; dall’altro le impurità e gli adulteri, dall’altro ancora le empietà ed i sacrilegi, le imprecazioni e le bestemmie; infine, tutto ciò che esiste di corruttibile in una natura tanto depravata come la nostra (Bossuet, 1° Serm. Sur la Pass.). – Solo la vista di questa terribile moltitudine di peccati, di questa catena quasi infinita di crimini che riempiono tutti i secoli, tutti gli anni, tutti i giorni, tutte le ore e tutti i momenti, dalla caduta del primo uomo fino alla fine dei secoli, aggredendo lo spirito di Gesù-Cristo, ebbe la forza di farlo cadere in un mancamento e nell’agonia della morte. – Che ognuno di noi riconosca la parte che ha in questo fardello. Ahimè, di quanto noi ne abbiamo aumentato il peso! Quanti crimini ed ingratitudini abbiamo caricato sulle sue spalle! Tutti i nostri peccati sono su di Lui, tutti lo appesantiscono, gli sono caricati addosso; ma quelli il cui peso è insopportabile, sono quelli di cui non facciamo penitenza (Bossuet, ibid.). – « Le mie iniquità si sono moltiplicate oltre il numero dei capelli della mia testa ». Il profeta cita i capelli della testa, per dare l’idea di un numero considerevole. Chi conta i capelli della propria testa? Si contano ancor meno i propri peccati che sorpassano di gran numero i capelli della testa. Essi sembrano senza gravità, ma invero sono numerosi. Voi avete evitato le grandi colpe, che sono come dei massi che schiacciano; ma nei riguardi dei piccoli peccati, cosa fate? Ne rigettate una massa enorme … immaginate di essere soffocato sotto granelli di sabbia. « Il mio cuore è venuto a mancarmi ». Il mio cuore è incapace di riconoscersi. È in questo salmo che il salmista dice: « … il mio cuore è venuto a mancarmi »? io voglio vedere il Signore con il mio cuore, e non lo posso per la moltitudine dei miei peccati; per poco il mio cuore più non si comprende! In effetti nessuno si comprende e nessuno di conseguenza deve presumere di se stesso (S. Agost.). – Davide era un tempo perso in questa terra straniera, ne è ben presto ritornato; ma nel passare, ascoltate cosa ci dice dei suoi errori: « … il mio cuore – dice – mi ha abbandonato » si è impegnato in una miserabile servitù. Ma mentre il suo cuore gli sfuggiva, il suo spirito si salvava? I pensieri del mio peccato mi occupavano interamente, e non potevo vedere niente altro. È ancora in questo stato che la luce dei suoi occhi non è più con lui. La conoscenza di Dio era oscurata, la fede come estinta e dimenticata. Qual traviamento, ma i peccatori vanno ben al di là ancora. Le verità di Dio ci sfuggono, ci perdiamo ed allontaniamo dalla vista il cielo, non si riesce a credere; non ci sono più che i sensi a colpirci ed occuparci (Bossuet, sur l’amour de plaisirs).

ff. 13-16. – C’è un’unica confusione da temere, ed è quella che generano l’oblio di Dio e la rivolta contro Gesù-Cristo e il suo Vangelo. Il Profeta che ha cominciato col dire: « … che retrocedano ed arrossiscano coloro che mi vogliono male », ha di mira poi un secondo genere di uomini che esercitano le loro malevolenze con perfidia ed una falsa benevolenza. « Coloro – egli dice – che mi dicono: coraggio, coraggio!, siano immediatamente coperti dalla confusione! ». Essi vi fanno delle false lodi. Voi siete un grande uomo, un letterato, un sapiente, ma siete Cristiano? Essi lodano in voi ciò che voi non vorreste udir lodato, e biasimano ciò di cui vi rallegrate, e se per caso voi dite: cosa lodate in me, lodate un uomo virtuoso, un uomo giusto? Se voi lo credete, sappiate che è Cristo che mi ha reso tale. Lodate Lui, dunque; ed essi vi risponderanno: « … no, non fateci ingiuria, è da voi stesso che possedete queste virtù ». – « Coloro che mi dicono: coraggio, coraggio siano coperti di confusione. » (S. Agost.).

ff. 17. – La gioia dei giusti e la Gloria di Dio, queste due cose sono inseparabili nella santa Scrittura. Dio ha fatto di tutto per assicurare questa gioia; i giusti devono fare di tutto per procurare questa gloria. Da questo punto di vista così elevato, da questa idea generale sì piena di magnificenza, Davide ci fa passare ad un sentimento tutto personale e pieno di umiltà, ma con quale fascino! Questo gran Dio che governa l’universo e che fa la felicità di tutti i suoi eletti, « si occupa di me! Io sono l’oggetto della sua sollecitudine ». A questo pensiero, il profeta si sente troppo commosso per continuare lo stile indiretto. Egli si volge verso questo Dio tanto buono quanto grande, che si affretta a portare il suo soccorso a tutti i suoi voti: Voi siete – egli dice – il mio aiuto ed il mio liberatore: mio Dio, non tardate! (Rendu). – David, benché fosse re, non esitava a proclamarsi povero e mendicante di cui il Signore aveva cura. Così, qualunque cosa noi siamo, la nostra condizione è quella di stazionare ogni giorno umilmente davanti alle porte della divina Maestà, e domandarvi la carità dicendo: « Padre, datemi oggi il pane quotidiano ». E se si obietta che la terra comprende anche uomini troppo potenti, troppo opulenti, la cui sussistenza è troppo largamente e troppo solidamente assicurata perché il personaggio del mendicante possa convenire loro, ci risponderanno che questo personaggio, conviene loro così come agli altri (Mgr. Pie, Panègyr du bienh. Labre). – Non ne arrossite: quantunque ricco possa essere un uomo sulla terra, egli è il mendicante di Dio. E di cosa ha bisogno il ricco? Ecco oso dirlo: egli ha bisogno ogni giorno del suo pane. Perché ha tutto in abbondanza, questo non è forse perché Dio gli ha dato tutto? Cosa sarà di lui se Dio ritira la sua mano? Quanti uomini si sono addormentati ricchi per svegliarsi poveri e spogli di tutto? Se dunque il ricco non manca di nulla, è un effetto della misericordia di Dio, non un atto della sua potenza (S. Agost.). E cosa farete, voi che siete poveri e mancate di tutto? Mendicate alla porta di Dio, bussate, e vi sarà aperto. Affidate al Signore la cura di tutto ciò che vi riguarda, mettete in Lui la vostra speranza, e Lui stesso farà ciò che vi necessita. (Ps. XLIV, 23). – Di cosa vi inquietate? … colui che mi ha fatto, avrà cura di me? Colui che ebbe cura di voi prima che voi foste, non avrà cura di voi quando siete diventato ciò che Egli voleva che voi foste? Già voi siete fedele, già camminate nella via della giustizia: Questi potrà non aver cura di voi, Colui che fa sorgere il sole sui buoni, come sui cattivi, e spargere la pioggia sui giusti e gli iniqui? (Matth. V, 43). Tanto più che siete giusti e vivete di fede, vi respingerà, vi abbandonerà, vi lascerà a voi stessi? Ma no, Egli vi circonda di cure, vi aiuta, vi dà tutto ciò che vi necessiti, ed allontana ciò che potrebbe nuocere. Quando vi dà, vi consola, affinché viviate; quando vi toglie, Egli vi riprende, per timore che voi periate. Il Signore si prende cura di voi, siate in piena sicurezza, Colui che vi ha fatto, vi conduce Egli stesso. Non vi lasciate cadere dalle mani del vostro Creatore, sarete stroncati. Ora è la vostra buona volontà che vi mantiene nelle mani del vostro Creatore. Dite: Dio lo ha voluto, Egli mi porterà, mi sosterrà. Gettatevi nel suo seno; astenetevi dal credere che questo sia il vuoto, e che gettandovi, sarete precipitato. Egli ha detto: Io riempio il cielo e la terra (Gerem. XXIII, 24). – Nulla vi può mancare; fate in modo di non mancare a Lui, e voi non mancherete a voi stessi (S. Agost.).

LA GRAZIA (NOTE DI TEOLOGIA DOGMATICA) – 5 –

LA GRAZIA

(Note di Teologia Dogmatica) (5)

[Ludovico Ott: Compendio di Teologia Dogmatica; Marietti Torino-Herder Roma – imprim. Can. Oddone, Vis. Gen. 7/VI/1955]

§ 21. Il corteggio della grazia santificante.

Con la grazia santificante vanno uniti doni soprannaturali distinti ma ad essa intimamente connessi, designati dal Catechismo romano come il suo nobilissimo corteggio: « L’infusione della grazia è accompagnata dal nobilissimo corteggio (nobilissimus comitatus) di tutte le virtù, che entrano nell’anima battezzata » (II, 2, 50).

1. Le virtù teologali.

Con la grazia santificante vengono infuse le tre virtù divine o teologali della fede, della speranza e della carità. De fide.

Il Concilio di Trento insegna: « Nella giustificazione l’uomo, per mezzo di Gesù Cristo, cui viene inserito, riceve con la remissione dei peccati l’infusione della fede, della speranza e della carità » (D. 800). Queste virtù sono conferite all’anima come abiti, non come atti: l’espressione «infondere» (infundere) designa appunto la comunicazione di un abito. Per quanto riguarda la carità il Concilio dichiara espressamente che essa è diffusa nel cuore degli uomini e inerisce in loro, cioè rimane come stato (D. 821: quæ [se. caritas] in cordibus eorum per Spiritum Sanctum diffundatur atque illis inhaereat).

La dichiarazione del Concilio si fonda soprattutto su Rom. V, 5: « L’amore di Dio è largamente diffuso nei nostri cuori, per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato ». Cfr. 1 Cor. XIII, 8: « La carità non viene mai meno ». Come la carità, così anche la fede e la speranza sono alcunché di permanente nel giusto. 1 Cor. XIII, 13: « Queste tre cose adunque rimangono: la fede, la speranza, la carità ». – S. GIOVANNI CRISOSTOMO, riferendosi agli effetti del Battesimo dice: « Tu hai la fede, la speranza, la carità che rimangono. Cercale; sono più grandi che i miracoli. Nulla è eguale all’amore » (In Actus Apostol. hom. 40, 2). Se anche la carità infusa non è oggettivamente identica con la grazia santificante, come insegnano gli scotisti, tuttavia l’una è indissolubilmente congiunta con l’altra. L’abito della carità viene infuso contemporaneamente con la grazia e si perde con quella. Cfr. D. 1031. – Gli abiti della fede e della speranza sono invece separabili dalla grazia. Si perdono, non come la grazia e la carità per mezzo di peccati gravi, ma soltanto per mezzo dei peccati diretti contro la loro natura, la fede con l’incredulità, la speranza con l’incredulità e la disperazione. Cfr. D. 808, 838. Per il fatto che le virtù teologali si possono separare dalla grazia e dalla carità, parecchi teologi (per es. Suarez) ammettono che esse, quando vi fosse una disposizione sufficiente, vengano infuse già prima della giustificazione come virtù informi (virtutes informes). Questa opinione non contraddice la dottrina del Concilio di Trento (D. 800: simul infusa), che intese parlare soltanto della fede e della speranza « formate », cioè operanti per mezzo della carità.

2. Le virtù morali.

Con la grazia santificante vengono infuse anche le virtù morali. Sent. communis.

Il Concilio di Vienne (1311-12) parla in generale, senza limitarsi alle virtù teologali, dell’infusione, a modo di abiti, delle virtù e della grazia santificante: virtutes ac informans gratia infunduntur quoad habitum (D. 483).Il Catechismo romano (II, 2, 50) parla del « nobilissimo corteggio di tutte le virtù ».L’infusione delle virtù morali non si può provare con certezza mediante la Scrittura; tuttavia si può intravedere in Sap. VIII, 7 (le quattro virtù cardinali sono una dote della sapienza divina), in Ez. II, 19-20 (seguire i precetti del Signore è un effetto del cuore « nuovo ») specialmente in 2 Piet. 1, 4-7,dove con la partecipazione della natura divina vien nominata tutta una serie di altri doni (fede, probità, continenza,pazienza, pietà, amor fraterno, amore di Dio). – S. AGOSTINO dice delle quattro virtù cardinali a cui si possono ricondurre tutte le virtù morali: « Queste virtù ci vengono date adesso nella valle del pianto, per grazia di Dio » (Enarr. in Ps. LXXXIII, 11). Cfr. AGOSTINO, In ep. I Joan., tr. 8, 1. Cfr. 5. S. th. I – II, 63, 3.

3. I doni dello Spirito Santo.

Con la grazia santificante vengono infusi anche i doni dello Spirito Santo. Sent. communis.

Il fondamento biblico si trova in Is. XI, 2-3, ove sono descritte le doti spirituali del futuro Messia: « E si poserà su lui (il Messia) lo Spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di timore di Dio, e nel timore del Signore è la sua ispirazione » (Settanta e Volgata: « … spirito di scienza e di pietà, e lo riempirà lo spirito del timor di Dio »). Il testo ebraico enumera, oltre lo Spirito del Signore, sei doni; i Settanta e la Volgata ne contano sette perché traducono distinguendo il concetto di « timor di Dio » del versetto 2 da quello del versetto 3. Il numero settenario che risale ai Settanta non è essenziale. La liturgia, i Padri (per es. AMBROGIO, De Sacramentis I I , 2, 8; De mysteriis 7, 42) ed i teologi hanno dedotto da questo passo che gli stessi doni vengono partecipati a tutti i giustificati, poiché essi sono conformati a Cristo (Rom. VIII, 29). Cfr. il rito della Cresima e gli inni liturgici Veni Sancte Spiritus e Veni Creator Spiritus, e l’enciclica sullo Spirito Santo Divinum illud di LEONE XIII (1897).

– Secondo la dottrina di S. TOMMASO, oggi comunemente seguita, i doni sono abiti permanenti e soprannaturali dell’anima, realmente distinti dalle virtù infuse, per i quali l’uomo è reso docile e pronto a seguire gli impulsi dello Spirito Santo: dona sunt quidem habitus perficientes hominem ad hoc, quod prompte sequatur instinctum Spiritus Sancti (S. th. I – II, 86, 4). Essi perfezionano parte le potenze intellettive (sapienza, intelletto, consiglio, scienza) e parte quelle volitive (fortezza, pietà, timor di Dio). Si distinguono dalle virtù infuse in quanto il principio motore delle virtù sono le potenze dell’anima perfezionate soprannaturalmente, mentre quello dei doni è immediatamente lo Spirito Santo: le virtù danno la capacità di compiere le azioni ordinarie della vita virtuosa cristiana, i doni di compiere atti straordinari ed eroici. Si distinguono anche dai carismi in quanto sono concessi per la salvezza di chi li riceve e sono sempre infusi nella giustificazione. Cfr. S. th.I – II, 68, 1-8.

§ 22. Le proprietà dello stato di grazia.

1. Incertezza.

Senza una particolare rivelazione divina nessuno può sapere con certezza di fede se egli si trovi in stato di grazia. De fide.

Contro la dottrina protestante secondo cui il giustificato possiede un’assoluta certezza di fede circa la propria giustificazione, il Concilio di Trento dichiara: « Chiunque, guardando la propria debolezza e indisposizione può temere e tremare della sua grazia, dacché nessuno può sapere con certezza di fede, che esclude la possibilità dell’errore, se abbia conseguito la grazia di Dio » (D. 802). – La Scrittura attesta l’incertezza dello stato di giustificazione. 1 Cor. IV, 4: « Non ho coscienza, no, di verun mancamento, ma non per questo mi sento giustificato » Fil. II, 12: « Operate la vostra salvezza con timore e tremore ». Cfr. 1 Cor. IX, 27.

La ragione di tale incertezza sta nel fatto che nessuno senza una particolare rivelazione può conoscere con certezza di fede se ha adempiuto a tutte le condizioni che sono necessarie per raggiungere la giustificazione. L’impossibilità della certezza di fede non esclude però una grande certezza morale che si appoggia sulla testimonianza della coscienza, e appunto per questo il Cattolicesimo non è una religione d’incertezza e di angoscia.

2. Ineguaglianza.

Il grado di grazia non è uguale per tutti i giustificati. De fide. La grazia ricevuta può essere aumentata mediante le opere buone. De fide.

I protestanti, sostenendo che la giustificazione positivamente considerata non è altro che l’estrinseca imputazione della giustizia di Cristo, dovevano concludere che essa è eguale per tutti i giustificati. Contro di essi il Concilio di Trento dichiarò che il grado della grazia santificante ricevuta varia nei singoli giusti a seconda della misura della libera distribuzione di Dio e secondo la propria disposizione e cooperazione di ciascuno (D. 799). Quanto poi all’aumento della grazia il Concilio dichiarò contro gli stessi protestanti, i quali consideravano le opere buone solo come frutti della giustificazione raggiunta, che le medesime buone opere sono anche cause o mezzi per aumentarla: Si quis dixerit, iustitiam acceptam non conservari atque etiam non augeri coram Deo per bona opera… A.S. (D. 834).Cfr. 803, 842. È poi evidente che l’ineguaglianza delle buone opere condiziona nei singoli giusti un ineguale accrescimento dello stato di grazia.Secondo la dottrina della Scrittura, la misura della grazia data a ciascuno non è eguale. Ef. IV, 7: « A ciascuno di noi è stata concessa la grazia secondo la misura del dono di Cristo». 1 Cor. XII, 11: « Egli (lo Spirito) distribuisce a ciascuno i suoi doni, come a lui piace ».La Scrittura attesta anche l’accrescimento della grazia.2 Piet. 3, 18: « Crescete nella grazia! ». Ap. 22, 11: « Chi è giusto diventi ancor più giusto, e chi è santo, si santifichi di più ».

S. GEROLAMO combatte l’errore di Gioviniano, il quale, per l’influsso della dottrina stoica dell’eguaglianza di tutte le virtù, attribuiva a tutti i giusti un identico grado di giustizia e a tutti i beati un identico grado di gloria (Adv. Iovin. 11, 23). – S. AGOSTINO insegna: « I santi sono rivestiti di giustizia, l’uno più e l’altro meno » (Ep. 167, 3, 13). L’intrinseca ragione della possibilità di diversi gradi di grazia sta nel fatto che questa è una qualità fisica: come tale è suscettibile di un più e di un meno. La ragione estrinseca è la volontà di Dio che dispone tale varietà per la bellezza della Chiesa: « (Deus) diversimode suæ gratiæ dona dispensat ad hoc quod ex diversis gradibus pulchritudo et perfectio Ecclesiæ consurgat » (S. th. I – II, 112, 4). L’aumento della grazia comporta pure un aumento delle virtù teologali; la cosa è certa almeno per la carità. Tale aumento poi va concepito come un aumento di intensità e non di estensione.

3. Amissibilità.

a) Perdita della grazia.

La grazia santificante si può perdere e si perde con ogni peccato grave. De fide.

Contro la dottrina di Calvino della assoluta inamissibilità della grazia e contro quella di Lutero per cui la giustizia si perderebbe soltanto con il peccato di incredulità, cioè cessando la fede fiduciale, il Concilio di Trento dichiarò che lo stato di grazia si perde non solo per l’incredulità, bensì anche per ogni altro peccato grave (D. 808). Cfr. 833, 837. Il peccato veniale non distrugge né diminuisce lo stato di grazia (D. 804). La Scrittura insegna l’amissibilità della grazia a parole e con esempi (gli angeli decaduti, i progenitori, Giuda, Pietro). Cfr. Ez. XVIII, 24; XXXIII, 12; Mt. XXVI, 41: « Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione ». 1 Cor. X, 12: « Chi crede di stare in piedi, badi bene di non cadere ». Paolo in 1 Cor. VI, 9-10 enumera insieme alla incredulità numerosi altri peccati che escludono dal regno di Dio e causano la perdita della grazia santificante. – S. GEROLAMO difese l’amissibilità della grazia contro Gioviniano (Ad. Jov. II, 1-4) che cercava di dimostrare il contrario con il passo di Gv. III, 9. – S. GIOVANNI GRISOSTOMO, commentando 1 Cor. X, 12, scrive: « Finché non siamo liberati dai flutti della vita presente e non siamo giunti al porto della salvezza, nessuno sta in piedi che non possa cadere. Non inorgoglirti, non confidare in te stesso, ma sta’ ben attento e vigilante per non cadere. Se temette Paolo, fra tutti fortissimo, molto più noi dobbiamo temere ». D’altronde tutta la prassi penitenziale della Chiesa presuppone la convinzione che lo stato di grazia si perde con ogni peccato mortale. La ragione intrinseca di tale verità si fonda, da un lato nella libertà umana, che importa la possibilità di peccare, e, dall’altro, nell’essenza del peccato mortale, che essendo distacco da Dio e attacco alla creatura, è proprio l’opposto della grazia santificante, che è soprannaturale comunione di vita con Dio.

b) Perdita delle virtù infuse e dei doni dello Spirito Santo.

Con la grazia santificante si perde sempre anche la virtù teologale della carità. La carità ed il peccato mortale si escludono a vicenda. La dottrina contraria di Baio fu condannata (D. 1031-1032).

La virtù teologale della fede, come definì espressamente il Concilio di Trento, non si perde sempre insieme con lo stato di grazia; quella che rimane è vera fede, anche se non è fede viva (D. 838). Si perde invece con il peccato di incredulità che va direttamente contro la sua natura.

La virtù teologale della speranza può esistere senza la carità (cfr. D. 1407), ma non senza la fede. La si perde mediante il peccato di disperazione che va direttamente contro la sua natura, e mediante il peccato di incredulità.

Le virtù morali infuse ed i doni dello Spirito Santo si perdono, secondo la dottrina comune dei teologi, insieme con la grazia e la carità.

CAPITOLO TERZO

Il frutto della giustificazione o il merito.

§ 23. La realtà del merito.

1 . Eresie.

I protestanti negarono la realtà del merito soprannaturale. Mentre LUTERO da principio insegnò che tutte le opere del giusto sono in sé cattive, a motivo del peccato che rimane in lui (cfr. D. 771: In omni opere bono iustus peccat), più tardi ammise che il giusto con l’aiuto dello Spirito Santo può e deve compiere opere buone (cfr. Conf. Aug.  art. 20: docent nostri, quod necesse sit bona opera facere), negando però che avessero valore di merito. Secondo CALVINO (Inst. III, 12, 4) tutte le opere dell’uomo davanti a Dio sono « sporcizia! e sudiciume »: inquinamenta et sordes. Nella Dottrina Cattolica del merito il protestantesimo scorge a torto una derogazione alla grazia e ai meriti di Cristo (cfr. D. 843), un incoraggiamento ad una santità di opere esteriori, ad una ricerca interessata del premio e a una giustizia farisaica.

2. Dottrina della Chiesa.

Mediante le buone opere il giusto si guadagna veramente un titolo alla ricompensa soprannaturale da parte di Dio. De fide.

Il II Concilio di Orange dichiarò con Prospero di Aquitania e con Agostino: « Benché nessun merito da parte nostra preceda la grazia, una ricompensa è dovuta alle buone opere, se son fatte; ma la grazia, che non ci è dovuta, le precede affinché sian fatte » (D. 191). Il Concilio di Trento insegna che la vita eterna è per i giustificati e una grazia promessa da Cristo e la ricompensa per i loro meriti e opere buone (D. 809). Dato che la grazia di Dio è il presupposto ed il fondamento delle opere buone (soprannaturali) con cui si guadagna la vita eterna, esse sono nello stesso tempo un dono di Dio e un merito dell’uomo: cuius (sc. Dei) tanta est erga omnes homines bonitas, ut eorum velit esse merita, quæ sunt ipsius dona (D. 810; cfr. 141). Il Concilio pone l’accento sul fatto che si tratta di un « vero merito » (vere mereri; D. 842), cioè di un merito de condigno. Cfr. D . 835.

3. Fondamento nelle fonti della fede.

Secondo la Scrittura la beatitudine eterna nel cielo è la ricompensa (merces, remuneratio, retributio, bravium) per le opere buone compiute durante la vita terrena. Ora ricompensa e merito sono concetti correlativi. Gesù promette a coloro che saranno oltraggiati e perseguitati per causa sua, grande ricompensa in cielo: « Gioite ed esultate, perché grande sarà la vostra ricompensa nei cieli » (Mt. V, 12). Il Giudice universale emette la sua sentenza sui giusti in base alle opere buone: «Venite, o benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno, che vi è preparato sin dalla creazione del mondo; perché ebbi fame e mi deste da mangiare » (Mt. XXV, 34-35). Il motivo della ricompensa ritorna frequentemente nei discorsi di Gesù. Cfr. Mt. XIX, 29; XXV, 21; Lc.. VI, 38. Paolo, che accentua assai la grazia, pone pure in risalto la meritorietà delle opere buone compiute con la grazia, insegnando che la ricompensa è regolata secondo le opere: « Egli renderà a ciascuno secondo le sue opere » (Rom. II, 6). « Ciascuno riceverà la propria mercede a proporzione del suo lavoro » (1 Cor. III, 8). Cfr. Col. III, 24; Ebr. X, 35; XI, 6. Definendo la ricompensa eterna come « la corona di giustizia, che il giusto giudice darà in premio » (2 Tim. IV, 8), egli mostra che le opere buone del giusto fondano presso Dio un vero diritto alla ricompensa (meritum de condigno). Cfr. Ebr. VI, 10. – La Tradizione, sin dai Padri apostolici, testimonia la meritorietà delle opere buone. S. IGNAZIO DI ANTIOCHIA scrive a Policarpo: « Dov’è maggiore la fatica, è più grande il guadagno » (1, 3). « Cercate di piacere a Colui per il quale militate e dal quale ricevete lo stipendio… I vostri depositi siano le vostre opere, affinché possiate avere (un giorno) rimborsi considerevoli » (6, 2). Cfr. GIUSTINO, Apol. I, 43. TERTULLIANO ha introdotto il concetto di merito, senza tuttavia alterare per nulla la dottrina tradizionale. S. AGOSTINO, nella lotta contro il pelagianesimo, ha accentuato con più forza che non i Padri anteriori la parte della grazia nel compimento delle buone opere, ma ha pure anche sempre insegnato la meritorietà di queste. Ep. 194, 5, 19: « Come potrà dunque l’uomo meritare la grazia, dato che ogni merito è in noi opera della grazia e che quando Dio corona i nostri meriti, non corona che i suoi doni? ». La ragione non può di per sé provare la realtà del merito soprannaturale, dato che questo si fonda sulla libera promessa divina della ricompensa. Tuttavia, appellandosi ai principii universali della coscienza umana, è in grado di mostrare la convenienza di una ricompensa soprannaturale per azioni buone soprannaturali e liberamente compiute. S. th. I – II, 114, 1.

§ 24. Le condizioni del merito.

1. Da parte dell’opera.

L’opera meritoria deve essere:

a) moralmente buona, cioè conforme, per l’oggetto, l’intenzione, le circostanze, alla legge morale. Cfr. Ef. VI, 8: « Voi sapete che ciascuno, schiavo o libero che sia, sarà rimeritato dal Signore, di quanto avrà fatto di bene ». Dio, l’assolutamente Santo, non può ricompensare che il bene.

b) libera tanto da costrizione esterna quanto da necessità interna. Innocenzo X condannò come eretica la dottrina giansenistica, secondo cui, nello stato di natura decaduta, basta per meritare e demeritare la libertà da coazione esterna (D. 1094). Cfr. Eccli. XXXI, 10; Mt. XIX, 17: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti ». Mt. XIX, 21; 1 Cor. IX, 17.

S. GEROLAMO dice: « Dove vi è necessità non vi è ricompensa  (ubi necessitas est, nec corona est; Adv. Iov. II, 3). Secondo la testimonianza della coscienza umana soltanto un’azione libera merita ricompensa o punizione.

c) soprannaturale, cioè fatta sotto l’azione della grazia attuale e per un motivo soprannaturale. Anche il giustificato ha bisogno della grazia attuale per compiere atti salutari (§ 8, 3). È richiesto un motivo soprannaturale, poiché colui che agisce è dotato di ragione e di libertà e deve quindi orientare coscientemente la sua azione a tal fine. Gesù promette ricompensa per le opere che vengono compiute per Lui. Mc. IX, 40: « Chiunque vi darà un bicchier d’acqua appunto perché siete di Cristo, in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa ». Cfr. Mt. X, 42; XIX, 29; Lc. IX, 48. Paolo ammonisce di compiere tutto in nome del Signore Gesù Cristo o per la gloria di Dio. Col. III, 17: « Qualunque cosa facciate o con parole o con opere tutto fate nel nome del Signore Gesù! ».

1 Cor. X, 31: « Sia che mangiate dunque, sia che beviate, sia che facciate altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio! ». – Il motivo più perfetto è il perfetto amor di Dio. Secondo i passi della Scrittura or ora citati, possono però bastare anche motivi meno perfetti, per es. l’ubbidienza al precetto divino, la speranza della beatitudine eterna (cosi Suarez, De Lugo contro l’opinione della maggioranza dei tomisti).

2. Da parte dell’uomo.

Chi merita dev’essere:

a) nello stato di via (in statu viæ) dato che, secondo la disposizione positiva di Dio, la possibilità del merito è ristretta al tempo della vita terrena. Cfr. Gv. IX, 4: « Viene la notte, quando più non si può operare ». Gal. VI, 10: « Mentre ne abbiamo il tempo facciamo del bene a tutti ». La ricompensa è commisurata a quello che è stato fatto « mediante il corpo », cioè nella vita terrena (2 Cor. II, 10). Cfr. Mt. XXV, 34; Lc. XVI, 26. I Padri negano, contro Origene, che nell’altra vita vi sia la possibilità di convertirsi e di procacciarsi dei meriti. – FULGENZIO dice: « Dio ha dato all’uomo la possibilità di guadagnare la vita eterna soltanto in questa vita » (De fide ad Petrum III, 36).

b) nello stato di grazia (in statu gratiæ), se si prende il merito in senso proprio (meritum de condigno). Le decisioni dottrinali del Concilio di Trento sul merito si riferiscono espressamente ai giustificati (D. 836, 842). La dottrina contraria di Baio fu condannata (D. 1013 ss.). Gesù esige la continua unione con Lui quale condizione indispensabile per produrre frutti soprannaturali: « Siccome il tralcio da sé non può portare frutto, se non rimane congiunto con la vite, così nemmeno voi, se non rimanete in me » (Gv. 15, 4). PAOLO richiede per l’azione meritoria la carità inseparabilmente congiunta con lo stato di grazia (1 Cor. XVI, 2-3). S. AGOSTINO insegna che soltanto « il giustificato dalla fede può vivere giustamente ed agire bene », e procacciarsi così la vita eterna (Ad Simplicianum I , 2, 21). La necessità dello stato di grazia è fondata sul fatto che tra l’opera meritoria e la sua ricompensa vi è reale equivalenza, solo quando chi merita è elevato, con la grazia abituale, allo stato di amicizia e figliolanza divina.

3. Da parte di Dio.

Il merito dipende dalla libera disposizione di Dio di ricompensare con la beatitudine eterna le opere buone compiute con l’aiuto della sua grazia. Per l’infinita distanza tra il Creatore e la creatura, l’uomo di per sé non può fare che Dio gli sia debitore, se Dio stesso con la sua libera disposizione non lo stabilisca. E che Dio abbia così disposto, risulta dalla promessa della ricompensa eterna. Cfr. Mt. V, 34 ss. (le otto beatitudini); XIX, 29 (ricompensa del centuplo); XXV, 34 ss. (sentenza del Giudice universale). Paolo parla della « speranza nella vita eterna, la quale Dio, che non mentisce, promise dall’eternità » (Tit. 1, 2). Cfr. 1 Tim. IV, 8; Giac. 1, 12. — S. AGOSTINO dice: « Il Signore si è fatto da sé debitore, non ricevendo, ma promettendo. Non gli si può dire: ritornaci ciò che hai ricevuto, ma soltanto: dacci quello che hai promesso» (Enarr. in Ps. LXXXIII, 16). S. th. I – II, 114, 1 ad 3. Secondo l’opinione dei nominalisti e degli scotisti la ragione della meritorietà delle opere buone sta esclusivamente nella libera accettazione di Dio, di modo che Egli potrebbe accettare come meriti anche le opere buone naturali e ricompensarle con la vita eterna. Secondo la concezione, meglio fondata, dei tomisti, la ragione della meritorietà sta nel valore intrinseco delle opere buone compiute nello stato di grazia; poiché tale stato produce un’intrinseca proporzione tra le azioni buone e la ricompensa eterna, come è nel concetto del merito de condigno.

NOTA. Le condizioni per il merito de congruo (merito di convenienza) sono le stesse che per il merito de condigno (merito di giustizia), fatta eccezione dello stato di grazia e della promessa divina.

§ 25. L’oggetto del merito.

1. Oggetto del merito de condigno.

Il giustificato si merita con le sue opere buone l’aumento della grazia santificante, la vita eterna e l’aumento della gloria celeste. De fide.

Il Concilio di Trento dichiarò: Si quis dixerit, iustificatum bonis operibus… non vere mereri augmentum gratiæ, vitam aeternam et ipsius vitæ aeternæ (si tamen in gratia decesserit) consecutionem, atque etiam gloriæ augmentum, A.S. (D. 842). Secondo questa definizione si devono distinguere tre oggetti del merito vero e proprio:

a) l’aumento della grazia santificante. Dato che la grazia è il preludio della gloria, e che la gloria si misura dalle buone opere, anche il grado della grazia deve aumentare con le opere buone. Come la gloria è oggetto del merito, così lo è anche l’aumento della grazia. Cfr. D. 803, 834. – Secondo S. Tommaso la grazia santificante non aumenta sempre appena compiuta un’opera buona, ma solo quando l’anima sia sufficientemente disposta. S. th. I – II, 114, 8 ad 3.

b) la vita eterna, più precisamente il diritto alla vita eterna e, se nell’istante della morte si è nello stato di grazia, il reale conseguimento di essa. Secondo la dottrina della Scrittura la vita eterna è la ricompensa delle opere buone compiute quaggiù. Cfr. Mt. XIX, 29; XXV, 46; Rom. II, 6-7; Giac. 1, 12. La perdita della grazia santificante a causa del peccato mortale importa la perdita di tutti i meriti anteriori. Le opere buone vengono in un certo senso uccise (opera mortificata). Esse tuttavia rinascono, secondo la dottrina generale dei teologi, quando si riacquista la grazia (opera vivificata).

c) l’aumento della gloria celeste. Dato che, secondo la dichiarazione del Concilio generale di Firenze, il grado della gloria varia nei beati a seconda dei loro meriti (prò meritorum diversitate; D. 693), è evidente che l’aumento dei meriti comporta un aumento della gloria. Paolo attesta: « Chi semina scarsamente, scarsamente mieterà, e chi semina abbondantemente, raccoglierà con abbondanza » (2 Cor. IX, 6). Cfr. Mt. XVI, 27; Rom. II, 6; 1 Cor. III, 8; Ap. XXII, 12.

– Osserva TERTULLIANO: « Perché ci sono presso il Padre molte dimore (Gv. XIV, 2), se non per la varietà dei meriti? » (Scorp. 6). L’errore di Gioviniano, che sosteneva l’eguaglianza della gloria celeste per tutti i beati, fu respinto da Gerolamo (Adv. Iov. II, 32-34).

2 . Oggetto del merito de congruo.

Non ci sono al riguardo decisioni del magistero della Chiesa. Dato poi che il concetto di merito de congruo non ha uno stesso significato in quanto per il motivo che lo fonda può essere più o meno ampio, le opinioni dei teologi non sono concordi.

a) Ciò che può meritare il peccatore.

Chi è in peccato mortale può meritare (de congruo), con la libera cooperazione della grazia attuale, ulteriori grazie attuali per prepararsi alla giustificazione e, in ultimo, la stessa grazia giustificante. Sent. probabilis.

Cfr. Sal. L, 19: « Un cuore contrito ed umiliato, o Signore, tu non lo disprezzerai ». AGOSTINO dice del pubblicano ( Lc. XVIII, 9-14) che « per merito della sua umiltà (merito fidelis humilitatis) se ne andò giustificato » (Ep. 194, 3, 9).

b) Ciò che può meritare il giusto.

1) Il giusto può meritare (de congruo fallibili) la grazia della perseveranza finale, in quanto è conveniente che Dio conceda a colui che coopera fedelmente con la sua grazia, la grazia attuale richiesta per durare nello stato di grazia. Sent. probabilis.

Il titolo del giusto alla grazia di perseveranza, fondato sulle buone opere è molto debole, e quindi l’effetto è incerto. Più sicuro è l’effetto dell’umile e costante preghiera. Mt. VII, 7: « Chiedete e vi sarà dato ». Gv. XVI, 23: « Quanto domanderete al Padre, ve lo darà in nome mio ». Cfr. AGOSTINO, De dono persev. 6, 10.

2) Il giusto può meritarsi (de congruo fallibili) di riavere la grazia santificante dopo un eventuale peccato, in quanto è conveniente che Dio per sua misericordia ridoni lo stato di grazia a colui che, quando era in tale stato, ha compiuto molte opere buone. Sent. probabilis.

Quando S. Tommaso insegna (S. th. I – II, 114, 7) che non si può meritare né de condigno né de congruo la conversione dopo la caduta in peccato, egli intende il merito de congruo in senso molto stretto. Commentando la Lettera agli Ebrei (cap. VI, lect. 3) egli ne allarga il senso e afferma la possibilità di un siffatto merito.

3) Per gli altri il giusto può meritare (de congruo) quello che può meritare per sé stesso, e in più la prima grazia attuale. Sent. probabilis.

La possibilità di meritare per gli altri ha il suo fondamento nella amicizia divina del giusto e nella comunione dei Santi. Occorre notare che per gli altri è più efficace la preghiera del merito. Giac. V, 16: « Pregate gli uni per gli altri per essere salvi. Molto vale la preghiera assidua del giusto ». Cfr. 1 Tim. II, 1-4.

4) I beni temporali sono oggetto di merito soprannaturale solo in quanto costituiscono un mezzo per conseguire la salute eterna. Sent. probabilis. Cfr. 5. S. th. I – II, 114, 10.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/09/17/la-grazia-note-di-teologia-dogmatica-1/

LA GRAZIA (NOTE DI TEOLOGIA DOGMATICA) – 4 –

LA GRAZIA

(Note di Teologia Dogmatica) (4)

[Ludovico Ott: Compendio di Teologia Dogmatica; Marietti Torino-Herder Roma – imprim. Can. Oddone, Vis. Gen. 7/VI/1955]

SEZIONE SECONDA

La grazia abituale.

Dopo la grazia attuale dobbiamo considerare la grazia abituale, quella cioè che ci santifica in modo permanente stabilendo in noi lo stato di grazia. La Scrittura chiama giustizia questo stato di grazia e giustificazione l’atto divino col quale esso è prodotto in noi. Dividiamo la materia in tre capitoli che trattano rispettivamente del processo della giustificazione, dello stato di grazia che ne è il risultato e del merito che è frutto dello stato di grazia.

CAPITOLO PRIMO

Il processo della giustificazione.

§ 16. La giustificazione.

1. La giustificazione secondo i riformatori.

Il punto di partenza della dottrina luterana della giustificazione è l’idea che la natura umana sia stata totalmente corrotta dal peccato di Adamo e che il peccato originale consista formalmente nella concupiscenza disordinata. LUTERO concepisce la giustificazione come un atto giudiziale (actus forensis) di Dio che dichiara giusto l’uomo, benché internamente rimanga peccatore (iustus et peccator). Siffatta giustificazione, nel suo aspetto negativo, non è ima vera abolizione o cancellazione dei peccati, ma solo una non imputazione o copertura di essi; nel suo aspetto positivo non è una rinnovazione e santificazione interiore, ma una semplice imputazione esterna della giustizia o santità di Cristo. La condizione soggettiva per la giustificazione è la fede fiduciale, cioè la fiducia dell’uomo, unita alla certezza della salvezza, che Dio misericordioso a cagione di Cristo gli perdoni i peccati. Cfr. Conf. Aug. e Apol. Conf. Art. 4; Art. Smalc. P. III, Art. 13; Formula Concordiæ P. II, c. 3.

2 . Dottrina cattolica della giustificazione.

Il Concilio di Trento, riallacciandosi a Col. I, 13, descrive la giustificazione come un « trasferimento da quello stato di peccato, in cui l’uomo nasce figlio del. primo Adamo, allo stato di grazia e di adozione dei figli di Dio per opera del secondo Adamo, Gesù Cristo nostro Salvatore » (translatio ab eo statu, in quo homo nascitur filius primi Adæ, in statum gratiæ et adoptionis filiorum Dei, per secundum Adam Iesum Christum Salvatorem nostrum; D. 796). La giustificazione sotto l’aspetto negativo cancella veramente i peccati,e sotto l’aspetto positivo santifica e rinnova soprannaturalmente l’uomo interiore: non est sola peccatorum remissio, sed et sanctificatio et renovatio interioris hominis (D. 799). La dottrina riformista della copertura dei peccati e dell’imputazione esterna della giustizia di Cristo fu respinta come eretica dal Concilio di Trento(D. 792, 821). – Per quanto riguarda l’aspetto negativo, la Scrittura concepisce la remissione dei peccati come una reale e perfetta abolizione dei peccati usando le seguenti espressioni:

a) delere = cancellare (Sal. L, 3 ; Is. XLIII, 25; Atti III, 19), auferre vel transferre = portar via (2 Sam. XII, 13; 1 Cor. XXI, 8; Mich. VII, 18), tollere = togliere(Gv. 1, 29), longe facere = allontanare (Sal. CII, 12);

b) lavare, abluere = lavare, mundare = purificare (Sal. L, 4; Is. 1, 16; Ez. XXXVI, 25; Atti XXII, 16; 1 Cor. VI, 11; Ebr. 1, 3; 1 Gv. 1, 7); c) remittere vel dimittere = rimettere, perdonare (Sal. XXXI, 1; LXXXIV, 3; Mt. IX, 2. 6; Lc. VII, 47-48; Gv. XX, 23; Mt. XXVI, 28; Ef. 1, 7). I pochi passi della Scrittura che parlano di una velatura o copertura dei peccati (Sai. XXXI, 1-2; LXXXIV, 3; 2 Cor. V, 19) devono essere interpretati alla luce delle espressioni parallele («remittere» in Sal. XXXI, 1; LXXXIV, 3) e degli altri passi scritturali chiari, nel senso di una effettiva cancellazione. In Prov. X, 12 (l’amore ricopre tutti i peccati) e 1 Piet. IV, 8 (l’amore copre la moltitudine dei peccati) si parla non della remissione dei peccati da parte di Dio, ma del perdono reciproco degli uomini. – Per quanto concerne l’aspetto positivo, la Scrittura rappresenta la giustificazione come rinascita da Dio, cioè generazione di una nuova vita soprannaturale nel peccatore (Gv. III, 5; Tit. III, 5-6), come nuova creazione (2 Cor. V, 17), rinnovamento interiore (Ef. IV, 23), santificazione (1 Cor. VI, 11) trasferimento dallo stato di morte allo stato di vita (1 Gv. III, 14), dallo stato di oscurità allo stato di luce (Col. 1, 13; Ef. V, 8), permanente comunione dell’uomo con Dio (Gv. XIV, 23; XV, 5), partecipazione della natura divina (2 Piet. 1, 4: divinæ consortes naturæ). Quando Paolo dice che Cristo è divenuto la nostra giustizia (1 Cor. 1, 30; cfr. Rom.V, 18) non esprime che la causa meritoria della nostra giustificazione.

– I Padri considerano la remissione dei peccati come vera abolizione o cancellazione. S. AGOSTINO respinge la deformazione pelagiana, secondo cui il Battesimo non rimette, ma si limita a radere i peccati: dicimus baptisma dare omnium indulgentiam peccatorum et auferre crimina, non radere; Contra duas epist. Pelag. I , 13, 26. La santificazione che si compie con la giustificazione vien spesso chiamata dai Padri divinizzazione (θείωσις =teiosis, deificano). S. AGOSTINO spiega che la giustizia di Dio (iustitia Dei) di cui parla S. Paolo, non è la giustizia per cui Dio stesso è giusto, ma quella per cui Egli ci rende giusti (cfr. D. 799); essa vien detta giustizia divina perché ci vien data da Dio (De gratia Christi 13, 14). È inconciliabile con la sua veracità e santità che Dio dichiari giusto un uomo, se internamente rimane peccatore.

§ 17. Le cause della giustificazione.

Il Concilio di Trento (D. 799) stabilisce le seguenti cause della giustificazione:

1. La causa finaleè la gloria di Dio e di Cristo (c. f. primaria) e la vita eterna dell’uomo (c. f. secondaria).

2. La causa efficiente, più propriamente la causa efficiente principale è Dio misericordioso.

3. La causa meritoria è Gesù Cristo, che, quale mediatore tra Dio e l’uomo, ha soddisfatto per noi ed ha meritato la grazia giustificante.

4. La causa strumentale della prima giustificazione è il sacramento del Battesimo. La dichiarazione del Concilio aggiunge: quod est sacramentum fidei, sine qua nulli unquam contigit iustificatio. Con ciò si stabilisce che la fede è condizione previa necessaria (causa dispositiva) per la giustificazione (degli adulti).

5. La causa formale è la giustizia di Dio, non quella della quale Egli è giusto, ma quella di cui fa giusti noi (iustitia Dei, non qua ipse iustus est, sed qua nos iustos facit), cioè la grazia santificante. Cfr. D. 820. Secondo la dottrina del Concilio Tridentino la grazia santificante è l’unica causa formale della giustificazione (unica formalis causa). Questo significa che l’infusione della grazia santificante opera sia la cancellazione dei peccati sia la santificazione interiore. Il Concilio respinge così la teoria della duplice giustificazione, sostenuta da alcuni riformatori (Calvino, Martino Butzer) ed anche da alcuni teologi cattolici (Girolamo Seripando, Gasparo Contarmi, Alberto Pighi, Giovanni Gropper), per cui la remissione dei peccati consisterebbe nell’imputazione della giustizia di Cristo e la santificazione positiva in una giustizia inerente all’anima. – Secondo la dottrina della Scrittura la grazia e il peccato sono antitetici e si oppongono come la luce e le tenebre, la morte e la vita. La comunicazione della grazia produce necessariamente la remissione dei peccati. Cfr. 2 Cor. VI, 14: « Quale consorzio tra giustizia e iniquità? e quale comunanza vi è tra la luce e le tenebre? ». Col. II, 13: « E mentre eravate morti a causa dei vostri peccati… Dio con lui (Cristo) vi richiamò alla vita». Cfr. 1 Gv. IX, 14; S. Th. I – I I, 113, 6 ad 2.

§ 18. La preparazione alla giustificazione.

1. Possibilità e necessità di una preparazione.

Il peccatore può e deve prepararsi, con l’aiuto della grazia attuale a ricevere la giustificazione. De fide.

I riformatori negavano la possibilità e la necessità di una preparazione alla giustificazione, partendo dal presupposto che la volontà dell’uomo, in seguito alla totale rovina della natura umana per il peccato di Adamo, sarebbe divenuta incapace di ogni bene. Il Concilio di Trento li condannò dichiarando: Si quis dixerit… nulla ex parte necesse esse eum (se. impium) suæ volontatis motu præparari atque disponi, A. S. (D. 819. Cfr. D . 797 ss., 814, 817).

IL Concilio adduce come prova della Scrittura (D. 797) il passo di Zac. 1, 3: « Convertitevi a me, che io mi rivolgerò verso di voi » e quello di Lam. V, 21: « Convertici a te, o Signore, e ci convertiremo ». Il primo testo accentua la libertà del nostro movimento verso Dio, il secondo la necessità della grazia preveniente.Occorre pure ricordare le numerose esortazioni del Vecchio e del Nuovo Testamento alla penitenza ed alla conversione e la prassi del catecumenato e della penitenza nella Chiesa antica. S. th. I – I I , 113, 3.

2. Fede e giustificazione.

Senza fede la giustificazione dell’adulto non è possibile. De fide.

Secondo il Concilio di Trento la fede è l’inizio della salvezza umana, il fondamento e la radice di ogni giustificazione » (humanæ salutis initium, fundamentum et radix omnis iustificationis; D. 801). Cfr. 799: sine qua (se. fide) nulli unquam contigit iustificatio; e anche D. 1793. – Per quanto concerne il contenuto della fede giustificante, non è sufficiente la cosiddetta fede fiduciale, ma si richiede quella teologica o dogmatica, che consiste nel ritenere vere le verità rivelate a motivo dell’autorità di Dio rivelante. Il Concilio di Trento: si quis dixerit, fidem iustificantem nihil aliud esse quam fiduciam divinæ misericordiæ, A. S. (D. 822). Cfr. D . 798: credentes vera esse, quæ divinitus revelata et promissa sunt; D. 1789 (definizione della fede). – Secondo la testimonianza della Scrittura la fede, e precisamente quella dogmatica, è la condizione previa indispensabile per il conseguimento della salvezza eterna. Mc. XVI, 15-16: «Predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crede e si fa battezzare, sarà salvato; chi non crede, sarà condannato». Gv. XX, 31: «Questi sono stati scritti, affinché crediate che Gesù il Cristo, è Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome ». Ebr. XI, 6: « Senza fede è impossibile piacere a Dio; poiché chi si accosta a Dio, deve credere che Egli esiste e che è rimuneratore di quei che lo cercano». Cfr. Gv. III, 14ss.; VIII, 24; XI, 26; Rom. X, 8 ss. . I passi addotti dagli avversari che accentuano molto l’importanza della fiducia (Rom. IV, 3 ss.; Mt. IX, 2; Lc.. XVII, 19; VII, 50; Ebr. XI, 1) non escludono la fede dogmatica, dacché la fiducia nella misericordia divina è una conseguenza necessaria della fede nella verità della rivelazione divina. – Una prova patristica di fatto in favore della necessità della fede dogmatica per la giustificazione è l’istruzione dei catecumeni nelle verità cristiane di fede e la professione del Credo prima del Battesimo. TERTULLIANO definisce il Battesimo il suggello della fede professata prima di riceverlo (obsignatio fidei, signaculum fidei; De pœnit. 6; De spect. 24). S. AGOSTINO dice: « Il principio della vita buona, della vita che merita la vita eterna è la retta fede » (Sermo 43, 1, 1).

3. Necessità di altri atti preparatorii oltre la fede.

Alla fede devono aggiungersi altri atti preparatorii. De fide.

Secondo la dottrina dei riformatori la fede, intesa nel senso di fede fiduciale, è l’unica causa della giustificazione (dottrina della « sola fides »). Al contrario il Concilio di Trento dichiarò che oltre la fede sono necessari altri atti preparatorii o dispositivi alla giustificazione stessa (D. 819). Vengono nominati il timore della giustizia divina, la speranza nella misericordia divina per i meriti di Cristo, l’inizio dell’amore di Dio, l’odio e la detestazione del peccato, il proposito di ricevere il Battesimo e di incominciare una vita nuova. Il Concilio descrive il normale processo psicologico della giustificazione, senza definire che tutti i singoli atti debbano sempre susseguirsi nell’ordine detto o che vi possano essere solo questi. Come non deve mai mancare la fede quale inizio della salvezza, così pure non deve mai mancare il pentimento per i peccati commessi, poiché la loro remissione senza conversione interiore non è possibile (D. 798. Cfr. D. 897). – La Scrittura richiede al di fuori della fede altri atti preparatorii, per es. il timor di Dio (Eccli. 1, 27-28; Prov. XIV, 27), la speranza (Eccli. II, 9), l’amore di Dio (Lc. VII, 47; 1 Gv. III, 14), il pentimento e la penitenza (Ez. XVIII, 30; 33, 11; Mt. IV, 17; Atti II, 38; 3, 19).

PAOLO e GIACOMO. Quando Paolo insegna che siamo giustificati mediante la fede senza le opere della legge (Rom. III, 28: « Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato dalla fede senza le opere della legge »; cfr. Gal. II, 16), intende per fede la fede viva, operante per mezzo della carità (Gal. V, 6) e per opere le opere della legge del Vecchio Testamento, per es. la Circoncisione, e per giustificazione la purificazione e la santificazione interiore del peccatore non Cristiano per l’adesione alla fede cristiana. Quando Giacomo, in apparente contrasto con Paolo, insegna che noi siamo giustificati dalle opere e non soltanto dalla fede (Giac. II, 24: « Vedete bene che l’uomo è giustificato per le opere e non solo per la fede »), intende per fede la fede morta, cioè senza la carità (Giac. II, 17; cfr. Mt. VII, 21), per opere le opere buone che procedono dalla fede cristiana e per giustificazione il dichiarare giusto chi lo è già, o renderlo maggiormente giusto. Paolo scrive contro i giudaizzanti che si facevano forti delle opere della legge e quindi accentua la fede; Giacomo scrive per i Cristiani tiepidi e perciò accentua le opere. Ambedue esigono concordemente una fede viva ed operante. I Padri, in armonia con la prassi antica del catecumenato, insegnano che la fede da sola non basta alla giustificazione.

S. AGOSTINO dice: « Senza la carità ci può essere la fede, ma serve a nulla » (De Trin. XV, 18, 32). Cfr. S. th. I – II, 113, 5.

CAPITOLO SECONDO

Lo stato di grazia.

§ 19. L’essenza della grazia santificante.

1. Determinazione ontologica della grazia santificante.

a) La grazia santificante è un dono creato soprannaturale realmente distinto da Dio. Sent. Fidei proxima.

Secondo PIETRO LOMBARDO (Sent. I, d. 17) la grazia santificante non sarebbe alcunché di creato, ma lo Spirito Santo stesso, che abita nell’anima dei giusti e vi opera immediatamente (non mediante aliquo habitu) gli atti di amor di Dio e del prossimo. Cfr. S. th. II- II, 23, 2.

– La dottrina del Concilio di Trento che presenta la grazia santificante come « giustizia di Dio, non quella della quale Egli è giusto, ma quella di cui fa giusti noi »

(D. 799), esclude l’identità dalla grazia santificante stessa con lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo non è causa formale, ma causa efficiente della giustificazione. Secondo Rom. V, 5: « L’amore di Dio è largamente diffuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo, che ci è stato dato ». Ma l’amore di Dio e la grazia sono indissolubilmente congiunti dimodoché se quello è distinto dallo Spirito Santo, come il dono dal donatore e l’effetto dalla causa, lo è anche questa.

b) La grazia santificante è un’entità soprannaturale infusa da Dio e inerente all’anima in modo permanente. Sent. certa.

Secondo i nominalisti la grazia giustificante è la costante benevolenza di Dio che per i meriti di Cristo condona i peccati al peccatore e gli concede la grazia attuale necessaria per il conseguimento della salvezza. Alla stessa guisa Lutero definisce la grazia giustificante come benevolenza di Dio che si manifesta nel non imputare al peccatore i suoi peccati, e nell’imputargli la giustizia di Cristo. – Le espressioni « diffunditur, infunditur, inhæret » (D. 800, 809, 821), di cui si serve il Concilio di Trento, indicano che la grazia giustificante aderisce all’anima del giustificato in modo permanente. Il Catechismo romano definisce la grazia santificante una « qualità divina inerente all’anima » (divina qualitas inhærens; II, 2, 49).

Anche dalla giustificazione degli infanti risulta che la grazia santificante è alcunché che inerisce in modo abituale al giustificato. Cfr. D. 410, 483, 790 ss. – La Scrittura descrive lo stato di giustificazione come la presenza nell’uomo di un seme divino (1 Gv. III, 9): « Chiunque è nato da Dio non pecca, perché un germe di Lui in esso dimora », come unzione, sigillo e pegno dello Spirito Santo (2 Cor. 1, 21-22), partecipazione della natura divina (2 Piet. 1, 4), vita eterna (Gv. III, 15-16, ecc.). La giustificazione vien detta rinascita (Gv. III, 5; Tit. III, 5), nuova creazione (2 Cor. V, 17; Gal. VI, 15) e rinnovazione interiore (Ef. IV, 23). Simili espressioni non si possono spiegare come interventi passeggeri di Dio nell’anima per produrre gli atti salutari, ma richiedono un’entità soprannaturale permanente e inerente all’anima. La nuova vita soprannaturale nel giustificato presuppone un principio soprannaturale permanente di vita.

S. CIRILLO DI ALESSANDRIA chiama la grazia giustificante una « qualità » (ποιότης = poiotes – che ci fa santi (Hom. Pasch. 10, 2) o « una certa forma divina », che lo Spirito Santo infonde in noi (In Is. IV, 2). Cfr. S. th. I – II, 110, 2.

c) La grazia santificante non è una sostanza, ma un accidente reale, inerente alla sostanza dell’anima. Sent. certa.

Il Concilio di Trento si serve dell’espressione « inhærere » (Denz. 800, 809, 821) che caratterizza il modo di essere dell’accidente. Come accidente che modifica l’anima la grazia santificante appartiene più propriamente alla categoria della qualità, e, in quanto la modifica in modo stabile, appartiene piuttosto a quella specie di qualità che si dice abito. Siccome la grazia santificante perfeziona immediatamente la sostanza dell’anima e ha solo rapporto mediato con l’azione, vien definita come abito entitativo (a differenza dell’abito operativo). Per la sua origine l’abito della grazia santificante si dice infuso (per distinguerlo da quello innato e da quello acquisito).

d) La grazia santificante è realmente distinta dalla carità. Sent. communior.

Secondo la dottrina di S. TOMMASO e della sua scuola, la grazia santificante, come perfezione della sostanza dell’anima (habitus entitativus), è realmente distinta dalla carità che è una perfezione della volontà (habitus operativus). Gli scotisti definiscono la grazia come abito operativo realmente identico con la carità, dalla quale pertanto si distinguerebbe solo virtualmente. Il Concilio di Trento non ha decisa la questione.

Mentre in un luogo (D. 821) distingue tra carità e grazia (exclusa gratia et caritate) in un altro, riallacciandosi a Rom. V, 5, parla soltanto dell’infusione della carità (D. 800). – In favore della concezione tomista milita soprattutto l’analogia dell’ordine soprannaturale con quello naturale, la quale ci fa vedere come i doni soprannaturali che perfezionano la sostanza dell’anima siano realmente distinti da quelli che perfezionano le sue potenze, proprio come la sostanza dell’anima e le sue potenze sono tra loro realmente distinte. Cfr. S. th. I – II, 110, 3-4.

2. Determinazione teologica della grazia santificante.

a) La grazia santificante è una partecipazione alla natura divina.

Nell’Offertorio della Messa la Chiesa prega: « Concedici di diventare, mediante il mistero di quest’acqua e di questo vino, consorti della divinità di Colui che si degnò farsi partecipe della nostra umanità». Similmente nel Prefazio della festa dell’Ascensione: « Il quale salì al cielo, per far noi partecipi della sua divinità». Cfr. D. 1021. Pio XII, nell’enc. Mystici Corporis, scrive: « Se il Verbo si esinanì prendendo la forma di servo (Fil. II, 7), ciò fece anche per rendere partecipi della divina natura (cfr. 2 Piet. I, 4 ) i suoi fratelli secondo la carne, sia nell’esilio terreno con la grazia santificante, sia nella patria celeste col possesso della beatitudine eterna» (A.A.S. 1943, P. 214). – Secondo 2 Piet. 1, 4, il Cristiano viene elevato alla partecipazione della natura divina: « Per essa (la sua virtù e la sua gloria) Egli (Dio) ci ha donato grandissime e preziose promesse affinché per mezzo di queste diventiate partecipi della natura divina». Anche i testi della Scrittura che presentano la giustificazione come generazione o nascita da Dio (Gv. 1, 12; III, 5; 1 Gv. III, 1. 9; Tit. III, 5; Giac. 1, 18; 1 Piet. 1, 23) insegnano in modo indiretto la partecipazione dell’uomo alla natura divina, dacché la generazione consiste nella trasmissione della natura dal generante al generato. Con questi passi e altri ancora (Sal. LXXXI, 6; Gv. X, 34-35) i Padri hanno elaborato la dottrina della divinizzazione dell’uomo mediante la grazia (deificatio). È loro ferma convinzione che Dio si fece uomo perché l’uomo divenisse Dio, cioè fosse deificato. Cfr. ATANASIO, Or. de incarti. Verbi 54: « Il Logos si è fatto uomo perché noi diventassimo Dio ». Cfr. Contro Arianos, or. 1, 38, PSEUDO-AGOSTINO, Sermo 128, 1: Factus est Deus homo, ut homo fieret Deus. Lo PSEUDO-DIONIGI spiega la deificazione come la « massima assimilazione e unione con Dio » (De Eccl. Hier. 1, 3).

b) Circa il modo di spiegare tale partecipazione si devono evitare due estremi:

1) Non va concepita in senso panteistico come trasformazione della sostanza dell’anima nella divinità. L’infinita distanza tra il Creatore e la creatura rimane intatta. D . 433, 510, 1225, 2290.

2) Né dev’essere intesa come pura partecipazione morale consistente nella conformità al pensiero e alla volontà di Dio, analoga alla figliolanza del peccatore col diavolo (Gv. VIII, 44).

3) Essa è una partecipazione fisica (reale) alla natura divina. Consiste in un’unione accidentale, che si attua mediante un dono divino creato, che assimila ed unisce l’anima con Dio in un modo che supera tutte le forze create. L’uomo che per il corpo è vestigio e per l’anima è immagine di Dio, viene elevato, mediante la grazia santificante, alla somiglianza divina, cioè ad un grado superiore e soprannaturale di assimilazione con Dio. Cfr. S. th. III, 2, 10 ad 1: gratia, quæ est accidens, est quædam similitudo divinitatis participata in nomine. – La somiglianza soprannaturale con Dio è fatta consistere dal Ripalda in una somiglianza con la santità divina, dal Suarez in una somiglianza con la spiritualità divina. Poiché questa è per Dio il principio della sua vita, cioè della sua conoscenza e del suo amore, la grazia santificante, quale partecipazione alla medesima, è il principio della vita divina nell’uomo giustificato.

c) La somiglianza soprannaturale con Dio, che sulla terra ha il suo fondamento nella grazia santificante, si completa nell’aldilà colla visione beatifica di Dio, cioè colla partecipazione alla conoscenza che Dio ha di se stesso e alla felicità che ne deriva. Grazia e gloria stanno tra loro come il seme al frutto. La grazia è il principio della gloria (gloria inchoata) e la gloria il compimento della grazia (gratia consummata).

Cfr. S. th. II – II, 24, 3 ad 2: gratia et gloria ad idem genus referuntur, quia gratia nihil est aliud quam quædam inchoatio gloriæ in nobis. La Scrittura attesta l’identità essenziale dellagrazia e della gloria, quando insegna che il giustificato porta già in sé la vita eterna. Cfr. Gv. III, 15; III, 36; IV, 14; VI, 54.

§ 20. Gli effetti formali della grazia santificante.

1. Santificazione dell’anima.

La grazia santificante santifica l’anima. De fide.

Secondo la dottrina del Concilio di Trento la giustificazione è « santificazione e rinnovazione dell’uomo interiore » (sanctificatio et renovatio interioris hominis; D. 799). PAOLO scrive ai Cristiani di Corinto: « Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore nostro Gesù Cristo e mediante lo Spirito del Dio nostro » (1 Cor. 6, 11). Egli definisce i Cristiani santi (cfr. il prologo delle epistole) e li esorta: « Vestitevi dell’uomo nuovo; quello secondo Iddio creato in vera giustizia e santità » (Ef. IV, 24). La santità comprende negativamente l’esenzione dal peccato grave e positivamente l’unione soprannaturale permanente con Dio.

2. Bellezza dell’anima.

La grazia santificante conferisce all’anima bellezza soprannaturale. Sent. communis.

Il Catechismo romano dice della grazia santificante: « La grazia è… simile ad uno splendore e una luce che dissipa tutte le macchie delle nostre anime e le rende più belle e più splendenti » (II, 2, 49). I Padri vedono nella sposa del Cantico dei Cantici un simbolo dell’anima adorna della grazia. – S. TOMMASO dice: Gratia divina pulchrifìcat sicut lux (In Ps. XXV, 8). Quale partecipazione alla natura divina, la grazia santificante produce nell’anima un’impronta della bellezza increata di Dio e la trasforma secondo l’immagine del Figlio (Rom. VIII, 29; Gal. IV, 19), che è fulgore della gloria e impronta della sostanza di lui (Ebr. 1, 3).

3. Amicizia con Dio.

La grazia santificante fa del giusto un amico di Dio. De fide.

Il Concilio di Trento insegna che l’uomo mediante la giustificazione « da ingiusto diviene giusto, e da nemico diviene amico (di Dio) »: ex inimico amicus (D. 799). Cfr. D. 803: amici Dei ac domestici facti. Gesù dice agli Apostoli. «Voi siete gli amici miei, se fate quanto vi comando. Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa ciò che fa il suo padrone: Io vi ho chiamato amici, perché vi ho manifestato tutto quello che ho sentito dal Padre mio » (Gv. XV, 14-15). Cfr. Sap. VII, 14; Ef. II, 19; Rom. V, 10. – Dice S. GIOVANNI CRISOSTOMO della fede giustificante: « Essa ti ha trovato come un morto, un perduto, un prigioniero, un nemico e ti ha fatto un amico, un figlio, un libero, un giusto, un coerede » (In ep. ad Rom. Hom. 14, 6). – L’amore d’amicizia, come dice S. TOMMASO seguendo Aristotile (Etica Nic. VIII, 2-4) è un reciproco amore di benevolenza fondato su una comunanza di vita (S. th. II – II, 23, 1). Il fondamento dell’amicizia con Dio è la partecipazione, concessa da Dio al giusto, della natura divina (consortium divinæ naturæ). La virtù teologica dell’amore, congiunta indissolubilmente con lo stato di grazia, rende il giusto capace di ricambiare, col suo proprio, il benevolo amore di Dio.

4. Figliolanza divina.

La grazia santificante fa del giusto un figlio di Dio e gli conferisce un diritto all’eredità celeste. De fide.

Secondo il Concilio di Trento la giustificazione è « un trasferimento… nello stato di grazia e di adozione dei figli di Dio »: translatio… in statum gratiæ et adoptionis filiorum Dei ( D . 796). Il giustificato è « erede in speranza della vita eterna »: heres secundum spem vitae aeternæ (Tit. 3, 7; D. 799). La Scrittura presenta lo stato di giustificazione come una relazione di figliolanza dell’uomo con Dio. Rom. VIII, 15-17: «Non avete ricevuto spirito di servitù da ricader nel timore, ma spirito di adozione a figliuoli, in cui gridiamo: Abba, Padre! Lo Spirito stesso attesta allo spirito nostro che siamo figli di Dio. E se figli, siamo pure eredi; eredi di Dio, coeredi di Cristo ». Cfr. Gal. IV, 5; Gv. 1, 12; 1 Gv. III, 1. 2. 9. L’adozione è l’accettazione graziosa di una persona estranea per figlio ed erede (personæ extraneæ in filium et hæredem gratuita assumptio). Mentre l’adozione umana presuppone la comunanza di natura tra l’adottante e l’adottato e stabilisce solo un rapporto morale-giuridico tra le due parti, nell’adozione divina invece si ha la comunicazione, mercé una nuova generazione (Gv. 1, 13; 3, 3), di una vita soprannaturale, deiforme, che produce una comunanza fisica del figlio adottivo con Dio. Prototipo della figliolanza divina adottiva è la figliolanza divina naturale di Cristo. Rom. VIII, 29: « Egli è il primogenito tra molti fratelli». Cfr. S. th. III, 23, 1.

5. Inabitazione dello Spirito Santo.

La grazia santificante fa del giusto un tempio dello Spirito Santo. Sent. certa.

Lo Spirito Santo abita nell’anima del giusto non soltanto mediante i doni di grazia che elargisce, ma anche con la sua presenza sostanziale e personale (inhabitatio substantialis sive personalis). Cfr. D. 898, 1015, 2290. La Scrittura ci garantisce simile abitazione. 1 Cor. III, 16: « Non sapete che siete tempio di Dio, e che lo Spirito divino abita in voi? ». Cfr. Rom. V, 5; VIII, 11; 1 Cor. VI, 19.

– I Padri attestano la chiara dottrina della Scrittura. Cfr. IRENEO, Ad. Hær. V , 6, 1-2. Essi provano la divinità dello Spirito Santo contro i macedoniani dal fatto della sua abitazione nell’anima del giusto. Cfr. ATANASIO, Ep. ad Serap. 1, 24. — Per la testimonianza della liturgia si veda la liturgia pentecostale. L’inno Veni Sancte Spiritus chiama lo Spirito Santo « dulcis hospes animæ ». Circa il modo di tale presenza si deve anzitutto ritenere che lo Spirito Santo non si unisce all’anima del giusto sostanzialmente, ma solo in modo accidentale (D. 2290). Inoltre, come opera divina esterna (ad extra) e quindi comune alla SS. Trinità, l’inabitazione importa la presenza delle tre divine Persone; ma perché effetto dell’amore divino, viene appropriata allo Spirito Santo, l’amore personale del Padre e del Figlio. La Scrittura attribuisce espressamente l’abitazione anche alla prima e seconda Persona. Gv. XIV, 23: « Se uno mi ama osserverà le mie parole, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui, e in lui faremo dimora ». Alcuni teologi (Petavio, Passaglia, Scheeben, ecc.), influenzati dai Padri greci, oltre l’inabitazione comune della Trinità ne ammettono una tutta propria ed esclusiva della terza Persona. Ma non è facile conciliare simile opinione con la dottrina dell’unità delle operazioni divine esterne. – Volendo ora precisare in modo positivo in che cosa propriamente consista quest’inabitazione della Trinità, riportiamo quanto scrive Pio XII nell’enc. Mystici Corporis: « Inhabitare quidem divinæ personæ dicuntur, quatenus in creatis animantibus intellectu præditis imperscrutabili modo præsentes, ab iisdem per cognitionem et amorem attinguntur, quadam tamen ratione omnem naturam trascendente, ac penitus intima et singularis » ( D . 2290). – L’inabitazione dunque importa due cose: la presenza fisica delle Persone divine che producono e conservano in noi i doni della grazia (presenza dinamica, operativa); la presenza intenzionale che è il potere di godere Dio Padre, Figlio e Spirito Santo con atti di intelligenza e volontà, in modo soprannaturale e amichevole. Il che, come insegnava LEONE XIII nell’enc. Divinum illud, è una certa qual anticipazione e un pregustamento della visione beatifica. Di queste due presenze quale costituisce propriamente e formalmente l’inabitazione? La presenza dinamica, rispondono alcuni (ad es. Galtier); la presenza intenzionale, rispondono altri (ad es. Froget); tutte e due con prevalenza della seconda, rispondono altri ancora (ad es. Gardeil).

[4 – Continua …]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/09/26/la-grazia-note-di-teologia-dogmatica-5/

SALMI BIBLICI “DIXI CUSTODIAM VIAS MEAS” (XXXVIII)

SALMO 38: “DIXI custodiam vias meas”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 38:

[1] In finem, ipsi Idithun. Canticum David.

[2] Dixi: Custodiam vias meas;

locutus sum in lingua mea: posui ori meo custodiam cum consisteret peccator adversum me.

[3] Obmutui, et humiliatus sum, et silui a bonis; et dolor meus renovatus est.

[4] Concaluit cor meum intra me; et in meditatione mea exardescet ignis.

[5] Locutus sum in lingua mea: Notum fac mihi, Domine, finem meum, et numerum dierum meorum quis est, ut sciam quid desit mihi.

[6] Ecce mensurabiles posuisti dies meos, et substantia mea tamquam nihilum ante te. Verumtamen universa vanitas, omnis homo vivens.

[7] Verumtamen in imagine pertransit homo; sed et frustra conturbatur: thesaurizat, et ignorat cui congregabit ea.

[8] Et nunc quae est exspectatio mea: nonne Dominus? Et substantia mea apud te est.

[9] Ab omnibus iniquitatibus meis erue me: opprobrium insipienti dedisti me.

[10] Obmutui, et non aperui os meum, quoniam tu fecisti;

[11] amove a me plagas tuas.

[12] A fortitudine manus tuæ ego defeci in increpationibus, propter iniquitatem corripuisti hominem: et tabescere fecisti sicut araneam animam ejus: verumtamen vane conturbatur omnis homo.

[13] Exaudi orationem meam, Domine, et deprecationem meam; auribus percipe lacrimas meas. Ne sileas, quoniam advena ego sum apud te, et peregrinus sicut omnes patres mei.

[14] Remitte mihi, ut refrigerer priusquam abeam et amplius non ero.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XXXVIII

Brevità e vanità della vita presente. Frenare la lingua da ogni rissa pei beni temporali, che sono ombra, onde non perdere gli eterni. Per tal dottrina il salmo è da cantare tino alla fine del mondo. Idithun è uno dei tre capi cantori dei salmi ai quali Davide lo diede da mettere in musica e cantare.

Per la fine, a Idithun, cantico di David

1. Io dissi: Starò attento sopra di me per non peccare con la mia lingua. Posi un freno alla mia lingua, allorché veniva in campo contro di me il peccatore.

2. Ammutolii e mi umiliai, e di cose anche buone non parlai; ed il dolor mio rincrudì.

3. Si accese dentro di me il cuor mio, ed un fuoco divampò nelle mie considerazioni.

4. Dissi colia mia lingua: Signore, fammi conoscere il mio fine, e qual sia il numero dei giorni miei, affinché io sappia quel che mi avanza.

5. Certo, che a corta misura tu hai ridotto i miei giorni, e la mia sussistenza è come un nulla dinanzi a te. Certamente mera vanità egli è ogni uomo vivente

6. Certamente l’uomo passa come ombra: i di più si conturba senza fondamento. Tesoreggia, e non sa per chi egli metta da parte.

7. E adesso la mia aspettazione qual è, se non  tu, o Signore, in cui è la mi sussistenza?

8. Liberami da tutte le mie iniquità: tu mi hai renduto oggetto di scherno allo stolto.

9. Ammutolii, e non apersi la mia bocca, perché opera tua ell’è questa:

10. Rimuovi da me i tuoi flagelli.

11. Sotto la tua mano forte io venni meno quando mi correggesti: tu, per ragion dell’iniquità, castigasti l’uomo. E l’anima di lui facesti che a guisa di ragno si consumasse: certamente indarno l’uomo si conturba.

12. Esaudisci la mia orazione, o Signore, e le mie suppliche: dà udienza alle mie lagrime. Non istarti in silenzio, perocché forestiero e pellegrino son io davanti a te, come tutti i padri miei.

13. Fa pausa con me, affinché io abbia refrigerio avanti ch’io me ne vada da un luogo, dove più non sarò.

Sommario analitico

Davide, obbligato a fuggire davanti ad un figlio ribelle, esposto alle maledizioni di Semei, in questa rivolta di suo figlio e del suo popolo, punizione del peccato da lui commesso, considera in spirito il mistero del peccato dei nostri progenitori, che in seguito alla loro disobbedienza ed alla loro ingratitudine, furono cacciati dal paradiso, persero la loro felicità e videro tutte le creature rivoltarsi contro di loro, e da lì prende occasione per descrivere e deplorare la vanità e le miserie della vita presente. Questo Salmo ha molte analogie con il discorso di Giobbe, ed è improntato alla più toccante tristezza.

I. – Davide dichiara di aver preso la risoluzione di soffrire con pazienza ed in silenzio tutte le prove che gli venivano inviate:

1° Egli veglia attentamente sulle sue voci, col vigilare sulle sue parole e con la fuga dal peccato, soprattutto in presenza del peccatore (1, 2); – 2° egli costudisce la sua lingua col silenzio, con l’umiltà, con la pazienza (3); – 3° I tre effetti di questa vigilanza, di questo silenzio, sono per l’avvenire: evitare i peccati della lingua; per il passato, un dolore vivissimo delle colpe commesse; per il presente, una preghiera più fervente che gli ottenga la conoscenza circa la brevità della vita (4, 5).

II. – Deplora la miseria e la vanità della vita presente:

– 1° essa è breve, di poca durata (6); – 2° essa è fragile (6); 3° – non è che vanità (6); – 4° è cangiante e piena di instabilità (7); – 5° è sottomessa a turbamenti, inquietudini (7); – 6° essa è piena di affanni nella ricerca di ricchezze; – 7° lascia l’uomo nell’incertezza di ciò che avverrà (7).

III. – Considera tutti gli uomini come pellegrini e viaggiatori di quaggiù e nella sua persona insegna loro a non guardare che Dio solo.

1° egli fa conoscere quale sia la fine della nostra vita sulla terra: a) il fine eterno è Dio stesso (8); b) il fine accidentale, sono i beni che saranno dati ai beati in cielo (8).

2° gli ostacoli che l’uomo incontra nella sua via: a) un ostacolo interiore, il peccato, di cui chiede a Dio di essere liberato (9); b) un ostacolo esterno, i nemici per i quali è divenuto oggetto di obbrobrio (9).

3° Il soccorso che Dio gli concede in questa via: a) il silenzio e la conformità alla volontà di Dio (10); b) l’esperienza della sua misericordia (11); c) il timore dei castighi della sua giustizia (12); d) l’umiltà e la mortificazione, in seguito alla conoscenza delle proprie iniquità e delle pene che esse meritano (12); e) il disprezzo del mondo in cui l’uomo si agita e si turba inutilmente (12); f) la preghiera fervente; g) la compunzione e le lacrime per le colpe commesse (13); h) il desiderio dei beni eterni (13); i) il desiderio di arrivare alla perfezione prima del termine della vita (14).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-5.

ff. 1. – Io ho detto, o in altri termini, mi sono proposto, ho preso la ferma risoluzione, mi sono fatto un obbligo, ho detto al mio cuore: « osserverò con cura le mie vie ». Se io avessi fatto questa promessa a qualcuno, dovrei osservarne la parola; quanto più devo essere fedele quando ho preso questa decisione nei miei riguardi (S. Ambr.). – Quanto è importante non peccare con la lingua: « Noi facciamo tutti tanti peccati, ma se c’è qualcuno che non pecca con la parola, questi è un uomo perfetto, e può condurre tutto il corpo come con un freno ». (Giac. III, 8). – Colui che bada alla sua lingua, bada alla sua anima, ma colui che agita incessantemente le proprie labbra conoscerà il male (Prov. XIII, 3). – « La lingua è un male inquieto, pieno di veleno mortale » (Giac. III, 8), cosa che ha fatto dire a S. Crisostomo, che … la lingua ha fatto un numero di vittime più grande della spada. – Come esempio, c’è quel monaco che, ai tempi di S. Attanasio, chiedeva che gli spiegasse questo salmo, ed avendo inteso la spiegazione del primo versetto, non volle ascoltare la spiegazione dei seguenti. Se io posso mettere in pratica questo primo versetto – egli diceva – ciò mi è sufficiente; e dopo quaranta anni affermava che era appena giunto ad adempierlo. – E quando non è necessario parlare, restiamo in silenzio. La vanità e le maldicenze che sostengono tutto il traffichio del mondo, devono farci temere tutte le conversazioni, e nulla dovrebbe esserci così gradito e sicuro come il silenzio e la solitudine.

ff. 2. – « Ho messo un freno alle mie labbra ». Perché? È a causa dei giusti, degli zelanti, a causa dei fedeli e dei santi? No. Questi ascoltano in tal modo che lodano ciò che essi approvano, e tra le grandi cose che essi lodano se per caso c’è qualcosa che essi disapprovano, la scusano piuttosto che farne oggetto di calunnia. Chi sono dunque costoro a causa dei quali volete custodire le vostre vie, e mettere un freno alle vostre labbra? « Nel tempo che il peccatore si erge contro di me ». Egli non dice: « Si tiene in piedi davanti a me », ma « rimane in piedi contro di me ». Perché, cosa posso dire perché lo soddisfi? Io parlo di cose spirituali ad un uomo carnale che vede ed intende l’esterno, mentre per le cose interiori è sordo e cieco. In effetti, « l’uomo animale non è capace di comprendere le cose che sono dello spirito di Dio » (I. Cor. II, 14). – E se non era un uomo animale, sarebbe mai un calunniatore? Beato colui che parla ad un orecchio che l’ascolta (Eccli. XXV, 12), e non all’orecchio del peccatore che si erge contro di lui! Che direste voi, in effetti, ad uomini gonfi di orgoglio, pieni di agitazioni, calunniatori, litigiosi, avidi di parole? Cosa direste di santo, di pio, di religioso, di superiore ai loro pensieri, quando il Signore stesso ha detto a coloro che lo ascoltavano con gioia, che desideravano istruirsi, che avrebbero aperto la loro anima affamata del nutrimento di verità che avrebbero ricevuta avidamente: « … Io ho ancora molte cose da dirvi, ma voi non potete sopportarle adesso »? (Giov. XVI, 12). – Ma cosa dire di simile al peccatore che si erge contro di me, e si crede capace o finge di essere capace di comprendere ciò che non comprende realmente? Dopo aver parlato senza essere stato compreso, egli immaginerà non di non aver compreso, ma che sia io in errore (S. Agost.). – La ragione principale per la quale noi dobbiamo mettere un freno alle nostre labbra, quando siamo in presenza del nostro nemico, è che noi gli diamo una presa su di noi. Noi saremmo stati vincitori nella sua prima lotta con il genere umano, se Eva avesse mantenuto il silenzio. Il primo peccato prese dunque origine da una parola ed è con la parola che il serpente ci ha tentati. E sarebbe piaciuto a Dio che Adamo fosse stato sordo per non sentire le parole della sua sposa, o che Eva non avesse aperto la bocca per non versare nell’animo del marito il veleno che il serpente le aveva comunicato! (S. Ambrog.). –

ff. 3. – Ci sono delle circostanze in cui come uno degli amici di Giobbe, Eliu, noi siamo pieni di verità, in noi c’è uno spirito che ci spinge; il nostro cuore è come un vaso chiuso che si spacca per la forza del vino nuovo. (Giob. XXXII, 18, 19). – È allora che noi con una sola parola potremmo confondere la calunnia, o dissipare dei pregiudizi ostili, delle ingiuste prevenzioni, che ci fanno tacere assolutamente, umiliarci davanti a Dio, ed astenere dal dire anche delle buone cose per paura di offendere la carità, la dolcezza o l’umiltà. – Al pensiero di aver soppresso il bene che dovevo affermare, il mio dolore è ricominciato. Io ho cominciato a soffrire più nell’aver taciuto ciò che dovevo dire, piuttosto che per aver detto ciò che non dovevo dire (S. Agost.). Io ho taciuto su quel che doveva essere la testimonianza della mia coscienza; e non ho cercato di giustificarmi davanti agli uomini perché io so che il Padre celeste che mi vede nel segreto mi renderà giustizia (S. Gir.). – C’è qui il linguaggio di un vero penitente che non osando più, alla vista delle proprie cadute, parlare con Dio nella preghiera, dire: Signore io ho taciuto alla vostra presenza; la mia umiliazione e la mia confusione hanno parlato per me. E allora nel silenzio dell’onta e della compunzione, il dolore dei miei crimini si è rinnovato. Il mio cuore, penetrato dalle mie ingratitudini e dalle vostre misericordie, si è infiammato di un nuovo amore per voi; e tutto ciò che io ho potuto dire, o mio Dio, nella profonda umiliazione nella quale mi teneva davanti a Voi la vista delle mie miserie, è che ogni uomo non è che un abisso di debolezza, di corruzione, di vanità e di menzogna. Ecco il silenzio della compunzione che forma davanti a Dio la vera preghiera (Massill., Sur la Prière).

ff. 4. – Questo silenzio è una eccellente preparazione alla preghiera ed alla meditazione. – Felice e santa meditazione che non si fa con cuore freddo e languente, ma con un cuore tutto acceso alla vista ed per il dolore dei propri peccati, – È un fuoco divino illuminato nel fondo dell’anima, che non serve che a distruggere il peccato ed a purificare il cuore, fuoco che si accende con la meditazione delle Scritture divine; fuoco simile a quello che ardeva nel cuore dei due discepoli di Emmaus, mentre Gesù parlava loro. « Non era il nostro cuore ardente, quando ci spiegava le Scritture? » (Luc. XXIV); ma soprattutto quel fuoco che Gesù è venuto a portare sulla terra e col quale desidera vedere che sia tutto ardente (Luc. XII, 49) (Duguet). – Ci sono nella vita dei momenti in cui la preghiera apporta una dolcezza deliziosa; essi sono brevi e fuggitivi come i raggi della luna quando, spuntando a tratti tra le dense nubi, illuminano per un istante la sommità delle rocce e spariscono, ma sono sufficienti a sostenere un’anima per più giorni; così ancora, dopo la santa Comunione, minuti rubati alla terra, noi portiamo come Maria, nel nostro seno, il Signore del cielo e della terra, ne sentiamo la presenza, abbiamo tante cose da dire che restiamo muti; un calore soprannaturale riscalda il nostro sangue e in un batter d’occhio abbiamo scalato una montagna sulla strada del cielo. (Faber, Le Créât., et la Créât., L. III, ch. IV.).

ff. 5. – Questo versetto non è in contraddizione con il secondo. In quest’ultimo Davide vegliava nel non peccare con la sua lingua. In questo qui, egli la lascia parlare per indirizzarsi liberamente a Dio, dal momento che tutti i pensieri sono gravi, tutte le parole sono misurate; in una parola, quando era occupato dall’idea della sua morte che poteva credere prossima. « … Io ho sciolto la mia lingua ed ho parlato ». A chi? Non a colui che mi ascolta e che voglio istruire, ma a Colui che mi può esaudire e dal quale voglio essere istruito. « … Io ho sciolto la mia lingua ed ho parlato » a Colui che sento interiormente, quando viene a porgermi qualche cosa di buono e di vero. Ma cosa avete detto? Egli ha detto: « … Signore fatemi conoscere la mia fine, il fine che devo perseguire, e non la corsa che io seguo ora » (S. Agost.). – Davide non chiede, come sembrerebbero indicare le espressioni di cui si serve, di sapere quanto tempo gli resti fino alla morte, cosa che potrebbe essere una curiosità temeraria e colpevole; egli prega Dio di non permettere che egli abusi, come fanno la maggior parte degli uomini, nel considerare durevole ciò che è invece di breve durata, e di fargli vedere chiaramente che il termine della sua vita è già a lui vicino (Bellarm.). – Orbene, fatemi conoscere quale sia la mia fine, affinché sappia quel che mi manca, finché sono su questa terra, per ottenere la ricompensa eterna (S. Girol.). – Ebbene « fatemi conoscere il numero dei miei giorni qual è ». Il numero degli anni dei quali non è; i giorni presenti non sono reali, e non si può dare un sì gran nome a questa corsa precipitevole di anni fuggitivi. « Fatemi conoscere dunque qual sia il numero dei miei giorni »: numero senza numero, giorno senza giorno, come è in questa Gerusalemme, sposa del mio Salvatore, ove non ci sarà né morte né cambiamento, né giorno passeggero, ma dove c’è un solo giorno eterno, senza una veglia che lo preceda, né un domani che lo cancelli (S. Agost. e S. Gerol.). « Affinché io sappia ciò che mi manca », perché io non sono ancora giunto e non sono ancora perfetto, « ma io proseguo la mia corsa per cercare di giungere là dove Gesù Cristo ha voluto condurmi » (Filipp. III, 13), e se dovessi inorgoglirmi del punto in cui già sono, avrei da temere, arrivando alla mia fine, di trovarmi sprovvisto di giustizia. Comparando così ciò che è con le cose che veramente non sono, e vedendo quel che mi manca e non possiedo, io sarò più umile alla vista di ciò che mi manca, piuttosto che orgoglioso delle cose che possiedo (S. Agost.).

II. — 6-7.

ff. 6. – Ecco la bella meditazione con cui Davide si intrattiene sul trono, al centro della sua corte: o eterno Re dei secoli, voi vi ritirate sempre in Voi stesso, il vostro essere eternamente immutabile, non scorre, né muta, né si misura, « ed ecco che Voi avete fatto i miei giorni misurabili, e la mia sostanza non è nulla davanti Voi », e tutto l’essere che si misura non è niente, poiché ciò che si misura ha il suo termine, e quando è arrivato questo termine, un ultimo punto distrugge tutto; come se non fossi mai esistito. È così, tutto ciò che si misura finisce; e tutto ciò che è nato per finire, non è uscito affatto dal nulla, dove ripiomba presto. Se il nostro essere, se la nostra sostanza è nulla, tutto ciò che noi vi costruiamo sopra, cosa può essere? Né l’edificio è più solido del fondamento, né l’accidente legato all’essere più reale dell’essere stesso. Cosa sono cento anni? Cosa sono mille anni … ché un solo attimo cancella? Moltiplicate i vostri giorni, come i cervi che la favola o la storia della natura fa vivere per tanti secoli; durate pure quanto queste grandi querce sotto le quali i nostri antenati si sono riposati, e che daranno ancora ombra alla nostra posterità; ammassate in questo spazio che sembra immenso, onori, ricchezze, piaceri; cosa vi profitterà questo cumulo, poiché l’ultimo soffio della morte, così breve, languido, abbatterà tutto ad un colpo questa vana pompa con la stessa facilità di un castello di carte, vano divertimento dei bambini? E a cosa vi servirà avere scritto tanti libri, l’averne riempite le pagine di bei caratteri, quando poi una sola cancellatura deve tutto eliminare? Almeno una cancellatura lascia qualche traccia di se stessa, mentre questo ultimo momento che cancellerà tutto ad un tratto la vostra vita, si perderà esso stesso con tutto il resto in questa voragine del nulla: sulla terra non resta nessuna vestigia di ciò che noi siamo. Cos’è dunque questa mia sostanza, o gran Dio? Io entro nella vita per uscirne presto; io vengo ad affacciarmi come gli altri; dopo bisognerà sparire. Tutto ci chiama alla morte; la natura, come se fosse quasi invidiosa del bene che ci ha fatto, ci dichiara spesso e ci fa capire che non può lasciarci per lungo tempo questo poco di materia che ci presta, che resta nelle stesse mani, e che deve essere eternamente in movimento: essa ne ha bisogno per altre forme, la richiede per altre opere. Questo ricrearsi continuamente del genere umano, voglio dire dei bambini che nascono, man mano crescono ed avanzano, e sembra che alzino le spalle e dicano: ritiratevi, ora è il nostro turno. Così come noi ne vediamo passare altri davanti a noi, altri ci vedranno passare, e diventano a loro volta successori dello stesso spettacolo. O Dio, ancora una volta, cosa ne è di noi? Se getto lo sguardo davanti, quale spazio infinito davanti a me! Se mi guardo dietro, quale terribile sequela in cui io non sono più, ed occupo un piccolo posto in questo abisso immenso del tempo! Io non sono niente, ed un piccolo intervallo non è capace di distinguermi dal niente. Ancora, se vogliamo discutere le cose in una considerazione più sottile, non è l’estensione della nostra vita che ci distingue dal niente, e voi sapete che non c’è che un momento che ce ne separi. Ora ne teniamo uno; esso perisce e con esso periremo tutti, se prontamente e senza perdere tempo non ne afferriamo un altro simile, finché infine ne arriverà uno al quale non potremo giungere qualunque sforzo facciamo per allungarci; e allora cadremo tutto ad un tratto, senza sostegno. O fragile appoggio del nostro essere! O fondamento rovinoso della nostra sostanza. Ah! L’uomo passa veramente come un ombra, meno di un’immagine in figura, e come questa non ha nulla di solido, non insegue così che cose vane, l’immagine del bene, e non il bene stesso: così passa come un’ombra, ed è solo in voi che si turba e si agita (Bossuet, Serm. s. la mort). – « E la mia sostanza non è nulla davanti a voi ». Davanti a me questo niente è qualche cosa ed anche tutte le cose, ma davanti a Voi, ciò che io chiamo tutte le cose, si confonde e si perde in questo niente; e la morte, che ogni vivente deve considerare come suo inevitabile destino, fa generalmente e senza eccezioni, di tutti i beni che possiede, di tutti i piaceri di cui gode, di tutti i titoli di cui si glorifica, un abisso di vanità (Bourd. Sur la pens. de la mort). – Vanità generale ed universale di tutto ciò che è sulla terra, o piuttosto abisso impenetrabile di vanità. Ogni uomo vivente non è che vanità in tutto ciò che è, in tutto ciò che sembra possedere, nella sua anima, nel suo corpo, nei beni della fortuna. – Ogni uomo vivente non è che vanità, finché è nel mondo, mentre è rivestito di una carne mortale, tanto che la sua vita sulla terra non è che tentazione, mentre geme in mezzo agli scandali, mentre teme di cadere benché in piedi, tanto che tutto è ancora incerto per lui, e il male, e il bene (S. Agost.).

III. — 7 – 14.

ff. 7. – Noi viviamo quaggiù, ma con una vita che non è che l’ombra, una pallida immagine della vita e non la vera vita; noi non abbiamo che l’ombra dei veri beni, dei solidi piaceri e della vita di gloria. Così l’uomo pensa e cammina come un’ombra, come un’immagine, come un fantasma, senza lasciare più traccia come non la lascerebbe il passaggio di un’immagine (S. Ambrog.). – E questa nostra vita non è simile ad una vera morte? I giorni passano con rapidità, il giorno presente ha cancellato il giorno di ieri ed il giorno di domani sta per nascere presto per cancellare il giorno presente (S. Agost.). Questa età che noi contiamo e in cui tutto ciò che noi contiamo non è più nostro, è una vita? E potremo non accorgerci di ciò che perdiamo incessantemente con gli anni? (Bossuet, Or. fun. de Mar. Ther.). – L’uomo si turba, è in continua agitazione, ma si turba inutilmente, perché questo avviene per imprese che la morte non farà compiere, per intrighi che la morte confonderà, per speranze che la morte farà svanire. Egli si affatica, per ammassare ed accumulare, ma il suo guaio è di non sapere nemmeno per chi egli accumuli, né chi profitterà del suo lavoro, se questi saranno dei figli o degli estranei, se saranno eredi riconoscenti o degli ingrati, se saranno dei saggi o dei dissipatori (Bourd. ibid.). « Io ho detestato tutto questo lavoro per il quale mi sono affaticato sotto il sole, perché dopo di me doveva venire un erede, saggio o insensato – io l’ignoro – che possiederà i miei lavori ed i miei sudori, e i miei affanni, e anche questo è vanità » (Eccl. II, 18).

ff. 8, 9. –  « Ed ora dunque qual è la mia aspettativa? Non è il Signore? » Questa è la mia aspettativa, la mia speranza da cui vengono tutte le cose che io disprezzo; Egli si darà Lui stesso a me. Lui che è al di sopra di tutto, per il Quale tutte le cose sono state fatte, e che mi ha fatto tra tutte le cose. « E quel che possiedo è davanti a Voi. »  Io già avanzo, già avanzo verso di Voi, già comincio ad essere, e tutto il mio bene è in Voi. I beni della terra, voi li possedete davanti agli uomini; voi possedete l’oro, voi possedete denaro, dei beni, degli alberi, delle greggi, dei servitori; tutte queste cose, gli uomini possono vederle; ma i veri beni, la pace di una buona coscienza, la speranza dei beni eterni, voi li possedete solo agli occhi di Dio. (S. Agost.- S. Girol.). – « Ed ora, qual è la mia speranza, non è il Signore? » Gesù Cristo, ecco la nostra speranza e la nostra pazienza! Egli è diventato la nostra redenzione, è la nostra attesa e ciascuno di noi può dire: « Io ho atteso e non mi sono lasciato attendere dal Signore ». Guardatemi dunque, Signore, nella vostra giustizia. Abbassate su di noi gli sguardi della vostra misericordia, affinché noi, che ci vantiamo sì giustamente dei nostri meriti, siamo liberati dalla vostra misericordia, nelle mani della quale riposa tutta la sostanza della nostra anima e della nostra vita. Noi non temiamo la morte del corpo, ma temiamo colui che può conservare o perdere la nostra anima, la cui sostanza è una virtù che Dio ha creato a sua immagine e che ha posto nel cuore dell’uomo (S. Ambrog.). – Tali sono le felici disposizioni in cui si stabilisce un’anima fedele che rivolge tutti i suoi pensieri verso il cielo e non si occupa che del regno di Dio ove è chiamata. Vedete le grandezze del mondo, le fortune del mondo? Tutto questo non la tocca perché ella sa che non è fatta per tutto questo, ma è destinata a qualche cosa di più grande. « Io ho pregato il Signore », ella dice con il Re-Profeta, e Gli ho chiesto « che mi faccia conoscere il mio fine ». Io ho considerato che i miei giorni sono misurati, e che tutta la vita dell’uomo quaggiù non è che vanità, che egli accumula senza sapere per chi, e dopo essersi affaticato inutilmente, sparisce come un sogno. Qual è dunque la mia speranza, io ho concluso, « non è il Signore e quel che mi riserva nella sua gloria? » (Bourd. Sur le Bonheur du ciel.). – In qualunque grado di perfezione noi siamo arrivati, « se noi diciamo che non abbiamo peccato, noi inganniamo noi stessi e la verità non è in noi » (1 Giov. I, 8). Io ho lasciato molte cose, ma ancora mi batto il petto e dico: « rimettete i miei debiti ». Liberatemi da tutte le mie iniquità, non solo da quelle che potrebbero farmi tornare indietro, e perdere terreno che ho guadagnato, da tutte assolutamente, anche da quelle per le quali ho ottenuto perdono (S. Agost.). – Perché io disprezzo le cose della terra, perché io mi guardo dal mettere la mia gioia nelle cose passibili, perché io mi espongo alle beffe dell’avaro che si vanta della sua prudenza e si burla della mia follia; perché io agisco così, e vado per questa strada, « … voi mi avete, egli dice, dato in obbrobrio all’insensato ». Voi volete che io viva, che io predichi la verità in mezzo a coloro che amano la vanità: io non posso evitare le loro beffe. In effetti, noi siamo dati come spettacolo per il mondo, per gli Angeli ed il mondo (1 Cor. IV, 9). A destra e a sinistra, noi abbiamo delle armi con le quali combattiamo per la gloria e per l’ignominia, per l’infamia e per la nomea.

ff. 10-12. –  « Io ho taciuto e non ho aperto bocca, perché siete Voi che l’avete fatto »; vale a dire Voi mi avete consegnato all’insensato come un oggetto di disprezzo, ecco perché io ho taciuto: per non rendermi colpevole di peccati più grandi. Io ho riconosciuto la vostra volontà ed ho acconsentito ad essere, per un certo tempo, coperto da onta, per poter essere infine salvato chiedendo il perdono (S. Ambr.). – Il Re-Profeta non dice assolutamente. « Io non sarò più », lui che dice altrove: « io piacerò al Signore nella terra dei viventi ». Egli “sarà” dunque, perché esprime la speranza di piacere al Signore. Si possono comprendere dunque queste parole in questo senso. « Io sono straniero e pellegrino come tutti i miei padri »; perdonatemi dunque affinché non cessi di essere straniero, rimettetemi la pena dell’esilio in cui sono stato relegato. Se mi rimetterete questa pena prima che lasci questa terra, io cesserò di esservi estraneo ed esiliato, e diventerò cittadino dei Santi. Io sarò dunque con i miei padri, che sono stati anch’essi pellegrini e stranieri, e che sono ora cittadini ed abitanti del cielo. Io farò parte della casa di Dio, e a questo titolo, cesserò di temere il castigo, per meritare la grazia della ricompensa (S. Ambr.). – Nelle persecuzioni da parte degli uomini, non bisogna guardare la mano del persecutore, ma alzare gli occhi della fede fino alla mano invisibile di Colui che Egli stesso colpisce, ed accettare senza lamentarsi tutto i malanni che possono arrivare perché è Dio che lo fa. Bisogna soltanto pregarLo di allontanare da noi le nostre piaghe, che sono le tenebre dello spirito e l’indurimento del cuore. – Terribile è la mano di Dio che si appesantisce sul peccatore. Questo peso insopportabile che fa cadere nello smarrimento, giunge quando Dio riprende il suo furore, vale a dire quando un crimine diviene il castigo di un altro crimine (Duguet). – « Voi avete istruito l’uomo a causa della sua iniquità ». Il mio smarrimento, la mia debolezza, il grido che levo dal fondo della mia miseria, tutto questo viene dalla mia iniquità; e in tutto questo Voi mi avete istruito e non mi avete condannato. Un altro salmo ci fa comprendere ancora più chiaramente questo pensiero: « per me è bene che mi abbiate umiliato, perché apprenda così i vostri comandamenti » (Ps. CXVIII, 71). Io sono stato umiliato, e questa umiliazione mi è salutare, essa è nello stesso tempo un castigo ed una grazia. Cosa ci riserva, dopo il castigo, Colui che ci invia il castigo come una grazia? (S. Agost.). – « … Voi avete fatto disseccare la mia anima come un ragno ». Cosa c’è di più fragile di un ragno? Io parlo dell’insetto in sé, ma potrei dire soprattutto: cosa di più fragile della tela di un ragno? Notate come questo insetto sia così poca cosa. Mettete leggermente il dito sopra di esso, ed esso è ridotto in poltiglia; non c’è nulla di assolutamente più fragile. È così che è diventata la mia anima – dice il Profeta – quando Voi mi avete istruito a causa della mia iniquità. Poiché l’istruzione l’ha resa debole, essa aveva dunque in precedenza qualche vizio nella forza. Bisogna che l’uomo dispiaccia a Dio per la sua forza, per essere così istruito dalla debolezza; egli lo ha dispiaciuto con l’orgoglio, ed ha dovuto essere istruito dall’umiltà (S. Agost.). non perseguiamo dunque cose futili e vane, se non vogliamo tessere noi stessi ragnatele, perché il peccato non può avere nessuna speranza di durata e stabilità. Quando vedete allora che l’uomo si applica interamente ad aumentare lo proprie ricchezze, ad accumulare onori, a condurre una vita di ostentazione e di bagliori, ripeterete questa parola del profeta Isaia: « … essi hanno tessuto in un giorno una ragnatela che non può durare a lungo; essa si lacera al minimo strappo, e tutto il lavoro si trova annientato ». In effetti questo lavoro non è poggiato su di un solido fondamento, ma è sospeso nel vuoto. Nessun riposo, nessuna mollezza conviene ad un vero soldato di Gesù Cristo; perché è nel palazzo del re che si trovano coloro che sono vestiti mollemente. Gli avari si piccano di essere scaltri, attivi e vigilanti. Cosa di più scaltro, di più attivo e vigilante del ragno applicato giorno e notte al suo lavoro, che ordisce la sua tela, il suo vestito senza alcuna spesa? Ma tutto il suo lavoro è vano e futile. Così è ogni uomo che non ripone le sue opere sul vero fondamento che è Gesù Cristo. Egli si agita e si turba giorno e notte, perché, sull’esempio del ragno, è in mezzo agli sforzo delle sue ingiuste cupidigie che viene sorpreso dalla rovina delle sue imprese (S. Ambrog.). – Che istruttiva similitudine tra il ragno ed il peccatore avaro ed orgoglioso! Il ragno è pieno di veleno, e raccoglie il suo veleno sugli stessi fiori ove l’ape raccoglie il suo miele. L’avaro, l’orgoglioso, trova l’occasione di peccare là dove il giusto trova il mezzo per elevare la sua anima a Dio. Il ragno esaurisce tutta la sua sostanza, lavora con alacrità e per lungo tempo per ordire la sua tela, l’opera più fragile che egli tesse nel vuoto e che non riposa su alcun solido fondamento, un colpo di scopa basta a distruggere in un istante il lavoro di diversi giorni: è questa l’immagine dell’avaro, dell’orgoglioso, che non appoggia la sua opere su Gesù Cristo, che si consuma inutilmente in vani sforzi per accumulare ricchezze, per ottenere onori, che il primo colpo di vento porta via. La tela del ragno, fatta con tanta pena, non serve che a prendere mosche: immagine troppo reale di questa continua agitazione degli uomini del mondo che riempiono tutto il loro tempo, mettono tutta la loro applicazione nel prendere mosche e che vedono come la loro morte distrugga di colpo tutto il lavoro di svariati anni. – Il ragno si avvolge nella sua tela e cade con essa, e coloro che vogliono diventar ricchi cadono nelle trappole di satana, e in desideri inutili e perniciosi che precipitano gli uomini nella morte e nella dannazione. « In verità, è invano che gli uomini si turbino e si inquietino », perché a che serve all’uomo guadagnare tutto l’universo, se poi perde la propria anima? – In qualunque progresso l’uomo faccia quaggiù, è per le vanità che si turba finché vive, perché egli vive sempre nell’incertezza. Perché, chi può essere sicuro del bene che ha fatto? « Egli si turba per le vanità ». Getta tutto il tuo affanno nel seno di Dio (Ps. LIV, 23); che getti nel seno di Dio tutta la sua sollecitudine; e lasci che sia Dio a nutrirlo e a prendersene cura. Perché, cosa c’è di certo sulla terra, se non la morte? Considerate i beni e i mali di questa terra senza eccezioni: sia che viviate nella giustizia, o nell’ingiustizia, cosa c’è di certo su questa terra se non la morte? Avete fatto progressi nel bene: voi sapete cosa siete oggi, ma non sapete cosa sarete domani. Voi siete peccatore. Non sapete ciò che siete oggi, non sapete ciò che sarete domani. Da qualunque lato vi giriate, tutto è incerto, la morte sola è certa! Voi siete povero, non è sicuro se diventiate ricco; voi siete illetterato, è incerto se vi istruirete; voi siete debilitato a causa di una malattia, non è sicuro che recupererete le vostre forze; voi siete nato, è certo però che morirete, ed anche in questa certezza della morte, il giorno della morte resta incerto. In mezzo a tante incertezze, con la morte come unica certezza, benché incerta nell’ora, questa è la sola cosa che si cerca assolutamente di sfuggire, benché non la si possa evitare in alcun modo, solo per vanità ogni uomo che vive, si turba (S. Agost.).

ff. 13, 14. – La preghiera è la semplice domanda, la supplica, un grido dell’anima, delle lacrime, l’amore, la cui voce si fa intendere davanti a Dio più che alcuna altra parola. – Benché abbia lasciato ogni difficoltà, e che mi sia elevato al di sopra degli ostacoli, non devo più piangere? Non devo piangere ancor più? Perché acquistare la scienza è acquistare il dolore (Eccle. I, 18). Non è giusto che più io desideri ciò che è assente e più debba gemere, che più pianga finché non giunga? Non è giusto che io pianga per quanto gli scandali diventino più frequenti, che l’iniquità si moltiplichi, che la carità di un gran numero si raffreddi ancor più. – Non restate in silenzio davanti a me, io vi ascolterò; perché Dio parla in segreto, parla a molti uomini nel loro cuore e la sua parola rimbomba fortemente in mezzo ad un profondo silenzio di questo cuore, quando Egli dice con voce potente: « Io sono la vostra salvezza » (S. Agost.). « Perciò io sono davanti a Voi come uno straniero e come un pellegrino ». – la vostra patria è dunque il cielo, è in cielo la vostra casa: « io sono davanti a Voi come un ospite ed un pellegrino ». Bisogna comprendere anche « pellegrino presso di Voi ». In effetti molti sono pellegrini presso il demonio; al contrario coloro che già hanno creduto e sono rimasti fedeli, senza dubbio sono ancora pellegrini, perché non sono giunti alla patria e alla casa eterna, ma eppure sono presso Dio. In effetti, intanto che siamo nel nostro corpo, noi viaggiamo lontano da Dio, e sia che ci fermiamo, sia che camminiamo, noi facciamo tutti i nostri sforzi per piacergli. « Io sono davanti a Voi come un ospite ed un pellegrino, come lo sono stati tutti i miei padri. » Se dunque sono come tutti i miei padri, potrò mai dire che non lascerò questo mondo, visto che tutti lo hanno lasciato? Devo io dimorare qui in condizioni diverse da come essi hanno dimorato? (S. Agost.). Un viaggiatore non guarda che di passaggio gli oggetti che gli si presentano davanti agli occhi, e non si ferma a considerarli; egli usa il nutrimento che gli è necessario, ma non si carica troppo e non fa grandi provvigioni; uno straniero non fa grandi costruzioni in un luogo ove non progetta di fermarsi, e non pensa piuttosto che tornare alla sua patria. – « Perdonatemi, affinché io respiri un po’ prima che mi dilegui e più non sia »; vale a dire perdonatemi nel luogo stesso in cui ho peccato. Se non mi perdonerete quaggiù, io non potrò trovare in cielo il riposo del perdono, perché chi è stato legato sulla terra, resterà legato nel cielo, e chi sarà stato slegato sulla terra, sarà slegato nei cieli (S. Ambr.). – Quale uomo provato da grandi afflizioni non si è lasciato sfuggire dal cuore questa toccante preghiera di Davide? Come è nella nostra debole natura desiderare tra una vita agitata, tormentata, piena di dolori e di inquietudini, e la morte che sta per metterci alla presenza del Giudice supremo, Dio ci accordi qualche intervallo di riposo che ci permetta  di respirare, di rinfrancarci, di confortarci, di prepararci infine e di incoraggiarci ad oltrepassare, con un timore temperato dalla fiducia, la soglia della nostra eternità (Rendu).