SALMO 38: “DIXI custodiam vias meas”
CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET
MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES
TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES
PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi tradotti, analizzati,
interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni
seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori
cattolici più rinomati da …]
Par M.
l’Abbé J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS,
Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.
TOME PREMIER.
PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878
IMPRIM.
Soissons, le 18 août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
Salmo 38:
[1] In finem, ipsi Idithun. Canticum David.
[2] Dixi: Custodiam vias meas;
locutus sum in lingua mea: posui ori meo custodiam cum consisteret peccator adversum me.
[3] Obmutui, et humiliatus sum, et silui a bonis; et dolor meus renovatus est.
[4] Concaluit cor meum intra me; et in meditatione mea exardescet ignis.
[5] Locutus sum in lingua mea: Notum fac mihi, Domine, finem meum, et numerum dierum meorum quis est, ut sciam quid desit mihi.
[6] Ecce mensurabiles posuisti dies meos, et substantia mea tamquam nihilum ante te. Verumtamen universa vanitas, omnis homo vivens.
[7] Verumtamen in imagine pertransit homo; sed et frustra conturbatur: thesaurizat, et ignorat cui congregabit ea.
[8] Et nunc quae est exspectatio mea: nonne Dominus? Et substantia mea apud te est.
[9] Ab omnibus iniquitatibus meis erue me: opprobrium insipienti dedisti me.
[10] Obmutui, et non aperui os meum, quoniam tu fecisti;
[11] amove a me plagas tuas.
[12] A fortitudine manus tuæ ego defeci in increpationibus, propter iniquitatem corripuisti hominem: et tabescere fecisti sicut araneam animam ejus: verumtamen vane conturbatur omnis homo.
[13]
Exaudi orationem meam, Domine, et deprecationem meam; auribus percipe lacrimas
meas. Ne sileas, quoniam advena ego sum apud te, et peregrinus sicut omnes
patres mei.
[14] Remitte mihi, ut refrigerer priusquam abeam et amplius non ero.
[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]
SALMO XXXVIII
Brevità e vanità della vita presente. Frenare la lingua da ogni rissa pei beni temporali, che sono ombra, onde non perdere gli eterni. Per tal dottrina il salmo è da cantare tino alla fine del mondo. Idithun è uno dei tre capi cantori dei salmi ai quali Davide lo diede da mettere in musica e cantare.
Per la fine, a Idithun, cantico di David
1. Io dissi: Starò attento sopra di me per non peccare con la mia lingua. Posi un freno alla mia lingua, allorché veniva in campo contro di me il peccatore.
2. Ammutolii e mi umiliai, e di cose anche buone non parlai; ed il dolor mio rincrudì.
3. Si accese dentro di me il cuor mio, ed un fuoco divampò nelle mie
considerazioni.
4. Dissi colia mia lingua: Signore, fammi conoscere il mio fine, e qual sia il numero dei giorni miei, affinché io sappia quel che mi avanza.
5. Certo, che a corta misura tu hai ridotto i miei giorni, e la mia sussistenza è come un nulla dinanzi a te. Certamente mera vanità egli è ogni uomo vivente
6. Certamente l’uomo passa come ombra: i
di più si conturba senza fondamento. Tesoreggia, e non sa per chi egli metta da
parte.
7. E adesso la mia aspettazione qual è,
se non tu, o Signore, in cui è la mi
sussistenza?
8. Liberami da tutte le mie iniquità: tu
mi hai renduto oggetto di scherno allo stolto.
9. Ammutolii, e non apersi la mia bocca,
perché opera tua ell’è questa:
10. Rimuovi da me i tuoi flagelli.
11. Sotto la tua mano forte io venni meno quando mi correggesti: tu, per ragion dell’iniquità, castigasti l’uomo. E l’anima di lui facesti che a guisa di ragno si consumasse: certamente indarno l’uomo si conturba.
12. Esaudisci la mia orazione, o Signore, e le mie suppliche: dà udienza alle mie lagrime. Non istarti in silenzio, perocché forestiero e pellegrino son io davanti a te, come tutti i padri miei.
13. Fa pausa con me, affinché io abbia refrigerio avanti ch’io me ne vada da un luogo, dove più non sarò.
Sommario
analitico
Davide,
obbligato a fuggire davanti ad un figlio ribelle, esposto alle maledizioni di
Semei, in questa rivolta di suo figlio e del suo popolo, punizione del peccato
da lui commesso, considera in spirito il mistero del peccato dei nostri
progenitori, che in seguito alla loro disobbedienza ed alla loro ingratitudine,
furono cacciati dal paradiso, persero la loro felicità e videro tutte le creature
rivoltarsi contro di loro, e da lì prende occasione per descrivere e deplorare
la vanità e le miserie della vita presente. Questo Salmo ha molte analogie con
il discorso di Giobbe, ed è improntato alla più toccante tristezza.
I. – Davide dichiara di aver preso la risoluzione di
soffrire con pazienza ed in silenzio tutte le prove che gli venivano inviate:
1° Egli veglia
attentamente sulle sue voci, col vigilare sulle sue parole e con la fuga dal
peccato, soprattutto in presenza del peccatore (1, 2); – 2° egli costudisce la
sua lingua col silenzio, con l’umiltà, con la pazienza (3); – 3° I tre effetti
di questa vigilanza, di questo silenzio, sono per l’avvenire: evitare i peccati
della lingua; per il passato, un dolore vivissimo delle colpe commesse; per il
presente, una preghiera più fervente che gli ottenga la conoscenza circa la brevità
della vita (4, 5).
II. – Deplora la miseria e la vanità della vita
presente:
– 1° essa è breve, di poca durata (6); – 2° essa è fragile (6); 3° – non è che vanità (6); – 4° è cangiante e piena di instabilità (7); – 5° è sottomessa a turbamenti, inquietudini (7); – 6° essa è piena di affanni nella ricerca di ricchezze; – 7° lascia l’uomo nell’incertezza di ciò che avverrà (7).
III. – Considera tutti gli uomini come pellegrini e
viaggiatori di quaggiù e nella sua persona insegna loro a non guardare che Dio
solo.
1° egli fa
conoscere quale sia la fine della nostra vita sulla terra: a) il fine eterno è
Dio stesso (8); b) il fine accidentale, sono i beni che saranno dati ai beati
in cielo (8).
2° gli ostacoli
che l’uomo incontra nella sua via: a) un ostacolo interiore, il peccato, di cui
chiede a Dio di essere liberato (9); b) un ostacolo esterno, i nemici per i
quali è divenuto oggetto di obbrobrio (9).
3° Il soccorso
che Dio gli concede in questa via: a) il silenzio e la conformità alla volontà
di Dio (10); b) l’esperienza della sua misericordia (11); c) il timore dei
castighi della sua giustizia (12); d) l’umiltà e la mortificazione, in seguito
alla conoscenza delle proprie iniquità e delle pene che esse meritano (12); e)
il disprezzo del mondo in cui l’uomo si agita e si turba inutilmente (12); f)
la preghiera fervente; g) la compunzione e le lacrime per le colpe commesse
(13); h) il desiderio dei beni eterni (13); i) il desiderio di arrivare alla
perfezione prima del termine della vita (14).
Spiegazioni e
Considerazioni
I. — 1-5.
ff. 1. – Io ho detto, o
in altri termini, mi sono proposto, ho preso la ferma risoluzione, mi sono
fatto un obbligo, ho detto al mio cuore: « osserverò con cura le mie vie ». Se
io avessi fatto questa promessa a qualcuno, dovrei osservarne la parola; quanto
più devo essere fedele quando ho preso questa decisione nei miei riguardi (S. Ambr.). – Quanto è importante
non peccare con la lingua: « Noi facciamo tutti tanti peccati, ma se c’è
qualcuno che non pecca con la parola, questi è un uomo perfetto, e può condurre
tutto il corpo come con un freno ». (Giac.
III, 8). – Colui che bada alla sua lingua, bada alla sua anima, ma
colui che agita incessantemente le proprie labbra conoscerà il male (Prov. XIII, 3). – « La lingua è
un male inquieto, pieno di veleno mortale » (Giac. III, 8), cosa che
ha fatto dire a S. Crisostomo, che … la lingua ha fatto un numero di vittime
più grande della spada. – Come esempio, c’è quel monaco che, ai tempi di S.
Attanasio, chiedeva che gli spiegasse questo salmo, ed avendo inteso la
spiegazione del primo versetto, non volle ascoltare la spiegazione dei
seguenti. Se io posso mettere in pratica questo primo versetto – egli diceva –
ciò mi è sufficiente; e dopo quaranta anni affermava che era appena giunto ad
adempierlo. – E quando non è necessario parlare, restiamo in silenzio. La
vanità e le maldicenze che sostengono tutto il traffichio del mondo, devono
farci temere tutte le conversazioni, e nulla dovrebbe esserci così gradito e
sicuro come il silenzio e la solitudine.
ff. 2. – « Ho messo un
freno alle mie labbra ». Perché? È a causa dei giusti, degli zelanti, a causa
dei fedeli e dei santi? No. Questi ascoltano in tal modo che lodano ciò che
essi approvano, e tra le grandi cose che essi lodano se per caso c’è qualcosa
che essi disapprovano, la scusano piuttosto che farne oggetto di calunnia. Chi
sono dunque costoro a causa dei quali volete custodire le vostre vie, e mettere
un freno alle vostre labbra? « Nel tempo che il peccatore si erge contro di me
». Egli non dice: « Si tiene in piedi davanti a me », ma « rimane in piedi
contro di me ». Perché, cosa posso dire perché lo soddisfi? Io parlo di cose
spirituali ad un uomo carnale che vede ed intende l’esterno, mentre per le cose
interiori è sordo e cieco. In effetti, « l’uomo animale non è capace di
comprendere le cose che sono dello spirito di Dio » (I. Cor. II, 14). – E se non era un uomo animale, sarebbe mai
un calunniatore? Beato colui che parla ad un orecchio che l’ascolta (Eccli.
XXV, 12), e non all’orecchio del peccatore che si erge contro di lui!
Che direste voi, in effetti, ad uomini gonfi di orgoglio, pieni di agitazioni,
calunniatori, litigiosi, avidi di parole? Cosa direste di santo, di pio, di
religioso, di superiore ai loro pensieri, quando il Signore stesso ha detto a
coloro che lo ascoltavano con gioia, che desideravano istruirsi, che avrebbero
aperto la loro anima affamata del nutrimento di verità che avrebbero ricevuta
avidamente: « … Io ho ancora molte cose da dirvi, ma voi non potete sopportarle
adesso »? (Giov. XVI, 12). –
Ma cosa dire di simile al peccatore che si erge contro di me, e si crede capace
o finge di essere capace di comprendere ciò che non comprende realmente? Dopo
aver parlato senza essere stato compreso, egli immaginerà non di non aver
compreso, ma che sia io in errore (S.
Agost.). – La ragione principale per la quale noi dobbiamo mettere un
freno alle nostre labbra, quando siamo in presenza del nostro nemico, è che noi
gli diamo una presa su di noi. Noi saremmo stati vincitori nella sua prima
lotta con il genere umano, se Eva avesse mantenuto il silenzio. Il primo
peccato prese dunque origine da una parola ed è con la parola che il serpente
ci ha tentati. E sarebbe piaciuto a Dio che Adamo fosse stato sordo per non
sentire le parole della sua sposa, o che Eva non avesse aperto la bocca per non
versare nell’animo del marito il veleno che il serpente le aveva comunicato! (S. Ambrog.). –
ff. 3. – Ci sono delle circostanze in cui come uno degli amici di Giobbe, Eliu, noi
siamo pieni di verità, in noi c’è uno spirito che ci spinge; il nostro cuore è
come un vaso chiuso che si spacca per la forza del vino nuovo. (Giob. XXXII, 18, 19). – È allora
che noi con una sola parola potremmo confondere la calunnia, o dissipare dei
pregiudizi ostili, delle ingiuste prevenzioni, che ci fanno tacere
assolutamente, umiliarci davanti a Dio, ed astenere dal dire anche delle buone
cose per paura di offendere la carità, la dolcezza o l’umiltà. – Al pensiero di
aver soppresso il bene che dovevo affermare, il mio dolore è ricominciato. Io
ho cominciato a soffrire più nell’aver taciuto ciò che dovevo dire, piuttosto
che per aver detto ciò che non dovevo dire (S. Agost.). Io ho taciuto su quel che doveva essere la
testimonianza della mia coscienza; e non ho cercato di giustificarmi davanti
agli uomini perché io so che il Padre celeste che mi vede nel segreto mi
renderà giustizia (S. Gir.). – C’è qui il linguaggio di un vero penitente che non
osando più, alla vista delle proprie cadute, parlare con Dio nella preghiera,
dire: Signore io ho taciuto alla vostra presenza; la mia umiliazione e la mia
confusione hanno parlato per me. E allora nel silenzio dell’onta e della
compunzione, il dolore dei miei crimini si è rinnovato. Il mio cuore, penetrato
dalle mie ingratitudini e dalle vostre misericordie, si è infiammato di un
nuovo amore per voi; e tutto ciò che io ho potuto dire, o mio Dio, nella
profonda umiliazione nella quale mi teneva davanti a Voi la vista delle mie
miserie, è che ogni uomo non è che un abisso di debolezza, di corruzione, di
vanità e di menzogna. Ecco il silenzio della compunzione che forma davanti a
Dio la vera preghiera (Massill., Sur
la Prière).
ff. 4. – Questo silenzio
è una eccellente preparazione alla preghiera ed alla meditazione. – Felice e
santa meditazione che non si fa con cuore freddo e languente, ma con un cuore
tutto acceso alla vista ed per il dolore dei propri peccati, – È un fuoco
divino illuminato nel fondo dell’anima, che non serve che a distruggere il
peccato ed a purificare il cuore, fuoco che si accende con la meditazione delle
Scritture divine; fuoco simile a quello che ardeva nel cuore dei due discepoli
di Emmaus, mentre Gesù parlava loro. « Non era il nostro cuore ardente, quando
ci spiegava le Scritture? » (Luc. XXIV); ma soprattutto quel fuoco che Gesù è venuto
a portare sulla terra e col quale desidera vedere che sia tutto ardente (Luc. XII, 49) (Duguet).
– Ci sono nella vita dei momenti in cui la preghiera apporta una dolcezza
deliziosa; essi sono brevi e fuggitivi come i raggi della luna quando,
spuntando a tratti tra le dense nubi, illuminano per un istante la sommità
delle rocce e spariscono, ma sono sufficienti a sostenere un’anima per più
giorni; così ancora, dopo la santa Comunione, minuti rubati alla terra, noi
portiamo come Maria, nel nostro seno, il Signore del cielo e della terra, ne
sentiamo la presenza, abbiamo tante cose da dire che restiamo muti; un calore
soprannaturale riscalda il nostro sangue e in un batter d’occhio abbiamo
scalato una montagna sulla strada del cielo. (Faber, Le Créât., et la Créât., L. III, ch. IV.).
ff. 5. – Questo versetto
non è in contraddizione con il secondo. In quest’ultimo Davide vegliava nel non
peccare con la sua lingua. In questo qui, egli la lascia parlare per
indirizzarsi liberamente a Dio, dal momento che tutti i pensieri sono gravi,
tutte le parole sono misurate; in una parola, quando era occupato dall’idea
della sua morte che poteva credere prossima. « … Io ho sciolto la mia lingua ed
ho parlato ». A chi? Non a colui che mi ascolta e che voglio istruire, ma a
Colui che mi può esaudire e dal quale voglio essere istruito. « … Io ho sciolto
la mia lingua ed ho parlato » a Colui che sento interiormente, quando viene a
porgermi qualche cosa di buono e di vero. Ma cosa avete detto? Egli ha detto: «
… Signore fatemi conoscere la mia fine, il fine che devo perseguire, e non la
corsa che io seguo ora » (S. Agost.).
– Davide non chiede, come sembrerebbero indicare le espressioni di cui si
serve, di sapere quanto tempo gli resti fino alla morte, cosa che potrebbe
essere una curiosità temeraria e colpevole; egli prega Dio di non permettere
che egli abusi, come fanno la maggior parte degli uomini, nel considerare
durevole ciò che è invece di breve durata, e di fargli vedere chiaramente che
il termine della sua vita è già a lui vicino (Bellarm.). – Orbene, fatemi conoscere quale sia la mia fine,
affinché sappia quel che mi manca, finché sono su questa terra, per ottenere la
ricompensa eterna (S. Girol.).
– Ebbene « fatemi conoscere il numero dei miei giorni qual è ». Il numero degli
anni dei quali non è; i giorni presenti non sono reali, e non si può dare un sì
gran nome a questa corsa precipitevole di anni fuggitivi. « Fatemi conoscere
dunque qual sia il numero dei miei giorni »: numero senza numero, giorno senza
giorno, come è in questa Gerusalemme, sposa del mio Salvatore, ove non ci sarà
né morte né cambiamento, né giorno passeggero, ma dove c’è un solo giorno
eterno, senza una veglia che lo preceda, né un domani che lo cancelli (S. Agost. e S. Gerol.). « Affinché
io sappia ciò che mi manca », perché io non sono ancora giunto e non sono
ancora perfetto, « ma io proseguo la mia corsa per cercare di giungere là dove
Gesù Cristo ha voluto condurmi » (Filipp.
III, 13), e se dovessi inorgoglirmi del punto in cui già sono, avrei da
temere, arrivando alla mia fine, di trovarmi sprovvisto di giustizia.
Comparando così ciò che è con le cose che veramente non sono, e vedendo quel
che mi manca e non possiedo, io sarò più umile alla vista di ciò che mi manca,
piuttosto che orgoglioso delle cose che possiedo (S. Agost.).
II. — 6-7.
ff. 6. – Ecco la bella
meditazione con cui Davide si intrattiene sul trono, al centro della sua corte:
o eterno Re dei secoli, voi vi ritirate sempre in Voi stesso, il vostro essere
eternamente immutabile, non scorre, né muta, né si misura, « ed ecco che Voi
avete fatto i miei giorni misurabili, e la mia sostanza non è nulla davanti Voi
», e tutto l’essere che si misura non è niente, poiché ciò che si misura ha il
suo termine, e quando è arrivato questo termine, un ultimo punto distrugge
tutto; come se non fossi mai esistito. È così, tutto ciò che si misura finisce;
e tutto ciò che è nato per finire, non è uscito affatto dal nulla, dove
ripiomba presto. Se il nostro essere, se la nostra sostanza è nulla, tutto ciò
che noi vi costruiamo sopra, cosa può essere? Né l’edificio è più solido del
fondamento, né l’accidente legato all’essere più reale dell’essere stesso. Cosa
sono cento anni? Cosa sono mille anni … ché un solo attimo cancella?
Moltiplicate i vostri giorni, come i cervi che la favola o la storia della
natura fa vivere per tanti secoli; durate pure quanto queste grandi querce sotto
le quali i nostri antenati si sono riposati, e che daranno ancora ombra alla
nostra posterità; ammassate in questo spazio che sembra immenso, onori,
ricchezze, piaceri; cosa vi profitterà questo cumulo, poiché l’ultimo soffio
della morte, così breve, languido, abbatterà tutto ad un colpo questa vana
pompa con la stessa facilità di un castello di carte, vano divertimento dei
bambini? E a cosa vi servirà avere scritto tanti libri, l’averne riempite le
pagine di bei caratteri, quando poi una sola cancellatura deve tutto eliminare?
Almeno una cancellatura lascia qualche traccia di se stessa, mentre questo
ultimo momento che cancellerà tutto ad un tratto la vostra vita, si perderà
esso stesso con tutto il resto in questa voragine del nulla: sulla terra non
resta nessuna vestigia di ciò che noi siamo. Cos’è dunque questa mia sostanza,
o gran Dio? Io entro nella vita per uscirne presto; io vengo ad affacciarmi
come gli altri; dopo bisognerà sparire. Tutto ci chiama alla morte; la natura,
come se fosse quasi invidiosa del bene che ci ha fatto, ci dichiara spesso e ci
fa capire che non può lasciarci per lungo tempo questo poco di materia che ci
presta, che resta nelle stesse mani, e che deve essere eternamente in
movimento: essa ne ha bisogno per altre forme, la richiede per altre opere.
Questo ricrearsi continuamente del genere umano, voglio dire dei bambini che
nascono, man mano crescono ed avanzano, e sembra che alzino le spalle e dicano:
ritiratevi, ora è il nostro turno. Così come noi ne vediamo passare altri
davanti a noi, altri ci vedranno passare, e diventano a loro volta successori
dello stesso spettacolo. O Dio, ancora una volta, cosa ne è di noi? Se getto lo
sguardo davanti, quale spazio infinito davanti a me! Se mi guardo dietro, quale
terribile sequela in cui io non sono più, ed occupo un piccolo posto in questo
abisso immenso del tempo! Io non sono niente, ed un piccolo intervallo non è
capace di distinguermi dal niente. Ancora, se vogliamo discutere le cose in una
considerazione più sottile, non è l’estensione della nostra vita che ci
distingue dal niente, e voi sapete che non c’è che un momento che ce ne separi.
Ora ne teniamo uno; esso perisce e con esso periremo tutti, se prontamente e
senza perdere tempo non ne afferriamo un altro simile, finché infine ne
arriverà uno al quale non potremo giungere qualunque sforzo facciamo per
allungarci; e allora cadremo tutto ad un tratto, senza sostegno. O fragile
appoggio del nostro essere! O fondamento rovinoso della nostra sostanza. Ah!
L’uomo passa veramente come un ombra, meno di un’immagine in figura, e come
questa non ha nulla di solido, non insegue così che cose vane, l’immagine del
bene, e non il bene stesso: così passa come un’ombra, ed è solo in voi che si
turba e si agita (Bossuet, Serm. s. la mort). – « E la mia sostanza non è nulla
davanti a voi ». Davanti a me questo niente è qualche cosa ed anche tutte le
cose, ma davanti a Voi, ciò che io chiamo tutte le cose, si confonde e si perde
in questo niente; e la morte, che ogni vivente deve considerare come suo
inevitabile destino, fa generalmente e senza eccezioni, di tutti i beni che
possiede, di tutti i piaceri di cui gode, di tutti i titoli di cui si
glorifica, un abisso di vanità (Bourd. Sur la pens. de la mort). –
Vanità generale ed universale di tutto ciò che è sulla terra, o piuttosto
abisso impenetrabile di vanità. Ogni uomo vivente non è che vanità in tutto ciò
che è, in tutto ciò che sembra possedere, nella sua anima, nel suo corpo, nei
beni della fortuna. – Ogni uomo vivente non è che vanità, finché è nel mondo,
mentre è rivestito di una carne mortale, tanto che la sua vita sulla terra non
è che tentazione, mentre geme in mezzo agli scandali, mentre teme di cadere
benché in piedi, tanto che tutto è ancora incerto per lui, e il male, e il bene
(S.
Agost.).
III. — 7 – 14.
ff. 7. – Noi viviamo quaggiù, ma con una vita che non è che l’ombra, una pallida
immagine della vita e non la vera vita; noi non abbiamo che l’ombra dei veri
beni, dei solidi piaceri e della vita di gloria. Così l’uomo pensa e cammina
come un’ombra, come un’immagine, come un fantasma, senza lasciare più traccia
come non la lascerebbe il passaggio di un’immagine (S. Ambrog.). – E questa nostra vita non è simile ad una vera
morte? I giorni passano con rapidità, il giorno presente ha cancellato il
giorno di ieri ed il giorno di domani sta per nascere presto per cancellare il
giorno presente (S. Agost.).
Questa età che noi contiamo e in cui tutto ciò che noi contiamo non è più
nostro, è una vita? E potremo non accorgerci di ciò che perdiamo
incessantemente con gli anni? (Bossuet,
Or. fun. de Mar. Ther.). – L’uomo si turba, è in continua agitazione,
ma si turba inutilmente, perché questo avviene per imprese che la morte non
farà compiere, per intrighi che la morte confonderà, per speranze che la morte
farà svanire. Egli si affatica, per ammassare ed accumulare, ma il suo guaio è
di non sapere nemmeno per chi egli accumuli, né chi profitterà del suo lavoro,
se questi saranno dei figli o degli estranei, se saranno eredi riconoscenti o
degli ingrati, se saranno dei saggi o dei dissipatori (Bourd. ibid.). « Io ho detestato tutto questo lavoro per il
quale mi sono affaticato sotto il sole, perché dopo di me doveva venire un
erede, saggio o insensato – io l’ignoro – che possiederà i miei lavori ed i
miei sudori, e i miei affanni, e anche questo è vanità » (Eccl. II, 18).
ff. 8, 9. – « Ed ora dunque qual è la mia
aspettativa? Non è il Signore? » Questa è la mia aspettativa, la mia speranza
da cui vengono tutte le cose che io disprezzo; Egli si darà Lui stesso a me.
Lui che è al di sopra di tutto, per il Quale tutte le cose sono state fatte, e
che mi ha fatto tra tutte le cose. « E quel che possiedo è davanti a Voi. » Io già avanzo, già avanzo verso di Voi, già
comincio ad essere, e tutto il mio bene è in Voi. I beni della terra, voi li possedete
davanti agli uomini; voi possedete l’oro, voi possedete denaro, dei beni, degli
alberi, delle greggi, dei servitori; tutte queste cose, gli uomini possono
vederle; ma i veri beni, la pace di una buona coscienza, la speranza dei beni
eterni, voi li possedete solo agli occhi di Dio. (S. Agost.- S. Girol.). – « Ed ora, qual è la mia speranza,
non è il Signore? » Gesù Cristo, ecco la nostra speranza e la nostra pazienza!
Egli è diventato la nostra redenzione, è la nostra attesa e ciascuno di noi può
dire: « Io ho atteso e non mi sono lasciato attendere dal Signore ». Guardatemi
dunque, Signore, nella vostra giustizia. Abbassate su di noi gli sguardi della
vostra misericordia, affinché noi, che ci vantiamo sì giustamente dei nostri
meriti, siamo liberati dalla vostra misericordia, nelle mani della quale riposa
tutta la sostanza della nostra anima e della nostra vita. Noi non temiamo la
morte del corpo, ma temiamo colui che può conservare o perdere la nostra anima,
la cui sostanza è una virtù che Dio ha creato a sua immagine e che ha posto nel
cuore dell’uomo (S. Ambrog.).
– Tali sono le felici disposizioni in cui si stabilisce un’anima fedele che
rivolge tutti i suoi pensieri verso il cielo e non si occupa che del regno di
Dio ove è chiamata. Vedete le grandezze del mondo, le fortune del mondo? Tutto
questo non la tocca perché ella sa che non è fatta per tutto questo, ma è
destinata a qualche cosa di più grande. « Io ho pregato il Signore », ella dice
con il Re-Profeta, e Gli ho chiesto « che mi faccia conoscere il mio fine ». Io
ho considerato che i miei giorni sono misurati, e che tutta la vita dell’uomo
quaggiù non è che vanità, che egli accumula senza sapere per chi, e dopo
essersi affaticato inutilmente, sparisce come un sogno. Qual è dunque la mia
speranza, io ho concluso, « non è il Signore e quel che mi riserva nella sua
gloria? » (Bourd. Sur le Bonheur du
ciel.). – In qualunque grado di perfezione noi siamo arrivati, « se noi
diciamo che non abbiamo peccato, noi inganniamo noi stessi e la verità non è in
noi » (1 Giov. I, 8). Io ho lasciato molte cose, ma ancora mi batto il
petto e dico: « rimettete i miei debiti ». Liberatemi da tutte le mie iniquità,
non solo da quelle che potrebbero farmi tornare indietro, e perdere terreno che
ho guadagnato, da tutte assolutamente, anche da quelle per le quali ho ottenuto
perdono (S. Agost.). – Perché
io disprezzo le cose della terra, perché io mi guardo dal mettere la mia gioia nelle
cose passibili, perché io mi espongo alle beffe dell’avaro che si vanta della
sua prudenza e si burla della mia follia; perché io agisco così, e vado per
questa strada, « … voi mi avete, egli dice, dato in obbrobrio all’insensato ».
Voi volete che io viva, che io predichi la verità in mezzo a coloro che amano
la vanità: io non posso evitare le loro beffe. In effetti, noi siamo dati come
spettacolo per il mondo, per gli Angeli ed il mondo (1 Cor. IV, 9). A destra e a sinistra, noi abbiamo delle armi
con le quali combattiamo per la gloria e per l’ignominia, per l’infamia e per
la nomea.
ff. 10-12. – « Io ho taciuto e non ho aperto bocca, perché
siete Voi che l’avete fatto »; vale a dire Voi mi avete consegnato
all’insensato come un oggetto di disprezzo, ecco perché io ho taciuto: per non
rendermi colpevole di peccati più grandi. Io ho riconosciuto la vostra volontà
ed ho acconsentito ad essere, per un certo tempo, coperto da onta, per poter
essere infine salvato chiedendo il perdono (S. Ambr.). – Il Re-Profeta non dice assolutamente. « Io non
sarò più », lui che dice altrove: « io piacerò al Signore nella terra dei
viventi ». Egli “sarà” dunque, perché esprime la speranza di piacere al
Signore. Si possono comprendere dunque queste parole in questo senso. « Io sono
straniero e pellegrino come tutti i miei padri »; perdonatemi dunque affinché
non cessi di essere straniero, rimettetemi la pena dell’esilio in cui sono
stato relegato. Se mi rimetterete questa pena prima che lasci questa terra, io
cesserò di esservi estraneo ed esiliato, e diventerò cittadino dei Santi. Io
sarò dunque con i miei padri, che sono stati anch’essi pellegrini e stranieri,
e che sono ora cittadini ed abitanti del cielo. Io farò parte della casa di
Dio, e a questo titolo, cesserò di temere il castigo, per meritare la grazia
della ricompensa (S. Ambr.).
– Nelle persecuzioni da parte degli uomini, non bisogna guardare la mano del
persecutore, ma alzare gli occhi della fede fino alla mano invisibile di Colui
che Egli stesso colpisce, ed accettare senza lamentarsi tutto i malanni che
possono arrivare perché è Dio che lo fa. Bisogna soltanto pregarLo di
allontanare da noi le nostre piaghe, che sono le tenebre dello spirito e
l’indurimento del cuore. – Terribile è la mano di Dio che si appesantisce sul
peccatore. Questo peso insopportabile che fa cadere nello smarrimento, giunge
quando Dio riprende il suo furore, vale a dire quando un crimine diviene il
castigo di un altro crimine (Duguet).
– « Voi avete istruito l’uomo a causa della sua iniquità ». Il mio smarrimento,
la mia debolezza, il grido che levo dal fondo della mia miseria, tutto questo
viene dalla mia iniquità; e in tutto questo Voi mi avete istruito e non mi
avete condannato. Un altro salmo ci fa comprendere ancora più chiaramente
questo pensiero: « per me è bene che mi abbiate umiliato, perché apprenda così
i vostri comandamenti » (Ps. CXVIII,
71). Io sono stato umiliato, e questa umiliazione mi è salutare, essa è
nello stesso tempo un castigo ed una grazia. Cosa ci riserva, dopo il castigo,
Colui che ci invia il castigo come una grazia? (S. Agost.). – « … Voi avete fatto disseccare la mia anima
come un ragno ». Cosa c’è di più fragile di un ragno? Io parlo dell’insetto in
sé, ma potrei dire soprattutto: cosa di più fragile della tela di un ragno?
Notate come questo insetto sia così poca cosa. Mettete leggermente il dito
sopra di esso, ed esso è ridotto in poltiglia; non c’è nulla di assolutamente
più fragile. È così che è diventata la mia anima – dice il Profeta – quando Voi
mi avete istruito a causa della mia iniquità. Poiché l’istruzione l’ha resa
debole, essa aveva dunque in precedenza qualche vizio nella forza. Bisogna che
l’uomo dispiaccia a Dio per la sua forza, per essere così istruito dalla
debolezza; egli lo ha dispiaciuto con l’orgoglio, ed ha dovuto essere istruito
dall’umiltà (S. Agost.). non
perseguiamo dunque cose futili e vane, se non vogliamo tessere noi stessi
ragnatele, perché il peccato non può avere nessuna speranza di durata e
stabilità. Quando vedete allora che l’uomo si applica interamente ad aumentare
lo proprie ricchezze, ad accumulare onori, a condurre una vita di ostentazione
e di bagliori, ripeterete questa parola del profeta Isaia: « … essi hanno
tessuto in un giorno una ragnatela che non può durare a lungo; essa si lacera
al minimo strappo, e tutto il lavoro si trova annientato ». In effetti questo
lavoro non è poggiato su di un solido fondamento, ma è sospeso nel vuoto.
Nessun riposo, nessuna mollezza conviene ad un vero soldato di Gesù Cristo;
perché è nel palazzo del re che si trovano coloro che sono vestiti mollemente.
Gli avari si piccano di essere scaltri, attivi e vigilanti. Cosa di più
scaltro, di più attivo e vigilante del ragno applicato giorno e notte al suo
lavoro, che ordisce la sua tela, il suo vestito senza alcuna spesa? Ma tutto il
suo lavoro è vano e futile. Così è ogni uomo che non ripone le sue opere sul
vero fondamento che è Gesù Cristo. Egli si agita e si turba giorno e notte,
perché, sull’esempio del ragno, è in mezzo agli sforzo delle sue ingiuste
cupidigie che viene sorpreso dalla rovina delle sue imprese (S. Ambrog.). – Che istruttiva
similitudine tra il ragno ed il peccatore avaro ed orgoglioso! Il ragno è pieno
di veleno, e raccoglie il suo veleno sugli stessi fiori ove l’ape raccoglie il
suo miele. L’avaro, l’orgoglioso, trova l’occasione di peccare là dove il
giusto trova il mezzo per elevare la sua anima a Dio. Il ragno esaurisce tutta
la sua sostanza, lavora con alacrità e per lungo tempo per ordire la sua tela,
l’opera più fragile che egli tesse nel vuoto e che non riposa su alcun solido
fondamento, un colpo di scopa basta a distruggere in un istante il lavoro di
diversi giorni: è questa l’immagine dell’avaro, dell’orgoglioso, che non
appoggia la sua opere su Gesù Cristo, che si consuma inutilmente in vani sforzi
per accumulare ricchezze, per ottenere onori, che il primo colpo di vento porta
via. La tela del ragno, fatta con tanta pena, non serve che a prendere mosche:
immagine troppo reale di questa continua agitazione degli uomini del mondo che
riempiono tutto il loro tempo, mettono tutta la loro applicazione nel prendere
mosche e che vedono come la loro morte distrugga di colpo tutto il lavoro di
svariati anni. – Il ragno si avvolge nella sua tela e cade con essa, e coloro
che vogliono diventar ricchi cadono nelle trappole di satana, e in desideri
inutili e perniciosi che precipitano gli uomini nella morte e nella dannazione.
« In verità, è invano che gli uomini si turbino e si inquietino », perché a che
serve all’uomo guadagnare tutto l’universo, se poi perde la propria anima? – In
qualunque progresso l’uomo faccia quaggiù, è per le vanità che si turba finché
vive, perché egli vive sempre nell’incertezza. Perché, chi può essere sicuro
del bene che ha fatto? « Egli si turba per le vanità ». Getta tutto il tuo
affanno nel seno di Dio (Ps. LIV, 23);
che getti nel seno di Dio tutta la sua sollecitudine; e lasci che sia Dio a
nutrirlo e a prendersene cura. Perché, cosa c’è di certo sulla terra, se non la
morte? Considerate i beni e i mali di questa terra senza eccezioni: sia che
viviate nella giustizia, o nell’ingiustizia, cosa c’è di certo su questa terra
se non la morte? Avete fatto progressi nel bene: voi sapete cosa siete oggi, ma
non sapete cosa sarete domani. Voi siete peccatore. Non sapete ciò che siete
oggi, non sapete ciò che sarete domani. Da qualunque lato vi giriate, tutto è
incerto, la morte sola è certa! Voi siete povero, non è sicuro se diventiate
ricco; voi siete illetterato, è incerto se vi istruirete; voi siete debilitato
a causa di una malattia, non è sicuro che recupererete le vostre forze; voi
siete nato, è certo però che morirete, ed anche in questa certezza della morte,
il giorno della morte resta incerto. In mezzo a tante incertezze, con la morte
come unica certezza, benché incerta nell’ora, questa è la sola cosa che si
cerca assolutamente di sfuggire, benché non la si possa evitare in alcun modo,
solo per vanità ogni uomo che vive, si turba (S. Agost.).
ff. 13, 14. – La
preghiera è la semplice domanda, la supplica, un grido dell’anima, delle
lacrime, l’amore, la cui voce si fa intendere davanti a Dio più che alcuna
altra parola. – Benché abbia lasciato ogni difficoltà, e che mi sia elevato al
di sopra degli ostacoli, non devo più piangere? Non devo piangere ancor più?
Perché acquistare la scienza è acquistare il dolore (Eccle. I, 18). Non è giusto che più io desideri ciò che è
assente e più debba gemere, che più pianga finché non giunga? Non è giusto che
io pianga per quanto gli scandali diventino più frequenti, che l’iniquità si
moltiplichi, che la carità di un gran numero si raffreddi ancor più. – Non
restate in silenzio davanti a me, io vi ascolterò; perché Dio parla in segreto,
parla a molti uomini nel loro cuore e la sua parola rimbomba fortemente in
mezzo ad un profondo silenzio di questo cuore, quando Egli dice con voce
potente: « Io sono la vostra salvezza » (S.
Agost.). « Perciò io sono davanti a Voi come uno straniero e come un
pellegrino ». – la vostra patria è dunque il cielo, è in cielo la vostra casa:
« io sono davanti a Voi come un ospite ed un pellegrino ». Bisogna comprendere
anche « pellegrino presso di Voi ». In effetti molti sono pellegrini presso il
demonio; al contrario coloro che già hanno creduto e sono rimasti fedeli, senza
dubbio sono ancora pellegrini, perché non sono giunti alla patria e alla casa
eterna, ma eppure sono presso Dio. In effetti, intanto che siamo nel nostro
corpo, noi viaggiamo lontano da Dio, e sia che ci fermiamo, sia che camminiamo,
noi facciamo tutti i nostri sforzi per piacergli. « Io sono davanti a Voi come
un ospite ed un pellegrino, come lo sono stati tutti i miei padri. » Se dunque
sono come tutti i miei padri, potrò mai dire che non lascerò questo mondo,
visto che tutti lo hanno lasciato? Devo io dimorare qui in condizioni diverse
da come essi hanno dimorato? (S.
Agost.). Un viaggiatore non guarda che di passaggio gli oggetti
che gli si presentano davanti agli occhi, e non si ferma a considerarli; egli
usa il nutrimento che gli è necessario, ma non si carica troppo e non fa grandi
provvigioni; uno straniero non fa grandi costruzioni in un luogo ove non
progetta di fermarsi, e non pensa piuttosto che tornare alla sua patria. – « Perdonatemi,
affinché io respiri un po’ prima che mi dilegui e più non sia »; vale a dire
perdonatemi nel luogo stesso in cui ho peccato. Se non mi perdonerete quaggiù,
io non potrò trovare in cielo il riposo del perdono, perché chi è stato legato
sulla terra, resterà legato nel cielo, e chi sarà stato slegato sulla terra,
sarà slegato nei cieli (S. Ambr.).
– Quale uomo provato da grandi afflizioni non si è lasciato sfuggire dal cuore
questa toccante preghiera di Davide? Come è nella nostra debole natura
desiderare tra una vita agitata, tormentata, piena di dolori e di inquietudini,
e la morte che sta per metterci alla presenza del Giudice supremo, Dio ci
accordi qualche intervallo di riposo che ci permetta di respirare, di rinfrancarci, di confortarci,
di prepararci infine e di incoraggiarci ad oltrepassare, con un timore
temperato dalla fiducia, la soglia della nostra eternità (Rendu).