DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2019)
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps XLVII: 10-11.
Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua. [Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]
Ps XLVII: 2. Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitate Dei nostri, in monte sancto ejus. [Grande è il Signore, e degnissimo di lode nella sua città e nel suo santo monte.]
Ps XLVII: 10-11 Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua. [Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]
Oratio
Orémus.
Largíre nobis, quǽsumus, Dómine, semper spíritum cogitándi quæ recta sunt, propítius et agéndi: ut, qui sine te esse non póssumus, secúndum te vívere valeámus. [Concedici propizio, Te ne preghiamo, o Signore, di pensare ed agire sempre rettamente; cosí che noi, che senza di Te non possiamo esistere, secondo Te possiamo vivere.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom VIII: 12-17
Fratres: Debitóres sumus non carni, ut secúndum carnem vivámus. Si enim secúndum carnem vixéritis, moriémini: si autem spíritu facta carnis mortificavéritis, vivétis. Quicúmque enim spíritu Dei aguntur, ii sunt fílii Dei. Non enim accepístis spíritum servitútis íterum in timóre, sed accepístis spíritum adoptiónis filiórum, in quo clamámus: Abba – Pater. – Ipse enim Spíritus testimónium reddit spirítui nostro, quod sumus fíli Dei. Si autem fílii, et herédes: herédes quidem Dei, coherédes autem Christi.
OMELIA I.
[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,
DIGNITÀ’ DEL CRISTIANO
“Fratelli: Non abbiam alcun debito versa la carne per vivere secondo la carne. Se, pertanto, vivrete secondo la carne, morrete; se, al contrario, con lo spirito farete morire le opere della carne, vivrete. Poiché, quanti sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Invero, non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore, ma avete ricevuto lo spirito di adozione in figliuoli, per il quale gridiamo «Abba! (o Padre)». E lo Spirito Santo stesso attesta al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. Ora, se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo”. (Rom. VIII, 12-17).
L’Epistola è tolta dal cap. VIII della Lettera ai Romani. Lo Spirito Santo è come l’anima della vita cristiana. La carne non ha, dunque, più nulla da reclamare dal cristiano per trascinarlo a seguire le cattive inclinazioni, che danno la morte all’anima. Egli, deve, invece, mortificare le voglie della carne, mediante le opere dello Spirito, se vuol pervenire alla vita soprannaturale. Veri figli di Dio son coloro che si lasciano guidare dallo Spirito di Dio, seguendo docilmente i suoi impulsi. Questo Spirito, poi, non ci deve incutere timore, come se fossimo servi, ma ci deve ispirare un amore filiale; poiché è lo Spirito della filiazione adottiva, il quale attesta la nostra adorazione a figli di Dio e, per conseguenza, eredi di Lui e coeredi di Gesù Cristo. – Quanto insegna qui S. Paolo, fa pensare alla grande dignità del cristiano, della quale non sarà fuor di luogo dire due parole. Il Cristiano:
1. È figlio di Dio,
2. È l’abitazione dello Spirito Santo,
3. È l’erede del regno celeste.
1.
Quanti sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio.
Il Cristiano che, ricevuta la grazia dello Spirito Santo vi coopera, cercando di condurre una vita virtuosa, lontana dal peccato, è veramente figlio di Dio. Per mezzo della grazia santificante che riceviamo nel Battesimo, veniamo incorporati a Gesù Cristo. Questa mistica unione è così intima, che diveniamo «membra del corpo di Lui, della carne di Lui e delle ossa di Lui» (Eph. V, 30). E in lui siam fatti figli di Dio. Egli è il Figlio naturale del Padre, il Figlio unigenito; noi siamo i figli adottivi, ma pur sempre figli. – Dio è nostro Creatore. Egli ha ci cavato dal nulla. Perciò siamo fattura di Lui. Ma Egli non è solamente Creatore nell’ordine naturale; è Creatore anche in un ordine più elevato; nell’ordine soprannaturale. «Infatti — dice. l’Apostolo — siamo fattura di Lui creati in Gesù Cristo» (Eph. II, 10). Quando noi siamo battezzati in Gesù Cristo diventiamo una nuova creatura, un uomo nuovo, diventiamo «partecipi della natura divina» (ll Pietr. I, 4), diventiamo figli di Dio per mezzo di una generazione spirituale. S. Giovanni ci richiama alla considerazione di tanta dignità, a cui Dio ci ha elevati: «Osservate quale carità ci ha dato il Padre, che siamo chiamati e siamo figli di Dio» (1 Giov. III, 1). Sarebbe già dimostrazione di grande amore da parte di Dio se ci avesse concesso di poterlo chiamare col nome confidenziale di Padre. Ma Egli non si è accontentato d’esser Padre solamente all’apparenza; ma volle essere nostro Padre in realtà; così che noi siamo veramente suoi figli, non di nome, ma anche di fatto. Il Salmista, che invita Israele a lodar Dio per i benefici che ha fatto a Gerusalemme e a tutto il popolo, termina il suo cantico con questa constatazione: «A nessun altro popolo fece altrettanto» (Salm. CXLVII, 20). Nella nuova legge noi possiam dire con tutta verità, che fece altrettanto e molto più al popolo cristiano. I Cristiani, essendo stati adottati a figli di Dio, sono veramente, ben più che il popolo d’Israele: «stirpe eletta, sacerdozio regale, gente santa, popolo di acquisto» (I Pt. II, 9). – «Comprendi, cristiano, la tua dignità? associato alla divina natura non ritornare per una indegna compiacenza alle vergogne del passato» (S. Leone M. Serm. 21, 3) «Quanto è turpe offendere un tal padre!» (S. Zenone. Lib. 2, Tract. 22, 3).
2.
E lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che noi siam figli di Dio.
Lo Spirito Santo a coloro, che si lascianoguidare da Lui, attesta con voci interne la consolantissima. verità che sono figli di Dio. Queste voci interne sono molteplici. L’esser spinti a chiamar con fiducia e con affetto filiale Dio con il dolce nome di Padre, l’orrore al peccato, l’amor di Dio, la prontezza nei seguir le buone ispirazioni. La pace e la tranquillità della coscienza sono echi di questa voce interna. – Questo linguaggio interno dello Spirito Santo suppone che Egli sia presente nell’anima nostra, che sia «abitante in noi» (Rom. VIII, 11). È una verità insegnata ripetutamente da S. Paolo. e da lui richiamata con energia alla mente dei Corinti: «Non sapete che siete il tempio di Dio. e che lo Spirito di Dio abita in voi? » (I Cor. III, 16).
Veramente, tutto il creato è tempio di Dio. La terra, con tutta la sua varia magnificenza, è come lo sgabello del suo trono, gli astri sono come la sua corona. Se noi potessimo sollevarci alle più eccelse altezze, vi troveremmo Dio; se potessimo portarci dall’uno all’altro confine del mondo, sentiremmo di essere sotto la sua destra; se discendessimo nei più profondi abissi dovremmo confessare col salmista : « ivi tu sei » (Ps CXXXVIII, 8). Se tutto il creato è tempio di Dio, Dio stesso volle scegliersi dei templi particolari. Egli dice sul monte a Mosè: «Ordina ai figli d’Israele che levino per me un contributo… E mi facciano un santuario, si che Io abiti in mezzo a loro» (Es. XXV, 2-8). E quando l’opera è compita, ecco, che una nube vi scende sopra, a significare che Dio prende possesso del tabernacolo, e vi pone la sua dimora (Es. XL, 32, segg.). Più tardi Salomone, in luogo del tabernacolo mobile di Mosè, costruisce sul modello del medesimo, ma in proporzioni e con magnificenza maggiori, un tempio stabile. Di nuovo, nel giorno della consacrazione, una nuvola miracolosa riempie il tempio ad attestare la presenza di Dio (3 Re. VIII, 10). – Ma oltre questi tempi Dio se ne sceglie degli altri. Quando l’anima del Cristiano è purificata nel Battesimo, diventa tempio dello Spirito Santo, il quale, per così dire, vi prende possesso e ne forma la propria dimora: diciamo meglio, forma la dimora della SS. Trinità, perché ove è una Persona divina, ci sono anche le altre. Di chi, mediante la carità, è tempio dello Spirito Santo, dice Gesù Cristo: «Il Padre mio lo amerà, e verremo da lui, a faremo dimora presso di lui» (Giov. XIV, 23). – Sulle case ove abitarono uomini illustri, si mettono delle lapidi commemorative, che ricordano al passante, che quella casa ebbe l’onore d’essere stata l’abitazione del tale o del tal altro personaggio. Talune vengono curate con somma diligenza, perché non vadano soggette a deperimento; altre vengono dichiarate monumento nazionale, perché nessuno osi toccarle, deteriorarle, distruggerle. Sull’anima del Cristiano, che non ha perduto la grazia santificante possiamo leggere un’iscrizione di maggior valore: « Tempio dello Spirito Santo ».
3.
Per mezzo del Battesimo i Cristiani sono divenuti figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo. Ora, se siam figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo. Procediamo di meraviglia in meraviglia. La gloria che attende il cristiano sorpassa ogni intendimento. Gesù Cristo è re della gloria. I Cristiani, fratelli di Gesù Cristo, vengono pure a partecipare della sua dignità regale, poiché « il segno della croce rende re tutti coloro che sono rigenerati in Gesù Cristo » (S. Leone M. Serm. 4, 1). Anche l’eredità che spetta al cristiano sarà un’eredità regale. A lui è concesso da Dio il diritto di « sedere in cielo con Gesù Cristo » (Eph. II, 6). Quando Davide vede avvicinarsi gli ultimi giorni, dichiara suo successore Salomone. Questi viene unto re, e sale il trono del regno. Quei della corte si rallegrano col re Davide, dicendo: «Dio renda il nome di Salomone più grande del tuo nome, e magnifichi il suo trono sopra il tuo trono» (3 Re I, 47). – Il regno dove i Cristiani sederanno con Gesù Cristo, sarà, senza confronto, più magnifico del regno di Salomone. Il regno ereditato da Salomone andò presto diviso, ed ebbe la sua fine. « Il magnifico regno è il bellissimo diadema che riceveranno dalla mano del Signore » (Sap. V, 17), i Cristiani che rimarranno intatti. Quel regno «è una eredità che non impiccolisce pel numero dei coeredi; ma rimane intera tanto per molti, quanto per pochi; tanto per ciascuno quanto per tutti» (S. Agost. Enarr. in Ps. XLIX). La Chiesa, celebrando la gloria d’un santo martire con le parole del Salmista, esclama: «Hai posto, o Signore, sul suo capo una corona di pietre preziose» (Ps. XX, 4). Questa corona di pietre preziose Dio pone non solo sul capo dei martiri, ma sul capo di tutti i giusti. E questa corona non passerà ai successori. Non sarà mai tolta dal capo, su cui Dio l’ha posta. A considerare la grandezza dell’eredità che ci attende, il nostro animo s’accende della brama di andarvi in possesso. Ma per arrivare al possesso di questa eredità è necessario di non rendersene indegni. Le leggi umane contemplano i casi di indegnità, che potrebbero privare un figlio dall’eredità che gli spetta. Per i Cristiani questa indegnità c’è quando si commette il peccato. Quando si commette un peccato grave, lo Spirito Santo, che dimorava nell’anima come amico, consigliere, maestro, se ne parte con tutti i suoi doni, e con lui se ne partono anche il Padre e il Figlio, e l’uomo peccatore rimane privato dal diritto all’eredità. Per arrivare al possesso dell’eredità eterna occorre la grazia di Dio, che noi dobbiam procurare di non perdere mai. In paradiso non ci si va in carrozza. Noi saremo «eredi di Dio e coeredi di Gesù Cristo, se però soffriamo con Lui affine di essere anche con Lui glorificati » (Rom. VIII, 17). «Non si può pervenire ai grandi premi, senza grandi fatiche. Perciò Paolo, eccellente predicatore dice: Non sarà coronato se non chi avrà combattuto secondo le leggi» (S. Gregorio M. Hom. 37, 1). E tutti sappiamo qual è questo combattimento secondo le leggi: nelle molteplici circostanze della vita diportarci secondo l’esempio datoci da Gesù Cristo: osservare con fedeltà i suoi comandamenti.
Graduale
Ps LXX: 1V. Deus, in te sperávi: Dómine, non confúndar in ætérnum. Allelúja, allelúja. [V. O Dio, in Te ho sperato: ch’io non sia confuso in eterno, o Signore. Allelúia, allelúia]
Alleluja
Ps XLVII:2
Alleluja, Alleluja.
Magnus Dóminus, et laudábilis valde, in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus. Allelúja. [Grande è il Signore, degnissimo di lode nella sua città e sul suo santo monte. Allelúia].
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam. (Luc XVI: 1-9)
In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Homo quidam erat dives, qui habébat víllicum: et hic diffamátus est apud illum, quasi dissipásset bona ipsíus. Et vocávit illum et ait illi: Quid hoc audio de te? redde ratiónem villicatiónis tuæ: jam enim non póteris villicáre. Ait autem víllicus intra se: Quid fáciam, quia dóminus meus aufert a me villicatiónem? fódere non váleo, mendicáre erubésco. Scio, quid fáciam, ut, cum amótus fúero a villicatióne, recípiant me in domos suas. Convocátis itaque síngulis debitóribus dómini sui, dicébat primo: Quantum debes dómino meo? At ille dixit: Centum cados ólei. Dixítque illi: Accipe cautiónem tuam: et sede cito, scribe quinquagínta. Deínde álii dixit: Tu vero quantum debes? Qui ait: Centum coros trítici. Ait illi: Accipe lítteras tuas, et scribe octogínta. Et laudávit dóminus víllicum iniquitátis, quia prudénter fecísset: quia fílii hujus saeculi prudentióres fíliis lucis in generatióne sua sunt. Et ego vobis dico: fácite vobis amicos de mammóna iniquitátis: ut, cum defecéritis, recípiant vos in ætérna tabernácula.
Omelia II
[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino, 1921]
SPIEGAZIONE XXXVI.
“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Eravì un ricco, che aveva un fattore, il quale fu accusato dinanzi a lui, come so dissipato avesse i suoi beni. E chiamatolo a sé, gli disse: Che è quello che io sento dire di te? Rendi conto del tuo maneggio; imperocché non potrai più esser fattore. E disse il fattore dentro di sé: Che farò, mentre il padrone mi leva la fattoria? non sono buono a zappare; mi vergogno a chiedere la limosina. So ben io quel che farò, affinché, quando mi sarà levata la fattoria, vi sia chi mi ricetti in casa sua. Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone, disse al primo: Di quanto vai tu debitore al mio padrone? E quegli disse: Di cento barili d’olio. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo; mettiti a sedere, e scrivi tosto cinquanta. Di poi disse a un altro: E tu di quanto sei debitore? E quegli rispose: Di cento staia di grano. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo, e scrivi ottanta. E il padrone lodò il fattore infedele, perché prudentemente aveva operato: imperocché i figliuoli di questo secolo sono nel loro genere più prudenti dei figliuoli della luce. E io dico a voi: Fatevi degli amici per mezzo delle inique ricchezze; affinché, quando venghiate a mancare, vi dian ricetto ne’ tabernacoli eterni” (Luc. XVI, 1-9).
Le parabole, di cui si valse nostro Signor Gesù Cristo per farci conoscere i misteri della sua grazia, della sua dottrina e della sua Chiesa, si possono dividere in tre classi. Nella prima classe vi sono le parabole profetiche, vale a dire quelle, con cui volle indicare che cosa sarebbe avvenuto in seguito o della sua Chiesa, o dei suoi discepoli, od anche di coloro, che non avrebbero abbracciato la sua fede. Nella seconda classe vi sono le parabole profetiche e morali ad un tempo, quelle cioè, con le quali, non solo volle indicare qualche futuro avvenimento, ma volle ancora dare agli uomini qualche importante ammaestramento intorno ai doveri, che essi hanno da compiere. Nella terza classe poi vi sono le parabole puramente morali. Con tutto ciò non è da credere, che queste ultime siano meno importanti delle altre; anzi sotto un certo aspetto lo sono anche di più, in quanto che con esse Gesù Cristo mirò direttamente ad ottenere da noi l’adempimento di quei doveri, che è indispensabile alla nostra eterna salute. Ed è tra queste ultimo che va annoverata la parabola dell’economo infedele, che nel Vangelo di questa domenica la Chiesa offre alla nostra considerazione.
1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Eravi un ricco, che aveva un fattore, il quale fu accusato dinanzi a lui, come se avesse dissipato i suoi beni. E chiamatolo a sè gli disse: Che è quello che io sento dire di te? Rendi conto del tuo operato; imperocché non potrai più essere mio fattore. Quest’uomo ricco, o miei cari, è Iddio, che solo può esser chiamato così a buon diritto, perché sorgente di ogni ricchezza, di ogni bene e di ogni tesoro. Il fattore siamo tutti noi, perché è a tutti noi, che Iddio nella sua bontà si è degnato affidarci il maneggio delle sue grazie, che dobbiamo santamente trafficare. Se non che quanti vi sono tra gli uomini, i quali, anziché usare a bene le grazie del Signore, le vanno miseramente dissipando, sia coll’impiegare malamente i beni di fortuna a scapricciarsi, a soddisfare tutte le loro perverse voglie, a fare un lusso smodato; sia con l’usare i beni della mente per parlare e scrivere contro la fede e la morale cristiana; sia con il non curare i beni dello spirito o col farli talvolta servire a profanazioni ed a sacrilegi orribili. Ma tutti questi economi infedeli vi ha chi si fa ad accusarli, e questi è il demonio, del quale si dice nelle Sacre Scritture (Apoc. XII, 10) che è accusatore nostro, e ci accusa dinanzi a Dio giorni e notte. E noi tutti un giorno, al termine della vita, saremo chiamati a render conto della nostra amministrazione, vale a dire del modo con cui ci saremo regolati, del come avremo usato di tutte le grazie, che il Signore ci ha fatto. Or bene, o miei cari, se noi desideriamo di potere in quel giorno rendere della nostra vita un conto diverso da quello dell’economo infedele, ci gioverà grandemente rientrare anche ogni giorno in noi medesimi e rendere conto a noi di tutto il nostro operato. – Per certo, un buon economo tiene le sue partite assestate, e le conosce a menadito; un buon negoziante ripassa i suoi debiti, le sue partite, i suoi guadagni anche ogni giorno, e così dobbiamo fare noi. Tra le sentenze auree di Pitagora, S. Girolamo riporta questa: Bisogna ogni mattina o ogni sera esaminare quel che faremo e quel che abbiamo fatto. Trattando S. Bonaventura della purità della vita, raccomanda come mezzo acconcissimo a conservarla, l’esaminare anche più volte al giorno la propria condotta, attentamente considerando e indagando in qual modo abbiamo passato le nostre ore innanzi a Dio. E così per l’appunto costumava di fare San Ignazio di Loyola. Di fatti qual cosa è più utile per mantenersi nella via del bene o per ritornarvi tosto appena ce ne siamo discostati, che un esame serio e ben fatto della nostra coscienza, anche ogni giorno? In tale esame vengono all’aperto le colpe, che durante il giorno si sono commesse, la loro malizia e gravità, le cause, gli effetti, le occasioni, le circostanze più o meno umilianti delle medesime, le intenzioni perverse, che le precedettero, e le conseguenze deplorabili, che ne derivarono. Epperò un tale rendiconto conduce chi lo ha fatto alla cognizione di se stesso, che è cosa cotanto necessaria e indispensabile alla vita cristiana, e feconda di tanti beni. Esso gli apre gli occhi a vedere la propria debolezza e fragilità, le sue perverse inclinazioni, la sua ingratitudine verso Dio, la sua infedeltà e tiepidezza nel servirlo, la sua leggerezza e volubilità, e mille altri difetti e mancamenti. Al considerare che una cosa da nulla, una paroletta, uno sguardo, un piccolo accidente, una leggera contraddizione, una storiella insignificante fu sufficiente a farlo prevaricare anche gravemente, è forzato a dire a se stesso: Ah! io son dunque ben debole e miserabile, per essermi lasciato vincere da sì leggera tentazione! Ah! bisogna bene che sia molto perverso, per commettere il peccato con tanta facilità! Poiché in fin dei conti per qual motivo ho offeso Iddio in quell’occasione? Per una vile soddisfazione, per un momentaneo diletto, per un meschino interesse. Sciagurato ch’io sono! Non ho avuto il coraggio di resistere, di frenar la mia brutale passione, ho rovinata l’anima mia l’ho messa fra le mani del demonio e quel ch’è peggio, ho tradito il mio Salvatore, ho offeso il mio Dio, Pazzo che fui ed ingrato! Devo dunque diffidar di me stesso, star in guardia di continuo, fuggire le occasioni, raddoppiar le preghiere e mantenermi in continua umiltà. Ecco quanto bene arreca all’anima nostra l’esame di coscienza! Come c’ispira l’umiltà, la diffidenza di noi stessi, la vigilanza, il timore salutare dei divini giudizi, la compunzione del cuore, i santi proponimenti, il fervore dell’orazione, la confidenza e la gratitudine verso Dio, e tanti altri sentimenti salutari! – Ma perché l’esame di coscienza produca realmente tali vantaggi bisogna che lo facciamo davvero e bene. Epperciò, raccogliendoci la sera un qualche minuto in noi stessi, esaminiamoci attentamente e senza dissimulazione; esaminiamo sottilmente e a fondo il nostro cuore, e non sarà raro trovarvi appiattata qualche passione, incantucciato, qualche difetto, che brutta tutte le nostre azioni, che spiace a Dio, e tien da noi lontani i suoi doni. Esaminiamoci su quel che s’è fatto, e nel modo che s’è fatto. Domandiamoci seriamente: Di qual difetto mi sono emendato quest’oggi? a qual peccato ho resistito? … sono io migliore? Facciamo insomma da noi stessi le parti di testimonio, d’accusatore, di giudice e di esecutore, figurandoci di sentir a risuonare al nostro orecchio quella tremenda parola, che ci rivolgerà un giorno Gesù Cristo: Recide rationem villicationis tuæ; rendimi conto della tua passata vita. Noi fortunati se ci appiglieremo a questa santa pratica e la eseguiremo con fedeltà e diligenza, essa senza dubbio, animandoci a detestare il male commesso e ad operare il bene nella nostra vita avvenire, ci scamperà da un rendiconto terribile nel giorno del giudizio. San Paolo ce lo ha detto chiaramente: « Si nosmetipsos diiudicaremus, non utique iudicaremur: Se disaminiamo severamente noi stessi e da noi stessi castighiamo i nostri peccati, certamente non saremo per essi giudicati e puniti da Dio ».
2. Tornando ora alla parabola del Santo Vangelo, all’intimata del padrone, il fattore, disse dentro di sé: che farò mentre il padrone mi leva la Fattoria? non sono buono a zappare; mi vergogno a chiedere la limosina. So ben io quel che farò, affinché, quando mi sarà levata la fattoria, vi sia chi mi ricetti in casa sua. Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone disse al primo: Di quanto vai tu debitore al mio padrone? E quegli disse: Di cento barili d’olio. Ed il fattore: Prendi la tua nota: mettiti a sedere e scrivi tosto cinquanta. Di poi disse ad un altro: E tu di quanto vai debitore? E quegli rispose: Di cento staia di grano. E il fattore: Prendi la tua nota, e scrivi ottanta. E qui, o miei cari, lasciando pure di considerare la malvagità di questo fattore, il quale ricorre alla falsità ed al furto per riparare in qualche modo alla sventura, cui si vede destinato, vi invito piuttosto a riguardare la sua grande stoltezza. Perciocché da tutto l’insieme si rileva che il suo padrone era di buon cuore, e che se egli sinceramente pentito della sua mala amministrazione, gli avesse chiesto perdono e gli avesse promesso ripararvi con la massima diligenza per l’avvenire, senza dubbio il padrone lo avrebbe perdonato. Or bene, o carissimi, anche maggiore sarebbe la stoltezza nostra, se riguardando al cattivo uso, che pel passato noi abbiamo fatto delle grazie e dei beni del Signore, diffidassimo di esserne perdonati. La bontà del Signore verso di noi è così grande che non solo ci permette, ma ci comanda ancora di sperare nella sua misericordia infinita. Perciò, considerando i peccati della nostra vita passata, dobbiamo bensì sentirne un vero dolore, ma questo dolore deve essere confidente; accompagnato cioè con una gran fiducia nella bontà e misericordia infinita del Signore, da cui dobbiamo sperare il perdono ad onta della nostra indegnità. Altrimenti il nostro dolore sarebbe simile a quello dell’economo infedele, ossia dei dannati, che si pentono dei loro peccati come causa di tante pene, a cui vanno soggetti, ma si pentono senza speranza di perdono. Anche Giuda si pentì del suo tradimento; ma perché mancò di fiducia, disperato andò ad appiccarsi e piombò nell’inferno. S. Pietro invece all’occhiata amorosa datagli da Gesù Cristo si sentì aprire il cuore ad una gran fiducia, e pianse bensì amaramente il suo peccato, come dice il Vangelo, ma con un pianto confidenziale nella divina misericordia, il quale gli fece conseguire il perdono. Guardiamoci bene da quel dolore cupo, turbolento, smanioso, che agita il cuore, conturba lo spirito, avvilisce, scoraggia, e porta l’anima alla disperazione. Questo è suggerito dallo spirito delle tenebre a nostra rovina. Quello al contrario che viene infuso dallo Spirito Santo è un dolore, che ravviva la fede e conforta l’anima peccatrice con una dolce e filiale fiducia di ottenere dal Padre delle misericordie il perdono ad onta dei propri demeriti; e questo ha veramente una mirabile virtù per renderci propizio il Signore. Afferma S. Agostino, che quando si metteva ai piedi del Crocifisso a piangere i peccati della vita passata, quelle lagrime gli spargevano in cuore un’ineffabile dolcezza, per cui poi si levava tutto consolato e rinvigorito, con una volontà risoluta e generosa di espiar con la penitenza le offese recate a Dio con le gravi sue colpe. Questo è il vero pentimento, che in luogo di trascinarci alla disperazione ci conduce soavemente alla penitenza sicura ed operativa. – Pertanto quand’anche fossimo stati pessimi peccatori, quand’anche avessimo sull’anima tutti i delitti e le iniquità commesse da tutti insieme gli uomini del mondo, non dovremmo avvilirci né scoraggiarci; ma confidare nella misericordia di Dio, che è di gran lunga maggiore perché infinita: confidare nel Sangue di Gesù Cristo, del quale una sola goccia basta a cancellar tutti i peccati del mondo. Guai a chi si abbandona alla disperazione alla vista de’ suoi peccati! Egli con questo reca il massimo degli oltraggi a Dio Padre della misericordia, e a Gesù Cristo che si è sacrificato appunto per la redenzione e salvezza dei poveri peccatori. La disperazione colma la misura delle colpe e rende impossibile il perdono. Umiliamoci adunque innanzi a Dio, detestiamo e piangiamo di vero cuore i nostri peccati ai piedi del Crocifisso, e con gran fiducia preghiamolo per le sue piaghe e per il suo sangue preziosissimo ad aver pietà di noi, ad accordarci il perdono, e stiamo certi che lo otterremo. Che se ancor ci sentissimo inquieti e diffidenti, ricorriamo a Maria, Madre della misericordia, Rifugio dei peccatori, Speranza dei disperati, ed essa c’impetrerà la grazia del vero pentimento, e dietro a questo la remissione di tutti i peccati.
3. Gesù conchiude la parabola dicendo: E il padrone lodò il fattore infedele, perché prudentemente aveva operato: imperocché i figliuoli di questo secolo sono nel loro genere più prudenti dei figliuoli della luce. Ed io dico a voi: Fatevi degli amici per mezzo delle inique ricchezze; affinché, quando veniate a mancare vi diano ricetto nei tabernacoli eterni. Dice adunque Gesù Cristo, che il padrone, saputo quel che aveva fatto con tanta astuzia il suo fattore, prese a lodarlo. E con ciò non vuol dire che fu lodata l’ingiustizia e la frode, ma la sua previdenza, la sua abilità e l’industria, con la quale seppe riparare alla sua ben meritata sventura. – Così pure soggiungendo che i figliuoli del secolo vale a dire coloro che rivolgono tutte le loro cure alle cose presenti senza darsi pensiero della vita avvenire, sono più prudenti dei figliuoli della luce, di coloro cioè che sono illuminati dalla dottrina e dalla grazia di Gesù Cristo per sapere che devono fare per guadagnarsi il cielo, intese di dire che i figliuoli del secolo nel loro genere, quanto alla sollecitudine pei loro interessi temporali, sono più industriosi, che i figliuoli ed amatori del Vangelo per i beni spirituali. Quindi è che, rivolgendosi ai suoi discepoli, finiva dicendo: Per mezzo delle opere buone e specialmente con le opere di carità e di misericordia verso il prossimo attendete a procacciarvi con sicurezza il regno dei cieli. – Ecco adunque, o cari giovani e cari Cristiani, dove dobbiamo spiegare la nostra abilità, la nostra industria, la nostra operosità: nel far del bene, nell’impiegare a prò dei poveri bisognosi le ricchezze, che Dio ci avesse largito, nell’applicarci a ben consigliare, a confortare il nostro prossimo, a cooperare alla sua eterna salute. Perciocché i meriti delle buone opere, che avremo fatte, e le preghiere dei poveri, che avremo sollevati, contribuiranno potentemente ad aprirci le porte del paradiso. Sì quelli, ai quali avrete data limosina in nome di Gesù Cristo, coloro a cui avrete reso servizio per principio di carità, quelli che avrete ricondotti sul buon sentiero, allorché sapranno che siete sul punto di comparire al tribunale di Dio, sia che si trovino ancora su questa terra, e tanto più se già saranno passali alla beata eternità, pregheranno per voi, perché favorevole sia la sentenza, che il divin Giudice dovrà pronunziare per voi. In loppe, città della Siria, quando nella prima età della Chiesa morì la pia donna Tabita, che era la vera madre dei poveri, tutta la città fu in pianto al primo annunzio di quel caso acerbissimo; e poiché si seppe, che poco lontano stava il Principe degli Apostoli, alcuni di quei Cristiani corsero a lui, pregandolo che volesse venire a confortare il popolo desolatissimo di quella perdita, almeno con la sua presenza. Il santo Apostolo ruppe ogni indugio e partì con loro; ma nel mettere piede nella città vide affollarglisi intorno vedove scarmigliate, orfani disciolti in lagrime, poveri d’ogni maniera rotti al singhiozzo; e questi gli mostrava la veste donatagli da Tabita, quegli narrava del pane provvedutogli dalla sua mano; altri ricordava il soccorso venutogli in casa per opera sua, e chi toccava una carità, e chi un’altra, e tutti s’univano ad esclamare con voce unanime: Rendeteci, Uomo di Dio, rendeteci la madre nostra. Non resse l’Apostolo a quelle strida pietose ma, fattosi condurre dove stava ancora il cadavere di Tabita, piegò le ginocchia a terra, alzò le mani al Cielo, fece una breve ma calda preghiera; e poi farsi vicino alla morta, dirle surge, Tabita, ravvivarla e renderla alla folla, che impaziente aspettava il miracolo, non fu che un punto. – Ebbene, quel che fecero i poverelli di loppe con S. Pietro, per gratitudine a Tabita, è quello, che certamente faranno per voi tutte lo persone in qualsiasi modo da voi beneficate. Sì, perché se anche in questa vita dimentiche dei benefizi ricevuti non pregassero per voi, parlerebbero tuttavia in vostro favore le vostre opere di carità, giacché neppur un bicchier d’acqua dato nel nome del Signore sfugge all’occhio onniveggente di Dio; ma senza dubbio alcuno non lascerebbero di pregare per voi nell’altra vita, giungendo al bel Paradiso. A pie’ del trono di Dio, ove dal celeste Retributore riceveranno l’immortale corona, dopo adorata e ringraziata la mano larga con loro di sì gran premio: Benedite, diranno, salvate, o Signore, i nostri pietosi benefattori; secondo la vostra promessa, siate misericordioso con quelli che a noi hanno usato misericordia; retribuite copiosamente coloro che ci hanno fatto del bene per il vostro nome e per la vita eterna. Facciamo adunque, o carissimi, di meritarci avvocati così pietosi e così efficaci presso il trono di Dio, mettendo esattamente in pratica la raccomandazione con la quale Gesù Cristo finisce oggi il Santo Vangelo.
Credo …
Offertorium
Orémus Ps XVII: 28; XVII: 32
Pópulum húmilem salvum fácies, Dómine, et óculos superbórum humiliábis: quóniam quis Deus præter te, Dómine? [Tu, o Signore, salverai l’umile popolo e umilierai gli occhi dei superbi, poiché chi è Dio all’infuori di Te, o Signore?]
Secreta
Súscipe, quǽsumus, Dómine, múnera, quæ tibi de tua largitáte deférimus: ut hæc sacrosáncta mystéria, grátiæ tuæ operánte virtúte, et præséntis vitæ nos conversatióne sanctíficent, et ad gáudia sempitérna perdúcant. [Gradisci, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che noi, partecipi dell’abbondanza dei tuoi beni, Ti offriamo, affinché questi sacrosanti misteri, per opera della tua grazia, ci santífichino nella pratica della vita presente e ci conducano ai gaudii sempiterni.]
Communio
Ps XXXIII: 9 Gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus: beátus vir, qui sperat in eo. [Gustate e vedete quanto soave è il Signore: beato l’uomo che spera in Lui.]
Postcommunio
Orémus.
Sit nobis, Dómine, reparátio mentis et córporis cæléste mystérium: ut, cujus exséquimur cultum, sentiámus efféctum. [O Signore, che questo celeste mistero giovi al rinnovamento dello spirito e del corpo, affinché di ciò che celebriamo sentiamo l’effetto.]
Per l’ordinario vedi:
ORDINARIO DELLA MESSA – ExsurgatDeus.org