LE BEATITUDINI EVANGELICHE (2A)
[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]
CAPO SECONDO
“Beati mites: quoniam ipsi possidebunt terram”
[Beati i miti perché possederanno la terra]
I.
I FASTI DELL’IRACONDIA
L’opposto della mitezza è l’iracondia. È questa una passione d’una singolare efficacia di male. Essa pervertì l’uomo da principio in Caino e lo va sempre sospingendo alla dissoluzione. Forza tutte le condizioni della vita. La sua nascita è dovuta all’orgoglio, che trascina con sé le potenze dello spirito e le travolge nella esasperazione. L’iracondia è appunto una dominante espressione dell’orgoglio. Essa in vero non ha tale potere da affascinare, perché appare troppo repulsiva e fa piuttosto paura. Inamida anche i più validi e in ogni caso desta repugnanza. Il collerico con la sua stessa figura, rosso, congestionato, irragionevole, trasfigurato da una violenta contrazione dei muscoli, senza controllo sulle parole, travolto come un fuscello da una corrente impetuosa, appare come in balìa d’una furia infernale. Se pensi a Saulle eccitato contro il giovine Davide, mentre gli si avventa contro e tenta di configgerlo alla parete, hai una idea della terribile irragionevolezza dell’iracondo e delle conseguenze indeprecabili di un suo gesto. „ È uno stato d’aberrazione. L’uomo si vela, e lascia in azione, fuor dell’occhio della ragione gli impulsi più ciechi e impetuosi della bestia. Penso ad Erode, dopo d’aver rilevato l’accortezza con cui i Magi lo elusero. Come sarebbero tornati da lui, mentre avevano letto nel suo occhio il sinistro intento della sua malvagità? Anziché recarsi a riferirgli della reale esistenza del Bambino dalla maestà divina nelle semplici e comune apparenze, tornarono « per aliam viam in regionem suam ». È il suo atteggiamento un fenomeno di oscura bestialità. Un bambino avrebbe forse potuto aver modo di danneggiarlo, mentre egli era già tanto avanti negli anni? Nondimeno l’iroso orgoglio lo ha così sospinto ad un gesto estremamente crudele. Divenne nei secoli l’emblema della crudeltà insana. L’iracondia falsa la visione della vita e dei suoi sviluppi. Presenta alla sua vittima lineamenti assurdi, possibilità impensabili, concretezze irreali. Le sue determinazioni rivestono qualcosa di inumano e di infernale. Infatti sovente egli si abbatte in una crisi d’incapacità tormentosa e disperata. Piange, bestemmia, fa bava alla bocca, si percuote il capo, agita in alto i pugni stretti a maledire. Pare voglia scagliarsi verso un potere superiore, contro cui non ha armi sufficienti. Gli si presentano le cose e le persone come nemiche, come forze insidiose e minaccianti. Anziché studiare le circostanze con intendimento sereno, per risolvere che cosa sia da fare, si lascia trasportare dall’impeto della passione e dal dispetto. Ogni disastrosa risoluzione è dunque possibile.
CONDIZIONE PIETOSA
Non sarà mai « beato » l’iracondo. Rodersi dentro, come avvelenato da una vena di tossico insopprimibile, è il suo destino. Se non intervenga un fattore nuovo ed efficace a sedare, a placare, a comunicare al « paziente » il senso della realtà. Perciò è necessario, che accanto al soggetto dell’ira si trovi una persona amabile e serena, che col contegno, con la parca e rada parola, con lo sguardo dolce e comprensivo si faccia interprete dei sentimenti di umanità e di ragione, che paiono in lui offuscati dalla effervescenza di umori maligni. « Sol non occidat super iracundiam vestram — il sole non scenda all’occidente sulla vostra iracondia » (Ephes., IV, 26) scrisse San Paolo. Voleva dire di aprirle le valvole dello spirito, perché subito sfumi e dilegui. E l’avvelenamento venga evitato. Si chiuda ogni giornata in un gesto di largo perdono e nel riconoscimento della propria fragilità. Questo umile atto smorza rapidamente l’esaltazione dell’ira e versa olio di pace nello spirito. A che cosa può servire l’odio di cui l’irascibilità è sorgente? Forse potenzia la facoltà dell’animo? Forse accresce il sentimento del valore personale? O conferisce un tono di serietà e di forza all’individuo? Né l’iracondia né l’odio giovano in nessuna misura e in nessun senso. Abbiamo già visto come essa falsi la visione vera della vita. Ne accentua anzi le asperità e i disagi. Fa da lente d’ingrandimento di tutte le più piccole beghe tra vicini e tra lontani. È un elemento corrosivo dei rapporti sociali e familiari. Quando tra coniugi entra, gli spiriti si inacerbiscono e si scontrano sovente nella intolleranza reciproca. Non si crede più alla sincerità delia buona parola, del servigio amorevole. Tutto viene interpretato in senso avverso. Il sospetto tenace vigila a contraffare le apparenze della maggiore semplicità e a trasformarle in ipocrita doppiezza. Le facoltà dell’animo anziché potenziarsi, attraverso l’iracondia piuttosto si deformano e si caricano d’acredine. Un campo invaso dalla gragnuola, è diventato l’animo; un terreno minato da mine sotterranee ad alta potenza; un ambiente infestato da esalazioni micidiali. L’iracondo ha smarrito ogni potere di dominio, ogni capacità sedativa sulle proprie facoltà, avendone perduto il controllo.
MENTECATTO
Neanche può accrescere il valore intimo della persona. Se durante lo scoppio dell’ira può accadere, che la coscienza esaltata si creda corroborata e irrobustita dal gesto violento e dalla parola acre e aggressiva, è cosa che dura brevemente; presto avverte la debolezza della sua posizione morale in faccia a chi lo ha sorpreso in codesto atteggiamento. Chi è così eccitato non è un forte, ma appunto per debolezza trovasi privo di poteri inibitori, di valida vigilanza su di sé, di consapevolezza e di sufficiente luce circa la sua condizione. È un vero deficiente, un mutilato delle facoltà spirituali. Nessun potenziamento quindi della personalità. Ed è infine falso e illusorio il ritenersi forte, perché s’è molto violentemente alzata la voce. Piuttosto diremo, che questa è la strada dello svalutamento d’ogni concetto di forza. Né il rispetto dei prossimi può persistere. Un individuo privo di vigilanza su di sé riesce sommamente pericoloso. Ognuno lo guarda con timore e lo accosta con estrema prudenza, ogni qualvolta gli sia imposto di farlo. Più si è lontano dai violenti, meglio si sta. Ogni sorpresa è possibile e si sente da lungi il pericolo, come quello del tuono, che brontola a distanza prima di scatenarsi nell’uragano. Nella famiglia l’ira è proprio l’uragano, che annulla ogni vitalità dello spirito. Ho sentito una bambina pregare il Signore Gesù, per invocare di poter vivere senza litigi in casa. La piccola era dilaniata dal continuo abbaiare dell’ira dell’uno contro l’altro genitore. E parlava con tale accoramento da commuovere. L’uomo non sa tollerar nessuna deficienza nel suo conforto; la donna, anziché impegnarsi ad attendere meglio al dovere della casa e alla conquista dell’anima di lui, troppo pronta sempre al cicaleggio, alla critica, riprende l’alterco, esasperando di continuo il marito, il quale avrebbe bisogno invece di silenzio rispettoso e paziente. L’attrito di due corpi duri provoca l’accensione della scintilla. « Vere stultum interfecit iracundia » (Giob., V, 2). Infatti estingue intorno la vita, le opere, il pensiero. Crea lo squilibrio tra le facoltà e nei rapporti con gli uomini. Odioso e solitario. Un reprobo già quaggiù.
II.
LE RADICI MORALI DELL’IRASCIBILITÀ
LA NOBILTÀ DEL CRISTIANO
È chiaro, che una sorgente dell’ira sia nel temperamento sortito da natura. Temperamenti sanguigni sono portati alla insofferenza delle contradizioni. Ma quando questo diventa con gli anni consapevole inclinazione, è dovere di ognuno di opporsi a contrastarne l’avanzata. – Essa è uno stato d’animo avverso al comandamento di Dio e alle esigenze della vita morale e sociale. Occorre sentire fortemente il diritto dei prossimi al rispetto. Ciascuno deve riconoscere al suo vicino la naturale dignità e quella stima, proporzionata alla umana natura e al carattere di cristiano, nobilitato dai doni carismatici. – Questa dignità dobbiamo onorarla in noi stessi, per apprezzarla negli altri. Quanto più ne avvertiamo nella nostra vita spirituale il pregio, tanto meglio abituiamo il sentimento a scorgerne il valore nei nostri simili. Ed è, per verità, una elevazione grande. Siamo fratelli di Cristo, siamo vocati alla eredità del cielo, siamo incaricati di missione di bene fra i prossimi di quaggiù. Abbiamo in noi la « grazia », che ci dà il passo libero verso la intimità con Dio, nella sua stessa vita di mistero. – Siamo membri riconosciuti e dotati del Corpo mistico del Signore. Circola nel nostro spirito una linfa soprannaturale di santità. Ogni azione compiuta in tale stato è azione dell’uomo e di Dio, ci mette in contatto più diritto con Lui e ci fa collaboratori della sua redenzione quotidiana fra i nostri prossimi. Come sottovalutare in noi tale patrimonio di beni e di compiti sarebbe segno di imperdonabile incomprensione; così lo spregiarlo nei nostri vicini è cecità e colpa. L’iracondo alimenta in sé questo disprezzo e lo fa norma di condotta. Ma l’esperienza ci dice pure ogni giorno quanto sia errata questa concezione della vita sociale. Superato l’attimo dell’accecamento, subito lo spirito, appena vigile e osservatore, avverte l’errore di valutazione e sovente la virtù del prossimo umiliato raggia e si impone. Forse questi difetterà di prontezza del reagire e si chiuderà in un riserbo dignitoso. Forse non vorrà prendere una risoluzione, e lascerà che la passione sbolla e il giusto giudizio subentri. Forse reagirà con la misura di chi è consapevole della debolezza umana e compatirà quella colpa. Se poi la sua reazione fosse dura, più che virtuosa, sovente l’orgoglio dell’iracondo s’impennerebbe sino alla violenza brutale; in tal caso la responsabilità appare palese essendo vera provocazione. Comunque si risolva l’urto, la inferiorità del colpevole è visibile in forme umilianti a lui stesso, e voglia Dio, che questa constatazione lo porti a decidere risolutamente di rivedere la propria posizione morale per correggerla e migliorare nel senso della cristiana mitezza.
DOVERI DI RICONOSCERLA
Ma anche la buona volontà sovente incontra intimi ostacoli; trova l’opposizione nella suscettibilità acuta, sensibile sino alla esasperazione. Ci sono nature, che al minimo urto balzano come belve ferite. Non sanno tollerare né un rimprovero, né una calma osservazione, né l’ombra di un dissenso. Educati male, contentati in ogni capriccio, secondati in tutti i desideri, in casa, da una famiglia che li adorava, non sanno poi vivere in società, dove questa idolatria non c’è. La sensibilità deve durare sforzi notevoli ad attutirsi. La buona volontà non basta; occorre correggere la stessa concezione della vita e metterla a punto con la realtà del suo valore. Occorre rifarsi al senso di fraternità cristiana, che l’educazione della famiglia ha forse lasciato un po’ in penombra, come di mediocre peso. Soltanto quando uno pensa e guarda al fratello con questo sentimento, è in grado di reprimere e di dominare gli impulsi dell’intolleranza iraconda. Quando Gesù Signore inculcò agli uomini il concetto della divina paternità e del legame, che vincola ogni uomo come fratello d’una unica immensa famiglia, offerse loro e a tutta l’umanità avvenire l’ancora di salvezza contro le insidie della barbarie. In vero osserviamo nella storia come i periodi di maggior progredimento civile sono quelli che coincidono con lo sviluppo di codesto concetto cristiano. E i popoli, che per orgoglio e per istinto indomato, si lasciano trascinare alla ammirazione del mondo umano antecedente a Cristo, impongono alla umana società un vero e palese regredimento. Ritorna l’« homo homini lupus ».
AMARCI
Se non che i compiti della nostra esistenza sono diversi. Una famiglia in cui si elevi la lite a metodo abituale e riconosciuto di convivenza non potrà produrre gran che. Se il litigio s’aggrava in lotta, sia pure soltanto nei tribunali, allora tutt’altro che produrre, consumerà la sua sostanza, il suo tempo, il suo pensare, le riserve di energia, con la distruzione del più ampio patrimonio. Del pari deve dirsi di una nazione. Le grandi opere di pensiero, le opere d’arte immortali, i vari periodi di scoperta e di creazione, non sono quelli dei rivolgimenti sociali e delle devastazioni guerresche. L’uomo per creare abbisogna di tranquillità d’animo, di serenità di spirito. Deve poter guardare avanti a sé con sicurezza del suo domani. Non fummo creati da Dio per angustiarci. Né in casa, né nella vita sociale. Tutti abbiamo doni da mettere a profitto dei nostri simili; tutti abbiamo bisogno di altri. Ciascuno deve dare e ha diritto di ricevere. La vita è congegnata così, che la solidarietà domini e guidi pensieri ed azioni. Le colpe degli uni o degli altri non servono da pretesto per spezzare i vincoli di questa provvida legge. Gli uomini hanno via via creato i tribunali per evitare i conflitti intestini; e le nazioni devono pure piegarsi al giudizio del giusto esame. La civiltà viene pertanto costruendosi sulla concordia; la quale ha un aiuto sommamente valido nella concezione della cristiana fraternità; questa poi nella virtù della mitezza, cara al Signore, che venne a vivere fra noi come uno di noi. – Marco Aurelio ha basato su altri principi le sue conclusioni, che mirano ad esaltare la medesima virtù rivelata da Cristo. « Lo sdegno che si dipinge sul tuo volto è cosa contro natura; e, se vi ritorna spesso, è causa che se ne alteri la bellezza, e che questa alfine si estingua del tutto. Da ciò appunto io mi sforzo a concludere, che l’ira è contro ragione; poiché, se si perde la coscienza della propria colpa, a che vivere ancora? » (VII, 24). – Si può riacquistarla per mezzo della accentuazione della luce divina, rivelata appunto per sovvenire alla nostra incapacità. Si riconosca la colpa, non soltanto per sensibilità diretta, ma altresì per la evidente indicazione morale della regola del Signore. « Non iràsceris »; e allora la bellezza torna sul volto e nella vita.