PERFEZIONE CRISTIANA (1)

PERFEZIONE CRISTIANA (1)

[G. B. Scaramelli S. J.: DIRETTORIO ASCETICO, vol. Primo, Tipogr. e libr. Speirani e Tortone – Torino, 1855

ARTICOLO II

Il primo mezzo per l’acquisto della perfezione cristiana deve essere il desiderarla, né mai rallentarsi in tali desideri, ma distenderli sempre a maggior perfezione. Si propongono i motivi con cui risvegliare ed accrescere tali desideri.

CAPO PRIMO.

Si mostra che il desiderio della perfezione cristiana è mezzo necessarissimo per acquistarla.

43. Dice s. Agostino, che la vita d’un buon Cristiano è un continuo desiderio della sua perfezione (Tract. 14 in 1 epis. Ioan.): perché s’egli non nutrisse sempre nel cuore queste sante brame, sarebbe bensì Cristiano, ma non già buon Cristiano. Conciossiachè i desiderii, come insegna l’Angelico, sono quelli che dispongono i nostri animi e gli rendono abili e apparecchiati a ricevere quel bene che è loro proporzionato (p. 4, qu. 42, art. 6 in corp.). E però siccome non vi fu mai uomo nel mondo che conseguisse la perfezione di alcun’arte, o sia meccanica, o liberale, se prima non bramò efficacemente di conseguirla, così non vi fu né vi sarà mai nella chiesa di Dio alcun fedele che arrivi a possedere la perfezione cristiana, se non brami con grande ardore di acquistarla.

44. Ma per penetrare al vivo una verità sì importante, ci fa d’uopo indagarne la ragione che ce la persuada. I desideri verso i beni spirituali, dice il dianzi citato dottore, in due luoghi hanno la loro sede e quasi vi fanno la loro residenza: nella parte razionale e superiore dell’ uomo in cui nascono, e nella parte brutale ed inferiore dell’istesso in cui talvolta per una certa ridondanza traboccano e l’accendono verso quei santi oggetti, acciocché anche il corpo si colleghi con lo spirito in promuovere i suoi spirituali avanzamenti (1, 2, qu. 30, art. 1 ad 1). I desideri santi quando si svegliano nella parte superiore e ragionevole, altro non sono che un moto affettuoso della volontà verso quei beni spirituali che ancora non si posseggono, ma si conoscono possibili a possedersi. Osservi bene il lettore queste parole, se vuole fare una esatta anatomia di tali desideri. Dissi che il desiderio riguarda sempre quei beni che non si possiedono; perché i beni già acquistati non cagionano brama nella nostra volontà, ma bensì allegrezza, contento e gaudio. Così un ambizioso quando giunga ad impossessarsi della dignità e degli onori non li desidera più, ma in essi giubila e gode. Dissi che il desiderio ha sempre per oggetto i beni possibili a possedersi; perché il bene impossibile ad aversi non muove al desiderio, ma alla disperazione. Così un viandante che è premuroso di arrivare prestamente alla sua patria, desidera di avere agilità ai piedi, ma non già ali alle spalle; perché quella è possibile, ma queste sono impossibili ad acquistarsi.

45. Fermiamoci ora un momento su questa dottrina, giacché è efficacissima a dimostrare la verità del nostro assunto. Abbiamo detto che il desiderio è un moto della volontà verso un bene possibile e convenevole per raggiungerlo ed impossessarsene. Se dunque il Cristiano non desidera la perfezione, è certo che la di lui volontà non si muove con alcun atto affettuoso verso di essa per abbracciarla e farla sua; ma sta ferma, sta pigra, sta lenta, sta immobile: come dunque è possibile che possa conseguirla? Può giungere alla meta un corridore che non si muove dalle mosse? Come dunque potrà giungere alla perfezione una volontà che verso lei non si muove con i suoi atti per arrivarvi? Tanto più che la perfezione cristiana è un bene arduo, e non si ottiene senonché per mezzi difficili, tutti liberi ed elettivi e dipendenti dall’arbitrio della volontà. Sicché non movendosi punto una volontà spogliata di desideri, né punto piegandosi verso l’acquisto della perfezione, come potrà superare quell’arduo? come potrà eleggere con fortezza e perseveranza quei mezzi tanto malagevoli?

46. Questi desideri poi quando dalla parte superiore traboccano nella parte inferiore, sono certi effetti sensibili, sono certe passioni sante, che tendono al possedimento di quegl’istessi beni spirituali, a cui già la volontà con i suoi atti aspira. Ed è incredibile quanto conferiscano ai progressi nella perfezione questi desideri sensibili: perché dilatano l’appetito sensitivo, animano la volontà, la confortano, la corroborano e quasi distendono i sensi dell’anima e la rendono capace di grandi beni. Spiega questo s. Agostino con una ben acconcia similitudine: che siccome dovendo alcuno ricevere gran quantità di roba, dilata i seni del sacco, o dell’otre, per renderli più capaci al ricevimento di tali cose; così i desideri dilatano ed amplificano i seni dello spirito e lo rendono abile ad accogliere in se stesso grandi beni spirituali. Ed arreca l’esempio di s. Paolo, il quale dice, che dimenticandosi del passato, distendeva se stesso con le sue brame, per rendersi capace a ricevere quella perfezione ulteriore che gli restava da acquistare (Tract. 4 in 4 epist. Ioan.). Quindi deduce il s. dottore che tutta la vita del Cristiano ha da essere un continuo esercizio di virtù per mezzo dei santi desideri Ma se tutto questo è vero, che progressi potranno sperarsi nella perfezione da chi non la desidera: mentre con la parte superiore dell’anima punto non si muove in verso essa e con la parte inferiore punto non si accende: nella volontà è lento e rimesso: nell’appetito sensitivo sta stretto e chiuso : in somma non la cura, non l’apprezza e ne vive affatto dimentico? Certamente è tanto impossibile ch’egli dia un passo nella via della perfezione, quanto è impossibile che cammini verso il termine chi non si muove. Veda dunque il direttore che questi desideri hanno da essere la prima pietra ch’egli ha da gettare nell’anima dei penitenti, in cui vuol ergere il bell’edifizio della cristiana perfezione. Questa ha da essere la semenza di quell’albero che ha da produrre frutti d’ogni virtù, e soprattutto il pomo d’oro della divina carità. Senza questa pietra fondamentale, senza questo seme fecondo, è stoltezza il pensare ch’egli possa conseguire il suo intento.

47. Mi sia testimonio di ciò quel giovane seguace del mondo e delle sue vanità, che ferito altamente da Dio nel cuore col dardo d’una veemente ispirazione, si accese tanto in desiderio della sua eterna salute e della sua perfezione, che tosto risolse di consacrarsi tutto a Dio in uno di quei monasteri, che allora tra luoghi ermi e solitari fiorivano in santità. L’impedimento maggiore che si attraversasse all’esecuzione dei suoi santi desideri, non furono le ricchezze, gli onori, i piaceri e le vanità mondane; giacché reso robusto dalla forza delle sue fervide brame, subito calpestò tutte queste cose con gran coraggio. L’ostacolo maggiore fu la madre con le sue lusinghe e con le sue preghiere. I primi assalti che questa gli diede furon le lagrime, e dopo le lagrime furono alcune parole interrotte dal pianto. Dunque, dicevagli, tu mi vuoi abbandonare in questa età cadente? vuoi che io muoia scontenta? No, ripigliava il giovane, io non voglio le vostre scontentezze, né la vostra morte; solamente volo salvare animam meam: voglio salvare quest’anima. E che? soggiungeva la madre: non puoi forse salvarla nel secolo? non puoi forse salvarla vivendo cristianamente nella tua casa? Si, rispondeva il figliuolo, ma io voglio salvarla con sicurezza, e però me ne voglio ire tra i deserti e tra le solitudini a menare vita perfetta e santa. Dunque, ripigliava l’afflitta genitrice, saranno per me perduti tanti stenti con cui ti ho condotto a questa età e a questo stato: perdute le sollecitudini, i patimenti, le cure, e me ne rimarrò qui sola a piangere la mia sventura? Non occorre altro, rispondeva il figliuolo: volo salvare animam meam. Datevi pace, mia madre, mi è entrato nel cuore un desiderio sì vivo della mia salute e della mia perfezione a cui non posso resistere: devo eseguirlo. Con questa massima sostenuta costantemente espugnò il cuore della madre, e pieno di grandi brame di perfezione se ne volò al monastero. Quivi giunto, si diede con gran fervore di spirito alle penitenze, alla mortificazione, all’orazione ed all’esercizio di tutte le virtù religiose. Ma che? non so come questi suoi gran desideri cominciarono a poco a poco a rallentarsi, poi a rattiepidirsi, e poi a cangiarsi in un vero raffreddamento. Sicché quello che prima spiccava su le ali dei suoi desideri voli sublimi fin su le porte del paradiso, oppresso poi ed abbattuto dalla sua gran freddezza, era già caduto fin su la porta dell’inferno, dentro cui sarebbe sicuramente precipitato, se la madre non veniva dal cielo a riaccendergli nel cuore le antiche brame. Posciachè trovandosi l’infelice monaco oppresso da grave infermità, fu portato in ispirito al tribunale di Dio, dove insieme con altri che vi dovevano essere giudicati, trovò anche la sua genitrice, hi vederlo, questa gli disse: e cosa è questa che io rimiro, o figliuolo? anche tu sei venuto in questo luogo reo di eterna condannazione? e dove sono quei santi desideri di salvar l’anima e di salvarla con sicurezza tra i rigori dei chiostri (in lib. doct. PP. lib. de comp., n. 5)? Questa riprensione della madre gli fece una sì grande impressione, che ritornato in sé e riavutosi della sua infermità, si chiuse in una piccolacella, e senza mai più partirne, altro non fece in tutto il residuo della sua vita che piangere li suoi passati errori; Si avverta in questo avvenimento la gran forza che hanno i desideri santi di distaccarci da tutto ciò che digradevole può darci il mondo, e di portarci alla cima della più alta perfezione; ed all’opposto quanto poco possiamo trovandoci privi di tali brame. La madre istessa di quel monaco traviato altro modo non trovò per ridurlo su la strada della perfezione, anzi della salute, che ravvivargli nel cuore i suoi antichi desideri, con rimetterglieli nuovamente alla mente. Dunque di qui incominci il direttore il suo lavoro spirituale nelle anime che vuol perfezionare, ricordandosi sempre delle parole di s. Agostino: che la vita d’un perfetto Cristiano altro non è, che con la spinta dei desiderii andare avanti nell’esercizio delle virtù.

CAPO II.

Primo motivo per risvegliare i detti desideri di perfezionesia l’obbligo che tutti hanno di procurarla.

48. Il motivo più potente di cui deve valersi il direttore per scuotere la tiepidezza di alcuni fedeli, che contenti di non commettere colpe gravi, nulla si curano di migliorare la propria vita, è certamente il rappresentare loro l’obbligo che Iddio impone a ciascuno di attendere alla perfezione del proprio stato. Gesù Cristo parla chiaro in questo particolare, e parla a tutti. C’impone il Redentore d’esser perfetti, e ci propone per idea della perfezione, a cui dobbiamo agognare, I’istessa perfezione del  suo eterno genitore (Estote ergo perfecti, sicut et Pater vester cœlestis perfectus est (Matth. cap. V, 48). S. Giacomo apostolo vuole che siamo interamente perfetti e in niuna cosa difettosi (Patientia opus perfectum habet, ut sitis perfecti, et inlegri, in nullo deficientes (Epist. c. I, 4). S. Paolo ci ordina a star sempre armati contro gli assalti dei nostri nemici e di essere in tutte le cose perfetti “Accipite armaturam Dei, ut possitis resistere in die malo, et in omnibus perfecti stare” (ad Ephes. cap. VI, 5 ). Lo stesso Apostolo non contento che siamo perfetti nella nostra volontà, vuole che tali siamo anche nell’intelletto, conformandolo agli altrui sentimenti con isfuggire la diversità dei pareri “Obsecro autem vos, per nomen Domini nostri Iesu Christi, ut idipsum dicatis omnes, et non sint in vobis schismata: sitis autem perfecti in eodem sensu, et in eadem sententia (I ad Cor. cap. I, 10). Sicché non si può dubitare che siamo tutti tenuti a procurare quella perfezione che è più confacevole alla nostra condizione.

49. Ma perché secondo il diverso stato delle persone, diversa è la perfezione che deve  da loro praticarsi, il direttore per procedere discretamente e con la debita rettitudine, bisogna che distingua tra i penitenti che sono religiosi, consacrati a Dio coi santi voti, e tra i penitenti che sono secolari, liberi e padroni di se stessi; onde non aggravi alcuno più del dovere, né esima alcuno dalle obbligazioni che sono loro proprie. Se sia religioso il suo penitente, deve spesso rammentargli quella dottrina dell’Angelico, ricevuta dal comune de’ teologi, che sebbene non è egli obbligato ad essere perfetto, è però tenuto con obbligo di peccato grave, di tendere e di aspirare alla perfezione. Deve significargli, che essendosi egli dedicato alla religione con la solenne professione, e a guisa di un garzoncello entrato nella bottega d’un legnaiolo o di un fabbro per apprendervi l’arte, perché siccome questo benché non sia tenuto ad operare perfettamente le manifatture o del legno o del ferro, è però obbligato a perfezionarsi nella sua arte, e quantunque non sia degno di riprensione per qualche sbaglio che commetta nei suoi lavori, sarebbe però di riprensione e di castigo se non andasse emendando e non gli andasse ogni giorno più migliorando; così esso non sarà avanti a Dio degno di riprensione. se non sarà perfetto; poiché la religione, in cui è entrato, non è un’adunanza di persone perfette, ma è scuola di perfezione; ma sarà gravemente reo e meritevole di castigo se non attenderà alla perfezione a cui con la professione religiosa si è obbligato, e non andrà correggendo e perfezionando la sua vita per quei mezzi che gli sono dalla sua religione prescritti (2, 2, quæst. 168, art. 2, in corp.). Qui vanno a ferire quelle pesantissime parole scrive ad Eliodoro, il quale, abbandonata la milizia, erasi fatto monaco e dedicato a Dio coi santi voti: Eliodoro, ricordati che hai promesso a Dio di esser perfetto. Quando tu, abbandonata la milizia terrena, giurasti nelmonastero perpetua castità, mosso dal desiderio della celeste patria, che altro facesti, che professare avanti Dio una vita perfetta? Ma avverti che un servo perfetto di Gesù Cristo altro non ha nel cuore che Cristo; o se altro vi ha, non è servo perfetto di Gesù Cristo. E se non è perfetto, avendo promesso d’esserlo, è egli appresso Iddio un mentitore, ed è già morto presso gli occhi suoi(in Epist. ad Eliod.). Si avverta però che Girolamo (come nota il Suarez su questa parola) non pretende di dire che Eliodoro dovesse esser già in pieno possesso di quella fina perfezione che egli gli esprime nella sua lettera, ma solo che fosse tenuto ad aspirarvi coi desideri ed a sforzarsi di conseguirla con le opere. Contuttociò sono parole molto significanti da mettere in grande apprensione qualunque religioso lento, tiepido e trascurato nel divino servizio.

50. Quindi si deduce in primo luogo, che ogni religioso è obbligato con grave obbligazione alla osservanza dei tre voti: povertà, castità ed obbedienza, che sono appunto quei consigli, che ci ha dati Gesù Cristo nel santo Vangelo, e che egli ha già abbracciati con solenne voto per giungere alla perfezione “Si vis perfectus esse, vade, et vende omnia quae habes et da pauperibus et sequere me“. In secondo luogo, che egli è gravemente tenuto all’osservanza delle sue regole, che sono i mezzi con cui nella professione, che ha fatto nella sua Religione, si è obbligato di tendere alla perfezione. Così insegna s. Tommaso: il religioso non è tenuto a tutte quelle pratiche ed esercizi spirituali, per cui si può andare alla perfezione, ma solo a quelli che gli sono tassati dalla regola in cui ha professato (2, 2, quæst. 186, art. 2 in corp.)..

51. E qui sentirà il direttore darsi subito quella risposta, da cui tanti religiosi pigliano ansa di vivere rilassatamene, cioè che la sua regola non obbliga ad alcun peccato. A questo replichi egli con s. Tommaso, che sebbene nella trasgressione di questa o quella regola, che non è di precetto, ma di mero consiglio, non si contenga colpa mortale, se ciò si faccia per condescendere a qualche sua passioncella, o per dar qualche pascolo all’amor proprio avido di libertà ed alieno da ogni strettezza e mortificazione (sebbene in tali casi il religioso inosservante non va esente da peccato veniale a cagione pone dei motivi non retti e irragionevoli da cui si muove a contravvenire alle sue regole); contuttociò se tali trasgressioni si facciano con disprezzo delle regole, si commette peccato grave: perché, come dice s. Gaetano, nel dispregio delle regole v’è un dispregio interpretativo di Dio, che in modo speciale le ispirò ai santi legislatori, da cui furono promulgate alle loro religiose famiglie. Questo disprezzo poi, dice il sopraccitato santo dottore, consiste in questo, che il religioso non voglia soggettarsi a qualche regola, e quindi passi avanti a trasgredirla con isfrenatezza e con baldanza (in resp. ad 3). Lo stesso dice s. Bonaventura (In Pharet. lib. 2, cap. 44). Lo stesso afferma S. Bernardo  (In lib. de praecept. et disp. et in costitut.), specialmente nelle sue costituzioni. E qui si osservi che l’Angelico, dopo aver detto che le particolari trasgressioni di certe regole non obbliganti, fatte senza formale dispregio, non racchiudono in se stesse peccato grave, soggiunse subito, che tali inosservanze se siano fatte frequentemente, portano a poco a poco il religioso ad un vero disprezzo delle sue regole ed alla colpa mortale, e per conseguenza anche alla eterna ruina. Si osservi ancora, che sebbene violando la persona religiosa or questa, or quella regola, per condiscendere alle sue imperfette inclinazioni, sia scusato da peccato mortale, qualunque volta l’inosservanza non passi in positivo dispregio; contuttociò è egli tenuto gravemente di avere, in generale almeno, animo e volontà risoluta di osservar le sue regole, perché essendosi nella sua professione obbligalo a procurare quella perfezione, che è propria del suo istituto, si è obbligato ancora a praticare quei mezzi che sono necessari per ottenerla; quali per lui altri certamente non sono che le sue regole. Quest’obbligo dunque di tendere alla perfezione, con l’osservanza dei voti e delle regole, intuoni spesso il direttore alle orecchie del suo penitente o della sua penitente religiosa; perché questo solo (se pure in essi è rimasto alcun vestigio di santo timore) basterà per destare loro nel cuore desideri di perfezione e premure di conseguirla; il che allora faccia più volentieri, quando gli veda tiepidi, rimessi e languidi nel divino servizio.

52. Ma se poi il penitente sarà secolare, qual obbligazione gli si avrà da imporre? Si assicuri il direttore che con questi avrà molto più da penare che con le persone religiose per rimuoverli dalla loro freddezza; poiché i secolari hanno una stolta persuasione, che la perfezione sia cosa propria di religiosi e di monache, e che ad essi punto non si appartenga; che ad essi basti osservare i precetti di Dio e di santa Chiesa alla grossa, in quanto alla loro sostanza, e con questo solo credono di aver adempiti i loro doveri. Anzi si avanzano taluni fino a dileggiare quei secolari devoti che frequentano Sacramenti, orazioni e chiese, che si esercitano in opere di carità verso il prossimo, che procedono con la debita ritiratezza e modestia, chiamandoli col titolo di collitorti, di bacchettoni, di beate, di sante, di pinzochere, e con altre simili parole di scherno indegne a proferirsi da una lingua cristiana che professa e venera la dottrina di Cristo. Or questi hanno bisogno d’essere istruiti e tolti da un inganno si pernicioso. A questo fine domandi loro cosa intendono per questa parola perfezione cristiana. – Se essi rispondono, che intendono significarsi quella perfezione più alta e più ardua che si racchiude nei tre consigli evangelici, povertà, castità ed obbedienza, essi hanno ragione di esimersi da una tal perfezione; perché non essendo da Dio chiamati alla Religione, non sono obbligati a spogliarsi delle loro facoltà, a rinunziare al matrimonio, a menar vita celibe e continente, ed a soggettarsi spontaneamente all’obbedienza d’alcun superiore che li regoli in tutte le loro azioni. Ma se poi per questo vocabolo di perfezione cristiana intendono altri consigli, e specialmente alcuni precetti circa materie leggiere che sono stati da Dio imposti a tutta l’universalità dei fedeli, per es., vivere distaccati dalla roba e da denari ancorché si possedano, e farne buon uso: impiegandone parte in elemosine o in coseche riguardano il divin culto; fuggire non solo i diletti illeciti, ma ancor le occasioni e gl’incentivi non solo prossimi, ma ancor remoti che lusingano e allettano gl’incauti a tali piaceri, con la debita ritiratezza, modestia e circospezione in conversare; soggettarsi ad un padre spirituale circa l’interno regolamento della scienza: dispregiare le vanità, le pompe, il fasto e la superbia mondana, e se il proprio stato esiga un decoroso trattamento, mantenere tra lo splendore del portamento esteriore la depressione interna del cuore e l’umiltà sì propria d’un seguace di Cristo; soffrire pazientemente le ingiurie, le avversità ed i travagli; amar gl’inimici, astenendosi non solo da ogni atto interno di risentimento, ma anche da ogni segno esterno di ostilità; mortificare le proprie passioni e non dar loro sfoghi irragionevoli; astenersi da peccati veniali, massime se siano deliberati; frequentare i Santissimi Sacramenti: orare spesso; andar riflettendo su le massime di nostra fede, che hanno tanta forza di raffrenarli, e di far si che procedano con cautela tra i tanti pericoli in cui vivono; e fare mille altre cose  che sono da Dio comandate, benché la loro trasgressione, a cagione della materia leggiera, non partorisca nelle anime colpa grave, o sono da Dio consigliate: perché sono cose, senza cui è moralmente impossibile vivere morigeratamente: se essi, dico, per questa voce perfezione cristiana, intendano tali cose, e poi dicano di non essere tenuti ad eseguirle, perché sono secolari che vivono in mezzo al mondo, s’ingannano grandemente; perché ad una tal perfezione sono obbligati tutti quelli che si vantano del nome cristiano. Sentano come parla su questo punto s. Tommaso, dopo averlo esaminalo con tutto il rigore della scuola: tutti, tanto i religiosi quanto i secolari, sono obbligati a fare in qualche modo, secondo le leggi della discrezione, tutto il bene che possono, perché a tutti ciò è imposto dall’Ecclesiastico; v’è però il modo di adempiere questo precetto e di sfuggire il peccato, cioè facendo ciascuno discretamente quel bene che può secondo la condizione del suo stato, e guardandosi di non dispregiare il ben maggiore che potrebbe farsi, acciocché l’anima non ponga ostacolo agli avanzamenti dello spirito (2, 2, quæst. 186, art. 2, ad 2). Notino i secolari in questo testo quei termini che usa il santo dottore, parlando della loro perfezione, obbligo, precetto, peccato; e poi dicano, se loro dà l’animo, che la perfezione è pei soli religiosi.

53. Sebbene, a dire il vero, neppure qui è necessaria l’autorità di sì gran dottore, mentre parlano chiaramente su questo proposito le sacre scritture. Domando quando s. Giacomo e l’Apostolo delle genti inculcavano tanto nelle loro epistole la perfezione, a chi parlavano? ai soli religiosi? oppure a tutto il mondo cristiano? Quando Gesù Cristo esclamava con tanta energia: siate perfetti, come è perfetto il mio eterno Padre; quando comandava il rinnegare se stesso, il portar volentieri la propria croce, l’essere umile, l’essere mansueto di cuore com’era Esso; a chi ragionava allora il Redentore? coi soli monaci? coi soli religiosi? con le sole vergini chiuse ne’ chiostri? oppure a tutta l’adunanza de’ fedeli che volevano essere suoi veri seguaci? A tutti, risponde s. Agostino: a tutti parlava Cristo allora. Questi insegnamenti di Cristo, dice il santo, non li hanno già da ascoltare le sole vergini e non le maritate; le sole vedove e non le spose; i soli monaci e non i coniugati; i soli chierici e non i laici: ma tutta la Chiesa universale, tutto il corpo dei fedeli distinto nei suoi gradi ha da seguitare il Redentore con la croce in ispalla, e tutto ha da eseguire i suoi santissimi documenti. (Serm. 47, de div., cap. 7). – S. Giovanni Crisostomo dopo aver riferite molte di quelle ammirabili dottrine con cui il Redentore ci esorta a vivere perfettamente, riflette opportunamente, che Cristo non fece già distinzione tra religiosi e laici, dicendo: questo insegnamento sia per i monaci, e questo per i secolari; ma parlò indistintamente a tutti (Nec monachi, nec sæcularis nomen adiecit). – E questo appunto, seguita a dire il santo, è la ruina del mondo tutto, il credere che i religiosi siano tenuti a mettere ogni diligenza per vivere perfettamente, e che i secolari possano vivere trascuratamente. Ma non è cosi, soggiunge subito; lo stesso tenor di vita si richiede da tutti. Io dico con tutta asseveranza: sebbene non sono io che lo dico, ma è Cristo giudice che lo dice di propria bocca. Finalmente dopo aver lungamente mostrata questa importantissima verità, termina il suo discorso così: credo che non vi sarà uomo sì litigioso e sfrontato, il quale voglia negarmi che in molte cose tanto il secolare quanto il monaco sia obbligato di tendere alla più alta cima della perfezione (adver. vitup. vitam monast., lib. 3). Un gran parlare è questo, a cui non si può certamente contraddire senza incorrere la taccia di una gran temerità. Quindi prenda il direttore stimoli acuti per risvegliare desideri di perfezione nei cuori dei secolari addormentati, mostrando loro l’obbligo preciso che ne hanno, conforme la dottrina dei santi padri e delle sacre scritture. Cancelli loro dalla mente quell’errore tanto dannoso, che la perfezione sia prescritta ai soli claustrali, che ad essi soli si appartenga menar vita devota, vita esatta e vita esemplare; e che ai secolari sia lecito, purché si guardino dal peccato mortale, condurre una vita molle, una vita libera, una vita rilassata. Falso, falso, ripeta spesso alle loro orecchie. Alla perfezione tutti i Cristiani sono obbligati, perché a tutti è stata imposta ed inculcata nelle sacre carte. Certo è che a persone che non siano di perduta coscienza, ma abbiano qualche timor di Dio, qualche premura della loro eterna salute, sarà questo un gran motivo per invogliarsene e per intraprendere un tenore di vita più regolata ed esatta.

54. Ma io già mi avveggo, che il direttore, presupposto l’obbligo di perfezione che hanno tutti i Cristiani, bramerebbe sapere in quale specie di peccato incorra un secolare, che contento di non cadere in colpa grave, non faccio pio conto dei peccati leggieri, non abbia alcuna volontà di far opere di carità e di supererogazione, insomma ponga in non cale ogni pensiero della sua perfezione. Rispondo, che se ciò egli faccia con disprezzo della perfezione, già cade nel peccato in cui non vorrebbe cadere: se poi succeda senza un tale dispregio, dico, essere il Gaetano di parere che un Cristiano sì trascurato commetta un peccato veniale (in textu soprac. d. Th.).  Dico inoltre, essere sentimento del padre della Reguera nella sua mistica teologia, non andare esente da grave peccato un Cristiano che non voglia attendere alla perfezione sua propria; sebbene limita egli poi in vari modi il suo detto e in varie guise lo ristringe. Con tutto ciò perché altri gravi autori non parlano con tanto rigore, io dirò (e lo mostrerò nel seguente capitolo) che quando ancora un secolare, che non vuole procurare la perfezione del suo stato, non pecchi per questa prava volontà e pessima disposizione in cui vive, incorrerà però in altri molti peccati mortali di altre specie, vivrà rilassatamente e starà in gran pericolo della sua eterna salute.

CAPO III.

Secondo motivo per risvegliare i desideri di perfezione sia la necessità che v’è di procurarla, non solo per esser perfetto, ma anche per esser salvo.

55. La ragione perché alcuni fedeli (o questi siano religiosi o secolari) non hanno alcuna premura di acquistare quella perfezione che si conviene alla loro condizione, è senza fallo il persuadersi, che guardandosi dal peccato mortale, vivranno in grazia di Dio; e così senza tante molestie e mortificazioni conseguiranno la loro eterna salute. Ma sono pur eglino mal avveduti in questa lor persuasione; perché quando ancora l’obbligo che, secondo la dottrina delle sacre scritture e dei santi padri, abbiamo tutti di attendere all’acquisto della perfezione confacevole al nostro stato, non fosse grave e non rendesse i trasgressori rei di colpa mortale; pur non volendovisi essi seriamente applicare, è certo che cadranno in molte altre colpe gravi, che vivranno con la coscienza macchiata e che saranno in gran pericolo di perdersi eternamente. Ognun sa che l’arciere bisogna che prenda la mira più alta se vuol cogliere nel segno con il suo strale. Così deve ognuno persuadersi che non si può cogliere nell’osservanza dei divini precetti, in quanto alla sostanza di non trasgredirli gravemente, se non si prende la mira più alta alla perfetta osservanza degl’istessi precetti, guardandosi dalle trasgressioni leggiere e colpe veniali per quanto comporta la debolezza delle nostre forze; anzi se non si alza la mira anche più in alto alle opere buone di supererogazione, che sebbene non son da Dio comandate, pur son da Lui volute per consiglio, e sono a noi sì vantaggiose a Lui sì grate. Vediamo quanto ciò sia vero incominciando da consigli, ma però brevemente.

56. Gersone francamente afferma, che è caso molto raro che un fedele osservi i precetti del decalogo e non faccia opere sante di supererogazione e non eseguisca i divini consigli, ora facendo orazioni, ora frequentando Sacramenti, ora mortificando il proprio corpo con digiuni o altre simili asprezze, ora compartendo elemosine, ora praticando atti di carità spirituali o  corporale verso il suo prossimo, ora esercitando atti di devozione e di ossequio verso i Santi e la loro Regina, oppure facendo altre simili cose che non ci sono imposte con rigoroso precetto, ma ci sono però raccomandate con soave consiglio. (Alphab. 68, part. 2, litt. 2). E il padre Suarez esaminando scolasticamente questa verità, decide che è impossibile, moralmente parlando, che un Cristiano, benché sia secolare, abbia volontà ferma, stabile e permanente di non peccar mortalmente, e che insieme non faccia molte opere virtuose di supererogazione e non abbia stabile proposito di perseverare in esse  (de Relig. tom. 4, lib. 1, c. 4, num. 12). – E lo dimostra con parità delle sostanze naturali, che senza l’accompagnamento e quasi il corteggio degli accidenti loro propri, non possono conservarsi nel loro essere, ma devono necessariamente perire. Così il fuoco senza calore si estingue; la neve senza la sua freddezza si strugge; l’aria senza il moto si guasta; l’acqua senza l’agitazione s’imputridisce; l’erbe, i pomi e tutte le altre cose senza le qualità loro connaturali si corrompono ed alla fine marciscono. Così, dic’egli, la grazia di Dio e la carità, senza le opere buone, che sono quelle qualità soprannaturali che la confortano, che la nutriscono, che la corroborano, che la difendono e che l’aumentano, alla fine perisce e muore. Sicché l’anima infelice, perduta la divina grazia per la sua infingardaggine in non volere operare il bene, si trova in grande pericolo della sua eterna perdizione.

57. Questa verità insegnò Iddio istesso di propria bocca al beato Errigo Susone in quella celebre visione delle nove rupi, che rappresentogli alla mente acciocché la pubblicasse al mondo tutto. Rapito in estasi il servo di Dio vide un monte sublime che arrivava con la sua cima a ferire le stelle. Pendevano per il dorso del monte nove rupi, una appoggiata alla sommità dell’altra, ed in ciascuna di dette rupi v’erano abitatori, dove in maggiore e dove in minor quantità. Significavano queste nove rupi i nove gradi di perfezione, a cui può ascendere un uomo in tutto il corso della sua vita mortale. Or mentre stava il santo mirando attonito la sublimità del monte e la disposizione di quelle rupi aspre e rovinose, all’improvviso si vede posto sulla cima della prima rupe, d’onde vide con una semplice occhiata la terra tutta, e tutta la vide ricoperta da una larghissima rete. Stupefatto il santo a quella vista, vollossi al Signore pregandolo a volergli palesare che significasse quella gran rete che involgeva tutta la terra, ma però non arrivava a ricoprire le rupi del monte. Gli rispose Gesù Cristo, che quella era la rete del diavolo, che significava i tanti lacci dei vizi e de’ peccati con cui il maligno teneva avvinto quasi tutto il mondo, e che la rete non arrivava a ricoprire le rupi del mistico monte, perché in quelle salivano solamente i Cristiani ch’erano liberi e sciolti dai legami della colpa mortale. Tornò l’uomo estatico a domandargli chi erano quelle persone che vedeva attorno a sé nella prima rupe. Gli rispose Gesù Cristo queste parole: questi sono uomini tiepidi, lenti, freddi, infingardi, che non sono inclinati, né dediti ad esercizi grandi; ma basta loro di vivere con proposito di non consentir mai a peccato enorme e mortale, e così stanno contenti fino alla morte (B. Enrico Susone, libro delle nove rupi, cap. 12.). Si osservi che questi appunto sono quei Cristiani, di cui presentemente io parlo. Di nuovo interrogò il Signore il servo di Dio, se quelle persone si sarebbero salvate o dannate, mentre vedeale poco lungi dalla rete e dai lacci. A questo rispose Cristo le seguenti parole: se moriranno senza coscienza di peccato mortale, si salveranno; ma stanno in maggior pericolo che non credono, perché si danno di poter egualmente servire a Dio ed alla natura, il che è difficile, e appena possibile, e il perseverare così in grazia di Dio è molto malagevole. Intanto vide il beato che molti precipitavano da quella prima rupe e andavano a nascondersi sotto la rete. Chiese subito al Signore che gi dichiarasse il significato di questo avvenimento. Gesù Cristo gli rispose così: questa rupe non può contenere quelli che consentono al peccato mortale; ma perché sono uomini tiepidi, facilmente cadono e ritornano ai lacci ed ai vizi. Tutta questa visione non ha bisogno di esposizione, perché in essa troppo chiaramente si protestò il Redentore: che i Cristiani tiepidi e freddi, che contenti di non commettere peccato mortale, non vogliono esercitarsi in opere sante di supererogazione, cadono di fatto in quelle gravi colpe gravi in cui non vorrebbero cadere, e vivono in gran pericolo della loro dannazione. Resta che il direttore sappia ciò rappresentare al vivo ai penitenti lenti e trascurati che a sorte gli capitassero ai piedi, perché questo solo basterà per riscuoterli dal loro gelo ed accenderli in desiderio di qualche perfezione.

58. Per un’altra ragione ancora non è loro possibile, moralmente parlando, osservare i precetti di Dio in quanto alla sostanza, e non curarsi della loro perfezione: perché operando essi in questo modo commetterebbero infiniti peccati veniali, i quali apriranno sicuramente la porta ai mortali ed alla trasgressione sostanziale degli stessi precetti, che pur essi non vorrebbero ammettere. Conciossiachè afferma l’Ecclesiastico: chi non fa conto delle cose piccole, cadrà nelle grandi (XIX, 1). D’onde s. Tommaso deduce: che chiunque pecca venialmente non fa conto delle cose minime (1, 2, quæst. 88, art. 5). Dunque si dispone a voltare affatto le spalle a Dio con la colpa grave, perché non soggettandosi l’anima incauta in cose piccole ai comandamenti di Dio, la volontà si va assuefacendo alle trasgressioni, va pigliandosi una dannosa libertà, finché giunge alla fine a scuotere affatto il giogo della divina legge. Ciò si può esemplificare in mille casi che tutto giorno accadono; ma di mille scegliamone alcuno. Comincia una fanciulla ad adornarsi soverchiamente, o per non parer deforme, o per comparir troppo vaga; dalla vanità nel vestire passa alla libertà di guardare qualunque oggetto; la licenza degli sguardi le desta nel cuore qualche affetto, nel principio forse non vizioso, ma troppo tenero e pericoloso; degenera a poco a poco l’affetto; s’attacca una tresca d’inferno; e finalmente si arriva a calpestare il fiore della verginità. Ecco come dai peccati leggieri quasi per tanti gradini si discende ai peccati più gravi, fino a cadere nel precipizio. A questo par che voglia alludere s. Ambrogio, parlando delle donne. Comincia alcuno a parlar liberamente degli altrui difetti; passa ad interpretare sinistramente le altrui azioni, a biasimarle apertamente. Alla fine trasportato da quel prurito di confutare, palesa qualche gran peccato del prossimo, che prima era occulto, e con grande mormorazione macchia l’altrui riputazione. Ecco come per la via de’ peccati veniali si va a poco a poco a cadere in colpe gravi.

59. Una tal verità ci viene espressa nell’Esodo con un memorabile avvenimento. Sale Mosè sulla cima del Sinai; entra dentro quelle sacre caligini che involgono la sommità del monte, e quivi si trattiene in lunghi e soavi colloqui con il suo Dio e riceve gli oracoli dalla sua bocca divina. E intanto il popolo che fa alle radici del monte? Dice il sacro testo: eccoli a sedere tutti oziosi; eccoli distesi sopra il terreno starsene neghittosi aspettando il ritorno del gran profeta (Es. XXXII, 6). Fin qui altro male non v’è che un poco d’oziosità, un poco di perdimento di tempo. Intanto trovandosi disoccupati, cominciano ad invitarsi a pranzo l’un l’altro. Parenti con parenti, amici con amici celebrano lieti e giocondi banchetti in mezzo al prato; non si mantiene la conveniente moderazione nel mangiare, né la conveniente misura nel bere; alquanto si eccede. E qui che male c’è? un po’ di crapula, un poco d’intemperanza. Trasportati intanto da una soverchia allegrezza, si danno al giuoco. Domini e donne, giovani e fanciulle, tutti ballano ad un circolo, tutti cantano ad un coro. Chi giuoca, chi ride, chi scherza; ma però senza verun pravo affetto. Ed in questo  che male c’è? un poco di scompostezza, un poco d’immodestia, un peccato veniale un poco più grosso. Avanti dunque, avanti, giacché non v’è male grave. Accecati dunque gli ebrei dalla crapula, resi ardimentosi dalla licenza di quei giuochi, cominciarono a parlamentare tra loro: Dio sa quando Mose farà ritorno a noi dalla sommità del monte! Dio sa quanto tempo ci converrà dimorare nel fondo di questa valle! Che serve più appettare? che serve indugiar più? Facciamoci anche noi un Dio visibile come si costuma in Egitto; Aronne, eccoli tutti i nostri orecchini, eccoti tutte le nostra anella d’oro: formane tu qualche nobile simulacro degno di collocarsi sopra gli altari. Condiscende Aronne. Si fonde un vitello d’oro; si espone alla pubblica venerazione del popolo; gli si porgono incensi sacrileghi e sacrifici nefandi. Avete veduto che mal v’è in un poco di oziosità, in un poco di crapula, in un poco di libertà in conversare? Questi furono i passi per cui a poco a poco arrivarono i miseri ad idolatrare un vitello. La riflessione non è mia, ma tutta di san Gregorio: il mangiare, il bere spinse il popolo a giuochi vani; i giuochi all’idolatria; perché se la persona non si raffrena nelle colpe subito va a cadere in grandi iniquità, attestandolo Salomone in quelle parole, che chi disprezza il poco cadrà nel molto. E però trascurandoci nelle cose piccole, sedotti insensibilmente dall’abito e dalla passione, commetteremo infallibilmente cose maggiori. Si lusinghi dunque chi vuole salvarsi senza la perfetta osservanza dei divini precetti, che ala fine conoscerà a prova nelle sue gravi cadute, quanto sia falsa questa sua idea: e Dio voglia che non l’abbia alla fine a conoscere nella sua dannazione.

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: LE VERITA’ ETERNE

LE VERITÁ ETERNE (*)

Memorare novissima tua, et in æternum non peccabis

“Ricordati della tua fine e non peccherai in eterno”

(Sir. VII, 40)

(*) Il testo originale è nel I volume di: SERMONS du Vénérable Serviteur de Dieu J.-B.-M. VIANNEY CURÉ D’ARS PARIS LIBRAIRIE VICTOR LECOFFRE, 90 RUE BONAPARTE. ——- LYON LIBRAIRIE CHRÉTIENNE(Ancienne Maison BAUCHU) ED. RUBAN, PLACE BELLECOUR, 6 –

APPROBATION.

Archevêche De LYON  –  Lyon, 20 août 1882.

f L. M. Card. CAVEROT, Archevêque de Lyon.

L’opera è pubblicata in rete da: Bibliothèque Sain Libère – htpp: www. liberius.net –

© Bibliothèque Saint Libèr 2011 (Toute reproduction à but non lucrative est autorisée- si autorizza ogni riproduzione senza fini di lucro).

La traduzione italiana è redazionale, ma confrontata con la versione italiana di Giuseppe D’Isengard F. d. M. in “I SERMONI DEL B° GIOVANNI B. M. VIANNEY, Curato d’Ars”. Libreria del Sacro Cuore – Rimpetto ai Ss. Martiri -, Torino, 1907 (Tip. Salesiana, via Cottolengo, 32)

Nihil obstat,

Torino, 5 aprile 1908 Teol. Coll. Giacomo Sacchieri, prete della Missione, Revisore delegato.

Imprimatur

Torino, 8 Aprile 1908, Can. Ezio Gastaldi-Santi Provic. Gen.

[N.B.: Si diffidano i fedeli “veri” Cattolici dal consultare altre versioni di a-cattolici modernisti, in particolare gli scismatici eretici aderenti alla setta del Novus ordo, in comunione con gli antipapi usurpanti attuali, non dotate né di Nihil obstat né dell’Imprimatur canonico imposto dalla Costituzione Apostolica “Officiorum ac Munerum” di S. S. Leone XIII, e dall’Enciclica “Pascendi” di S. S. San Pio X, passibili quindi di SCOMUNICA “ipso facto” latæ sententiæ riservata in modo speciale alla Sede Apostolica. … intelligenti pauca!

Fratelli miei bisogna che queste verità siano molto potenti e molto salutari, poiché lo Spirito Santo ci assicura che se le meditiamo seriamente non peccheremo mai. Ciò non è difficile da comprendere. In effetti, fratelli miei, chi è colui che potrebbe attaccarsi ai beni di questo mondo pensando che fra poco tempo non ci sarà più? Da Adamo fino al presente, nessuno si è portato via qualcosa da quaggiù, e anche per noi sarà lo stesso. Chi è colui che si occuperebbe  tanto degli affari di questo mondo, se fosse veramente persuaso che il tempo che trascorre sulla terra non gli sia donato se non per impegnarsi a guadagnare il cielo? Chi è colui che, ben impresso nella mente, o meglio nel cuore, che la vita del Cristiano debba essere vissuta nelle lacrime e nella penitenza, potrebbe ancora dedicarsi ai piaceri e alle gioie folli del mondo? Chi è colui che, essendo ben convinto che potrebbe morire in ogni momento, non si terrebbe sempre pronto? Ma voi mi direte: perché queste verità che hanno convertito tanti peccatori ci impressionano così poco? Ahimè, fratelli miei, questo accade perché noi non le meditiamo seriamente; il nostro cuore è troppo occupato dagli oggetti sensibili, che possono soddisfare le sue cattive inclinazioni; inoltre essendo il nostro spirito ingombro di affari temporali, perdiamo di vista queste grandi verità che dovrebbero costituire la nostra unica occupazione in questo mondo. Se mi domandaste perché lo Spirito Santo ci raccomanda con tanta insistenza di non perdere mai di vista queste verità, eccovene la ragione: il motivo è che non c’è nulla che sia più capace di distaccarci dai beni di questo mondo, niente di più potente per farci sopportare le miserie della vita in spirito di penitenza, o per meglio dire, nulla, più di queste verità ci faccia distaccare da tutte le cose create per non legarci che a DIO solo. – Ah! Fratelli miei, non dimentichiamo mai queste grandi verità, e cioè: che la nostra vita non è che un sogno; che la morte ci segue molto da vicino, e che ben presto essa ci raggiungerà; che un giorno saremo giudicati molto severamente, e che dopo questo giudizio la nostra sorte sarà fissata per sempre. Vedete, fratelli miei, quanto Gesù Cristo desideri salvarci: a volte ci si presenta come un povero Bambino nella sua mangiatoia, adagiato su una manciata di paglia che egli bagna con le sue lacrime; altre volte come un criminale, legato, incatenato, coronato di spine, flagellato, cadente sotto il peso della sua croce, e, infine, morente tra i supplizi, per amore nostro. Anche se ciò non fosse capace di  commuoverci, di attirarci a lui, ci induce però ad annunciare che un giorno ritornerà, rivestito con tutto lo splendore della sua gloria e della maestà del Padre suo, per giudicarci senza più grazia né misericordia. Allora Egli svelerà, davanti al mondo intero, sia il bene che il male che noi abbiamo fatto in ogni istante della nostra vita. Ditemi, fratelli miei, se noi pensassimo bene a tutto ciò, ci sarebbe bisogno d’altro, per farci vivere e morire da santi? Ma Gesù Cristo, per farci comprendere bene cosa dobbiamo fare per andare in cielo, ci dice nel Vangelo, che la persone del mondo conducono una vita completamente opposta a quella di coloro che gli sono graditi. appartiene interamente a lui. I buoni Cristiani, Egli ci dice, fanno consistere la loro felicità nelle lacrime, nella penitenza e nel disprezzo; mentre la persone del mondo fanno consistere la loro felicità nei piaceri, nella gioia e negli onori della terra, rifuggendo da tutto il resto. Sicché, ci dice Gesù Cristo, la vita degli uni è del tutto opposta a quella degli altri, ed essi non andranno mai d’accordo, né nel modo di vivere né di pensare. E questo è molto facile da comprendere. Io dico che ci sono quattro cose che fanno la felicità di un buon Cristiano: la brevità della vita, il pensiero della morte, il giudizio e l’eternità. E noi vediamo che proprio queste quattro cose, costituiscono, invece, la disperazione di un cattivo Cristiano, cioè di una persona che dimentica il suo fine ultimo, per occuparsi solo delle cose presenti.

1°. Dico che la brevità della vita è di conforto a un buon Cristiano, poiché egli vede che le sue pene, le sue disgrazie, le sue persecuzioni, le sue tentazioni, la sua separazione da DIO, non saranno lunghe. Quale gioia per noi, fratelli miei, quando pensiamo che tra poco tempo lasceremo questo mondo, dove siamo sempre in pericolo di offendere il buon DIO, che è un Salvatore così caritatevole, che ha tanto sofferto per noi. Ahimè! fratelli miei, con questo pensiero, potremmo forse noi mai attaccarci alla vita che è piena di tante miserie? “Che buona nuova! Esclamò san Girolamo. Quando si venne per annunziargli che stava per morire, felice nuova, che sta per unirmi al mio DIO, per sempre!”. Ed in effetti, fratelli miei, così è, dato che la morte è lo strumento di cui il buon DIO si serve per liberarci.

2° Io dico che il giudizio, ben lungi dal gettare il Cristiano nella disperazione, non fa invece che consolarlo, perché egli sta per trovarsi davanti non un giudice severo, ma suo Padre e il suo Salvatore. Sì, suo Padre, che lo attende per aprirgli le viscere della sua misericordia, al fine di riceverlo nel suo seno paterno; che sta, io dico, per manifestare al mondo intero tutte le sue lacrime, le sue penitenze, e tutte le buone opere che egli ha fatto durante tutti i giorni della sua vita.

3° Il pensiero dell’eternità, poi, porta al colmo la sua gioia. Se la sua beatitudine è infinita nelle sue dolcezze e nelle sue grandezze, l’eternità gli assicura che essa non finirà mai. Questo solo pensiero, fratelli miei, deve incoraggiarci a ben servire il buon DIO e per sopportare con pazienza tutte le miserie della vita, perché, una volta che saremo in cielo, non ne usciremo mai più! Ahimè! fratelli miei, tutte le miserie di questo mondo passano, tutto questo non dura che un momento, mentre la ricompensa durerà per sempre. Coraggio! ci dice san Paolo, siamo ormai vicini alla meta della nostra strada. Ma per un Cristiano, fratelli miei, che ha perso di vista il pensiero dei suoi fini ultimi, non è la stessa cosa; la brevità della vita è una sciagura e un’amarezza che lo turba e lo rode anche nel bel mezzo dei suoi piaceri; egli fa tutto ciò che può per allontanare questo pensiero della morte. Tutto ciò che gliene offre un ricordo, lo atterrisce; rimedi e medicine, tutto è invocato in suo soccorso, al minimo sentore che la morte si approssimi. Egli crede sempre di poter trovare la felicità quaggiù. Ma, purtroppo, egli si inganna. Questo povero derelitto, abbandonando il buon DIO, abbandona proprio ciò che poteva procurargliela; al momento della morte, sarà costretto a confessare, di aver trascorso tutta la vita nel cercare un bene che non è mai riuscito a trovare. Ahimè! fuori di Dio, solo molte pene, molte sofferenze, nessuna consolazione, e nessuna ricompensa! Prima di partire da questo mondo, avrà il suo bel gridare, come quel re di cui ci parla la Scrittura, nell’Antico Testamento, il quale, vedendosi sul punto di dover lasciare la vita e tutti i suoi beni, diceva: “Ah!, devo dunque morire! Devo lasciare le mie aiuole e i miei bei giardini, per andare in un paese dove non conosco nessuno!”. Ahimè! la morte che è la consolazione del giusto, diviene la sua disperazione; bisogna morire, e non ci si è mai pensato! Ah! triste pensiero, bisogna andare a rendere conto a DIO di una vita che non è che una catena di peccati, e… senza buone opere che possano rassicurarlo. Al momento di partire da questa vita, egli vede chiaramente che il buon DIO lo aveva posto sulla terra soltanto per servirlo e per salvare la sua povera anima, mentre non ha fatto altro che oltraggiarlo e perdere così la sua bella anima. Egli vede, capisce benissimo, in questo momento, che il buon Dio non voleva affatto che si perdesse, ma voleva assolutamente salvarlo, e che sono i suoi peccati che Lo costringono a condannarlo. Quanto poi all’eternità, egli vede che fra qualche minuto sarà gettato nell’inferno. DIO mio, che disperazione! Se il pensiero dell’eternità consola tanto un Cristiano, nella certezza che la sua felicità non avrà mai fine, questo medesimo pensiero, completa la disperazione di questo povero infelice. Ah! povero disperato, deve iniziare il suo inferno per non finirlo mai più! Entrando nell’inferno, vede l’infelice Caino che brucia fin dall’inizio del mondo ed egli  che ci sta entrando adesso, non ha meno tempo di lui da trascorrervi. Allora, i demoni stessi che lo hanno spinto a peccare, per rendere il suo supplizio ancora più violento, gli metteranno davanti tutte le grazie che il buon Dio aveva meritato per lui, con la sua morte e con la sua santa Passione. Egli vede come preoccupandosi della sua salvezza, sarebbe stato più felice. Egli vede quanto Gesù Cristo sia buono, per coloro che vogliono amarlo. – Ma, malgrado tutte queste riflessioni, che per lui saranno come altrettanti inferni, bisognerà rassegnarsi a bere, per tutta l’eternità, a piena bocca, il fiele del furore di Colui che doveva essere tutta la sua felicità, se egli si fosse deciso ad amarlo. Ah! triste meditazione che questo Cristiano farà per tutta l’eternità, dicendo a se stesso: ho perso il mio tempo, ho rovinato la mia anima, ho perduto DIO, ho rifiutato il cielo, ed ora mi aspetta una eternità di sofferenze! Ah! Cielo! che disgrazia! Ecco, fratelli miei, cosa succede a chi perde di vista i suoi fini ultimi. Ma! forse voi direte, voi dite bene che ci sia un’eternità infelice per i peccatori; ma occorre che lo dimostriate. Sarebbe molto facile, fratelli miei; ma questo significherebbe fare un affronto a dei Cristiani. Sarebbe molto meglio per voi, se potessi convincervi della necessità che avete di fare tutto il possibile per evitare quei tormenti. Se volete, ve ne dirò qualche parola, di passaggio, visto che siete così ignoranti e così ciechi, da nutrire qualche dubbio sull’argomento. Ascoltatemi bene. – Ecco cosa ci dice lo Spirito Santo per bocca del profeta Daniele: ci sono due sorta di uomini, ci sono coloro che sono giusti, vi sono quelli che sono peccatori; gli uni muoiono nella grazia di Dio, gli altri in odio a Lui. Tutti compariranno un giorno davanti al buon Dio, tutti si risveglieranno dal sonno della morte; tutti saranno giudicati e riceveranno una sentenza senza appello, dopo la quale, gli uni non avranno più nulla da temere, gli altri più nulla da sperare. Ma la differenza che sarà trovata tra gli uni e gli altri sarà molto grande, poiché gli uni si sveglieranno per andare a godere una gioia eterna, gli altri, per essere coperti di obbrobri, inabissati in ogni genere di pena, e questo, per tutta l’eternità. Lo Spirito Santo ci indica dappertutto, quale sarà la sorte dei peccatori nell’altra vita; Egli ci dice: « Il Signore spargerà il fuoco sulla loro carne, affinché ardano e siano eternamente divorati ». Il santo re Davide dice che « il peccatore che durante la vita ha disprezzato il suo Dio, sarà gettato nell’inferno ». Se desiderate procedere oltre, san Giovanni Battista, predicando ai Giudei il battesimo di penitenza, per prepararli alla venuta del Messia, insegna loro, ancora, quale sarà la sorte del peccatore nell’altro mondo, dicendo loro che Gesù Cristo verrà un giorno e separerà il buon grano dal grano cattivo e dalla paglia: il buon grano, che sono i giusti, il Padre eterno li porrà nel suo granaio, che è il cielo; il grano cattivo e la paglia, che sono i peccatori, saranno legati in fasci e saranno gettati nel fuoco, che è l’inferno; là vi sarà pianto e stridore di denti. Gesù Cristo, ci dice nel Vangelo, che il ricco epulone muore e che l’inferno è il suo sepolcro, dove soffre infiniti mali. Lazzaro, invece, è trasportato dagli Angeli nel seno di Abramo, cioè nel cielo. In un altro passo, parlando del peccatore ci dice: « Va’, maledetto, nel fuoco che è stato preparato per il demonio e per coloro che lo hanno imitato ». San Agostino ci dice parlando del peccatore: « Va’ maledetto, tu hai disprezzato il tuo DIO e le sue grazie durante la vita; va’ maledetto,  tu sarai precipitato in uno stagno di fuoco e di zolfo per tutta l’eternità. » Ma, fratelli miei, ciò che sto dicendo è inutile. Non c’è bisogno che vada a trovare così grandi prove, per mostrarvi che c’è una vita felice o infelice, a seconda che avremo vissuto bene o male. E’ sufficiente solo che apriate il vostro Catechismo, e lì troverete tutto quello che dovete credere, sapere e fare. Infatti, fratelli miei, quale è stata la prima domanda che vi è stata fatta, quando siete venuti in Chiesa per farvi istruire? Non è stata forse questa: chi vi ha creato e conservato fino al presente? E voi non avete forse risposto, molto semplicemente, che è stato DIO? Poi vi è stato chiesto: perché DIO vi ha creato? E voi avete risposto: per conoscerlo, amarlo, servirlo, e con questo mezzo guadagnare la vita eterna. Ecco, dunque, quale deve essere tutta l’occupazione di un buon Cristiano, e tutta la sua felicità. Deve imparare a conoscere DIO, cioè, a conoscere quali siano i mezzi più sicuri che debba usare, per piacere al buon DIO, evitando il male, e facendo il bene. Sto dicendo, fratelli miei, che noi dobbiamo amare il buon DIO. Ahimè! fratelli miei, non inganniamoci; se non ameremo il buon Dio in questo mondo, non avremo mai e poi mai la felicità di amarlo nell’altro. Non vi è stato detto forse, quando siete venuti al catechismo, che non se salvate la vostra anima, per voi tutto è perduto? Che avrete un bel piangere per tutta l’eternità, che non ne caverete un bel nulla! Non vi è stato forse assicurato, facendovi distinguere il bene dal male, che un solo peccato mortale, possa portarvi alla dannazione eterna? E non vi è stato detto che il peccato sia l’unico male che dovete temere, perché non c’è che esso che abbia il potere di separarci da Dio per tutta l’eternità, gettandoci nell’inferno? Non vi è stato forse detto, che tutti noi un giorno moriremo, e che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo per ognuno di noi? Non vi è stato forse ricordato che nell’istante in cui moriremo, saremo giudicati rigorosamente, e che tutto ciò che abbiamo fatto durante la nostra vita, sia in bene che in male, ci accompagnerà davanti al tribunale di Dio? Non avevo, dunque, ragione nel dirvi che se conoscessimo tutto quello che è scritto nel nostro Catechismo, avremmo tutta la scienza necessaria per salvarci? Allorché siete venuti qui, nella vostra infanzia, non vi è stato forse detto che, dopo questo tempo che finirà ben presto, ne verrà un altro che non finirà mai più, e che racchiuderà ogni sorta di bene o di male, a seconda che ci avremo fatto bene o male? Ditemi, fratelli miei, se tutte queste verità fossero incise nei nostri cuori, potremmo vivere senza amare il buon Dio, e senza fare tutto ciò che dipende da noi, per evitare tutti questi malanni? – Ahimè! fratelli miei, queste verità hanno fatto tremare i Santi, hanno fatto convertire grandi peccatori, e hanno spinto i penitenti a usare grande rigore nelle loro penitenze e nelle loro macerazioni! – Leggiamo nella storia che sant’Ambrogio, scrivendo all’imperatore Teodosio che aveva commesso un certo peccato, più per essere stato colto di sorpresa che per malizia, gli diceva: « Ho visto – dice Sant’Ambrogio – in una visione nella quale il buon DIO mi ha mostrato che, se ti avessi visto venire in chiesa, mi ha comandato di chiudervi la porta, poiché il vostro peccato vi aveva reso indegno di entrarvi ». Dopo la lettura di questa lettera, l’imperatore cominciò a spandere lacrime in abbondanza; tuttavia, come era suo costume, andò a presentarsi alla porta della chiesa, nella speranza che il Vescovo si sarebbe lasciato commuovere dalle sue lacrime e dal suo pentimento. Ma il Vescovo, ben lontano dal lasciarsi piegare, come i suoi ministri vili e compiacenti, vedendolo avvicinarsi alla chiesa, gli intimò di fermarsi, secondo l’ordine ricevuto da DIO, poiché non era degno di entrare nella casa di Colui che aveva osato oltraggiare, e gli ordinò di cominciare a espiare il suo peccato ». L’imperatore rispose: « E’ vero – gli dice l’imperatore –  che sono un peccatore e indegno di entrare nel tempio del Signore, ma il buon DIO vede il mio pentimento. Anche Davide ha peccato, ed il Signore gli ha perdonato ». – « Ebbene! – gli rispose sant’Ambrogio – se avete imitato Davide nel suo peccato, imitatelo nella sua penitenza ». L’imperatore, senza nulla replicare a queste parole, si ritira; le lacrime colano dai suoi occhi; il suo cuore si lacera per il dolore; si strappa i suoi abiti regali e ne indossa di poveri e laceri, si getta con la faccia a terra, abbandonandosi a tutta l’amarezza del dolore e facendo risuonare per il palazzo le grida più laceranti. I suoi sudditi, vedendolo in una così grande desolazione, non hanno il coraggio né di guardarlo, né di rivolgergli la minima parola per consolarlo; si contentano di mescolare le loro lacrime a quelle del loro padrone; il suo palazzo si trasforma in un luogo di dolore, di lacrime e di penitenza. Egli non si contenta di confessare il suo peccato nel tribunale della penitenza, ma lo confessò pubblicamente, affinché una tale umiliazione attirasse su di lui la misericordia di DIO. Era inconsolabile nel vedere che i suoi sudditi potessero entrare in chiesa, mentre egli ne era escluso. Se gli si permetteva di partecipare ad una preghiera pubblica, vi prendeva parte nella maniera più umiliante: non stava né in piedi, né in ginocchio, come gli altri, ma prostrato con la faccia a terra, inondandola di lacrime. Si strappava i capelli per mostrare la grandezza del suo dolore, raccoglieva delle pietre con le quali si martoriava il petto e gridava: Misericordia! Per tutta la vita conservò il ricordo del suo peccato: i suoi occhi versavano continuamente lacrime. Ma se voi mi domandate: quale è stata la causa di tante lacrime, di un così grande dolore e di una penitenza così straordinaria? Ahimè! fratelli miei, vi risponderei: che fu il solo pensiero che un giorno Dio lo avrebbe citato in giudizio per il suo peccato, davanti a quel tribunale dove sarebbe stato giudicato senza più misericordia. Ahimè! fratelli miei, se queste grandi verità fossero ben impresse nei nostri cuori, potremmo noi vivere senza lavorare continuamente per placare la giustizia di Dio, che i nostri peccati hanno tanto esasperato? In effetti, fratelli miei, chi è colui che, pensando che non si trovi in questo mondo se non per salvarsi l’anima, potrebbe ancora cercare di ingannare o fare torto al proprio prossimo? Chi è colui che ben convinto che tutti questi beni che accumula a discapito della salvezza della sua anima, fra poco tempo li lascerà a degli eredi che forse sono ingrati che li dissiperanno in dissolutezze, senza, forse, fare la minima preghiera in suffragio della sua anima? Ma, quand’anche essi li usassero per compiere opere buone, queste non potranno strapparvi all’inferno, se voi, avete lasciato la vostra anima nel peccato. Chi potrebbe ancora abbandonarsi ai divertimenti del mondo, che sono tanto fugaci e sì funesti per la nostra salvezza, perdendo di vista l’affare più grande della nostra salvezza. Chi è colui che, essendo ben persuaso che un solo peccato mortale possa dannarlo, avrebbe il coraggio di commetterlo? Oppure, chi, avendo avuto la disgrazia di averlo commesso, potrebbe restare ancora in uno stato sì deplorevole, in cui la mano di DIO può colpirlo da un momento all’altro, e non si affretterebbe invece a far ricorso al Sacramento della Penitenza, unico rimedio che il buon DIO ci offre, nella sua misericordia? – Chi è colui, fratelli miei, che pensando che potrebbe morire in qualunque momento, non vivrebbe ogni giorno, tremante, sull’orlo dell’abisso? Chi è colui che si attaccherebbe tanto fortemente alla vita, al pensiero che forse domani non esisterà più? Chi, fratelli miei, pur essendo certo che nell’istante in cui andrà a comparire davanti a DIO, sarà giudicato con ogni rigore, non temerebbe continuamente di dover subire un giudizio, così temibile perfino per i più giusti? Chi è colui fratelli miei che, essendo certo che dopo questa vita mortale ne avremo un’altra felice o infelice, a seconda che avremo vissuto bene o male, non metterebbe ogni cura nel meritare i beni che il buon DIO ha preparato per coloro che lo hanno amato? Ah! fratelli miei, diciamo ancora meglio, chi è colui che, meditando a fondo queste grandi verità, non vivrebbe e non morirebbe da santo? Anima mia – gridava un santo penitente – ricordati dei tuoi peccati e di queste grandi verità; non dimenticare mai da dove vieni, dove vai, da chi hai ricevuto l’essere, a chi devi donare il tuo cuore, che cosa hai portato in questo mondo e che cosa porterai via, uscendo dal tuo esilio. Ahimè! fratelli miei, noi, fino ad ora, non abbiamo mai considerato tutto questo fino al presente; ahimè! noi aspettiamo, per pensarci, il momento in cui le nostre lacrime e le nostre penitenze resteranno senza frutto. Come saremmo felici, fratelli miei, se queste grandi verità potessero dissipare le tenebre che ci accecano, riguardo al grande affare della nostra salvezza; se noi avessimo la fortuna di essere fortemente convinti che noi non siamo stati che un puro nulla e un miserabile verme di terra: che siamo solo peccatori e pieni di colpe, che un giorno saremo eternamente felici, se evitiamo il peccato, ed eternamente infelici, se seguiamo le nostre cattive inclinazioni! Ahimè! fratelli miei, forse non abbiamo a nostra disposizione che pochi istanti ancora, per prepararci al terribile passaggio. Rientriamo nei nostri cuori, fratelli miei, per non occuparci che delle grandi verità, le sole degne della nostra attenzione, le sole capaci di convertirci. Fratelli miei, lasciamo passare ciò che passa e perisce insieme a noi; attacchiamoci a ciò che è eterno e permanente. Diciamo a tutte le cose di quaggiù, come facevano tutti i santi: No! No! Voi per me non contate più nulla, dal momento che, forse domani, o voi o io, non esisteremo più; lasciatemi profittare del poco tempo che mi resta, per fare in modo che il buon Dio si degni di perdonarmi. Ah! no, no, io non voglio vivere che per Dio, disprezzando i beni che periscono. Ah! questi Santi hanno ben compreso queste grandi verità! E potremmo dire che ne hanno fatto l’unica loro occupazione! Leggiamo nella storia della Chiesa che un gran numero di Santi, tutti penetrati dal nulla di questo mondo e dalla grandezza delle verità, lo hanno disprezzato e abbandonato, per andare a chiudersi nei monasteri o ritirarsi nel fondo delle foreste, per poter meditare queste verità con maggiore agio. E là, nelle grotte spaventose e oscure, lontani dai rumori e dai tumulti del mondo, non si occupavano d’altro se non di queste verità immutabili. Penetrati da questi grandi sentimenti, esercitavano sui loro corpi tutti i rigori della penitenza, che il loro amore per DIO gli ispirava. La preghiera, il digiuno e la disciplina, riducevano i loro corpi in uno stato degno della più grande compassione. Una gran parte di loro non mangiava che qualche radice che trovava smuovendo la terra. Se mangiavano qualche pezzetto di pane, lo ammollivano con le loro lacrime, vedendosi costretti a dare un po’ di sollievo a quel corpo che era più morto che vivente. Così trascorrevano la loro vita, che non era altro che un continuo martirio. E allorché, dopo venti, trenta, quaranta o ottant’anni di penitenza, arrivavano alla fine della loro corsa, ancora tutti spaventati, si dicevano, gridando, gli uni gli altri: Pensate, amici miei, che Dio avrà finalmente pietà delle nostre anime e che si lascerà piegare? Che vorrà ancora accordarci il perdono dei nostri peccati? Pensate che potremo ancora trovare grazia davanti a questo giudice che allora sarà senza misericordia? Ah! chi pregherà per noi, per addolcire la severità del nostro giudice? Ah! potremo ancora sperare di aver parte un giorno alla felicità dei figli di DIO? – Sì, fratelli miei, noi vediamo che i Santi penitenti, dopo aver avuto la fortuna di conoscere che cosa sia veramente il peccato, e come il buon Dio lo punisca severamente nell’altra vita, non mettevano limiti alla loro penitenza. – San Girolamo ci racconta che una dama romana, avendo abbandonato il marito, a causa dei vizi a cui era dedito, credette che, essendosi separata secondo la legge, poteva, senza peccare, rimaritarsi legittimamente con un altro uomo. San Girolamo ci dice che un giorno la rese consapevole del suo peccato; ella allora fu colta da un tale dolore, coperta da una tale confusione, che abbandonò all’istante gli abiti mondani e si vestì di un sacco; … i capelli scompigliati, il volto coperto di fango, le mani tutte sporche, la testa coperta di cenere e di polvere, i vestiti tutti strappati, la bocca serrata. In questo misero stato, si va a gettare ai piedi del Santo Padre (san Girolamo). Il Santo Padre e tutti coloro che furono testimoni di questo spettacolo, non riuscivano a resistere vedendo il triste stato in cui questa signora romana era caduta, a causa della sua ignoranza. Roma, continua questo Padre, faceva echeggiare le sue mura delle grida più laceranti, e sembrava voler condividere il dolore di questa grande penitente. Ella confessava pubblicamente il suo peccato, sempre versando un torrente di lacrime. Portò per tutta la vita i vestiti della penitenza; il suo dolore e il suo pentimento la seguirono fino alla tomba. Non contenta di tutto ciò, vendette tutti i suoi beni, che erano immensi, per vivere e morire nella più grande povertà. A questo punto vi sarete chiesti: … ma quale è stata la causa di tutto questo? Ahimè! Il solo pensiero che un giorno le sarebbe stato intimato di andare a presentarsi davanti al tribunale di Gesù Cristo. Ella chiedeva a Dio la grazia di prolungarle di qualche giorno la vita, affinché avesse il tempo di fare penitenza. Ahimè! Gridava ad ogni istante, bisogna che io vada a comparire davanti al buon Dio; che ne sarà di me, se il mio peccato non sarà cancellato dalle lacrime e dalla penitenza? O felice penitenza! O lacrime salutari! Venite in mio aiuto: soltanto voi voglio come compagne per tutti i giorni della mia vita. Ahimè! Fratelli miei, ci dice il grande Santo Giovanni Climaco, se il pensiero dell’eternità ha portato tanti Santi a fare penitenze così straordinarie, quale sarà la nostra sorte, noi che non facciamo nessuna penitenza? DIO mio! Quanto sarà terribile la vostra giustizia per questi poveri peccatori che non avranno nulla su cui appoggiarsi! « Ah! Amici miei, egli ci dice, ho visto dei penitenti in un luogo che non si può nemmeno immaginare, senza versare lacrime; in un luogo, dico, sprovvisto di ogni aiuto umano, di ogni consolazione umana. Non c’era che oscurità, puzza e sporcizia; tutto era così spaventoso, che non lo si poteva vedere senza piangere di compassione. Questi nobili e santi penitenti non avevano in questo luogo né fuoco né vino, solo qualche radice e qualche pezzo di pane duro e nero che essi inzuppavano con le loro lacrime. Quando arrivai – ci dice san Giovanni Climaco, in quel luogo di penitenza, che molto giustamente è nominato « soggiorno del pianto e delle lacrime », vidi veramente, oserei dire, ciò che colui il quale trascura la sua salvezza, non ha mai visto, e ciò che colui che è pigro nei suoi doveri, non ha mai ascoltato, e ciò che il cuore di colui che cammina lentamente nella via della virtù, non ha mai potuto comprendere; poiché vi assicuro che ho visto delle azioni ed ho ascoltato delle parole, capaci di esprimerlo. Alcuni passavano le notti intere in piedi nel rigore dell’inverno e, quando il loro povero corpo cadeva per la debolezza e il rilassamento: Ah! maledetto, dicevano a se stessi, poiché hai avuto l’ardire di oltraggiare il buon DIO, bisogna che tu soffra in questo mondo o nell’altro. Scegli la parte che vuoi prendere; le sofferenze di questo mondo non sono che un di momento, invece quelle dell’altra vita sono eterne. Ne vidi altri che con gli occhi sempre levati al cielo, rivolgevano le grida più laceranti chiedendo misericordia. Altri che si facevano legare le mani, finanche le dita, durante la loro preghiera, come criminali, ritenendosi indegni di fissare il cielo. Essi erano talmente penetrati dalla loro miseria e del loro niente che non sapevano da dove cominciare la loro preghiera. Essi si offrivano a DIO come vittime pronte ad essere immolate. Si vedevano altri, vestiti da un sacco, coperti di cenere, distesi sul pavimento e battersi la fronte contro le pietre; altri che piangevano con tante lacrime, da formarne dei ruscelli. Ne vidi alcuni talmente pieni di ulcere, che ne usciva un’infezione capace di far morire coloro che erano loro vicini. Essi avevano sì poca cura di sé, che i loro corpi sembravano un ammasso di ossa coperto da una pelle. Ovunque ci si volgeva, non si ascoltavano che grida e singhiozzi che laceravano le viscere facendo versare lacrime. Le loro grida più frequenti erano: Ah! guai a noi che abbiam peccato! Gli uni portavano il loro rigore tanto lontano che non bevevano acqua se non per impedirsi di morire; altri, quando mettevano qualche boccone di pane in bocca, lo rigettavano subito dicendo che essi erano indegni di mangiare il pane dei figli di DIO dopo averlo oltraggiato. Essi avevano sempre presente al loro spirito e davanti ai loro occhi l’immagine della morte; essi si dicevano l’un l’altro: ahimè! Amici miei, cosa diventeremo? Pensate che avanziamo un poco nella strada della penitenza? Oh! Siano profonde le nostre lacrime! I nostri debiti sono troppo grandi! Come faremo per ripagarli? Facciamo, si dicevano, come i niniviti. Ahimè! Chissà se il buon DIO non avrà ancora pietà di noi? Facciamo tutto ciò che potremo per sperare che il Signore voglia ancora lasciarsi muovere; corriamo nella corsia della penitenza senza risparmiare questo corpo di peccato che non è che abisso di corruzione: uccidiamo questo corpo maledetto come esso ha voluto uccidere le nostre povere anime. Era questo il loro linguaggio ordinario, esso era sufficiente – ci dice San Giovanni Climaco, a condurli a piangere amaramente: essi avevano gli occhi abbattuti, infossati nella testa, non avevano più ciglia alle palpebre: le loro gote erano talmente infossate che sembrava che il fuoco le avesse rose, tanto era per loro ordinario il piangere con lacrime calde; il loro viso era così sfigurato e pallido che sembravano dei morti che avevano dimorato due giorni nella tomba; ve n’erano di taluni che si martoriavano talmente il petto a colpi di pietre, che alla maggior parte di essi si vedeva il sangue uscire dalla bocca; diversi chiedevano al loro superiore di mettere loro dei ferri al collo ed alle mani e ceppi ai piedi: una parte li tenevano fino alla tomba. Essi erano così umili, amavano talmente il buon DIO, avevano tanto dolore dei propri peccati, e si vedevano sul punto di comparire davanti al loro giudice, che essi pregavano in grazia del loro superiore, di non seppellirli; ma di gettarli in qualche fiume o in qualche foresta per servire da pasto ai lupi e alle bestie selvagge. Ecco – ci dice San Giovanni – la maniera in cui vivevano queste anime sante ed innocenti. Quando fui i ritorno – continua il Santo medesimo –  ed il superiore vide che ero così distrutto e che appena poteva riconoscermi e sembravo di non poter più vivere: ebbene! Padre mio – mi dice – avete visto i travagli ed i combattimenti del nostro genere di soldati? Io non potei rispondergli se non con lacrime e singhiozzi, tanto questi genere di vita mi aveva colpito in dei corpi umani. » Ahimè! Fratelli miei, dove siamo? Qual sarà la nostra sorte e la nostra eternità se DIO domandasse a noi altrettanto? Ah! No, no, fratelli miei, mai per noi il cielo se ci volesse tanto! Ah! almeno senza fare così grandi e spaventose penitenze e cominciassimo ad amare il buon DIO, potremmo  ancora sperare la stessa felicità DIO mio, quanto siamo ciechi circa la nostra eterna felicità! Ahimè!, fratelli miei, questo grandi Santi che ammiriamo senza avere il coraggio di imitarli, ditemi, avevano forse un altro Vangelo da seguire? Avevano un’altra Religione da praticare? Avevano un altro DIO da servire? Un’altra eternità da temere o da sperare? No, senza dubbio, fratelli miei, ma essi avevano la fede che noi non abbiamo, che noi abbiamo quasi spenta per la moltitudine dei nostri peccati: è che essi pensano seriamente alla salvezza della loro povera anima, mentre noi lasciamo da parte, questa povera anima che è sì povera e che tanto è costata a Gesù-Cristo, e che torna indifferente salvare o dannare. È che essi meditavano incessantemente queste grandi e terribili verità dell’altra vita, la perdita di un DIO, la grandezza del peccato, una eternità felice o infelice, l’incertezza della morte, gli abissi spaventosi dei giudizi di DIO e le sequele di un avvenire felice o infelice, secondo che avremo vissuto bene o male, mentre noi non ci pensiamo mai. Non essendo occupati che da cose di questo ondo, lasciamo la nostra anima ed il cielo da parte. In una parola, c’è che essi vivono da penitenti e da Santi, mentre noi viviamo da mondani, nel peccato e nei piaceri del mondo, e non di penitenza. O cecità dell’uomo, quanto grande tu sei! Chi potrà mai comprenderlo? Non essere in questo mondo che per amare il buon DIO e salvare la nostra anima, e non vivere per offenderlo e rendere la nostra anima infelice per l’eternità! In effetti, fratelli miei, qual è la nostra vita al presente? A cosa abbiamo pensato da quando siamo sulla terra? A chi abbiamo dato il nostro cuore? Cosa abbiamo fatto per Dio, nostro primo ed ultimo fine? Qual zelo, quale ardore abbiamo avuto per la gloria di Dio e la salvezza della nostra povera anima che è costata tante sofferenze a Gesù-Cristo? Quanti rimproveri, al contrario, non abbiamo da farci? Ahimè! Ben lungi dall’avere impiegato tutta la nostra vita a procurare la gloria di DIO ed assicurarci la felicità eterna, forse noi non vi abbiamo mai pensato un solo giorno, come un Cristiano dovrebbe fare tutta la vita. ah! ingrati! È forse per questo che il buon DIO  ci ha creati e messo sulla terra? Non è al contrario che per occuparci di Lui e consacrargli tutto i movimenti del nostro cuore? Noi non dovremmo vivere che per LUI, e forse non abbiamo ancora vissuto un solo giorno del quale potremmo dire di essere tutto per Lui e solo per Lui. Ahimè! Fratelli miei, ben presto ci toccherà render conto di tutte le nostre azioni. Cosa abbiamo da presentargli? Cosa avremo da rispondere a tutte le sua interrogazioni quando ci mostrerà da un lato tutte le grazie che ci ha accordato durante tutta la nostra vita, e dall’altra il poco profitto o piuttosto il disprezzo che e abbiamo fatto? È possibile mai che, avendo tra le mani, delle grazia così preziose, siamo ancora sì tiepidi, sì lassi e languidi nel servizio a DIO? Ah! fratelli miei, se i pagani e gli idolatri avessero ricevuto tante grazie come noi, non sarebbero divenuti gran Santi? Quanti, fratelli miei, grandi peccatori, se fossero stati ricolmi di tanti benefici come noi, non avrebbero fatto penitenza, come i niniviti, coperti da cenere e cilicio? Ricordiamoci, fratelli miei, tutto ciò che il buon DIO ha fatto per noi da quando siamo al mondo. Quanti tra voi sono morti senza avere avuto il beneficio di ricevere il santo Battesimo? Quanti altri che, dopo un peccato mortale sono stati colpiti subito e sono caduti nell’inferno! Oh! Quanti pericoli anche corporali da cui DIO, nella sua misericordia, ci ha preservato, preferendoci a tanti altri che sono periti in una maniera straordinaria. Ma a quanti di noi, dopo avere avuto la disgrazia di peccare, il buon DIO non ci ha perseguiti con rimorsi di coscienza, di buoni pensieri? Quante istruzioni, quanti buoni esempi che sembravano rimproverarci la nostra indifferenza per la nostra salvezza! Ditemi, fratelli miei, dopo tanti tratti di misericordia del buon DIO, cosa avremo da rispondergli quando ci domanderà conto del profitto che ne abbiamo fatto? O pensiero triste, fratelli miei,  per un peccatore che ha disprezzato tutto, e che non ha saputo profittare di nulla. Eh ben ingrato, ci dirà Gesù-Cristo, le virtù che vi ho comandato erano troppo difficili? Non potevate praticarle come tanti altri? In quale stato comparirete davanti a me! Non sapevate che sarebbe arrivato un giorno in cui Io avrei domandato a voi conto di tutto ciò che la mia misericordia ha fatto per voi? Ebbene, miserabile, rendetemi conto di tutto ciò che la mia misericordia ha fatto per voi! Ahimè! Fratelli miei, cosa andremo a rispondere, o piuttosto qual confusione per noi! Preveniamo, fratelli miei, questo momento orribile per il peccatore, profittando finalmente delle grazie che la bontà di DIO vuole ancora ben accordarci oggi. Io dico oggi, perché forse domani, in cui il buon DIO ci avrà abbandonato, non saremo più in questo mondo. Sapete, fratelli miei, il linguaggio che dobbiamo tenere in questo momento? Eccolo: Ah! diremo. Io sapevo molto bene che non ero sulla terra che per poco tempo, e tuttavia non ho vissuto che per il mondo. E perdendo la vita eterna, io sapevo he in qualche anno avrei finito la mia corsa, e che mille anni non sarebbero stati tanto lunghi per prepararmi a questo triste passaggio da questo mondo all’eternità in cui potevo entrare in ogni istante; e questo poco tempo io non l’h impiegato che per gli affari del tempo, per i divertimenti e per dei niente. Ecco questo tempo prezioso che DIO non mi aveva dato che per assicurarmi una eterna felicità che va a sparire ai miei occhi, e l’eternità che sta per cominciare per on finire mai. Sarà essa felice o infelice? Ahimè! Cosa ho fatto per meritarla felice? O tempo perduto! Eternità obliata! Qual disprezzo! Tu che getti anime nell’inferno! O cecità dell’uomo che potrà comprendere, quattro giorni da passare in questo mondo ed una eternità intera nell’altra: e questi quattro giorni hanno fatto tutta la mia occupazione, ed io ho fatto tutto ciò che ho potuto per cancellarvi dalla mia memoria. DIO mio, dov’è dunque la nostra fede? Dove la nostra ragione? Per vivere come viviamo. – Cosa dobbiamo concludere da tutto questo, fratelli miei? È che, malgrado noi abbiamo tanto disprezzato delle grazie, se vogliamo profittare di quelle che il buon DIO vuole accordarci nella sua misericordia, non soltanto potremo riscattare il tempo passato, ma procurarci una felicità infinita nell’altra vita. se il buon DIO ci ha conservato la vita, malgrado tanti peccati, non è che perché voleva effondere su di noi la grandezza delle sue misericordie; più siamo peccatori, più Egli desidera la nostra salvezza, affinché possiamo essere come tanti strumenti per manifestare per tutta l’eternità la grandezza delle sue misericordie per i peccatori. Sì, fratelli miei, Egli ci attende con le braccia aperte; Egli ci apre la piaga del suo Cuore divino per nasconderci alla severità della giustizia di suo Padre; Egli ci presenta tutti i meriti della sua morte e passione al fin di pagare per i nostri peccati. Se il nostro ritorno è sincero, Egli si incarica di rispondere per noi al tribunale di suo Padre, quando saremo interrogati per rendere conto della nostra vita. felice colui che obbedisce alla voce del suo DIO che lo chiama! Felice, fratelli miei, colui che non avrà mai perso di vista che la sua vita è breve, che può morire in ogni istante, e non ha mai perso il pensiero che dopo questa vita sarà giudicato, per una eternità di felicità e di dannazione, per il cielo o per l’inferno. O DIO mio! Se noi pensassimo incessantemente ai nostri fini ultimi, potremo vivere nel peccato, potremmo dimenticare questo tempo avvenire che, una volta cominciato, non finirà mai? Ditemi, fratelli miei, credete a questa eternità, vi che dopo forse dieci o venti anni siete nell’odio di DIO? Credete all’eternità, fratelli miei, voi che avete i beni di altri? Ah! no, no, se voi vi credeste, voi non potreste vivere come vivete. Ditemi, miserabile, che dopo tanti anni di peccati celati nelle vostre Confessioni, colpevole di tanti sacrilegi fatti con le Comunioni; ahimè! Se voi lo credeste appena un pico, non morireste di orrore di voi stesso, pensando ad ogni momento in cui siete esposto ad andare a rendere conto di tutte queste turpitudini davanti ad un giudice che sarà senza misericordia. Sì, fratelli miei, se avessimo la felicità di ben meditare su ciò che ci attende dopo questo mondo che è cos’ breve, sarebbe impossibile non lavorare per tutta la vita tremando nel timore di non riuscire a salvare la nostra povera anima. Felice, fratelli miei, colui che si terrà sempre pronto! Ciò che io vi auguro. 

LA COSCIENZA CRISTIANA (note dottrinali)

Coscienza buona e cattiva.

[Ab. BARBIER: I Tesori di Cornelio Alapide; vol. I, S. E. I. Torino, 1930]

1. Qual è la buona coscienza? — 2. Potenza e forza di una buona coscienza. — 3 Eccellenza e pregio della buona coscienza. — 4. Felicità che procura la buona coscienza. — 5. Disgrazie che attira la cattiva coscienza e disordini che produce. — 6. Cagioni della cattiva coscienza. — 7. Che cosa si deve fare per acquistare una buona coscienza.

1. QUAL È LA BUONA COSCIENZA? — Buona coscienza, dice Ugo da San Vittore, è quella che si mostra dolce con tutto il mondo, che non ferisce persona, che usa castamente dell’amicizia, che, paziente con i nemici, benevola verso tutti, fa il bene per quanto le è possibile. Buona coscienza si dice quella a cui Dio non imputa peccati, perché li schiva, né incolpa dei peccati altrui, perché essa non li approva, né accagiona di negligenza, perché ha parlato ed operato quando era necessario, né taccia d’orgoglio, perché si tenne sempre nell’umiltà e nell’unità (De Anima lib. III, c. IX). La buona coscienza è quella che è retta, che obbedisce alle leggi di Dio e della Chiesa e che si serve dei lumi della ragione per illuminarsi … La buona coscienza è quella che sta attenta per non cadere e che caduta, prontamente si rialza … La buona coscienza è l’uomo tutto intero; poiché l’uomo è nulla, o meglio è un mostro, un flagello, quando non ha la buona coscienza… La buona coscienza è l’immagine di Dio su la terra …

2. POTENZA E FORZA DI UNA BUONA COSCIENZA. — Il non aver nulla da rimproverarsi, il non aver da arrossire di colpa alcuna, dà tale forza che ci rende muri di bronzo, cantava Orazio (lib. I, Epist.); e il martire Tiburzio affermava che ogni patimento è lieve, anzi è un nulla, quando si ha la coscienza retta e pura. La buona coscienza niente teme; essa può ripetere col poeta: « Io temo Dio, caro Abner, e fuori di questo non conosco altro timore. — Ci travagli pure il corpo con le sue voglie e col pungolo della concupiscenza; ci solletichi o ci minacci il mondo; ci tenti o ci spaventi il demonio; la buona coscienza sta tranquilla, ferma, irremovibile. Al punto di morte la buona coscienza è piena di speranza e compare senza inquietudine al tribunale di Dio. Il mondo va e viene; piange e ride; passa e scompare senza che la buona coscienza ne resti scossa o macchiata. Si può battere, torturare, sbranare, crocifiggere, bruciare il corpo, ma la buona coscienza trionfa di tutte queste prove.

3. ECCELLENZA E PREGIO DELLA BUONA COSCIENZA. — « Che cosa vi è quaggiù di più prezioso, scriveva S. Bernardo a papa Eugenio, di più tranquillo e sicuro che una buona coscienza? Non teme perdita di beni, né ingiurie, né patimenti; la morte, non che intimidirla, le dà fierezza (De Consid. lib. I ) ». – « Non l’ampiezza del principato, non la copia delle ricchezze, non il fasto della potenza, non la gagliardia del corpo, né altra simile cosa dà tranquillità e gioia all’anima, ma solo la buona coscienza e infelicissimo sarebbe chi possedesse ogni sorta di beni, ma intanto avesse coscienza d’aver fatto male», dice il Crisostomo (Homil. I, in Epi. ad Rom.). Non si dà più sicuro pegno di future benedizioni che la consolante testimonianza di una buona coscienza; perciò i Proverbi la dicono, « un continuo festino » — Secura mens quasi iuge convivium (XV, 15). Quindi Ugo da S. Vittore la chiama un campo di benedizione, un giardino di delizie, un tabernacolo d’oro, la letizia degli angeli, l’arca dell’alleanza, un tesoro regio, il trono di Dio, la dimora dello Spirito Santo, il libro chiuso e sigillato che verrà aperto il dì del giudizio (De Anim. lib. III).

4. FELICITÀ CHE PROCURA LA BUONA COSCIENZA. — « La stessa notorietà delle buone opere che si sono fatte, infonde speranza a una buona coscienza, dice S. Agostino: poiché questa è naturalmente portata a sperare ed è piena di confidenza, mentre la cattiva coscienza è rosa dalla disperazione (Homil. in Ioann.)) ». – « Dove trovare cibo più gustoso, dice S. Ambrogio, fuori della testimonianza d’una buona coscienza, e d’un cuore innocente? (In Psalm. XLV) »; e tutti i giorni che una buona coscienza vede splendere, sono giorni di festa … La  pace dell’anima rende la vita felice (Officiò, lib. II, c. 1). Quando l’anima non è tormentata da rimorsi, predicava il Crisostomo, prova tanta felicità, che non si può dire. Che dirò? tutto ciò che vi è di più confortante e dilettevole in terra, è amarezza e melanconia se si confronta col piacere che proviene da una buona coscienza (Hom. ad pop.). Che può mai temere un giusto? egli sa che la sua purezza di coscienza gli guadagna la protezione e l’amore di Dio. La sua anima è calma, serena, tranquilla, piena di fiducia, di contentezza e di coraggio, perché egli è appoggiato a Dio. « Niente si può immaginare di più felice che la tranquillità di coscienza (De Givit. Dei, lib. XXI); e nessuno può contristare colui la cui gioia è Cristo (Sentent. XC) », dice S. Agostino. Nessuno è infelice, soggiunge Salviano, perché altri lo giudica tale, ma l’infelicità proviene solamente da noi medesimi. Ecco perché chi ha la fortuna di avere una coscienza monda e buona è felice, ancorché altrimenti ne giudicassero tutti gli uomini (De Prov. Dei). Anzi non solamente felicità, ma gloria nostra è, al dire di S. Paolo, la buona testimonianza della coscienza: — Gloria nostra hæc est, testimonium conscientiæ nostræ (II Cor. I, 12). Perciò non è a stupire se in questo convengono anche i pagani. « Qual è il sommo bene? domanda Ausonio, e risponde: Una coscienza che nulla ha da rimproverarsi. La coscienza di aver voluto il bene, è il massimo dei conforti nei travagli della vita »; la testimonianza di una buona vita, unita al ricordo del bene che si è continuamente fatto, forma la felicità dell’uomo, sentenziava Cicerone (Caio mal.). La buona coscienza ci libera da tutte le inquietudini della vita, leggiamo in Plutarco. Chi sono quelli che vivono felici? – fu domandato a Socrate: Sono coloro, rispose, che mantengono la loro coscienza netta di ogni sozzura (Anton, in Meliss.). Interrogato Biante qual fosse la cosa che nulla temeva, e Periandro qual fosse la più grande e perfetta contenuta nella più piccola e vile; risposero ambedue: essere la buona coscienza, e quest’ultimo aggiunse, nel corpo di un uomo.

5. DISGRAZIE CHE ATTIRA LA CATTIVA COSCIENZA E DISORDINI CHE PRODUCE . — « Conserva, scriveva S. Paolo a Timoteo, la buona coscienza, la quale perché alcuni rinnegarono, fecero naufragio nella fede » — Habens… bonam conscientiam, quam quidam repellentes circa fìdem naufragaverunt (I Tim. I, 29). La cattiva coscienza è la sorgente di tutte le eresie, della corruzione dello spirito e del cuore e di tutti i delitti. ..Il medesimo Apostolo accenna alcuni che avevano la coscienza cauterizzata:— Cauteriatam habentium suam conscientiam (I Tim. IV, 2). La coscienza cauterizzata, la quale è una coscienza profondamente corrotta e indurita, ha smarrito il senso del bene e del male. Altre volte regnava la coscienza, poi la scienza ne prese il luogo; finalmente l’una e l’altra disparvero e noi siamo divenuti esseri stupidi e perversi… L’errore, qualunque sia, è sempre pericoloso, ma quello che influisce sulla coscienza, su questa regola dei costumi, è il più dannoso. « Badate, diceva Gesù Cristo, che la luce la quale è in voi non si volga in tenebre » — Vide ne lumen quod in te est, tenebræ sint (Luc. XI, 35). L’occhio della nostr’anima è la coscienza; ora quando l’occhio è affetto da malore, tutti gli atti della vita ne patiscono; così quando la coscienza è inferma, tutto nell’anima è disordine: perché 1° non vi è eccesso a cui una cotale anima non si abbandoni…; 2° si commette il male arditamente e senza rimorsi …; 3° questo stato non ha più rimedio…

6. CAGIONI DELLA CATTIVA COSCIENZA. — Se si seguisse la legge di Dio, se sopra di essa si modellasse la condotta, la coscienza sarebbe retta e illuminata, perché la legge di Dio non soffre che si faccia il male: — Lex Domini immaculata (Psalm. XVIII, 7). Ma si interpreta secondo i propri disegni…; si traveste a capriccio delle passioni…; si elude, o piuttosto si disprezza e si calpesta… ognuno si foggia una coscienza a proprio modo… una coscienza compiacente… tutto ciò che si brama è buono, dice S. Agostino, tutto ciò che piace è santo (Serm.).

7. CHE COSA SI DEVE FARE PER ACQUISTARE UNA BUONA COSCIENZA. —

Per procurarsi una buona coscienza, bisogna, 1 ° consultare la legge di Dio e seguirla; 2° detestare il peccato, secondo il consiglio medesimo di Seneca: « Ancorché io sapessi, diceva questo filosofo pagano, che agli uomini starà nascosto e che Dio mi perdonerà il peccato, tuttavia non vorrei peccare, trattenuto dalla intrinseca bruttezza del medesimo » . – Un 3° mezzo ci è dato da S. Agostino, in quelle parole: « Si acquista una buona coscienza per mezzo di una buona vita ». Una vita cristiana, pura e santa, è prova di una buona coscienza; una vita sregolata, colpevole e scandalosa, genera una coscienza cattiva; e quando la coscienza è corrotta, i costumi si vanno man mano depravando e la coscienza s’indura. Allora tutto è perduto nel tempo e per l’eternità. – Il 4° mezzo è suggerito dai seguenti versi di Pitagora: « Non fare mai nulla di turpe né in presenza di amici, né di testimoni, né di te stesso ancorché solo, e trattate medesimo con somma modestia ». – Un 5° eccellentissimo mezzo sta nel considerare i tormenti e i castighi che infligge una cattiva coscienza. Essa infatti è una spada che trapassa il cuore…; è un abisso sopra di cui romba la tempesta… Il peccatore si trova del continuo tra l’affanno, il timore ed i rimorsi; passa la sua vita nell’amarezza e nel disgusto, anche quando pare che nuoti nell’abbondanza, nelle delizie, nella gioia… La vita dell’uomo senza coscienza è un sogno; all’aprire degli occhi il suo riposo è scomparso, i suoi piaceri sono svaniti. Voi non vedete di lui altro che i festini e le gioie di cui gode; considerate piuttosto la sua coscienza e le torture che gli cagiona… La coscienza è un testimonio…, un giudice…, un carnefice… Il verme roditore della coscienza non muore, disse Gesù Cristo: — Vermis eorum non moritur (Marc. IX, 47). No, dice S. Agostino, non vi è afflizione uguale a quella che è prodotta da una cattiva coscienza. Chi pecca, sta male con se stesso; è angustiato, perseguitato da’ suoi rimorsi; diviene carnefice e castigo a se stesso. Un nemico si può scansare, m a come fuggire se stesso? Non si danno patimenti simili a quelli che fa provare una cattiva coscienza, perché essendo il peccatore in urto con Dio, non trova consolazione in nessuna parte (Sentent.).

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DELLA COSCIENZA.

[G. Frassinetti: Compendio di teologia Morale di s. Alfonso M. De’ Liguori, Genova, Tipogr. Arcivescovile; 1882]

1. Prima regola delle nostre azioni è la legge divina; ma regola rimota. Regola prossima poi ne è la coscienza, che noi praticamente siamo obbligati a seguire. La coscienza quindi si definisce: il dettame della ragione, mediante il quale giudichiamo che una cosa sia da farsi o non farsi siccome lecita od illecita presentemente: hic et nunc. — La coscienza è la regola prossima delle nostre azioni, perché ogni atto umano si giudica virtuoso, o vizioso, non secondo il suo obbietto materiale, ma secondo l’idea che abbiamo della sua bontà o della sua malizia. — La Sinderesi è la cognizione dei principii universali: per esempio, il bene è da desiderare, il male è da fuggire, ecc.

CAPITOLO I.

DELLA COSCIENZA RETTA,  ERRONEA, PERPLESSA E SCRUPOLOSA.

2. La coscienza retta è quella che detta una cosa vera. —

La coscienza erronea è quella che detta una cosa falsa. Questa poi si divide in vincibile, ed in invincibile. È vincibile, quando ci si presenta alla mente il dubbio, ossia il pericolo di errare, e di più si avverte all’obbligo di appurare la verità della cosa. E invincibile, quando non occorre alla mente né quel dubbio, né questa avvertenza. Quando sia invincibile e precettiva, siamo obbligati a seguirla nelle nostre operazioni; che se poi è vincibile, allora, seguendola, noi peccheremmo.

3. Non si dà ignoranza invincibile riguardo ai primi principii, quale sarebbe questo: Non fare agli altri ciò che non vorresti che fosse fatto a te. — Riguardo alle conclusioni, che da tali principii vengono immediatamente, come sarebbero i precetti del Decalogo, non può darsi ignoranza invincibile,non siavi nell’azione cattiva alcuna circostanza che, almeno apparentemente, la giustifichi. — Si dà poi ignoranza invincibile in tutte le conchiusioni non immediate, cioè nelle conchiusioni che si deducono dai precetti del Decalogo. —Pertanto è da stabilire che si dà ignoranza invincibile, cioè incolpabile, anche nella legge naturale. — Chi poi conosce alcuna opera essere cattiva, non può ignorare invincibilmente che sia cattivo e peccaminoso anche il desiderio di essa.

4. La coscienza è perplessa, quando di due azioni dovendosi necessariamente farne una, si giudica che sia peccato l’una e l’altra, di modo che ad ogni modo si abbia da violare la legge di Dio. — Colui che si trovasse in questa perplessità, potendo, dovrebbe consigliarsi con persone dotte per sentire a quale parte dovesse appigliarsi. Non potendo poi prender consiglio, dovrebbe scegliere di fare il minor male, evitando la trasgressione del precetto più importante, come sarebbe la trasgressione di un precetto della legge naturale, a preferenza della trasgressione di un precetto positivo; mancando piuttosto, per esempio, al precetto della Messa che a quello della carità verso il prossimo. Se poi l’uomo non sa distinguere il maggior male dal minore, allora in qualunque modo egli operi, non pecca.

5. La coscienza scrupolosa è quella, che per ragioni vane, incapaci a persuadere un uomo prudente, dubita della onestà delle azioni. — E necessario che gli scrupolosi camminino per la strada della cieca ubbidienza, attenendosi alle regole assegnate loro dal Confessore. Questo poi darà sempre agli scrupolosi regole generali e senza restrizioni. Inoltre procurerà che bene si persuadano di due cose: primieramente, che il Cristiano procede con sicurezza sotto l’ubbidienza del Confessore, qualunque cosa gli comandi, purché non fosse un evidente peccato: in secondo luogo, che il maggiore scrupolo, ossia il timore di far male, dev’essere quello di mancare all’ubbidienza, per tutti i danni che questa mancanza apporta alla salute dell’anima, e in tanti casi anche a quella del corpo.

6. Gli scrupolosi non sono obbligati a confessar peccati, se pure non sieno talmente certi da poterne prendere giuramento, che quelli sieno veri, formali peccati mortali, e che inoltre non gli abbiano mai confessati. Frattanto il Confessore proibisca loro di fare esami sulla materia dei loro scrupoli, di ascoltare prediche di terrore, come quelle del Giudizio, dell’Inferno ecc., e di leggere i libri pii che ne trattano, se tali prediche e letture servono a disturbar la pace del loro spirito. Gli scrupolosi, che facilmente temono d’avere acconsentito a cattivi pensieri, si devono avvisare, non essere possibile che cadano in peccato senza che chiaramente se ne avvedano, per questo appunto che abborriscono il peccato. Quindi non si deve mai loro permettere che si accusino di alcun peccato se non sappiano d’averlo certamente commesso con piena avvertenza e deliberazione. Gli scrupolosi poi, che sono angustiali per le confessioni passate anche dopo d’aver fatto la confessione generale, e forse dopo che hanno già ripetute più volte le loro confessioni, sono da obbligarsi a non pensar mai ne all’integrità, ne alla validità delle loro confessioni.

7. Gli scrupolosi finalmente che temono di peccare quasi in tutte le operazioni che fanno, sono da esortare ad agire liberamente, se pure non riconoscano nelle loro operazioni una evidente malizia. Sono poi da ammonire ch’essi non devono temere di commettere peccato per ragione dello scrupolo od ansietà che li accompagna nell’operare; imperocché questa ansietà è una semplice trepidazione di animo, e non già quella coscienza formata, che ricercasi al peccato formale.

CAPITOLO II

DELLA COSCIENZA DUBBIA.

8, La coscienza dubbia è quella che rimane irresoluta, e sospende l’assenso per l’una e per l’altra parte. È dubbia negativamente, quando non ha motivo notevole per determinarsi più ad una parte che all’ altra. È dubbia positivamente quando tanto per l’una come per l’altra parte si hanno ragioni gravi. Il dubbio altro è speculativo, quando cioè si dubita della cosa in astratto: per esempio, se sia lecito guerreggiare. Altro è pratico, quando cioè si dubita d’ una cosa da fare: per esempio, se sia lecito prendere parte a quella tale guerra. Il dubbio speculativo riguarda il vero; il dubbio pratico riguarda il lecito.

9. E lecito alle volte agire col dubbio speculativo, quando è si abbiano buone ragioni da persuaderci che una data azione ci sia lecita di presente. Per es. dubito se il ricamare sia lecito nei dì festivi; tuttavia conoscendo di aver grave bisogno del guadagno che ricavo dal ricamo, giudico che attualmente il ricamare mi sia lecito. Invece col dubbio pratico non è mai lecito agire; esso deve prima deporsi. Per es. dubito se ciò che mi si presenta da mangiare in venerdì sia cibo grasso o magro; prima di mangiare devo verificare la cosa. Chi opera col dubbio pratico di peccare, pecca di quella specie di peccato, di cui dubita. Per esempio: chi dubita di rubare, pecca di furto. Chi opera dubitando di far peccato mortale o veniale, più probabilmente pecca di peccato veniale, purché allora non avverta al pericolo di peccare mortalmente, né all’obbligazione di verificare la cosa; e purché l’azione non sia da per sé manifesto peccato mortale, e la malizia dell’azione non si conosca almeno in confuso.

10. Nei dubbi è da vedere se posseda il precetto o la libertà. Se possedè il precetto, si deve certo adempiere; non v’è poi tal obbligo, se possiede la libertà. Or per conoscere se possegga il precetto o la libertà, è da osservare per chi stia la presunzione. La presunzione sta pel precetto quando n’è già cominciata l’obbligazione; ed obbliga fintantoché l’obbligazione di esso precetto non sia certamente cessata. Per lo contrario la presunzione sta per la libertà, quando non si può dir con certezza che l’obbligazione del precetto sia già cominciata; poiché noi non siam tenuti al precetto insino a tanto che non cominci in modo certo ad obbligarci. Sia per esempio: è la sera del sabbato, e dubito se sia passata la mezza notte, ed incominciata perciò la domenica; non potendo verificare la cosa, la presunzione è pel sabato, e non posso mangiare di grasso. Se invece fosse la sera del giovedì, nel dubbio se sia cominciato il venerdì, la presunzione sta pel giovedì, e posso ancora mangiare di grasso.

11. Quando si dubita se la legge sia stata accettata, la legge obbliga; perché la presunzione sta per essa. Infatti è da supporre ordinariamente che sia stato fatto ciò che era da fare. — Se per lo contrario si dubitasse della promulgazione della legge, non potrebbe essa obbligare, stando in possesso la libertà fin che non si provi la esistenza della legge. — Nel dubbio, l’atto si suppone valido, ove non si provi il contrario. Per esempio: nel dubbio deve tenersi per valida la confessione, né v’ha obbligo di rifarla. Chi dubita della validità del matrimonio, fatte le debite parti per conoscere la verità, potest recidere, et etiam petere.

12. Chi dubita d’aver fatto un voto, non è obbligato ad adempierlo: e chi dubita d’aver compreso nel voto una qualche particolarità, non è obbligato alla medesima. Il contrario si deve dire qualora sia certo d’aver fatto il voto, e si dubiti di averlo adempito; come se alcun dubiti d’aver recitato le Ore canoniche, d’aver fatta la penitenza sacramentale; s’intende sempre quando questi dubbi non siano mal fondati, quali sono quelli degli scrupolosi. – (A costoro in pratica non è mai da permettere che nel dubbio ripetano le preghiere né anche le comandate, come sarebbero appunto le Ore canoniche, o la penitenza data dal Confessore. E tuttavia sentenza sodamente probabile, e il Gury l’appella comunissima, che quando alcuno ha vera e soda probabilità di avere adempito a qualche sua obbligazione, non sia più tenuto a soddisfarvi nuovamente, ancorché non sia certo dell’adempimento. Vedi il Gury T. I . n. 80 colle note del Ballerini. Dice ivi il De Lugo che se il peccatore giudica probabilmente di avere già confessato un peccato, non è più obbligalo a confessarsene; e chiama questa sentenza comune). – È da osservare, che dopo passato molto tempo, di molte cose non si può avere più una certezza, ma soltanto una probabilità; ed allora specialmente la probabilità ci deve bastare. Per esempio: alcuno ricorda che vent’anni sono aveva un’obbligazione, cui probabilmente ha soddisfatto; che ha commesso un peccato, di cui probabilmente si è confessato. Costui non è più tenuto né a quella obbligazione, né a confessare quel peccato. Stante quella probabilità, ragionevolmente si suppone che siasi fatto ciò che si doveva tare.

13. Nel dubbio se un’azione comandata sia lecita, deve eseguirsi, perché possedè l’autorità del Superiore, fin che non si provi ch’esso ne abusa, comandando veramente ciò che non gli è lecito di comandare. — Chi dubita d’essere arrivato ai 60 anni, è obbligato al digiuno; e chi dubita di avere l’età. che si ricerca per gli Ordini e pei Benefìzii, non può ordinarsi, né accettare il Benefizio; perché in questi casi possede il precetto. Se invece al giovedì alcuno dubita se sia già mezza notte, può mangiare carne, come dicemmo, perché possede la libertà. Parimente chi dubita d’avere mangiato qualche cosa dopo la mezzanotte, probabilmente può comunicarsi; e si dice probabilmente, perché alcuni pensano che il precetto del digiuno sia positivo; tuttavia più comunemente si pensa che sia proibitivo, e che perciò nel dubbio sia lecita la Comunione. — Chi è certo del debito, e dubita di averlo pagato, è tenuto al pagamento; dicasi poi il contrario, se il debito è dubbio. Si vedano gli atri casi, dove si parla della restituzione.

CAPITOLO III.

DELLA COSCIENZA PROBABILE.

14. La coscienza probabile è quella che, appoggiata a qualche opinione probabile, ci detta che sia lecita un’azione. L’opinione poi probabile è quella che ha in appoggio una grave ragione capace a trarsi l’assenso d’un uomo prudente. — Generalmente è lecito operare con coscienza formata sopra d’una opinione veramente probabile. Tuttavia non sarebbe ciò lecito col pericolo del danno altrui, posto che abbia diritto, che non gli si apporti quel danno; e neppure sarebbe lecito col pericolo del danno proprio, a cui non ci sia lecito di sottometterci; poiché quella probabilità non potrebbe impedire il male, che forse ne verrebbe. — Per la qual cosa il cacciatore non può sparare lo schioppo contro un oggetto che vede muoversi dietro dei frondi, quando dubita se sia uomo o fiera. Parimente niuno in materia di fede, e in cosa necessaria all’eterna salvezza può seguire un’opinione anche probabilissima, se non è sicura. Lo stesso è da dirsi quanto alla materia dei Sacramenti, come vedrassi al proprio luogo, ove porremo le osservazioni fatte a proposito dal nostro Santo. — Che il giudice possa giudicare seguendo le opinioni meno probabili, è proposizione condannata da Innocenzo XI, n. 2. Che sia lecito seguirle in materia di fede e in cose necessarie alla vita eterna, e nella materia dei Sacramenti, abbandonata la sentenza più sicura, sono proposizioni| condannate dal medesimo Pontefice al n. I , ed al n. 4.

15. Tra le opinioni, altre sono più probabili, perché sii appoggiano sopra argomenti di maggiore peso che non le contrarie. Altre sono probabilissime, che si appoggiano sopra ragioni talmente gravi da non rimanere più bastantemente probabili le contrarie, le quali perciò si appellano tenuamente probabili. Altre sono moralmente certe; e son quelle che escludono ogni ragionevole timore di falsità: le contrarie a queste si appellano semplicemente improbabili. — Non è lecito operare seguendo opinioni tenuamente probabili, che non possono trarsi l’assenso di persona prudente. È lecito poi assolutamente seguire le opinioni probabilissime. Le opinioni che dicevano il contrarie furono condannate dalla Chiesa. (Vedi la proposizione 3 delle condannate da Innocenzo XI; e la proposizioni 3 tra le condannate da Alessandro VII). — Quando l’opinione in favore della legge ha una probabilità notevolmente maggiore di quella che presenta l’opinione che favorisce la libertà, deve affatto seguirsi. — Se l’opinione in favore della legge è ugualmente probabile che quella che favorisce la libertà, la legge non può obbligare; essendo chiaro che una legge certamente dubbia non può imporre una obbligazione certa. Per la qual cosa, perché ci sia lecito operare, non fa bisogno che l’opinione in favore della libertà sia più probabile di quella che sta per la legge.

16. Che la legge dubbia non obblighi, è principio fondamentale del Sistema Morale di S. Alfonso. Questo principio che è certo in se stesso, noi lo usiamo come principio riflesso a formarci nei casi dubbi una coscienza certa. Per esempio: nasce il dubbio che oggi sia giorno di digiuno; siamo in luogo da non poterlo verificare: in questo caso per noi la legge del digiuno è dubbia; quindi giudichiamo che a noi certamente sia lecito di non osservare il digiuno. — Parimente la legge non obbliga quando dubitiamo se l’opinione la quale è in favore della legge, sia o non sia più probabile di quella che è in favore della libertà; poiché eziandio in questo dubbio la legge rimane incerta. È da dire il contrario quando la maggiore probabilità è notevole, certa ed evidente; imperocchè allora l’opinione in favore della legge addiviene molto più probabile della sua contraria, e la legge si può dire sufficientemente manifestata. È da notare che, giusta la dottrina del Santo, ogni volta che qualche opinione è certamente ed evidentemente più probabile, è anche più probabile notabilmente. Dice al num. 31: « Quando all’intelletto certamente apparisce che la verità meglio si trovi nell’opinione in favore della legge che in quella che favorisce la libertà, allora la volontà non può prudentemente e senza colpa seguire la parte meno sicura ».

LA COSCIENZA

[F. Spirago, Cathéchisme Catholic Populaire. II Parte: i Comandamenti di Dio. 6a Ed. Paris, – 1903]

 Dalla conoscenza della legge, nacque la coscienza, vale a dire la scienza che ci fa conoscere se un’azione è permessa o no. La nostra ragione ci rende attenti nei casi concreti nei quali dobbiamo agire in ciò che dobbiamo fare secondo i precetti conosciuti. La ragione di conseguenza ci inculca la conoscenza della legge e del nostro dovere. Questa conoscenza del dovere è la coscienza. La coscienza è dunque un’attività dell’intelligenza e, come sappiamo, essa spinge potentemente la nostra volontà al bene. E poiché la nostra coscienza ci rende attenti alla volontà del bene, numerosi Santi l’hanno chiamata la voce di Dio. La coscienza è la voce di Dio che si manifesta come legislatore e come giudice. (S. Tommaso d’Aquino). La coscienza si rivela nel modo seguente: prima dell’azione, essa avverte ed incoraggia; dopo l’azione, essa tranquillizza o turba secondo che l’azione è stata buona o cattiva. Caino e Giuda furono turbati dal rimorso della loro coscienza. Un giudice umano può talvolta lasciarsi corrompere o farsi persuadere da adulazioni, insulti, minacce, ma il tribunale della coscienza, giammai (S. Giov. Chrys.). la coscienza è dunque buona o cattiva. La buona coscienza rende gai e caccia via la tristezza, come il sole disperde le nubi (S. Chrys.). Essa addolcisce le amarezze della vita, è simile al miele che non è solo dolce di per sé, ma edulcora le bevande più amare (S. Agost.). Una buona coscienza è un dolce cuscino. – La cattiva coscienza rende irascibili ed agitati; è un verme che esce dal marciume del peccato (S. Thom. D’Aq.), e che non muore mai (S. Marc. IX, 43). La cattiva coscienza avvelena tutte le gioie della vita; essa somiglia alla spada di Damocle sospesa ad un capello sopra la propria testa durante il pasto, la cui vista priva di ogni gioia. Colui che ha una cattiva coscienza somiglia ad un condannato a morte che, malgrado tutte le gioie che gli si accordano nelle sue ultime ore, non riesce ad esserne sinceramente felice. (S. Bern.). L’uomo può avere una coscienza delicata o una coscienza rammollita. La coscienza delicata risente delle minime colpe; la coscienza rammollita appena delle più grandi.Una coscienza delicata somiglia ad un bilancino da orefice, che è sensibile al minimo pulviscolo; la coscienza rammollita somiglia ad una bascula da fieno che appena si inclina sotto il peso di una libbra. I Santi avevano la coscienza delicata; essi si rammaricavano della minima offesa di Dio. I mondani hanno invece una coscienza rammollita; essi appena notano quel che è un peccato mortale manifesto. Nondimeno essi attribuiscono una grande importanza a delle nullità;  essi « … filtrano il moscerino e ingoiano il cammello! » (Matt. XXIII, 24). Un uomo dalla coscienza delicata è un uomo coscienzioso, quello con la coscienza rammollita sarà un uomo senza coscienza. L’uomo può anche avere una coscienza larga (lassa) o una coscienza timorosa (scrupolosa). Colui che ha una coscienza larga considera permessi tutti i più grandi peccati; egli come principio ha: che … una volta non è la consuetudine, che … una volta non conta, che … errare è umano, etc. La sua vita depravata non gli consente più di ascoltare i rimproveri della sua coscienza, come un uomo che abita nei pressi di una cascata d’acqua (o di una ferrovia) si abitua poco a poco al loro rumore e nonostante essi, dorme ugualmente molto bene (S. Vinc. F.). Colui che al contrario ha una coscienza scrupolosa, considera come proibite anche le azioni permesse. Uno scrupoloso somiglia ad un cavallo permaloso che si nasconde all’ombra di un albero o di una pietra, come se fossero un leone o una tigre, e che espone così tutto il suo carico al danno più grande. Lo scrupoloso immagina così dei pericoli là dove non ce ne sono, e cade allora facilmente nella disobbedienza e nel peccato (Scar.). Lo scrupolo non viene ordinariamente dall’ignoranza, ma da una sensibilità malaticcia che turba la ragione. Il fondo di ogni scrupolo è l’orgoglio (S. Franc. S.). ogni scrupoloso è timido e per questo non può diventar perfetto; egli somiglia ad un soldato pauroso che non ha il coraggio di affrontare il nemico e che depone le armi prima dell’attacco. Uno scrupoloso non deve mai fermarsi davanti ai suoi scrupoli, perché essi assomigliano alla pece o alla colla che si attaccano quanto più si cerca di scacciarla (Scar.). Lo scrupoloso deve disprezzarlo e fare il contrario di ciò che lo scrupolo gli vieta. (S. Alf.). Egli deve obbedire esattamente al suo confessore, altrimenti non guarirà e rischia di diventare folle. (S. Alf.). Lo scrupoloso deve diffidare del suo giudizio personale e del suo modo di intendere le cose, ed anche rinunciarvi completamente. Così spariranno i suoi scrupoli che risultano più di frequente dall’orgoglio e dall’attaccamento ostinato alle proprie idee (Marie Lat.). Colui che vuol fare grandi cose per Dio deve badare a non essere pusillanime: se gli Apostoli lo fossero stati, non avrebbero mai intrapreso la conversione del mondo (S. Ign. Loy.). Non si deve agire contro la propria coscienza, altrimenti si commette un peccato. La coscienza non è altra cosa che la legge applicata ai casi concreti; colui che agisce contro la sua coscienza, agisce dunque contro la legge. San Paolo dice: pecca colui che agisce contro la propria convinzione (Rom. XIV, 23). Pecca, ad esempio chi, nel giorno di giovedì, pensando che sia venerdì, ciò nondimeno mangia volontariamente la carne.

COSCIENZE MALATE

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli; vol. Secondo. – Soc. Vita e Pensiero, Milano, 1939 – imprim.]

È triste quando si spegne la luce degli occhi: ogni cosa perde la linea e il colore, ed una oscurità senza né tempi né mutamenti benda il volto del povero cieco.

È più triste quando si spegne la luce dell’intelligenza: l’anima è strappata via di forza e sepolta viva nella materia che la rende incapace d’agire. Il povero deficiente è al mondo, quasi come un vegetale, senza saperlo; ha uno spirito immortale e non sa d’averlo. Ma più triste ancora è quando si spegne la luce della coscienza: l’uomo ha sani gli occhi ma non vede, ha l’intelligenza aperta ma non capisce; non vede e non capisce che corre verso la sua finale e irrimediabile rovina. Le altre sventure sono la privazione di un grande bene, ma solo per i pochi anni della vita terrena. Questa ci sospinge verso la perdita di tutto il bene, e per tutta l’eternità. – La coscienza vale assai più della scienza; ed il mondo più che di uomini di scienza ha bisogno di uomini di coscienza, cioè di santi.

Che cos’è dunque la coscienza?

Essa è quella facoltà dell’anima che indica l’orientazione giusta alle nostre azioni. Gli animali hanno l’istinto che li guida, ma l’uomo ha la coscienza. Essa è un incorruttibile tribunale interiore che giudica ogni atto, ogni parola, ogni pensiero e di ciascuno pronuncia la sua sentenza: questo è buono e tu sei meritevole; questo è cattivo e tu sei riprovevole. Essa è l’eco della voce di Dio che ci parla senza strepito, che ci muove senza violenza. Non pretendete che Gesù vi appaia corporalmente come S. Paolo e vi fermi bruscamente sulla strada per imporvi di convertirvi o di pregare. Neanche pretendete che Dio vi mandi visibilmente la Madonna o qualche Angelo. Se rientrate in voi, se la vostra coscienza non è stata guastata dall’impurità e dall’orgoglio, allora sentirete realmente quello che Dio vuole e quello che non vuole da voi. Potete ora comprendere la grande importanza che la coscienza ha nella vita dell’uomo. E potete ora comprendere l’enorme disgrazia di chi l’ha pervertita. Costui cammina verso l’abisso dell’iniquità, e siccome la coscienza è guasta, lo lascia smemorato nel suo traviamento, quasi illuso di camminare verso la giustizia. È questa orribile illusione che Gesù denunciò prima di morire ai suoi Apostoli: Verrà l’ora in cui chi vi scaccerà e vi ucciderà, crederà di fare una buona cosa e penserà di dare gloria a Dio. Povere coscienze ottenebrate che non conoscono più né il Padre né me! Voi però non scoraggiatevi. Vi manderò lo Spirito Santo che vi darà la forza anche di morire per rendermi testimonianza ». La grave parola del Signore ci persuade a considerare le malattie della coscienza, specialmente quelle che sono le più disastrose perché danno l’illusione di essere onesti e religiosi.

Ci sono tre tipi di coscienze malate:

la coscienza cieca;

la coscienza farisaica;

la coscienza pervertita.

I. COSCIENZA CIECA

Quando l’aeroplano in volo entra nella nebbia, al pilota trema un poco il cuore. Manca ogni visibilità: di sopra e di sotto, a destra e a sinistra non c’è che un’informe e fiottante massa grigiastra. Dove sarà? Non avrà deviato dalla giusta rotta? È tempo di discendere? Come abbassarsi di quota se non si vede nulla? Un ostacolo improvviso, una collina, un campanile, potrebbero determinare la rovina. Nessuna paura; c’è il marconista in continuo collegamento coi campi d’aviazione che gli segnalano le condizioni opportune per atterrare; ci sono perfettissimi strumenti di misurazione che indicano di momento in momento la quota d’altezza, la velocità di volo, la direzione. Intanto l’aeroplano vola ciecamente nella nebbia. E se la radio non funzionasse più? Se gli istrumenti di misurazione si fossero guastati senza che nessuno se ne accorgesse? Basterebbe un minimo errore di calcolo. Allora ogni cosa più orribile può accadere. – Qualche anno fa un aeroplano, smarritosi nella nebbia si fracassava a tutta velocità contro la collina di Lanzo Torinese, spiaccicandovi otto persone.

La vita nostra, quaggiù sulla terra, è in tutto simile a un volo nella nebbia, la nebbia dei sensi. Noi non vediamo Dio, non vediamo il Paradiso che è la meta a cui tendiamo, non vediamo a che altezza e a che punto siamo del nostro viaggio. Ma abbiamo però la coscienza, dove ci sono strumenti perfetti di misurazione morale, e dove arrivano i radiogrammi del Signore. Appena con qualche peccato si esce dalla giusta rotta, allora nella coscienza si fa sentire una punta come di spina confitta, come di tarlo che rode. Guai a chi non bada e disprezza queste segnalazioni preziose! La coscienza si vendica facendosi sempre più fioca, fin che si spegne. Allora l’uomo è un disperso nella nebbia dei suoi istinti. Quel danaro, quella roba di mal acquisto non gli scotta più: per lui è come se fosse di guadagno legittimo. Quella lite maliziosamente intentata e con raggiri vinta non gli rimorde più: per lui è come se avesse sostenuto un proprio diritto. Quegli scherzi equivoci, quelle impudenti libertà di parola e di mano, quegli spettacoli corruttori, ora gli sembrano innocui divertimenti, una maniera allegra e piacevole di passar la vita. Ma se la rupe della morte gli si adergesse improvvisa davanti?… Ah! che disastro: altro che quello dell’aeroplano contro la collina di Lanzo Torinese.

2. COSCIENZA FARISAICA

Quando la luce vera si spegne nella coscienza, è facile che s’accendano falsi fanali che deformano la visuale. Ne deriva così quella coscienza farisaica che fu bollata a parole roventi dal Signore. Di essa voglio ora ricordare due caratteristiche.

a) La coscienza farisaica è una lampada cieca che proietta la luce sugli altri e tiene nell’ombra chi la porta. I farisei vedevano il fuscellino nell’occhio del prossimo, e non s’accorgevano di avere una trave nel proprio. I farisei scovavano macchie e scandali dappertutto, anche nelle azioni più buone, eccetto che in sé e nella propria condotta. I farisei avevano da sparlare di tutti, eccetto che di sé. « O Dio — pregava un fariseo nel tempio fulminando indietro uno sguardo di disprezzo, — ti ringrazio che non sono come gli altri uomini: tutti ladroni, ingannatori, adulteri come quel pubblicano laggiù » ( Lc., XVIII, 11). I farisei non ci sono più, ma il fariseismo è una malattia che è rimasta, e forse un poco ammorba anche la nostra anima. Che cos’è questa smania di osservare gli sbagli degli altri, di essere tra i primi a lanciare contro di essi la pietra, di mormorare, di disprezzare tutti? Segno che c’è una trave nel nostro spirito e non la vediamo. Che cos’è quest’altra smania di criticare continuamente i preti, il Vescovo e lo stesso Papa, come se si fosse più parrocchiani del parroco e più cattolici del Papa? Segno è che non si è né buoni parrocchiani né buoni cattolici.

b) Altra caratteristica della deformata coscienza farisaica è di fissarsi sulle cose minime e trascurare le massime. I farisei scolavano mosche per ingoiare cammelli. Facevano l’offerta al tempio e poi divoravano le case delle vedove e degli orfani. Temevano di contaminarsi entrando nella casa d’un pagano come Pilato, e non temevano di contaminarsi facendo ammazzare il Signore. – Ci può essere ancora chi fa consistere tutta la sua religione soltanto in cose esteriori: qualche preghiera a fior di labbra; la messa bassa alla festa; qualche piccola offerta nelle cassette dell’elemosina; dare il nome a qualche pia confraternita. Ma poi nessuna giustizia con gli operai, o col padrone; nessuna carità e compassione per il prossimo che soffre o che chiede; nessuno scrupolo di vivere anni ed anni in peccato mortale, conservando un’abitudine o un affetto proibito dalla legge di Dio. Come i farisei, questi Cristiani puliscono l’esterno del piatto e del bicchiere, e dentro lo lasciano colmo di immondezze e di ingiustizie.

3. COSCIENZA PERVERTITA

« Viene l’ora — ha detto Gesù — in cui chi vi uccide, crederà di rendere ossequio a Dio ». Non molto tempo dopo questa profezia, l’apostolo Paolo fu arrestato in Gerusalemme e custodito dal tribuno romano. Ebbene quaranta persone fecero un voto a Dio, invocando sopra di sé le più fiere maledizioni se non l’avessero mantenuto. Il voto era questo: non toccare cibo né bevanda, sino a che non avessero ucciso Paolo. Decisero d’attendere il momento in cui il tribuno l’avrebbe condotto dalla prigione al tribunale del Sinedrio, per strapparlo fuori dalle mani delle guardie e finirlo. Fortuna volle che un nipotino di Paolo, un figlio di sua sorella, venne a sapere la cosa e arrivò in tempo a sventare la congiura (Atti, XXIII, 12-21). Fu però ucciso dopo qualche anno a Roma, dove anche S. Pietro e dove anche numerosi Cristiani furono uccisi come nemici della civiltà e della patria, e degli Dei dell’Impero. Forse che oggi non ci sono uomini che con giuramento si legano a perseguitare i preti e i buoni Cristiani, a odiare il Papa, a distruggere la Chiesa? Sono nazioni intere che scacciano i ministri e i fedeli del Signore, accusandoli di disfattismo, di nemici della grandezza patria, di sostenitori delle ingiustizie sociali. Si organizzano perfino i bambini, e quando a schiere passano davanti a qualche chiesa o immagine religiosa si insegna a loro di levare il pugno chiuso e gridare : a No! No! ». Ah, quelle piccole mani che Gesù accarezzava, quelle candide voci che facevano tremare il cuore del Figlio di Dio!

CONCLUSIONE

Ma quando è possibile questo pervertimento totale della coscienza?

« Quando — risponde Gesù nel Vangelo — non si conosce più il Padre, né me ». Invano, o Cristiani, deprecheremo da noi e dalla nostra patria questo orrendo male, se non ci mettiamo a conoscere il Padre e il Figlio che ci ha mandato. Conoscerlo con l’intelligenza: istruzione cristiana. Conoscerlo con le opere: vita cristiana.

LA COSCIENZA

[E. IONE O.F.M.: Compendio di Teologia morale, 3° ed. Marietti, 1952 –imprim.]

CAPITOLO I.

Concetto e divisione.

I. Nozione. La coscienza, in senso proprio, è un giudizio della ragione pratica sulla bontà o colpevolezza di un’azione.

Applicando la legge al caso concreto,

la coscienza diviene norma prossima dell’agire morale.

II. Divisione. — 1° La coscienza è antecedente o conseguente, secondo che il giudizio pratico riguardaun’azione ancora da farsi oppure già fatta.Con la coscienza antecedente è congiunta la consapevolezzadell’obbligazione e la responsabilità di fronte alla norma morale;la coscienza conseguente, invece, è accompagnata dasentimento di calma o di inquietudine.

2° La coscienza è vera o falsa, secondo che la sua sentenza concorda o meno con la realtà oggettiva. La coscienza falsa o erronea può essere erronea colpevolmente o non colpevolmente, inoltre erronea vincibi1mente o invincibilmente.

3° Coscienza certa, dubbia, probabile, perplessa.

La coscienza certapronuncia il suo giudizio senza timore di errare. Basta che sia escluso ogni timore ragionevole; quindi che vi sia la certezza morale. In realtà, però, può errare anche una coscienza assolutamente certa. — La certezza morale può essere perfetta (per es. rubare un grappolo d’uva è solo colpa veniale; esiste l’America) e imperfetta; la perfetta esclude ogni dubbio; l’imperfetta esclude ogni dubbio prudente, pur non escludendo la possibilità del contrario (per es. la sincerità della mamma).

La coscienza dubbiasospende il giudizio. Il dubbio può riferirsi al fatto (dubium facti) oppure alla moralità e al diritto (dubium juris). Il dubbio speculativo riguarda la natura dell’azione e il suo valore morale in genere; il dubbio pratico riguarda la liceità di una data azione da compiersi al momento. Con il dubbio speculativo può star congiunta la certezza pratica.

La coscienza probabilepronuncia bensì un giudizio, basandosi su motivi sodi, ma con fondato timore di errare. — Relativamente considerato, secondo il diverso grado di probabilità, il giudizio può essere probabile, più probabile, probabilissimo.

La coscienza perplessasi ha allorché uno, posto fra due obbligazioni, crede di peccare in ogni caso, sia che si risolva per una parte sia che scelga l’altra.

4° Coscienza delicata, lassa, scrupolosa.

Tale distinzione riguarda principalmente uno stato permanente di coscienza.

La coscienza delicatapronuncia, anche nelle piccole sfumature di bene e di male, un giudizio oggettivamente retto, con una relativa facilità.

La coscienza lassa, in base a motivi insufficienti, giudica sia lecita una cosa che è peccato, oppure che una cosa sia soltanto peccato veniale mentre di fatto è peccato mortale.

La coscienza scrupolosa, in base a motivi apparenti, vede peccati dove non v’è neppur l’ombra, oppure vede peccati mortali dove non si tratta che di peccati leggeri. L’essenza della costiera scrupolosa non è tanto un errore, quanto uno stato d’animo in continua perplessità. Tali angustie veramente non appartengono affatto alla vita ragionevole e, quindi, neppure alla coscienza; si tratta piuttosto di suggestioni della fantasia, di impressioni della sensibilità, di tendenze o moti del sentimento. – I connotati di una coscienza scrupolosa sono: esami interminabili di coscienza su inezie e spesso su cose ridicole, rimestare una cosa senza posa, dare consistenza ad ogni possibile circostanza che possa verificarsi o presentarsi in un’azione, frequente mutamento di giudizio, irresolutezza, paura di eventuali peccati in ogni cosa, interrogare diversi confessori, paura di non essere da essi ben capiti, pertinacia nel proprio giudizio di fronte alle loro decisioni, ecc. Talvolta non è facile riconoscere la coscienza scrupolosa. A tale proposito, in modo particolare, si deve avvertire di non fidarsi del proprio giudizio, per attenersi in tutto a quello del confessore. Capita pure, talvolta, che uno sia scrupoloso su determinate cose ed in altre sia, invece, lasso. Le cause degli scrupoli sono: disturbi di salute, morbosi stati ereditari d’animo o dell’organismo, sovreccitabilità dei nervi, anemia, pressione del sangue sul cervello, fantasia vivace, prevalenza del sentimento sulla ragione, senso acuto precoce, auto osservazione coltivata esageratamente, incapacità di giudicare; talvolta anche un orgoglio segreto, che vorrebbe giustificare se stesso contro ogni rimprovero o raggiungere una certezza che escluda ogni dubbio, anche quello irragionevole; infine, troppo poca confidenza nella Misericordia divina. Gli scrupolosi sono spesso colpevoli direttamente del peggioramento del loro stato, perché non applicano metodicamente i rimedi loro prescritti. – I rimedi contro gli scrupoli sono: preghiera e fiducia in Dio, incondizionata e fiduciosa ubbidienza al Direttore spirituale, formazione di poche e semplici norme generali d’agire morale, stando ligi ad esse in modo assoluto, anche se in ciò, di quando in quando, si abbia errato, fuga dell’ozio, eliminazione delle cause, specialmente dei disturbi organici.

CAPITOLO II.

Forza obbligatoria della coscienza.

I . La coscienza certa deve essere sempre seguita, sia che comandi, sia che proibisca qualche cosa. Ciò vale tanto per la coscienza vera quanto per quella falsa. Pertanto, chi mentisce, persuaso che sia un dovere di carità aiutare con una bugia a levare da un guaio il prossimo, esercita un atto meritorio di carità verso il prossimo; e se agisse contro la sua falsa coscienza, peccherebbe. Chi crede che oggi sia giorno di astinenza, e ciò non ostante mangia carne, pecca, benché di fatto non sia giorno di magro. Chi, però, agisce contro la sua coscienza erronea, non incorre le pene “ipso facto” inflitte al trasgressore della legge. Chi, pertanto percuote un secolare, persuaso che questi sia un chierico, commette bensì un sacrilegio, ma non incorre la scomunica.

— Tuttavia ciò che è impossibile evitare, non è affatto peccato, anche se a causa di coscienza erronea si pensa che sia peccato grave. Quindi se per es. ad un prigioniero è impossibile ascoltare la Messa di domenica, egli non pecca, anche se pensa di commettere peccato mortale. Se la coscienza certa permette un’azione, è sempre lecito seguirla. Chi adunque mangia carne di venerdì nella persuasione che sia giovedì, non pecca. La coscienza certa, anche se obbiettivamente erronea, purché non sia colpevole, è per accidens norma di moralità. Tuttavia v’è sempre l’obbligo di formarsi la coscienza retta, usando i mezzi possibili.

II. Con un dubbio pratico circa la liceità di un’azione, non è mai lecito agire. Un cacciatore che dubiti se sia bestia o uomo ciò a cui tira, pecca di omicidio, anche se poi risulta che ha freddato un capo di selvaggina. Tuttavia, non bisogna naturalmente preoccuparsi dei dubbi irragionevoli. Chi, pertanto, ha ucciso uno investendolo mortalmente con la propria automobile, purché abbia usate le prescritte precauzioni, non ha peccato, anche se qualche volta gli sia passato per la mente il pensiero che, nei suoi viaggi in auto, poteva accadergli di uccidere qualcuno.

Quanto si dice del dubbio pratico, vale pure per la coscienza praticamente probabile.

III. In caso di coscienza perplessa, bisogna fare ciò che ad uno sembra minor peccato. Se due azioni si ritengono entrambe egualmente peccaminose, si può allora scegliere ciò che si vuole. – La ragione sta in ciò, che nell’impossibilità non v’ha neppure colpa. Però, si presuppone sempre che non si possa differire l’azione senza grave danno: e, quindi, che non si abbia mezzo alcuno per formarsi una coscienza retta.

IV. Seguire la coscienza lassa è, di solito, peccato grave, quando la trasgressione riguarda un precetto obbligante sub gravi.

La ragione sta in ciò, che una tale coscienza d’ordinario si deve considerare come una coscienza colpevolmente falsa. Un tale individuo, più facilmente di qualunque altro, deve fare attenzione a dubbi che potessero sorgergli, e non può disprezzarli così facilmente come scrupoli. — In casi eccezionali, però, anche tale individuo può essere scusato da peccato grave, e precisamente quando egli non sia conscio del suo stato di coscienza e neppure in genere riesca a conoscere la malizia dell’azione o l’obbligo di una più accurata ricerca.

V. Agire contro la coscienza scrupolosa non è affatto peccato, neppure quando si compie l’azione con un vivo timore di peccare. La coscienza scrupolosa, infatti, è propriamente solo uno stato di paura. Il principio dato vale anche quando lo scrupoloso, nel momento dell’azione (hic et nunc), non ha pensato che il suo stato è un puro scrupolo; basta che egli abitualmente sappia che gli è lecito tutto quanto non conosce certamente per peccato. — Allo scrupoloso è lecito tutto ciò che vede praticarsi da gente timorata di Dio, anche se ciò sia contro la propria opinione. Nelle sue azioni egli è tenuto ad applicare soltanto una diligenza mediocre. Quando non riesce ad applicare le direttive ricevute, né può chiedere consiglio ad alcuno, gli è lecito di fare ciò che vuole, eccetto che si tratti evidentemente e sicuramente di peccato. Per causa di grave danno, lo scrupoloso può essere anche scusato da molti obblighi positivi, come per es. dalla correzione fraterna, dall’integrità della confessione. Se, nel guardare oggetti e persone innocenti, gli sorgono pensieri impuri, egli può pure guardare tali oggetti e modestamente queste persone, senza preoccuparsi di simili sentimenti o movimenti. Riguardo agli scrupoli se abbia adempiuto o meno il proprio dovere (per es. breviario, penitenza, voti), può lecitamente ammettere di avere soddisfatto al proprio obbligo. Nel timore se il dolore sia sufficiente, può risolvere in proprio favore. Non è tenuto a confessare i peccati commessi prima dell’ultima confessione, tranne che possa giurare di avere certamente commesso peccato grave e di non averlo certamente ancora accusato. Anche in quest’ultimo caso, possono verificarsi delle circostanze che lo scusino dall’integrità della confessione. Lo stesso dicasi di dubbi sulla validità delle confessioni antecedenti. Si avvertano gli scrupolosi, i quali confondono sentimenti di paura (paura precordiale) con i rimorsi di coscienza, che causa di tale paura sono i nervi e non eventuali peccati. V’è, inoltre, l’obbligo di agire contro gli scrupoli, perché altrimenti si pecca di superbia, di caparbietà, di disubbidienza, oppure perché il corpo e l’anima o la propria professione ne soffrirebbero danno. Quando, però, lo scrupoloso ha buona volontà, non è facile che, nei singoli casi, commetta peccato grave. Per ragione dei danni accennati, anche il confessore permetta una volta soltanto una esposizione completa degli scrupoli o una confessione generale. Ma anche questa unica esposizione dello stato di coscienza si deve vietare, quando lo scrupoloso si sia già da poco tempo aperto con altro confessore e si preveda che anche adesso non rimarrà per lungo tempo presso il nuovo confessore.

CAPITOLO III.

Formazione di una coscienza praticamente certa.

Poiché non è mai lecito agire con un dubbio pratico circa la liceità di un’azione, bisogna cercare di formarsi una coscienza praticamente certa.

I. Una soluzione diretta di dubbi di coscienza nelle cose più frequenti si può ordinariamente acquistare col riflettere con maggiore precisione sulla cosa in questione, con lo studiarla, col domandarne consiglio ad altri.

Si deve tentare questa soluzione, finché esiste fondata speranza di poter, per tal via, sciogliere il dubbio con una diligenza relativa all’importanza della cosa; a meno che non si voglia in ogni caso scegliere la parte più sicura.

II. Una soluzione indiretta dei dubbi di coscienza, cioè una soluzione con il sussidio di diversi principi e sistemi morali, è permessa quando per via diretta non si può ottenere alcuna certezza. Con tale soluzione, il dubbio teorico sulla liceità o necessità di un’azione rimane sempre; però si raggiunge una certezza su ciò che attualmente si deve o si può fare.

Se si tratta del raggiungimento necessario di un fine, bisogna scegliere la parte PIÙ SICURA,se non si riesce a deporre il dubbio teorico.

Trattandosi del raggiungimento dell’eterna felicità,

si devono usare quei mezzi che conducono con certezza a questo fine; fintanto che si hanno tali mezzi sicuri, non è lecito accontentarsi di mezzi, che soltanto probabilmente raggiungono questo fine. —

Nella amministrazione dei sacramenti, per riverenza verso di essi, spessoanche per giustizia e carità, bisogna, nel dubbio, risolversi per quell’opinione, seguendo la quale, la stessa amministrazione è certamente valida. Se, però, nell’amministrare un Sacramento, non si possa avere alcuna materia certamente valida, nell’interesse della salute spirituale, è lecito usare anche di una materia dubbia. — Quando si tratta del diritto certo di un terzo o di un danno imminente ad un terzo, bisogna scegliere quella sentenza, con la quale l’altro raggiunga sicuramente il suo diritto o venga sicuramente preservato dal danno. Perciò, il medico per es. non può lecitamente applicare rimedi la cui efficacia è dubbia, quando si possono avere altri rimedi più efficaci; un cacciatore non può lecitamente sparare, quando ha il dubbio fondato di recar danno ad un uomo.

Se si tratta della liceità di un’azione, si può lecitamente seguire qualunque opinione che sia certamente probabile, anche se l’opinione opposta sia più probabile.

a) Certamente probabile è un’opinione, quando essa può determinare un uomo ragionevole a dare il suo assenso, anche dopo aver ponderato i motivi contrari. Bisogna, conseguentemente, che sussista il timore che il contrario possa essere vero. I motivi, in favore di un’opinione, possono essere interni ed esterni, secondo che si appoggiano su una intrinseca considerazione e valutazione della cosa oppure sull’autorità di altri. In tal caso, però, si presuppone che queste persone abbiano pesati attentamente i motivi interni. — Sui motivi interni, può portare un giudizio solo un buon moralista; su quelli esterni, anche una persona mediocremente istruita. Una persona non istruita deve attenersi al giudizio di un prudente confessore o parroco. I pastori d’anime possono stare all’opinione di approvati moralisti o anche del solo S. Alfonso. Se l’opinione che favorisce l’esenzione dall’obbligazione della legge sia ben fondata veramente, lo si conosce in molti casi abbastanza facilmente con l’applicazione dei princìpi riflessi.

I principali sono: nel dubbio, ci si deve attenere alla pratica comune (in dubio judicandum est ex communiter contingentibus); nel dubbio, bisogna pronunciarsi per la validità di un’azione già compiuta (in dubio standum est prò valore actus); non è lecito ritenere qualcuno cattivo, fintanto che non ne sia provata la malizia (nemo malus, nisi probetur); nel dubbio, ciò che è favorevole si deve interpretare in senso largo, ciò che è sfavorevole, in senso stretto (favores sunt ampliandi, odiosa restringenda).

b) È lecito l’uso di una tale opinione sodamente probabile:

α) di fronte a qualunque legge.

β) anche se, in altro caso, ci si è risolti per l’opinione contraria.

Si comprendono qui tanto le leggi umane, quanto le divine positive e naturali. Il dubbio può versare, sia sull’esistenza di tale legge, sia sulla sua cessazione, sia pure sull’obbligazione già adempiuta.

È lecito, quindi in un caso adire l’eredità avuta da un testamento informe, e in un altro caso esigere la dichiarazione giudiziale di nullità. — Ma in una medesima opera, non è lecito seguire due opinioni opposte, perché in tale azione si trasgredirebbe certamente la legge. Chi, pertanto, ha accettato l’eredità di un testamento informe, deve anche riconoscere come validi i legati contenutivi e soddisfarli.

Nota. — I diversi sistemi morali.

Poiché l’opinione sopraesposta e sostenuta non è condivisa da tutti i moralisti, esponiamo qui brevemente i diversi sistemi morali.

a) Il Tuziorismo assoluto: insegna che, in ogni controversia di opinioni, si deve scegliere la parte più sicura, decidendosi quindi per l’osservanza della legge. Soltanto la completa certezza del contrario può esimere dall’obbligazione.

b) Il Tuziorismo mitigato: afferma la esenzione dall’obbligazione, quando l’opinione in favore della libertà è probabilissima.

c) Il Probabiliorismo: insegna che si può lecitamente seguire l’opinione favorevole alla libertà, soltanto quando essa fosse certamente più probabile dell’opinione che milita in favore della legge.

d) L’Equiprobabilismo: esige che l’opinione favorevole alla libertà sia almeno egualmente o quasi egualmente probabile che l’opinione favorevole alla legge. Inoltre, sostiene che tale principio si può applicare soltanto nel dubbio circa l’esistenza della legge, ma non nel dubbio se sia cessata o, rispettivamente, sia stata adempiuta.

e) Il Sistema di Compensazione: insegna che, nel dubbio circa la liceità di un’azione, si deve avere un motivo sufficientemente grave per decidersi in favore dell’opinione contraria alla legge. Quanto più grave è la legge e quanto più probabili sono i motivi che parlano in favore di essa, tanto più gravi motivi devono aversi per permettere il pericolo di una trasgressione materiale.

f) Il Probabilismo: insegna l’esposta sentenza, e precisamente che si possa lecitamente seguire qualunque opinione favorevole alla libertà, purché sia certamente ben fondata (probabile), anche se l’opposta sia più probabile.

g) Secondo il Lassismo: si può seguire l’opinione favorevole alla libertà, anche quando essa è solo debolmente o dubbiamente probabile.

Nel giudicare tali opinioni si deve tener presente che il tuziorismo assoluto e il lassismo furono condannati dalla Chiesa. Gli altri sistemi sono tutti permessi.

In pratica, il confessore si sforzi di scegliere coscientemente per se stesso sempre la parte più perfetta e di consigliare anche ai suoi penitenti il più perfetto. Non si dimentichi, comunque, che il confessore non ha diritto alcuno di imporre al penitente la propria opinione, quando l’opinione contraria è probabile. — Né deve dimenticare che non rare volte il più perfetto non è l’osservanza di una legge per se stessa incerta.

[Il colore è redazionale]

ORDINARIO DELLA MESSA

L’ORDINARIO DELLA MESSA

LA SPIEGAZIONE DELLE CERIMONIE

[L. GOFFINÉ: Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle feste. Ed. Besançon, trad. p. Mauro Ricci delle Scuole Pie; Firenze, 1869]

Andando in chiesa meditiamo questi pensieri:

Noi entreremo nel tempio del Signore, l’adoreremo nel luogo che Egli ha scelto per sua dimora; santo e terribile è questo luogo: è la casa di Dio e la porta del cielo.

Nel prendere l’acqua benedetta si dica:

Voi mi laverete da’ miei peccati, o Signore, ed io sarò purificato; mi bagnerete del vostro sangue e diverrò più candido della neve. Create in me un cuor puro, o mio Dio! e rinnovate nell’intimo dell’anima mia lo spirito di rettitudine e di giustizia. – O potenze dell’anima mia! o affetti del mio cuore! Venite, adoriamo Gesù Cristo nell’augusto Sacramento; prostriamoci dinanzi a Lui, perché Egli è il Signore Dio nostro.

All’aspersione dell’acqua benedetta.

Nell’anno.

La Chiesa, con la cerimonia dell’aspersione vuol dirci che dobbiamo sempre assistere al sacrificio della nuova legge con somma purezza di cuore.

Asperges me, Domine,

hyssopo, et mundabor;

lavais me, et super nivem

dealbabor

Miserere mei, Domine,

secundum magnam

misericordiam tuam;

Gloria Patri, etc.

V.: Ostende nobis, Domine, misericordiam tuam;

R. : Et salutare tuum da nobis.

V.: Domine exaudi Orationem meam.

R.: Et clamor meus ad te veniat.

V.: Dominus vobiscum,

R.: Et cum spiritu tuo.

Oremus.

Exaudi nos. Domine Sancte, Pater omnipotens, aeterne Deus, et mittere digneris sanctum Angelus tuum de cœlis, qui custodiat, foveat, protegat, visitet et defendat omnes habitantes in hoc habitaculo; per Christum Dominum nostrum. Amen.

[Voi mi aspergerete con l’issopo, o Signore, ed io sarò purificato; Voi mi laverete, ed io vincerò la neve in candore.

Pietà di me, o Signore, secondo la grande vostra misericordia.

Gloria al Padre etc.

V.: Mostrateci, Signore, la vostra misericordia;

R.: E concedete a noi la grazia di salvarci.

V.: Signore, esaudite la mia preghiera.

R.: E la mia voce salga sino a Voi.

V.: Il Signore, sia con voi.

R.: E con lo spirito vostro.

Orazione. Esauditeci, o santo Iddio, Padre onnipotente, e degnatevi d’inviar dal cielo il santo Angelo vostro perché custodisca, difenda tutti coloro che sono qui radunati: vi domandiamo questa grazia per Gesù Cristo Signor Nostro. Così sia.]

Nel tempo pasquale.

Vidi aquam egredieutem de tempio a latere dextero, alleluia; et omnes ad  quos pervenit aqua ista,salvi  facti sunt, et dicent: Alleluia, alleluia.

Confitemini Domino, quoniam bonus; quoniam in sæculum misericordia ejus;

[Vidi un’acqua che usciva dal santuario al destro lato, alleluia; e tutti quelli che furono abbeverati di quest’acqua saranno salvi e canteranno: alleluia, alleluia.

Lodate il Signore, perché è buono, e la sua misericordia si estende a tutti i secoli dei secoli. Così sia.]

Gloria Patri, et Filio,  et Spiritui Sancto: sicut erat in principio, et nunc  et semper, et in sæcula sæculorum. Amen

[Gloria al Padre, al Figliuolo e allo Spirito Santo, oggi e sempre, come fia dal principio ed in tutti i secoli dei secoli. Così sia.]

Dicasi il V. Ostende etc. Allelúia e l’orazione che sopra.

Prima della Messa.

Mi presento innanzi all’altare, o mio Signore, per assistere al vostro divin Sacrifizio. Preparate voi stesso il mio cuore ai dolci effetti della vostra grazia; fermate i miei sensi, reggete il mio spirito; cancellate col prezioso vostro sangue tutti i peccati dei quali mi vedete colpevole: io li detesto per vostro amore, ed umilmente ve ne domando perdono. Fate, o dolce Gesù, che unendo le mie intenzioni alle vostre, io mi consacri interamente alla vostra gloria, come Voi vi sacrificate per la mia salvezza. Così sia.

Il Sacerdote a pie’ dell’altare.

L’umile posizione del Sacerdote denota l’abbassamento del Verbo eterno nel mistero della Redenzione. Rechiamoci alla mente l’orto degli ulivi, dove Gesù Cristo si portò accompagnato dai suoi Discepoli: e dopo essersi un poco allontanato da loro, pregò col viso prostrato a terra ed accettò il doloroso calice della passione. Con questa ricordanza dobbiamo recitare le seguenti preghiere (Ps. XLII):

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

[Nel nome del Padre ✠ e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.]

V.: Introíbo ad altáre Dei.
R.: Ad Deum, qui lætíficat iuventútem meam.
V.: Iúdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab hómine iníquo et dolóso érue me.
R.: Quia tu es, Deus, fortitudo mea: quare me reppulísti, et quare tristis incédo, dum afflígit me inimícus?
V.: Emítte lucem tuam et veritátem tuam: ipsa me deduxérunt, et adduxérunt in montem sanctum tuum et in tabernácula tua.
R.:  Et introíbo ad altáre Dei: ad Deum, qui lætíficat iuventútem meam.
V.: Confitébor tibi in cíthara, Deus, Deus meus: quare tristis es, ánima mea, et quare contúrbas me?
R.: Spera in Deo, quóniam adhuc confitébor illi: salutáre vultus mei, et Deus meus.
V.: Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.
R.: Sicut erat in princípio, et nunc, et semper: et in saecula sæculórum. Amen.
V.: Introíbo ad altáre Dei.
R.: Ad Deum, qui lætíficat iuventútem meam.

[V. Mi appresserò all’altare di Dio.
R. A Dio che dà letizia alla mia giovinezza.
V. Siate mio giudice, o mio Dio, e prendete la mia difesa contro gli empi e liberatemi dall’uomo iniquo e ingannatore.
R. Voi siete, o Dio il mio sostegno; perché dunque mi avete respinto? e perché mi lasciate nel duolo e nella tristezza sotto l’oppressione dei miei nemici?
V. Fate risplendere su me la vostra luce e verità: esse mi guideranno al vostro santo monte e mi introdurranno al vostro santuario.

R. Mi appresserò all’altare di Dio; e mi presenterò davanti a Dio, che riempie l’anima mia d’una gioia sempre nuova.
V. Canterò sull’arpa le vostre lodi, mio Signore e mio Dio:  anima mia, perché dunque stai sì afflitta? Perché sei tu inquieta?

R. Spera in Dio, perché io celebrerò ancora le sue misericordie: Egli sarà di nuovo il mio Salvatore ed il mio Dio.
V. Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo.
R. Come era in principio, e ora, e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen.
V. Mi appresserò all’altare di Dio;

R. Io mi presenterò davanti a Dio, che riempie l’anima mia d’una gioia sempre nuova].

Dalla Domenica di Passione fino al Giovedì Santo, e alle Messe dei Morti, si dice così:

V. Introíbo ad altáre Dei.
R. Ad Deum, qui lætíficat iuventútem meam.
[V. Mi appresserò all’altare di Dio.
R. A Dio che dà letizia alla mia giovinezza.]


V. Adjutorium nostrum in nomine Domini

R. Qui fecit cælum et terram.

[V. Il nostro soccorso è nel nome del Signore:

R.. Il quale ha fatto il cielo e la terra.]

Dopo il Confiteor del Sacerdote il servente risponde:

V. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis tuis, perdúcat te ad vitam ætérnam.

R. Amen.

[M. Dio onnipotente, abbia pietà di te, e, perdonati i tuoi peccati, ti conduca alla vita eterna.
S. Amen.]

 Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Ioánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et opere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Ioánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et te, pater, orare pro me ad Dóminum, Deum nostrum.

[Confesso a Dio onnipotente, alla beata sempre Vergine Maria, al beato Michele Arcangelo, al beato Giovanni Battista, ai Santi Apostoli Pietro e Paolo, a tutti i Santi e a te, o padre, di aver molto peccato, in pensieri, parole ed opere: per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. E perciò supplico la beata sempre Vergine Maria, il beato Michele Arcangelo, il beato Giovanni Battista, i Santi Apostoli Pietro e Paolo, tutti i Santi, e te, o padre, di pregare per me il Signore Dio nostro.]

Il Sacerdote prega per gli astanti e per sé medesimo:

S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutionem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

[S. Dio onnipotente abbia pietà di noi e, rimessi i nostri peccati, ci conduca alla vita eterna.
R. Amen.

S. Il Signore onnipotente e misericordioso ✠ ci accordi l’indulgenza,  l’assoluzione e la remissione dei nostri peccati.  R. Amen.]

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

[V. Volgendovi a noi, o Dio, ci darete una vita nuova.
R. E il vostro popolo si rallegrerà in Voi.
V. Mostrateci, o Signore, la vostra misericordia.
R. E concedeteci la vostra salvezza.
V. O Signore, esaudite la mia preghiera.
R. E il mio grido si innalzi fino a fino a Voi.
V. Il Signore sia con voi.
R. E con lo spirito tuo.]

Il Sacerdote sale all’altare; ma è compreso da spavento a misura che egli s’inoltra: sente che quella terra e santa, e trema sotto i passi di un peccatore.

Orémus,
Aufer a nobis, quœsumus, Dómine, iniquitátes nostras: ut ad Sancta sanctorum puris mereámur méntibus introíre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.
[Preghiamo:

Togli da noi, o Signore, le nostre iniquità: affinché con ànimo puro possiamo entrare nel Santo dei Santi. Per Cristo nostro Signore. Amen.]

Orámus te, Dómine, per mérita Sanctórum tuórum, quorum relíquiæ hic sunt, et ómnium Sanctórum: ut indulgére dignéris ómnia peccáta mea. Amen.

[Preghiamo: Ti preghiamo, o Signore, per i mériti dei tuoi Santi dei quali son qui le relíquie, e di tutti i tuoi Santi: affinché ti degni di perdonare tutti i miei peccati. Amen.]

All’Introito.

Introito significa entrata: si canta mentre il Sacerdote si dispone a venire all’altare; e le parole di cui è composto esprimono il desiderio che ci siano applicati i meriti della Redenzione. Onoriamo l’arrivo di Gesù Cristo al Calvario per consumare il suo sacrificio; apriamogli i nostri cuori e consacriamoli a servirlo.

Preparati, anima mia, ad andare dinanzi al tuo Dio; la sua giustizia e la sua misericordia si uniscono insieme a tuo favore nel tempo del sacrificio; attestagli la riconoscenza dovuta; offri a lui quell’impero che Egli merita sul tuo cuore, da lui stesso creato, e riscattato e ricolmo ogni giorno di benefizi.

Oramus te, Domine, per merita sanctorum tuorum,quorum reliquiae hic sunt, et omnium Sanctorum ut indulgere digneris omnia peccata mea. Amen.

 « Ho gridato verso di voi, Signore, dall’abisso della mia miseria. Ah! se voi esaminaste con rigore le mie iniquità, non potrei sostenere la vostra presenza. Venite a togliermi dal peccato, ed a mostrarmi la via che conduce a voi. Gloria al Padre etc. »

Al Kyrie.

Il Kyrie è un’espressione di dolore misto a confidenza nella misericordia di Dio; le prime tre invocazioni sono dirette al Padre, le seconde al Figlio, le ultime tre allo Spirito Santo: si ripete questa medesima preghiera per onorare l’unità di natura in Dio. Son distinte le invocazioni per riconoscere la distinzione delle Persone; e si fanno in ugual numero per manifestare come ciascuna Persona ha tutte le perfezioni divine. Adoriamo l’augusta Trinità, supplicandola a perdonare tutti i nostri peccati.

V.  Kyrie, eleison.

R. Kyrie, eleison.

V.. Kyrie, eleison.

R. Kriste, eleison.

V. Kriste, eleison.

R. Christe, eleison.

V. Christe, eleison.

R. Christe, eleison.

V. Kyrie, eleison.

R. Kyrie, eleison.

V. Kyrie, eleison.

[V. Signore, pietà di noi.

R. Signore, pietà di noi.

V. Signore, pietà di noi.

R. Gesù, pietà di noi.

V. Gesù, pietà di noi.

R. Gesù, pietà di noi.

V. Signore, pietà di noi.

 R. Signore, pietà di noi.

V. Signore, pietà di noi.]

Inno degli Angeli.

Le prime parole del Gloria vennero dal cielo alla nascita del Signore; le rimanenti sono come lo sviluppo di questo solenne esordio: rendiamo a Dio la gloria che a Lui è dovuta, domandiamogli la pace che il mondo non può dare e che gli Angeli annunziarono alla terra.

Gloria
Gloria in excelsis Deo, et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex coeléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Iesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Iesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

 [Gloria a Dio nell’alto dei cieli. E pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi Ti lodiamo. Ti benediciamo. Ti adoriamo. Ti glorifichiamo. Ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa. Signore Iddio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente. Signore, Figlio unigenito, Gesù Cristo. Signore Iddio, Agnello di Dio, Figlio del Padre. Tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi. Tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica. Tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. Poiché Tu solo il Santo. Tu solo il Signore. Tu solo l’Altissimo, Gesù Cristo. Con lo Spirito Santo ✠ nella gloria di Dio Padre. Amen.]

Alla Collètta.

Si dice Collètta, perché è una preghiera fatta in nome dei Fedeli riuniti, ed è il compendio di tutte le loro domande; si chiude nel nome di Gesù Cristo, per mostrare che non abbiamo accesso a Dio, se non per Colui che si è aggravato del peso delle nostre iniquità. Raccomandiamo alla s. Vergine ed ai Santi la particolare intenzione, onde venimmo all’altare, dicendo: Concedetemi, Signore, per l’intercessione della s. Vergine e degli altri Santi, che la Chiesa onora in questo giorno, tutte le grazie che il vostro ministro a voi domanda: riempite il cuor mio di amore per voi, di riconoscenza per i vostri benefizi, di avversione ai miei mancamenti, e di carità per il mio prossimo: la stessa preghiera io vi fo per le persone per le quali sono obbligato di pregare. Non merito d’essere esaudito, o mio Dio; ma vi domando queste grazie per i meriti di Gesù Cristo, vostro Figlio. Così sia.

V. Dominus vobiscum;

R. Et cum spiritu tuo.

All’Epistola

La prima lezione della Messa è chiamata Epistola, perché il più delle volte è tratta dalle lettere canoniche degli Apostoli; sebbene ritenga questo nome anche nelle Messe ove è tratta dagli altri libri della s. Scrittura. Ascoltiamola come se fosse stata diretta a noi stessi da uno dei Profeti, o da uno degli Apostoli.

Parlate, o Signore, il vostro servo vi ascolta; dite al suo cuore qualche parola di quelle che diceste ai Profeti ed agli Apostoli vostri. Ecco, anima mia, quanto il Signore ci dice per le loro labbra: « Lasciate il male, appigliatevi al bene; il regno di Dio non lo possederanno i cattivi. Abbiate per regola della vita la fede, la pietà, la giustizia, la carità; faticate a riportar la corona celeste; amatevi gli uni gli altri: non v’intiepidite nel servizio di Dio; abbiate il fervore dello spirito; siate pazienti nelle afflizioni; pregate di continuo; onorate coloro che fanno le veci del Signore: amate i vostri fratelli, beneficate i persecutori. »

Il Graduale. Il salmo che segue alla lettura dell’ Epistola si chiama Graduale, perché  si cantava sui gradini del luogo donde si leggevano le sante Scritture.

Alleluja è un’espressione di felicità che si ode continuamente nel cielo, dice l’Apostolo s. Giovanni; perciò la Chiesa lo pone in principio dei sentimenti di gioia, che essa fa udire alla vista del santo Vangelo.

La Prosa è un’esposizione della festa, che la Chiesa celebra.

Il Tratto, nei giorni dedicati alla tristezza e al pentimento, tien luogo dell’Alleluja e della Prosa, ed è un’espressione di dolore e di penitenza.

Chi pone la sua fiducia nell’Altissimo riposa in pace sotto la protezione del reggitor dell’universo; egli dirà al Signore: « Voi siete il mio protettore e il mio rifugio, Voi il mio Dio, in cui ripongo tutta la mia speranza; voi mi librerete dalle insidie del nemico e dai mali a me sovrastanti. Sì, il Signore mi coprirà della sua ombra, ed io riposerò sotto le sue ali: la sua tenerezza mi coprirà come di un elmo; né io avrò a temere il terror della notte, né i dardi che percuotono nel giorno. Il Signore mi ha affidato alla custodia dei suoi Angeli, perché mi custodiscano in tutti i miei passi. Egli ha sperato in me, dice il Signore, ed io lo libererò, sarò il suo difensore, perché ha conosciuto il mio nome: esclamerà verso di me, ed io l’esaudirò; sarò con lui nelle tribolazioni, lo libererò, e lo incoronerò di gloria. »

Il Sacerdote si curva in mezzo all’altare con le mani giunte, e dice:

Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.
 [Purificate il mio cuore e le mie labbra, o Dio onnipotente, come purificaste le labbra del vostro profeta Isaia con un carbone acceso; purificatemi in guisa che io possa annunziare degnamente il vostro santo Vangelo. Per il Cristo nostro Signore. Amen.]

Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen.
[Signore, datemi la vostra benedizione. Il Signore mi sia nel mio cuore e sulle mie labbra: affinché io degnamente io annunzi la sua santa parola. Così sia.]

Al Vangelo

Qui non più i Profeti e gli Apostoli c’istruiscono, ma parla il Signore medesimo: sorgiamo in piedi sicché la nostra compostezza esprima rispetto e docilità; e faccia conoscere che siamo pronti a seguire Gesù Cristo, a servirlo e a combattere per Lui: segniamoci la fronte, le labbra e il cuore col sacro segno della Croce; questo segno armi la nostra fronte contro il rispetto umano; santifichi le nostre labbra, ponendo sovr’esse la saggezza e la verità; purifichi il nostro cuore, e lo avvalori contro le seduzioni del mondo e dell’inferno.

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
[
V. Il Signore sia con voi.
R. E con il tuo spirito.]

Initium vel sequéntia +︎ sancti Evangélii, etc.

R. Gloria tibi, Domine!


[Il principio o seguito del Santo Vangelo, etc.

R. Sia Gloria a voi, o Signore!]

Gesù disse ai suoi discepoli; « Se alcuno vuol venire dietro di me, rinunzi a sé medesimo, si carichi della sua croce, e mi segua. Amate Dio con tutto il vostro cuore, con tutta l’anima vostra, con tutte le vostre forze: amate il prossimo vostro come voi medesimi. Sforzatevi di entrare per la porta stretta che conduce alla vita; pochi sono che ne trovano l’entrata. Cercate sopra tutto il regno di Dio e la sua giustizia. Non giudicate, e non sarete giudicati; perdonate, e vi sarà perdonato. Vegliate e pregate, e non soccomberete nella tentazione. Chi persevererà sino alla fine, costui sarà salvo. »

Felici, o mio Salvatore, quelli che pongono in pratica la vostra legge! Concedetemi la grazia di meditare spesso la vostra santa parola, e di farla fruttare con la rinunzia a me stesso, con l’esercizio della carità, e la perseveranza nel vostro amore.

Simbolo di Nicea.

Il Credo si compone di tre distinte parti: la prima riguarda il Padre e le opere della creazione; la seconda il Figlio e le opere della Redenzione, la terza lo Spirito Santo e le opere della santificazione. La Chiesa, facendolo recitare alla fine del santo Vangelo, vuol che facciamo professione di credere tutto quanto esso racchiude, e che ci prepariamo all’immolazione della vittima senza macchia, aderendo di spirito e di cuore alle verità da Dio rivelate.

Credo

Credo in unum Deum, Patrem omnipoténtem, factórem cœli et terræ, visibílium ómnium et in visibílium. Et in unum Dóminum Jesum Christum, Fílium Dei unigénitum. Et ex Patre natum ante ómnia sæcula. Deum de Deo, lumen de lúmine, Deum verum de Deo vero. Génitum, non factum, consubstantiálem Patri: per quem ómnia facta sunt. Qui propter nos hómines et propter nostram salútem descéndit de coelis. Et incarnátus est de Spíritu Sancto ex María Vírgine: Et homo factus est. Crucifíxus étiam pro nobis: sub Póntio Piláto passus, et sepúltus est. Et resurréxit tértia die, secúndum Scriptúras. Et ascéndit in coelum: sedet ad déxteram Patris. Et íterum ventúrus est cum glória judicáre vivos et mórtuos: cujus regni non erit finis. Et in Spíritum Sanctum, Dóminum et vivificántem: qui ex Patre Filióque procédit. Qui cum Patre et Fílio simul adorátur et conglorificátur: qui locútus est per Prophétas. Et unam sanctam cathólicam et apostólicam Ecclésiam. Confíteor unum baptísma in remissiónem peccatórum. Et exspécto resurrectiónem mortuórum. Et vitam ventúri sæculi. Amen.

[Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili; e nel solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figliuolo di Dio; nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, lume da lume, Dio vero da Dio vero. Generato, non creato, della stessa consustanziale al Padre: per cui sono state fatte tutte le cose. Il quale per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo. E s’incarnò per opera dello Spirito Santo nel seno di Maria Vergine: e si fece uomo. Fu ancora per noi crocifisso sotto Ponzio Pilato, patì e fu sepolto. E risorse il terzo giorno, secondo le Scritture; ed ascese al cielo ove siede alla destra del Padre. E di nuovo ha da  venire con gloria a giudicare i vivi e i morti: e il regno di Lui non avrà fine. E nello Spirito Santo, Signore e vivificante, che procede dal Padre e dal Figliuolo, che con il Padre e il Figliuolo si adora, insieme si glorifica e ha parlato per mezzo dei Profeti. Credo la Chiesa: Una, Santa, Cattolica e Apostolica. Confesso un solo battesimo in remissione dei peccati; ed aspetto la risurrezione dei morti. E la vita ✠ del secolo avvenire. Amen.]

All’ Offertorio.

L’antifona dell’Offertorio talvolta è una preghiera, tal altra una parola di lode. Sovente è un’istruzione che rammenta l’antica usanza dei Cristiani che portavano la loro offerta all’altare. Il pane benedetto che si offre la Domenica alla Messa parrocchiale è un segno di carità tra i fedeli che assistono alla Santa Messa; e fa le veci delle agape celebrate nei primi tempi del Cristianesimo, in memoria della cena che Gesù Cristo fece coi suoi Discepoli prima dell’istituzione dell’Eucarìstia.

Mi consacro tutto a voi, o mio Dio, nella semplicità dell’anima mia; conservatemi sino alla fine questo spirito di sacrifizio. Unisco il mio cuore contrito ed umiliato alla vittima santa che il sacerdote vi offre: lasciatevi placare o Signore, dai nostri voti e dalla nostra offerta.

Offerta dell’Ostia a Dio Padre.

L’offerta più gradevole che possiamo presentare al Signore è quella dei nostri cuori contriti od umiliati. Offriamoli coll’ Ostia che è per divenire il Corpo ed il Sangue di Gesù Cristo; e possano le nostre affezioni terrene essere consumate dal Fuoco dell’olocausto, e le colpe esserci cancellate per i meriti della vittima senza macchia.

Suscipe, sancte Pater, omnipotens ætérne Deus, hanc immaculátam hóstiam, quam ego indígnus fámulus tuus óffero tibi Deo meo vivo et vero, pro innumerabílibus peccátis, et offensiónibus, et neglegéntiis meis, et pro ómnibus circumstántibus, sed et pro ómnibus fidélibus christiánis vivis atque defúnctis: ut mihi, et illis profíciat ad salútem in vitam ætérnam. Amen.

[Ricevete, o Padre santo, onnipotente ed eterno Iddio, questa ostia immacolata, che io, indegno servo vostro, offro a Voi, mio vero Dio vivente, per i miei peccati, offese e negligenze senza numero, per tutti i presenti, e per tutti i fedeli Cristiani vivi e defunti, affinché essa giovi ad essi, ed a me per la salute della vita eterna. Amen.]

Il Sacerdote pone il vino e l’acqua nel calice.

Deus, qui humánæ substántiæ dignitátem mirabíliter condidísti, et mirabílius reformásti: da nobis per hujus aquæ et vini mystérium, ejus divinitátis esse consórtes, qui humanitátis nostræ fíeri dignátus est párticeps, Jesus Christus, Fílius tuus, Dóminus noster: Qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus: per ómnia saecula sæculórum. Amen.

[O Dio, che avete ammirabilmente formato l’uomo di una natura sì nobile, e più ammirabilmente lo avete ristabilito, fate che per il mistero di quest’acqua e di questo vino, siamo fatti partecipi della divinità del vostro Figliuolo, Gesù-Cristo, Signor nostro, che ha voluto partecipare della nostra umanità, Egli che con Dio vive e regna con Voi, nell’unione dello Spirito Santo in tutti i secoli dei secoli. Amen.]

All’Offerta del calice.

All’offerta del pane il Sacerdote non ha parlato che in suo nome: Io vi offro; ma all’offrire del calice, parla ancora a nome del popolo, raffigurato dall’acqua mischiata col vino: domandiamo che il prezzo del nostro riscatto presso a venire nel calice, sia applicato a noi ed a quelli per i quali dobbiamo pregare.

Offérimus tibi, Dómine, cálicem salutáris, tuam deprecántes cleméntiam: ut in conspéctu divínæ majestátis tuæ, pro nostra et totíus mundi salute, cum odóre suavitátis ascéndat. Amen.
[Ti offriamo, o Signore, questo calice di salvezza, e scongiuriamo la tua clemenza, affinché esso salga come odore soave al cospetto della tua divina maestà, per la salvezza nostra e del mondo intero. Amen.]

Veni, sanctificátor omnípotens ætérne Deus: et bene dic hoc sacrifícium, tuo sancto nómini præparátum.

[Ti offriamo, o Signore, questo calice di salvezza, e scongiuriamo la tua clemenza, affinché esso salga come odore soave al cospetto della tua divina maestà, per la salvezza nostra e del mondo intero. Amen.
Vieni, Dio eterno, onnipotente, santificatore, e ✠ benedici questo sacrificio preparato nel tuo santo nome.]

Offerta dei Fedeli.

Il Sacerdote ha operato fin qui come sacrificatore; segue ora unendosi coi peccatori; inchina la persona che prima teneva dritta per offrire come pontefice, congiunge le mani, innanzi elevate da lui al cielo come mediatore; ed in questa supplichevole posizione fa l’offerta del suo spirito, e del suo cuore, dello spirito e del cuore dei Fedeli, dicendo:

In spíritu humilitátis et in ánimo contríto suscipiámur a te, Dómine: et sic fiat sacrifícium nostrum in conspéctu tuo hódie, ut pláceat tibi, Dómine Deus.

[Con spirito di umiltà e con animo contrito, possiamo noi, o Signore, esserti accetti, e il nostro sacrificio si compia oggi alla tua presenza in modo da piacere a Te, o Signore Dio].

Invocazione allo Spirito Santo,

Tutto è pronto per il sacrifizio; ma la trasformazione non può eseguirsi se non per l’opera dello Spirito santificatore; che siccome formò il corpo di Lui nel seno di Maria, così deve produr Gesù Cristo sull’altare, e consumar la sostanza del pane e del vino con la sua onnipotenza. Noi preghiamolo a distrugger col fuoco del suo amore quanto vi ha di terreno e di colpevole nei nostri cuori.

Veni, sanctificátor omnípotens ætérne Deus: et bene dic hoc sacrifícium, tuo sancto nómini præparátum.

[Vieni, Dio eterno, onnipotente, santificatore, e ✠ benedici questo sacrificio preparato nel tuo santo nome.]

Al lavabo

Tal misteriosa cerimonia dimostra che la vita e le nostre opere debbono esser purissime, se vogliamo avvicinarci degnamente al Signore. Perché meglio la comprendiamo, il Sacerdote l’accompagna con la recita dei versetti seguenti del Salmo XXV.

Lavábo inter innocéntes manus meas: et circúmdabo altáre tuum. Dómine: Ut áudiam vocem laudis, et enárrem univérsa mirabília tua. Dómine, diléxi decórem domus tuæ et locum habitatiónis glóriæ tuæ. Ne perdas cum ímpiis, Deus, ánimam meam, et cum viris sánguinum vitam meam: In quorum mánibus iniquitátes sunt: déxtera eórum repléta est munéribus. Ego autem in innocéntia mea ingréssus sum: rédime me et miserére mei. Pes meus stetit in dirécto: in ecclésiis benedícam te, Dómine.
V.: Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.

R.: Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen

[Laverò fra gli innocenti le mie mani: ed andrò attorno al tuo altare, o Signore: Per udire voci di lode, e per narrare tutte quante le tue meraviglie. O Signore, ho amato lo splendore della tua casa, e il luogo ove abita la tua gloria. Non perdere insieme con gli empi, o Dio, l’anima mia, né la mia vita con gli uomini sanguinari: Nelle cui mani stanno le iniquità: e la cui destra è piena di regali. Io invece ho camminato nella mia innocenza: riscàttami e abbi pietà di me. Il mio piede è rimasto sul retto sentiero: ti benedirò nelle adunanze, o Signore.
V.: Gloria al Padre, e al Figlio, e allo Spirito Santo.
R.: Come era nel principio è ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen.]

Al Suscipe, Sancta Trinitas,

Il Sacerdote ha offerto separatamente il pane, il vino e il cuore dei Fedeli; offre ora il tutto in generale; giunge lo mani sull’altare in segno di unione con Gesù Cristo; fa l’offerta in particolare a Dio Padre ed allo Spirito Santo, invocando ora l’augusta Trinità.

Súscipe, sancta Trinitas, hanc oblatiónem, quam tibi offérimus ob memóriam passiónis, resurrectiónis, et ascensiónis Jesu Christi, Dómini nostri: et in honórem beátæ Maríæ semper Vírginis, et beáti Joannis Baptistæ, et sanctórum Apostolórum Petri et Pauli, et istórum et ómnium Sanctórum: ut illis profíciat ad honórem, nobis autem ad salútem: et illi pro nobis intercédere dignéntur in coelis, quorum memóriam ágimus in terris. Per eúndem Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Santissima Trinità, ricevete questa offerta che vi facciamo in memoria della Passione, Risurrezione e dell’Ascensione di Gesù Cristo Signore nostro, e in onor della Beata sempre Vergine Maria, di san Giovanni Battista, dei santi Apostoli Pietro e Paolo, di questi [martiri le cui reliquie sono nell’Altare], e di tutti i Santi, affinché ella torni a loro onore ed a nostra salvezza; e quelli la cui memoria celebriamo in terra, si degnino d’intercedere per noi in Cielo, per i meriti di Gesù Cristo nostro Signore. Amen.]

All’Orate, Fratres.

Il Sacerdote bacia l’altare, figura di Gesù Cristo, per attingervi le sante disposizioni, delle quali sente più e più la necessità. Per comunicarle ai Fedeli, si volta a loro, stende le mani e le ricongiunge; insiste col gesto e con la parola raccomandando di raddoppiare il fervore, come se dicesse: io vi lascio, e mi ritiro all’ombra della virtù dell’Altissimo; voi dal vostro canto pregate, e domandate di nuovo al Signore di gradire il sacrifizio che offriamo insieme.

V. Oráte, fratres: ut meum ac vestrum sacrifícium acceptábile fiat apud Deum Patrem omnipoténtem.

R. Suscípiat Dóminus sacrifícium de mánibus tuis ad laudem et glóriam nominis sui, ad utilitátem quoque nostram, totiúsque Ecclésiæ suæ sanctæ.
S. Amen.

[V.: Pregate, fratelli, affinché il mio sacrifizio, il quale è ancor vostro, sia benignamente accettato da Dio Padre onnipotente.
R.: Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio, a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua Santa Chiesa.
S. Amen.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes effecísti: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur.
Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum.
R. Amen.

All’Orazione segreta.

L’orazione segreta è la preghiera che il Sacerdote dice a voce sommessa, esponendo al Signore le necessità proprie e degli astanti: gli domanda di accettare benignamente i doni posti sull’altare e di riceverci tutti insieme come un’ostia degna di essergli offerta.

Deh! Signore, la virtù di questo sacrifizio faccia discendere sopra di noi la pienezza delle vostre benedizioni, affinché noi riceviamo le grazie che vi domandiamo contriti ed umiliati. Esaudite i gemiti e le preghiere della vostra Chiesa, acciocché dopo aver pianto la morte spirituale d’un gran numero di suoi figli, abbia la consolazione di vederli resuscitati alla grazia; per Gesù Cristo vostro Figliuolo e Signor nostro, che vive e regna con Voi nell’unità dello Spirito Santo.

Al Prefazio.

Gli apparecchi del sacrifizio son finiti; il mistero della Fede è per compiersi; il Sacerdote alza la voce per avvertire i Fedeli di sollevare a Dio i loro cuori, poiché il momento in cui il Signore è per comparire in mezzo di loro è vicino. Allontaniamo ogni creata cosa dallo spirito e dal cuor nostro, innalziamoli al cielo, per meglio penetrare nei sentimenti degli Angeli, e poter cantare con essi il Cantico eterno.

…per omnia sæcula sæculorum.
R. Amen.

[… per tutti i secoli dei secoli.
R. Amen.]

Præfatio


V.: Dóminus vobíscum.
R.: Et cum spíritu tuo.
V.: Sursum corda.
R.: Habémus ad Dóminum.
V.: Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R.: Dignum et justum est.

[V. Il Signore sia con voi.
R. E con il spirito vostro.
V. Innalzate i vostri cuori.
R. Noi li teniamo innalzati al Signore.
V. Rendiamo grazie al Signore Dio nostro.
R. Ben è giusto e ragionevole.]

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum Dominum nostrum; per quem Majestatem tuam laudant Angeli, adorant Dominationem, tremunt Potestates; Cœli cœlorum Virtutes ac Beata Seraphim socia exultatione concelebrant. Cum quibus et nostras voces, utadmitti jubeas deprecamur, supplici confessione dicentes:

[Si, è giusto e ragionevole, è cosa retta e salutare, o Padre onnipotente, Dio eterno, il rendervi grazie in tutti i tempi e luoghi, per Gesù Cristo Signor nostro, per cui gli Angeli lodano, le Dominazioni adorano, le Potestà riveriscono la vostra Maestà; le Virtù dei Cieli e i beati Serafini celebrano la vostra gloria nel fervore d’una santa esultanza; ai cori loro gloriosi permetteteci di unire le nostre deboli voci; prostrati davanti a Voi ripetendo con essi l’inno che risonerà eternamente nella santa Sionne:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt coeli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

[Santo, Santo, Santo il Signore Dio degli esérciti; la vostra gloria riempie i cieli e la terra: gloria nel più alto dei cieli; sia benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Gloria a Lui nel più alto dei cieli.]

Per mostrare un più profondo rispetto recitando il Sanctus, il Sacerdote congiunge le mani e sta inclinato. Si suona un campanello ad avvertire i presenti che il Sacerdote è per cominciare la gran preghiera del Canone, che deve operar la consacrazione del Corpo di Gesù Cristo. Il Sacerdote si drizza, e fa sull’ostia il segno della croce, perché in virtù della croce noi partecipiamo alle benedizioni che Gesù Cristo è venuto a spargere sulla terra: alza gli occhi c le mani al cielo per imitare il Salvatore, che prima di operare i suoi miracoli si indirizzava al Padre che regna nei cieli. Ma tosto abbassa gli occhi, congiunge le mani e s’inchina per prendere l’atteggiamento d’un supplichevole. Quindi bacia l’altare che rappresenta Gesù Cristo, per esprimergli suo amore e il suo rispetto, e gli domanda che alla sua preghiera dia potenza sul cuore di Dio.

Il Canone.

Il Canone è la regola invariabile delle preghiere e delle cerimonie che precedono e seguono la Consacrazione. Ciò che Gesù Cristo ha fatto una volta sul Calvario, esso lo continua lutti i giorni sul nostro altare, ove si fa presente a noi. Ciò che questo divin Redentore ha fatto, prendendo del pane, benedicendolo e rendendo grazie, lo fa come Egli, per Lui e con Lui il Sacerdote. Destiamo dunque l’attenzione, seguiamo il Sacerdote che parla per noi: domandiamo le grazie di cui abbiamo bisogno. Dio che ci dà il suo Figlio, può egli ricusarci niente, se le nostre preghiere son fervorose?

Canon
Te igitur, clementíssime Pater, per Jesum Christum, Fílium tuum, Dóminum nostrum, súpplices rogámus, ac pétimus, uti accepta habeas et benedícas, hæc dona, hæc múnera, hæc sancta sacrifícia illibáta, in primis, quæ tibi offérimus pro Ecclésia tua sancta cathólica: quam pacificáre, custodíre, adunáre et régere dignéris toto orbe terrárum: una cum fámulo tuo Papa nostro [Gregorio], et Antístite nostro et ómnibus orthodóxis, atque cathólicæ et apostólicae fídei cultóribus

[Te dunque, o clementissimo Padre, vi scongiuriamo per Gesù Cristo vostro Figlio e nostro Signore, ad accettare e benedire questi ✠ doni, queste ✠ offerte, questo ✠ sacrifizio santo e senza macchia, che noi offriamo in prima per la vostra Chiesa Cattolica, affinché vi degnate darle la pace, conservarla, mantenerla nell’unione e reggerla su tutta la terra, e con essa il vostro servo e nostro Pontefice Gr. XVIII, e il nostro Vescovo N., ed il nostro re N., e tutti gli ortodossi, che professano la cattolica ed apostolica fede.]

Al Memento dei vivi

Venite presso a quest’altare, figli della Chiesa, venite ad essere inondati dal Sangue divino che è per ispargersi. Il Sacerdote alla vista delle vostre necessità, pieno di sollecitudine le enumera particolarmente: e voi riceverete secondo le disposizioni che vi animeranno.

Meménto, Dómine, famulórum famularúmque tuarum N. et N. et ómnium circumstántium, quorum tibi fides cógnita est et nota devótio, pro quibus tibi offérimus: vel qui tibi ófferunt hoc sacrifícium laudis, pro se suísque ómnibus: pro redemptióne animárum suárum, pro spe salútis et incolumitátis suæ: tibíque reddunt vota sua ætérno Deo, vivo et vero.

[Ricordatevi, o Signore, dei servi e delle vostre serve N. e N. (qui il sacerdote si ferma per designarle) e di tutti i presenti, la cui fede e devozione voi conoscete, per i quali noi vi offriamo o che vi offrono meco questo sacrificio di lode, a vantaggio proprio e di tutti gli attinenti, per la redenzione delle loro anime, per la speranza della salute e della loro conservazione; e rendono i loro voti a voi, Dio eterno vivo e vero.]

In mezzo all’azione o al Communicantes

Communicántes, et memóriam venerántes, in primis gloriósæ semper Vírginis Maríæ, Genetrícis Dei et Dómini nostri Jesu Christi: sed et beatórum Apostolórum ac Mártyrum tuórum, Petri et Pauli, Andréæ, Jacóbi, Joánnis, Thomæ, Jacóbi, Philíppi, Bartholomaei, Matthaei, Simónis et Thaddaei: Lini, Cleti, Cleméntis, Xysti, Cornélii, Cypriáni, Lauréntii, Chrysógoni, Joánnis et Pauli, Cosmæ et Damiáni: et ómnium Sanctórum tuórum; quorum méritis precibúsque concédas, ut in ómnibus protectiónis tuæ muniámur auxílio. Per eúndem Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Uniti in una stessa comunione veneriamo anzitutto la memoria della gloriosa sempre Vergine Maria, Madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo: e di quella dei tuoi beati Apostoli e Martiri: Pietro e Paolo, Andrea, Giacomo, Giovanni, Tommaso, Giacomo, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Simone e Taddeo, Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio, Cipriano, Lorenzo, Crisógono, Giovanni e Paolo, Cosma e Damiano, e di tutti i tuoi Santi; per i meriti e per le preghiere dei quali concedi che in ogni cosa siamo assistiti dall’aiuto della tua protezione. Per il medesimo Cristo nostro Signore. Amen.]

Il Sacerdote stende le mani sull’Ostia e sul Calice.

Questa cerimonia ci rammenta che abbiamo meritata la morte, e solo per la misericordia divina sostituiamo in nostra vece la Persona del Salvatore. Domandiamo con confidenza la remissione dei nostri peccati e la vita eterna; diamoci tutti al servizio del Signore, come Egli si dà tutto per la nostra salvezza.

Hanc igitur oblatiónem servitutis nostræ, sed et cunctae famíliæ tuæ, quaesumus, Dómine, ut placátus accípias: diésque nostros in tua pace dispónas, atque ab ætérna damnatióne nos éripi, et in electórum tuórum júbeas grege numerári. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Ti preghiamo, dunque, o Signore, a ricevere benignamente questa offerta della nostra servitù e di tutta la nostra famiglia; a stabilire i nostri giorni nella vostra pace, a preservarci dall’eterna dannazione, ed a metterci nel numero dei vostri eletti; per il nostro Signore Gesù Cristo. Amen.]

Si avvicina il momento in cui sta per aprirsi il cielo, gli Angeli si dispongono intorno all’altare; il Sacerdote benedice le offerte e rende grazie sul pane e sul vino, che stanno per cangiarsi nel Corpo e nel Sangue di Gesù Cristo. Rendiamone grazie umiliandoci profondamente.

La Consacrazione e l’Elevazione.

Quam oblatiónem tu, Deus, in ómnibus, quaesumus, bene díctam, adscríp tam, ra tam, rationábilem, acceptabilémque fácere dignéris: ut nobis Cor pus, et San guis fiat dilectíssimi Fílii tui, Dómini nostri Jesu Christi.

[Deh! Ve ne preghiamo, o Dio, degnatevi di fare che questa offerta sia in tutto benedetta, ratificata, convenevole e gradita, perché ci diventi il Cor ✠ po e il San ✠ gue del vostro dilettissimo Figliuolo e Signor nostro Gesù Cristo.]

Qui prídie quam paterétur, accépit panem in sanctas ac venerábiles manus suas, elevátis óculis in cœlum ad te Deum, Patrem suum omnipoténtem, tibi grátias agens, bene dixit, fregit, dedítque discípulis suis, dicens: Accípite, et manducáte ex hoc omnes.

[Egli la vigilia della sua passione, prese del pane nelle sue sante e venerabili mani e, avendo levati gli occhi al cielo, a voi Dio, Padre suo onnipotente, rendendoti grazie, lo bene ✠ disse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli, dicendo: Prendete, mangiatene tutti: ché questo è il mio Corpo.]

HOC EST ENIM CORPUS MEUM.

[QUESTO È IL MIO CORPO]

Símili modo postquam coenátum est, accípiens et hunc præclárum Cálicem in sanctas ac venerábiles manus suas: item tibi grátias agens, bene dixit, dedítque discípulis suis, dicens: Accípite, et bíbite ex eo omnes.

HIC EST ENIM CALIX SANGUINIS MEI, NOVI ET ÆTERNI TESTAMENTI: MYSTERIUM FIDEI: QUI PRO VOBIS ET PRO MULTIS EFFUNDETUR IN REMISSIONEM PECCATORUM.

Hæc quotiescúmque fecéritis, in mei memóriam faciétis.

 [In simil guisa, dopo aver cenato, prendendo ancora questo prezioso calice nelle sue sante e venerabili mani, e parimente rendendovi grazie, lo bene ✠  disse e lo dette ai suoi discepoli dicendo: Prendete e bevetele tutti: poiché questo è il Calice del mio Sangue, il Sangue del nuovo ed eterno Testamento (Mistero di fede), che sarà sparso per voi e per molti in remissione dei peccati. Ogni qual volta questo, lo farete in memoria di me.]

Dopo l’Elevazione

Sopra l’altare, come sulla croce, tutto è consumato: le altezze dei cieli si sono abbassate, il Giusto è disceso dalle nubi, la terra ha germogliato il suo Salvatore, il Signore è con noi, è per colmarci di grazie; contempliamolo affettuosamente sull’altare, e meditiamo i misteri che Egli vi opera.

Unde et mémores, Dómine, nos servi tui, sed et plebs tua sancta, ejusdem Christi Fílii tui, Dómini nostri, tam beátæ passiónis, nec non et ab ínferis resurrectiónis, sed et in coelos gloriósæ ascensiónis: offérimus præcláræ majestáti tuæ de tuis donis ac datis, hóstiam puram, hóstiam sanctam, hóstiam immaculátam, Panem sanctum vitæ ætérnæ, et Calicem salútis perpétuæ.

[Per questo, o Signore, noi che siamo vostri servi, e con noi il vostro popolo santo, in memoria della beatissima Passione di Gesù Cristo nostro Signore, e della sua Risurrezione dagli inferi e la sua gloriosa Ascensione in cielo: offriamo alla vostra incomparabile Maestà, dei dono e della vostra beneficenza, l’Ostia ✠ pura, l’Ostia ✠ santa, l’Ostia ✠ immacolata, il Pane ✠ santo della vita eterna e il Calice ✠ della perpetua salvezza.]

Così noi facciamo parte nel sacrifizio con con Gesù Cristo, che morendo ha distrutto l’impero della morte su noi: facciamo parte con Gesù Cristo risuscitato, la cui Resurrezione è il principio ed il modello della nostra: facciamo parte con Gesù Cristo salito in cielo, e per ciò in un certo modo vi ascendiamo con Lui; onde fin d’ora ci possiamo riguardare come cittadini del cielo. È possibile il ricordare i vari frutti di tali misteri, e conservar sì ostinatamente l’amore alle cose mondane?

Supra quæ propítio ac seréno vultu respícere dignéris: et accépta habére, sicúti accépta habére dignátus es múnera púeri tui justi Abel, et sacrifícium Patriárchæ nostri Abrahæ: et quod tibi óbtulit summus sacérdos tuus Melchísedech, sanctum sacrifícium, immaculátam hóstiam.

[v. Degnatevi di riguardare con benigno e prpizio occhio l’offerta che vi facciamo di questo santo sacrifizio, di questa immacolata Ostia, come vi piacque di gradire i doni del giusto Abele, vostro servo, il sacrificio di Abramo, vostro patriarca, e l’offerta del sommo vostro sacerdote Melchisedeck]

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: jube hæc perférri per manus sancti Angeli tui in sublíme altáre tuum, in conspéctu divínæ majestátis tuæ: ut, quotquot ex hac altáris participatióne sacrosánctum Fílii tui Cor pus, et Sán guinem sumpsérimus, omni benedictióne coelésti et grátia repleámur. Per eúndem Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Ti supplichiamo, o Dio onnipotente, a comandar che questi doni, siano portati dalle mani degli Angeli santi, sul vostro sublime altare, dinanzi alla divina Maestà vostra, affinché tutti noi che, partecipando di questa mensa, avremo ricevuto il Cor ✠ po e il San ✠ gue sacrosanto del vostro Figlio, siamo ricolmi di tutte le benedizioni e le  grazie celesti; Per lo stesso Gesù Cristo nostro Signore. Amen.]

Al Memento dei Morti.

È giustissimo che i Fedeli della terra, unitisi nel sacrifizio ai Santi del cielo, si uniscano ancora alle anime del Purgatorio, perché tutta quanta la famiglia dei figli di Dio, che trionfano, combattono, e soffrono, conviene all’altare, e raccoglie i meriti del sangue dell’Agnello riscattatore del mondo.

Meménto étiam, Dómine, famulórum famularúmque tuárum N. et N., qui nos præcessérunt cum signo fídei, et dórmiunt in somno pacis. Ipsis, Dómine, et ómnibus in Christo quiescéntibus locum refrigérii, lucis pacis ut indúlgeas, deprecámur. Per eúndem Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Ricordatevi ancora, o Signore, dei servi e delle vostre serve N. e N. che ci hanno preceduto col segno della fede e dormono ora nel sonno di pace. Deh! o Signore, concedete per la vostra misericordia a loro e a tutti ed a tutti quelli che riposano in Gesù Cristo, il luogo del refrigerio, della luce e della pace. Per il medesimo Cristo nostro Signore. Amen.]

Al Nobis quoque peccatoribus.

Il Sacerdote alza un poco la voce sul principio, ad avvertire gli astanti di unirsi in modo del tutto speciale alla preghiera che loro si spetta. Tosto si ripone nel misterioso silenzio del Canone, e si percuote il petto, indicando così, come il Pubblicano che egli confessa le miserie e l’indegnità nostra. Eccitiamo il fervore per ottenere un maggior frutto del santo sacrifizio.

Nobis quoque peccatóribus fámulis tuis, de multitúdine miseratiónum tuárum sperántibus, partem áliquam et societátem donáre dignéris, cum tuis sanctis Apóstolis et Martýribus: cum Joánne, Stéphano, Matthía, Bárnaba, Ignátio, Alexándro, Marcellíno, Petro, Felicitáte, Perpétua, Agatha, Lúcia, Agnéte, Cæcília, Anastásia, et ómnibus Sanctis tuis: intra quorum nos consórtium, non æstimátor mériti, sed véniæ, quaesumus, largítor admítte. Per Christum, Dóminum nostrum.

[E anche a noi peccatori servi vostri, che speriamo nella vostra immensa misericordia, dégnatevi far partedella celeste eredità, e di ammettervci con i vostri santi Apostoli e Martiri, con Giovanni, Stefano, Mattia, Bárnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino, Pietro, Felícita, Perpetua, Ágata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia, e con tutti i vostri Santi; nella cui società vi preghiamo di riceverci, non in considerazione dei nostri meriti, ma usandoci grazia; per Gesù Cristo nostro Signore …]

Per quem hæc ómnia, Dómine, semper bona creas, sancti ficas, viví ficas, bene dícis et præstas nobis.

[… create sempre tutti questi beni, li santi ✠  ficate, e bene  ✠  ficate, gli bene ✠ dite ed a noi li porgete.]

Per ip sum, et cum ip so, et in ip so, est tibi Deo Patri omnipotenti, in unitáte Spíritus Sancti, omnis honor, et glória.
Per omnia saecula saecolorum.
R. Amen.

[Per mezzo di ✠ Lui e con ✠ Lui e in ✠ Lui, a Voi si perviene, Dio Padre ✠ onnipotente, nell’unità dello Spirito ✠ Santo
ogni onore e gloria.
Per tutti i secoli dei secoli.
R. Amen.]

Al Pater noster.

Nulla è più adatto a disporre le anime nostre alla partecipazione dei santi misteri che la preghiera del Signore ben meditata e detta con fervore. Poniamoci ai piedi del Signore con la più tenera compassione ai patimenti di Lui, come la Maddalena; con un fedele amore, come s. Giovanni, piangendo i nostri peccati, come s. Pietro.

Orémus:

Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutione formati audemus dicere:

Pater noster, qui es in caelis, Sanctificetur nomen tuum. Adveniat regnum tuum. Fiat voluntas tua, sicut in coelo et in terra. Panem nostrum quotidianum da nobis hodie. Et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris. Et ne nos inducas in tentationem:
R. Sed libera nos a malo.
S. Amen

[Orazione:  Ammoniti dal salutare comando di Gesù Cristo, e secondo la divina istruzione data da Lui,  osiamo dire:
Padre nostro, che siete nei cieli, sia santificato il vostro nome Venga a noi il vostro regno, Sia fatta la vostra volontà, siccome in cielo così in terra. Dateci oggi il nostro pane quotidiano; perdonateci le nostre offese come noi le perdoniamo ai nostri offensori; né permettete che soccombiamo alla tentazione;

R. Ma liberaci dal male.
S. Amen.]

Al libera nos, quœsumus.

Il Sacerdote insiste con fervore sull’ultima domanda dell’orazione domenicale, continuando a domandare a Dio di farci liberi da tutti i mali, e la pace, che è la conseguenza di questa libertà.

La patena, destinata a ricevere il Corpo di Gesù Cristo è il segno della pace; il Sacerdote la tiene con una mano, l’appoggia sull’altare, ed in questa attitudine di confidenza dice:

Líbera nos, quœsumus, Dómine, ab ómnibus malis, prætéritis, præséntibus et futúris: et intercedénte beáta et gloriósa semper Vírgine Dei Genetríce María, cum beátis Apóstolis tuis Petro et Paulo, atque Andréa, et ómnibus Sanctis, da propítius pacem in diébus nostris: ut, ope misericórdiæ tuæ adjúti, et a peccáto simus semper líberi et ab omni perturbatióne secúri.
Per eúndem Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum.
Qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus.
V. Per omnia sæcula sæculorum.
R. Amen.
Pax Domini sit semper vobiscum.
R. Et cum spiritu tuo.

[Liberaci, te ne preghiamo, o Signore, da tutti i mali passati, presenti e futuri: e per intercessione della beata e gloriosa sempre Vergine Maria, Madre di Dio, e dei tuoi beati Apostoli Pietro e Paolo, e Andrea, e di tutti i Santi concedi benigno la pace nei nostri giorni : affinché, sostenuti dalla tua misericordia, noi siamo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento.
Per il medesimo Gesù Cristo nostro Signore, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo
V. Per tutti i secoli dei secoli.
R. Amen.
La pace ✠ del Signore sia ✠ sempre con ✠ voi.
R. E con il tuo spirito.]

Il Sacerdote frange l’Ostia,

Il Sacerdote imita Gesù Cristo, che spezzò il pane consacrato prima di distribuirlo ai Discepoli nell’ ultima cena, e ricorda ancora la separazione del Corpo e del Sangue di Lui. Ecco il nostro Dio sta per discendere dall’altare per esser deposto nel cuore e sepolto nelle anime dei suoi figli. Ci rammenta con ciò, che Egli è morto sulla croce, ed ha versato il suo Sangue per liberarci dalla servitù del peccato e per segnare la nostra riconciliazione col cielo.

Haec commíxtio, et consecrátio Córporis et Sánguinis Dómini nostri Jesu Christi, fiat accipiéntibus nobis in vitam ætérnam. Amen.

[Questa mescolanza e consacrazione del Corpo e del Sangue di Gesú Cristo giovi che stiamo per ricevere, ci acquisti la vita eterna. Amen.]

All’Agnus Dei.

Dio, sì glorioso in cielo, sì potente sulla terra, così terribile nello inferno, non è qui che un agnello tutto dolcezza e bontà; e viene per cancellare i peccati del mondo, e singolarmente i nostri. Oh quale argomento di consolazione per noi!

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

[Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbiate pietà di noi.
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbiate pietà di noi.
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, donate noi la pace.]

Per domandare la Pace.

Quando tutti i Fedeli erano un corpo ed un’anima sola, prima di partecipare ai santi Misteri, gli uomini tra loro e parimente le femmine si davano a vicenda il bacio di pace. « Le vostre labbra, diceva s. Agostino, si accostino a quelle del vostro fratello, per rammentarvi che il cuor vostro deve tenersi unito al cuore di lui. »

Dómine Jesu Christe, qui dixísti Apóstolis tuis: Pacem relínquo vobis, pacem meam do vobis: ne respícias peccáta mea, sed fidem Ecclésiæ tuæ; eámque secúndum voluntátem tuam pacificáre et coadunáre dignéris: Qui vivis et regnas Deus per ómnia sæcula sæculórum. Amen.

[Signore Gesù Cristo, che dicesti ai tuoi Apostoli: Io vi lascio la pace, vi do la mia pace, non vogliate guardare ai miei peccati, ma alla fede della vostra Chiesa, e degnatevi di pacificarla e di riunirla secondo la vostra volontà, o Dio e vivete e regnate per tutti i secoli dei secoli. Amen.]

Avanti la Comunione.

I Fedeli che si dispongono a comunicarsi, nulla di meglio potranno fare che entrar nello spirito delle seguenti orazioni, e ben penetrarsi dei sentimenti ivi espressi: come il Sacerdote, troveranno anch’essi in quell’espressioni tanto pure e commoventi, ciò che debbono dire al Signore, già pronto a farsi padrone dei loro cuori.

Dómine Jesu Christe, Fili Dei vivi, qui ex voluntáte Patris, cooperánte Spíritu Sancto, per mortem tuam mundum vivificásti: líbera me per hoc sacrosánctum Corpus et Sánguinem tuum ab ómnibus iniquitátibus meis, et univérsis malis: et fac me tuis semper inhærére mandátis, et a te numquam separári permíttas: Qui cum eódem Deo Patre et Spíritu Sancto vivis et regnas Deus in saecula sæculórum. Amen.

[Signore Gesù  Cristo, Figlio del Dio vivente, che per la volontà del Padre, con la cooperazione dello Spirito Santo, avete dato con la vostra morte la vita al mondo, liberatemi, per il vostro sacro Corpo e Sangue prezioso qui presente, da tutti i miei peccati, e da tutti gli altri mali: e fate sì che sempre io aderisca  alla vostra legge né permettete che io mai mi separi da Voi, che vivete e regnate con lo stesso Dio Padre e con lo Spirito Santo in tutti i secoli dei secoli. Amen.]

Percéptio Córporis tui, Dómine Jesu Christe, quod ego indígnus súmere præsúmo, non mihi provéniat in judícium et condemnatiónem: sed pro tua pietáte prosit mihi ad tutaméntum mentis et córporis, et ad medélam percipiéndam: Qui vivis et regnas cum Deo Patre in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia saecula sæculórum. Amen.

[Signore Gesù Cristo, la partecipazione del vostro Corpo, ch’io indegno ardisco ricevere, non si converta in mio giudizio e condanna; ma per la vostra bontà mi giovi a difesa e salutare medicina dell’anima e del corpo: degnati di concedermi queste grazie, o Dio, che vivete e regnate col Padre e con lo Spirito Santo, in tutti i secoli dei secoli. Amen.]

Panem cœlestem accipiam, et nomen Domini invocabo.

[Prenderò il pane celeste, ed invocherò il nome del Signore]

Al Domine, non sum dignus.

Misero il Cristiano che sentisse disgusto alla vista di sì preziosa mensa e d’un pane che contiene ogni soavità! Ma poiché noi non possiamo meditare il bisogno di unirci a Dio, senza misurar subito la distanza infinita che separa il Creatore dalla creatura; al desiderio nostro deve succedere l’umiltà; dobbiamo inchinarci percotendoci il petto, ed esclamare tre volte:

Domine, non sum dignus ut intres sub tectum meum, sed tantum dic verbo, et sanabitur anima mea.

[Signore, non son degno che voi entriate nella mia casa, ma dite una sola parola, e l’anima mia sarà sanata.]

Se non ci comunichiamo, invece della preghiera che fa il Sacerdote, possiamo far questa:

Comunione spirituale.

Qual felicità, mio buon Gesù, e qual bene sarà per me l’unirmi a Voi, e nutrirmi realmente del vostro Corpo e del vostro Sangue prezioso! L’amore che voi mi portate vi fa bramare di abitar continuamente nel mio cuore, e di comunicarmi intimamente i meriti del vostro sacrifizio. Perché non posso io, o Pane di vita, ricevervi in questo momento con pura coscienza, profonda umiltà, viva fede, ferma speranza, acceso amore, e partecipare della santa gioia dei vostri figli, di cui siete sì sovente la delizia! Venite, almeno, Signore Gesù, venite spiritualmente a un’anima che vi sospira e sente il peso della sua miseria: soccorretela, fortificatela, traetela a voi con quelle potenti attrattive che trionfano dei più insensibili cuori. Sia io tutto di Voi, e nulla mi separi qui in terra da Dio, che non mi ha creato se non per sé, e vuol fare l’eterna mia felicità.

Il Sacerdote dice prendendo il Corpo del Signore:

Corpus Dómini nostri Jesu Christi custódiat ánimam meam in vitam ætérnam. Amen.

[Il Corpo di nostro Signore Gesú Cristo custodisca l’anima mia per la vita eterna. Amen.]

Dopo aver ricevuto il Corpo del nostro Signore:

Quid retríbuam Dómino pro ómnibus, quæ retríbuit mihi? Cálicem salutáris accípiam, et nomen Dómini invocábo. Laudans invocábo Dóminum, et ab inimícis meis salvus ero.
[Che renderò io al Signore per tutte le cose che ha dato a me? Prenderò il Calice della salute e invocherò il nome del Signore. Lodandolo invocherò il Signore e sarò salvo dai miei nemici.]

Nel prendere il prezioso Sangue dice:

Sanguis Dómini nostri Jesu Christi custódiat ánimam meam in vitam ætérnam. Amen.

Nel far le abluzioni.

Quod ore súmpsimus, Dómine, pura mente capiámus: et de munere temporáli fiat nobis remédium sempitérnum.

[Ciò Fate o Signore, che noi conserviamo in un cuor puro il sacramento che la nostra bocca ha ricevuto, e questo dono temporale sia ristoro per noi sempiterno.]

Corpus tuum, Dómine, quod sumpsi, et Sanguis, quem potávi, adhaereat viscéribus meis: et præsta; ut in me non remáneat scélerum mácula, quem pura et sancta refecérunt sacraménta: Qui vivis et regnas in saecula sæculórum. Amen

[O Signore, il vostro Corpo che ho ricevuto e il vostro Sangue che ho bevuto, aderiscano al mio seno; sicché in me nutrito da sacramenti sì puri e sì santi, non resti macchia di peccato, o Dio, che vivete e regnate in tutti i secoli dei secoli.]

Il Sacerdote legge la Communione.

La preghiera detta Communione è riguardata come un inno di ringraziamento, una maniera di nutrire i sentimenti che la presenza di Gesù Cristo deve eccitare nelle anime nostre: le parole di questa preghiera sono vive e penetranti; e soavissimo è il meditarle ad un cuore innamorato di Dio.

« Che posso desiderare di più in cielo e sulla terra?… Ho trovato Colui che il mio cuore ama; io non me ne separerò giammai. »

« Mi amate voi più degli altri, voi ai quali ho concessi tutti i miei favori ? »

« Signore, voi conoscete ogni cosa, voi sapete che io vi amo. »

V.: Dóminus vobíscum.
R.: Et cum spíritu tuo.

V. Il Signore sia con voi.

R. E con lo spirito vostro.

Al Post-Communio.

Offriamo al Signore sacrifizio per sacrifizio; poiché Egli si è immolato per noi, noi diventiamo la vittima del suo amore immolando a lui tutte le ricercatezze dell’amor proprio, tutte le inclinazioni e le repugnanze che si oppongono all’adempimento dei nostri doveri. Dateci, o Signore, in virtù del sacrifizio a voi offerto, la remissione dei nostri peccati, il desiderio di espiarli, e la grazia di non cadervi mai più. Concedeteci un fervente amore a Voi, un gran timor di spiacervi e l’applicazione ai nostri doveri; fate che conduciamo una vita tutta fervore, e che troviamo in voi misericordia nell’ultimo giorno di nostra vita; per il nostro Signore Gesù Cristo, vostro Figlio, che vive e regna con voi nell’ unione dello Spirito Santo in tutti i secoli dei secoli. Così sia.

V.: Dominus vobiscum.

R.: Et cum spiritu tuo.

[V. Il Signore sia con voi.

R. E con lo spirito vostro.]

V.: Ite Missa est.

[V.. Andate, la Messa è compiuta.]

R. Deo gratias.

R. :Sieno grazie a Dio.

Quando il Sacerdote non ha detto il Gloria in excelsis, dice:

V.: Benedicamus Domino,

[V.: Benediciamo il Signore.]

R.: Deo gratias

[R.: Sieno grazie a Dio].

Alle Messe da morto dice:

V.: Requiescant in pace.

V.: Riposino in pace,

R.: Amen.

[R.: Amen]

La preghiera Placeat è quasi un riepilogo di tutto l’avvenuto, ed una nuova istanza per domandare a Dio la conservazione dei frutti di un sì gran mistero

Pláceat tibi, sancta Trínitas, obséquium servitútis meæ: et præsta; ut sacrifícium, quod óculis tuæ majestátis indígnus óbtuli, tibi sit acceptábile, mihíque et ómnibus, pro quibus illud óbtuli, sit, te miseránte, propitiábile. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Ricevete benignamente, o santa Trinità, l’omaggio della mia perfetta soggezione, e degnatevi accettare il sacrifizio da me offerto, sebbene indegnamente, alla vostra divina Maestà: fate per vostra misericordia, che riesca propiziatorio a me ed a tutti quelli a pro dei quali l’ho offerto; per il nostro Signore Gesù Cristo. Amen.]

Il Sacerdote benedice gli astanti, fuorché alle Messe da morto.

 Il Sacerdote bacia l’altare come per raccogliere il tesoro delle grazie che è per augurare ai Fedeli; leva gli occhi e le mani al cielo per chiamare le benedizioni dal sublime altare, ove l’Agnello sacrificale è riasceso; congiunge le mani a mostrare che egli tiene le grazie celesti, saluta la la croce, sorgente di tanti beni che è per ispandere, e rivoltosi ai Fedeli, fa sovr’essi il segno della Redenzione, dicendo:

V.: Benedicat vos omnipotens Deus, Pater et Filius, Et Spiritus Sanctus.

R.: Amen

[V.: L’ Onnipotente Dio, Padre, Figliuolo e Spirito Santo vi benedica.

R.: Così sia.]

All’ultimo Vangelo,

Una volta i Cristiani portavan sul cuore il principio del Vangelo di San Giovanni; volevano che si deponesse col loro corpo nella tomba: lo recitavano nei pericoli, ne chiedevano la lettura nelle malattie. Poiché tal devozione gli mosse a farlo recitare tutti i giorni dopo la Messa, un sì lodevol costume presto divenne legge; e la Chiesa ordinò che si recitasse prima di lasciar l’altare. Meditiamo attentamente gli ineffabili misteri in esso racchiusi.

V.: Dominus vobiscum.

R.: Et cum spiritu tuo.

V. Initium sancti Evangeli secundum Joannem.

R. Gloria tibi, Domine.

In princípio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum. Hoc erat in princípio apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt: et sine ipso factum est nihil, quod factum est: in ipso vita erat, et vita erat lux hóminum: et lux in ténebris lucet, et ténebræ eam non comprehendérunt.
Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Joánnes. Hic venit in testimónium, ut testimónium perhibéret de lúmine, ut omnes créderent per illum. Non erat ille lux, sed ut testimónium perhibéret de lúmine.
Erat lux vera, quæ illúminat omnem hóminem veniéntem in hunc mundum.
In mundo erat, et mundus per ipsum factus est, et mundus eum non cognóvit. In própria venit, et sui eum non recepérunt. Quotquot autem recepérunt eum, dedit eis potestátem fílios Dei fíeri, his, qui credunt in nómine ejus: qui non ex sanguínibus, neque ex voluntáte carnis, neque ex voluntáte viri, sed ex Deo nati sunt. (Genuflectit dicens): Et Verbum caro factum est, (Et surgens prosequitur): et habitávit in nobis: et vídimus glóriam ejus, glóriam quasi Unigéniti a Patre, plenum grátiæ et veritatis.

R.: Deo gratias.

[In principio era il Verbo, e il Verbo era appresso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio appresso Dio. Per mezzo di Lui furono fatte tutte le cose, e senza di Lui nulla fu fatto di ciò che è stato fatto; in Lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini. e la luce splende tra le tenebre, e le tenebre non l’hanno ammessa. Vi fu un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni. Questi venne qual testimonio, affine di rendere testimonianza alla luce, perché per mezzo di Lui tutti credessero; ei non era egli la luce, ma era per rendere testimonianza alla luce. Quegli era la luce vera, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Egli era nel mondo, e il mondo per Lui fu fatto, ma il mondo non lo conobbe. Venne in sua propria casa e i suoi non lo ricevettero. Diede potere di diventare figliuoli di Dio a quelli che credono nel suo nome: i quali non per via di sangue, né per volontà di carne, né per volontà d’uomo, ma da Dio sono nati. ci inginocchiamo E il Verbo si fece carne ci alziamo e abitò fra noi; e abbiamo veduto la sua gloria: gloria come dell’Unigenito del dal Padre, pieno di grazia e di verità.
R. Grazie a Dio.]

Oratio Leonis XIII

S. Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus.
O. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostræ. Amen.
S. Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus.
O. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostræ. Amen.
S. Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus.
O. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostræ. Amen.

O. Salve Regina, Mater misericordiæ, vita, dulcedo, et spes nostra, salve. Ad te clamamus, exsules filii Evae. Ad te suspiramus gementes et flentes in hac lacrymarum valle. Eia ergo, Advocata nostra, illos tuos misericordes oculos ad nos converte. Et Jesum, benedictum fructum ventris tui, nobis, post hoc exilium, ostende. O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria.
S. Ora pro nobis, sancta Dei Genitrix.
O. Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

S. Orémus. Deus, refúgium nostrum et virtus, populum ad te clamantem propitius respice; et intercedente gloriosa, et immaculata Virgine Dei Genitrice Maria, cum beato Joseph, ejus Sponso, ac beatis Apostolis tuis Petro et Paulo, et omnibus Sanctis, quas pro conversione peccatorum, pro libertate et exaltatione sanctae Matris Ecclesiae, preces effundimus, misericors et benignus exaudi. Per eundem Christum Dominum nostrum. Amen.

O. Sancte Michaël Archangele, defende nos in prœlio; contra nequitiam et insidias diaboli esto præsidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque, Princeps militiæ Cælestis, satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute in infernum detrude. Amen.

S. Cor Jesu sacratissimum.
O. Miserere nobis.
S. Cor Jesu sacratissimum.
O. Miserere nobis.
S. Cor Jesu sacratissimum.
O. Miserere nobis.

Dopo la Messa.

lo sono per lasciare, o mio Salvatore, questo luogo di benedizione che voi avete scelto per vostra dimora; ma se io non sono qui col corpo, sarò con i miei affetti, e ci ritornerò con gioia, poiché la mia delizia è di stare davanti ai vostri tabernacoli. Non permettete che io vi dimentichi nelle mie occupazioni: tutte le mie opere io voglio samntificare. Possano esse riuscirvi aggradevoli! Venite in mio soccorso, o Gesù; vi prometto di compierle tutte con lo scopo di piacervi e in unione con Voi: concedetemi la grazia di esser fedele a questa risoluzione.

Maria, mia tenera Madre, spiriti celestiali, e voi tutti, o elettidi Dio, intercedete per me, e ottenetemi la grazia di essere un giorno ammesso alla vostra felicità.

Non usciamo di chiesa senza aver dimostralo a Dio la nostra riconoscenzaper tutte le grazie a noi largite nel tempo del sacrifizio; conserviamone preziosamente i frutti, e facciamo in modo che ognuno vedendoci si convinca, che siamo stati tocchi dall’amore infinito che Gesù Cristo ha avuto per noi.

Questa è l’unica, vera Messa Cattolica, apice del culto che Dio vuole e gradisce.

S. S. PIO V: QUO PRIMUM: … Nulli ergo omnino hominum liceat han paginam nostrae permissionibus, statuti, ordinationis, mandati, praecepti, concessionis, indulti, declarationis, voluntatis, decreti, et inhibitionis infrangere, vel ei ausu temerario contraire.

SI QUIS AUTEM HOC ATTENTARE PRAESUMPSCRIT, INDIGNATIONEM OMNIPOTENS DEI, AC BEATORUM PETRI ET PAULI APOSTOLORUM EJUS, SE NOVERIT INCURSUM. (Roma 15 luglio 1570)

ATTENZIONE!!!

Chi offre un culto diverso da questo, cadrà nella indignazione di DIO e dei Beati Apostoli Pietro e Paolo. Non ci sono discussioni che tengano … la bolla citata è parte del Magistero infallibile ed irreformabile – in perpetuo – (chi disubbidisce si pone fuori dalla Chiesa Cattolica peccando di Carità contro DIO, e senza la carità, ci assicura San Paolo (I Cor. XIII), non si è nessuno, e non si può ottenere la vita eterna in alcun modo!

… e ai sapientoni che dicono essere possibile modificare le disposizioni e decreti della Sede Apostolica, ricordiamo: ” …È evidente che il giudizio della Sede Apostolica, che detiene la più alta autorità, non può essere rimesso in questione da alcuno né sottoposto ad esame da parte di chicchessia [Ep. Nicolai I ad Michaelem Imperatorem] …

… Se qualcuno quindi avrà la presunzione di opporsi a questa Nostra definizione, Dio non voglia!: sia anatema. [Cost. Ap. Pastor Aeternus, Conc. Vatic. 18, luglio, 1870].

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – QUOD NUNQUAM

In questa breve lettera, il Santo Padre, denuncia abusi e violenze che furono perpetrati nei confronti del clero prussiano, vessato da leggI ingiuste e crudeli che impedivano l’esercizio delle loro funzioni e dei compiti sacri, oltre che impedire ai fedeli l’esercizio del culto cattolico. È uno dei tanti episodi che hanno coinvolto l’Europa ed il mondo Cristiano nella lotta senza quartiere che il demonio scatenato cominciava  a portare con veemenza contro la Chiesa di Cristo, servendosi delle logge e conventicole massoniche e di loschi e facinorosi individui legati ai culti satanici. È la medesima lotta che ha raggiunto oggi apici inauditi, lotta condotta frontalmente, ed ancor più dall’interno dei sacri palazzi, in mano ad apostati e spesso fasulli chierici corrotti, che hanno in pratica usurpato tutti i luoghi sacri della cristianità mondiale, lasciando alla Chiesa Cattolica caverne, anfratti, sotterranei, catacombe moderne, ove esercitare “eclissati” i santi Misteri cristiani. I poteri civili, forti o deboli che siano, finanziari, politici, economici, pseudoreligiosi, sono tutti ben coesi in questa lotta portata contro il Cristo e la sua Chiesa, esattamente come il salmo II la descriveva con largo anticipo già millenni orsono … Astiterunt reges terrae, et principes convenerunt in unum adversus Dominum, et adversus Christum ejus. Dirumpamus vincula eorum, et projiciamus a nobis jugum ipsorum. – Ma se il Signore lo permette, come pure scrive il Santo Padre qui, darà anche la possibilità ai pochi suoi residui seguaci, il pusillus grex, di resistere, perseverare ed infine trionfare con Dio stesso che avrà un giorno non lontano pieno potere su questi ribaldi e temerari falsi adoratori e fedeli paganizzati autoproclamantesi cattolici modernizzati (leggi: satanizzati). Ancora lo stesso salmo ci incoraggia a non temere perchè Iddio si riderà di questi nemici accaniti, indomiti, corrotti e dominati da passioni sozze che già furono bruciate in un attimo a Sodoma e a Gomorra … Qui habitat in cælis irridebit eos, et Dominus subsannabit eos, Tunc loquetur ad eos in ira sua, et in furore suo conturbabit eos. Con animo di fedeli pronti al martirio, pur di difendere la causa del Signore nostro Gesù Cristo, leggiamo questo breve documento ed ampliandolo negli effetti nefasti che già coinvolgono il Corpo mistico e visibile (se pur oggi sotterraneo) di Cristo; facciamolo nostro nella preghiera perché il Signore voglia abbreviare il tempo che ci separerà dalla sua seconda venuta, per distruggere, con il soffio della sua bocca, l’anticristo con l’esercito  dei suoi adepti. E come allora il Santo Padre ci ammoniva, temano i pseudochierici – di destra (fallibilisti lefebvriani e cani sciolti della galassia sedevacantista) e di sinistra (i settari del novus ordo e della chiesa dell’uomo) – ed i loro colpevoli fedeli, le parole di Pio IX: “… Anzi dichiariamo che codesti uomini insani e quanti altri in avvenire si inserissero con tale atto criminoso nel governo della Chiesa, sono incorsi e incorrono nella scomunica maggiore di diritto e di fatto, a norma dei sacri canoni; esortiamo i devoti fedeli a non partecipare ai loro riti, a non ricevere da loro i Sacramenti e ad astenersi saggiamente dall’entrare in rapporto con essi, affinché il malvagio fermento non corrompa le masse incontaminate”. Et IPSA conteret caput tuum … ed alla fine il mio Cuore Immacolato trionferà!

Pio IX
Quod nunquam

Quello che ritenevano non sarebbe mai successo, considerando ciò che nel 1821 era stato stabilito con decisione comune tra questa Sede Apostolica e il supremo potere di Prussia a favore dell’incolumità e del bene della cattolicità, purtroppo abbiamo visto accadere in questi tempi in codeste vostre regioni, o Venerabili Fratelli, dove alla tranquillità di cui godeva la Chiesa è subentrata una crudele e inattesa tempesta. Infatti, alle leggi che non molto tempo fa furono promulgate contro i diritti della Chiesa e che colpirono molti ecclesiastici e molti fedeli rigorosi nell’adempiere al loro dovere, ne sono state aggiunte altre che sovvertono radicalmente la divina costituzione della Chiesa e violano i sacri diritti dei Vescovi. – Invero con queste leggi si concede ai giudici laici il potere di privare della loro dignità e della loro funzione i Vescovi e l’altro clero preposto alla cura delle anime; vengono frapposti molti e gravi intralci a coloro che dovrebbero esercitare la legittima giurisdizione in sostituzione dei Pastori assenti; si ordina ai Capitoli Cattedrali di designare i Vicari quando la sede vescovile, secondo i canoni, non è ancora vacante; infine, per dirla in breve, è concessa facoltà ai prefetti delle province di nominare individui, anche acattolici che sostituiscano i Vescovi e che in loro vece e con pari diritto presiedano, nelle Diocesi, all’amministrazione dei beni temporali, siano questi destinati a persone sacre o ad uso ecclesiastico. Voi ben sapete, Venerabili Fratelli, quali danni e vessazioni siano derivati da tutte queste leggi e dalla loro severa applicazione. Di proposito tralasciamo tutto ciò per non accrescere il comune dolore con luttuosi ricordi; ma non possiamo tacere la tragedia delle Diocesi di Gnesna, di Posnania e di Paderborn: tradotti in carcere i Venerabili Fratelli Miecislao, Arcivescovo di Gnesna e Posnania, e Corrado, Vescovo di Paderborn; emessa contro di loro una sentenza che con somma ingiuria li dichiara decaduti dalla loro sede vescovile e dalla loro autorità; le suddette Diocesi, private del sostegno dei loro eminenti pastori, sono state miseramente travolte da un cumulo di gravi difficoltà e di sventure. – I predetti Venerabili Fratelli non Ci sembrano da compiangere, ma da ammirare e da colmare di gratitudine perché memori della divina parola: “Sarete beati quando gli uomini vi odieranno, vi segregheranno e vi ripudieranno e rifiuteranno il vostro nome come un abominio, a causa del Figlio dell’Uomo” (Lc. VI,22), non solo non si sono lasciati atterrire dall’incombente pericolo, e dalle sanzioni legali, nel custodire i diritti e le disposizioni della Chiesa in ossequio alla importanza del loro ministero; ma anzi ritennero motivo di onore e di gloria (come pure altri degnissimi Vescovi di codesta regione) l’aver subito per la giustizia una immeritata condanna e le pene riservate ai malfattori, dimostrando una eccelsa virtù che ricade a edificazione di tutta la Chiesa. Ma sebbene ad essi sia dovuto l’onore di una lode piuttosto che le lacrime della commiserazione, tuttavia il disprezzo della dignità vescovile, la violazione della libertà e dei diritti della Chiesa, le vessazioni che affliggono non solo le diocesi suddette ma anche le altre del Regno di Prussia, esigono che Noi, in virtù dell’ufficio apostolico che Dio Ci ha affidato sebbene immeritevoli, eleviamo le Nostre proteste contro quelle leggi da cui derivano tanti mali (e ne paventiamo altri ancora) e rivendichiamo la libertà della Chiesa, calpestata con iniqua violenza, ricorrendo a tutta la forza della ragione e alla santa autorità del diritto divino. Quindi con questa lettera intendiamo adempiere al Nostro dovere rendendo aperta testimonianza a tutti coloro che sono coinvolti in tale vicenda e a tutto il mondo cattolico che quelle leggi sono nulle in quanto si oppongono radicalmente alla divina costituzione della Chiesa. Infatti il Signore non ha messo a capo dei sacerdoti i potenti di questo secolo, per quanto riguarda il Sacro Ministero, ma il beato Pietro, al quale diede l’incarico di pascolare non solo i suoi agnelli ma anche le pecore (Gv XVI, 16-17); ; perciò nessun potere mondano, per quanto eccelso, può privare della potestà episcopale coloro “che lo Spirito Santo ha posto come Vescovi al governo della Chiesa di Dio” (At XX, 29). – A ciò si aggiunga un fatto del tutto indegno di gente civile, e che come tale crediamo sarà riconosciuto anche dagli acattolici che non siano faziosi; il fatto cioè che quelle leggi, irte di severe sanzioni che comminano aspre condanne a coloro che non le rispettano, e che dispongono di una forza militare per farle eseguire, pongono pacifici e inermi cittadini (giustamente contrari ad esse per un imperativo della loro coscienza: circostanza che gli stessi legislatori non potevano né ignorare né disprezzare) nella condizione di uomini miseri e afflitti, premuti e oppressi da una forza maggiore contro la quale non c’è difesa. Perciò quelle leggi non sembrano rivolte ad ottenere un ragionevole ossequio da liberi cittadini, ma quasi imposte a schiavi, per estorcere con la forza del terrore una obbedienza coatta. Tuttavia non vogliamo che la Nostra parola sia interpretata come giustificazione di coloro che per paura preferirono ubbidire agli uomini piuttosto che a Dio: e ancor meno che possano impunemente sottrarsi al giudizio divino quei malvagi, se ve ne sono, che, sorretti dal consenso della sola autorità civile, sfrontatamente occuparono le Chiese parrocchiali e in esse osarono esercitare le sacre funzioni. Anzi dichiariamo che codesti uomini insani e quanti altri in avvenire si inserissero con tale atto criminoso nel governo della Chiesa, sono incorsi e incorrono nella scomunica maggiore di diritto e di fatto, a norma dei sacri canoni; esortiamo i devoti fedeli a non partecipare ai loro riti, a non ricevere da loro i Sacramenti e ad astenersi saggiamente dall’entrare in rapporto con essi, affinché il malvagio fermento non corrompa le masse incontaminate. – In mezzo a queste calamità, valsero a lenire il nostro dolore il coraggio e la tenacia vostra che senza dubbio, Venerabili Fratelli, nel sostenere l’aspra battaglia trascorsa, furono emulati a gara dal resto del Clero e dai fedeli, i quali dimostrarono tanta forza d’animo nell’adempiere i doveri cattolici, tanto lodevolmente si comportarono da attirare su di sé gli sguardi e l’ammirazione di tutti, anche dei più lontani. Né poteva accadere diversamente; infatti “quanto è dannosa la caduta di chi precede nel provocare la caduta di chi segue, altrettanto invece è utile e salutare che il Vescovo si offra ai fratelli come esempio da imitare per fermezza di fede” (At V, 29). – Volesse il cielo che fossimo in grado di recarvi qualche conforto fra tante angustie! Ferma restando nel frattempo questa Nostra protesta finché tutto ciò si opporrà alla divina costituzione della Chiesa e alle sue leggi e finché durerà la violenza che ingiustamente vi è inflitta, non vi faremo mancare certamente i nostri consigli e gli opportuni ammonimenti, secondo le circostanze. – Sappiano poi, coloro che Vi sono ostili, che se Voi rifiutate di dare a Cesare ciò che appartiene a Dio, non recherete nessuna offesa all’autorità regia e nulla toglierete ad essa, poiché sta scritto: “È doveroso ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini” (Ap II,3). E sappiano anche che ognuno di Voi è pronto a dare a Cesare il tributo e l’ossequio che sono dovuti al potere e all’autorità civile (non in seguito a minacce, ma per legge di coscienza). – Pertanto, compiendo con zelo l’uno e l’altro dovere, e obbedendo ai decreti di Dio, siate alacri d’animo e proseguite come avete cominciato. Infatti avete fatto un guadagno non piccolo se avete pazienza e se avete sopportato ogni prova in nome di Gesù e non avete disertato . Alzate lo sguardo a Colui che Vi ha preceduto soffrendo tormenti più gravi: “andò incontro a pena di morte ignominiosa, affinché le sue membra imparassero a fuggire le ambizioni mondane, a non temere affatto i terrori, ad amare le avversità in nome della verità, a rifiutare con spavento la prosperità” . Colui che Vi ha sospinti in questa battaglia, Vi darà forze adeguate ad essa. “In Lui è la speranza, a Lui sottomettiamoci e chiediamo misericordia” . Già vedete che è accaduto ciò che Egli aveva profetizzato: dunque abbiate fiducia che senza dubbio Egli manterrà la sua promessa. Egli disse: “Nel mondo sarete oppressi, ma abbiate fiducia: Io ho vinto il mondo” (Gv XVI, 33). – Pertanto, fiduciosi in questa vittoria, imploriamo supplichevoli la pace e la grazia dallo Spirito Santo e come testimonianza del Nostro particolare affetto, a Voi, a tutto il Clero e ai Fedeli affidati alla Vostra vigilanza impartiamo con amore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 5 febbraio 1875, anno ventinovesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA IV DOPO PASQUA (2019)

DOMENICA QUARTA dopo PASQUA [2019]

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus Ps CXVII: 1-2

Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja. [Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Salvávit sibi déxtera ejus: et bráchium sanctum ejus. [Gli diedero la vittoria la sua destra e il suo santo braccio.]

Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja. [Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui fidélium mentes uníus éfficis voluntátis: da pópulis tuis id amáre quod praecipis, id desideráre quod promíttis; ut inter mundánas varietátes ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gáudia. [O Dio, che rendi di un sol volere gli animi dei fedeli: concedi ai tuoi popoli di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti; affinché, in mezzo al fluttuare delle umane vicende, i nostri cuori siano fissi laddove sono le vere gioie.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli. Jac. I: 17-21.

“Caríssimi: Omne datum óptimum, et omne donum perféctum desúrsum est, descéndens a Patre lúminum, apud quem non est transmutátio nec vicissitúdinis obumbrátio. Voluntárie enim génuit nos verbo veritátis, ut simus inítium áliquod creatúræ ejus. Scitis, fratres mei dilectíssimi. Sit autem omnis homo velox ad audiéndum: tardus autem ad loquéndum et tardus ad iram. Ira enim viri justítiam Dei non operátur. Propter quod abjiciéntes omnem immundítiam et abundántiam malítiæ, in mansuetúdine suscípite ínsitum verbum, quod potest salváre ánimas vestras.

OMELIA I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

LA MANSUETUDINE

“Carissimi: Ogni grazia eccellente e ogni dono perfetto vien dall’alto dal Padre dei lumi, nel quale non è variazione, né ombra di mutamento. Egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, ché siamo quali primizie delle sue creature. Voi lo sapete, fratelli miei dilettissimi. Che ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all’ira: poiché l’ira dell’uomo non opera ciò che è giusto davanti a Dio. Perciò rigettando ogni sozzura e sovrabbondanza di malizia, accogliete docilmente la parola inserita in voi, la quale può salvare le anime vostre”. (Giac. 1, 17-21).

L’Apostolo S. Giacomo, detto il Minore, era venuto a conoscere che tra i Cristiani convertiti dal Giudaismo e disseminati fuori della Palestina serpeggiavano gravi errori, nell’interpretazione della dottrina loro insegnata, specialmente rispetto alla necessità delle buone opere. Inoltre, in mezzo alle tribolazioni cui andavano soggetti, c’era pericolo che riuscissero a farsi strada le vecchie abitudini. Per premunire contro l’errore questi suoi connazionali dispersi, e per richiamarli a una vita più austera, S. Giacomo scrive loro una lettera. In essa si insiste sulla necessità che alla fede vadano congiunte le buone opere. Si danno, poi, varie norme, perché  tanto nella vita privata, quanto nelle relazioni sociali siano guidati da uno spirito veramente cristiano; e vengono confortati nelle loro tribolazioni. L’Epistola è tolta dal cap. 1 di questa lettera. Da Dio deriva ogni bene. Da Lui abbiamo avuto il dono inestimabile della vita della grazia, per mezzo della predicazione del Vangelo, parola di verità. Questa parola di verità ciascuno deve accogliere con prontezza, con semplicità, con spirito di mansuetudine. Parliamo appunto quest’oggi della mansuetudine, la quale

1. È l’opposto del falso zelo,

2. Non ha a che fare con l’ignavia.

3. È un apostolato efficace.

1.

Che ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento al parlare, lento all’ira. Nelle dispute e nelle discussioni è molto facile l’accalorarsi, il risentirsi e, infine, l’ira. Coloro, ai quali si rivolge S. Giacomo, potevano dire che, trattandosi di discussioni sulla parola di Dio ad essi predicata, la loro ira era frutto di zelo. Non è difficile osservare che la loro ira, invece di edificare, distruggeva, perché contrariava le eventuali buone disposizioni dell’altra parte. Nessuna cosa è più raccomandabile dello zelo. Basterebbe ricordare la consolantissima promessa che leggiamo, un po’ più avanti, nella lettera di S. Giacomo: « Fratelli miei, se alcuno di voi abbia deviato dalla verità, e un altrove lo riconduce, sappia che egli ha ricondotto un peccatore dall’errore della sua via salverà l’anima sua dalla morte, e coprirà la moltitudine dei suoi peccati » (Giac. V, 20.). Ma non è encomiabile uno zelo incomposto, a base di sentimenti e di invettive fuori di luogo. Noi ammiriamo la grandezza dello zelo di S. Paolo. Restiamo come sbalorditi, considerando quanto egli ha operato per la gloria di Dio e per la salvezza delle anime. Sentiamo, però, da lui stesso di che sorta era il suo zelo: «Mi son fatto debole coi deboli: mi faccio tutto a tutti, per fare a ogni costo alcuni salvi» (1 Cor. IX, 22). Non vuol imporsi senza necessità; non fa valere, senza bisogno, la sua superiorità, ma si adatta a tutti, pur di poter trarre anime a Dio. Anche il medico, quando può ottenere la guarigione con mezzi blandi, non ricorre ai mezzi forti. Questi li riserva per il caso di inutilità degli altri mezzi. Gesù ci ha detto tutta la grandezza del suo zelo in quelle parole: «Sono venuto a portar fuoco sulla terra, e che cosa desidero, se non che si accenda?» (Luc. XII, 49). Ma il suo zelo si esercita nella più perfetta mansuetudine. Il Profeta, parlando di Lui, aveva detto: «Egli non griderà e non sarà accettator di persone, né si udrà di fuori la sua voce. Egli non spezzerà la canna fessa, e non spegnerà il lucignolo che fuma…» (Is. XLII, 2-3). Ed infatti, egli mostra sempre e in tutto una mansuetudine inarrivabile. Con grande pazienza e carità avvicina i deboli, i vacillanti, e ravviva in loro la vita dello spirito, che sta per spegnersi. La sua mansuetudine risalta nelle contraddizioni, nelle derisioni, nelle contumelie, nelle insolenze, nelle minacce, nell’abbandono, nella negazione, nel tradimento. « Egli maledetto, non rispondeva con maledizioni, e, maltrattato, non minacciava ». Per non sbagliare quando esercitiamo lo zelo facciamoci questa domanda: Come farebbe Gesù Cristo, se fosse al mio posto?

2.

S. Giacomo dà la ragione del perché l’uomo deve lasciarsi dominare non dall’ira, ma dallo spirito di mansuetudine: poiché l’ira dell’uomo non opera ciò che è giusto davanti a Dio. Chi si lascia prendere dall’ira non può operare virtuosamente; anzi si metterebbe nella circostanza di trasgredire su molti punti la legge di Dio. Con l’animo tranquillo e sereno, invece, si è nella miglior disposizione per accogliere la parola di Dio, farla fruttificare e progredire così, di virtù in virtù. Stiamo attenti, però, a non scambiare la mansuetudine con l’ignavia, pericolo molto facile e assai comune, «Bisogna far attenzione — osserva in proposito il Crisostomo — che uno, avendo un vizio, non creda di possedere una virtù… che cosa è dunque la mansuetudine, che cosa è l’ignavia? Quando tacciamo, invece di prender le difese, se altri sono maltrattati, è ignavia; quando, al contrario, essendo maltrattati noi, sopportiamo, è mansuetudine » ( In Act. Ap. Hom. 48, 3). Quando p. e. si commette il male alla nostra presenza, e noi, intervenendo, potremmo impedirlo, il tacere non è mansuetudine, ma ignavia. Un bel tacer non fu mai scritto, diciamo per scusarci. Verissimo; ma a suo tempo e a suo luogo, non qui. Quando i genitori, i superiori, i padroni chiudono gli occhi sulle mancanze dei figli e dei dipendenti; non cercano di porre un freno al loro malfare, non sono dei mansueti, ma dei cani muti. E spesso, la loro creduta mansuetudine è una vera cooperazione al male degli altri. La scusa non manca mai. Io ho un cuore troppo buono, ho un carattere mite. Ci sono di quelli che hanno un carattere austero e pensano di dover trattare con austerità: io, invece, preferisco vivere e lasciar vivere. Scuse che, ridotte al loro vero valore, vogliono dire: Non voglio noie; ho paura a fare il mio dovere; ci tengo ai privilegi del mio stato, ma non ne voglio i pesi. Costoro scambiano un atto di debolezza con una virtù che richiede dell’eroismo. «La mansuetudine — dice ancora il Crisostomo — è indizio di grande fortezza; essa richiede un animo generoso e virile». Di fatti, si tratta di vincere noi stessi, cosa assai più difficile che vincere gli altri. I genitori non devono provocare i figli all’ira, trattandoli con durezza o con soverchio rigore; sarebbe uno sbaglio. Ma sarebbe uno sbaglio ancor peggiore non ammonirli, e, quando è il caso, non castigarli. I superiori devono trattare con benevolenza i loro dipendenti e soggetti; ma quando si tratta di preservare i buoni dal contagio e dallo scandalo, è santo e lodevole il rigore, è giusta la punizione. Nessuno oserebbe condannare il pastore che percuote il lupo per salvare le pecore. Quando si tratta di por fine all’ingiustizia degli uni, e di mettere al riparo dai soprusi gli altri, nessun superiore sarà criticato, se prende delle misure severe; e, nessuno potrebbe, ragionevolmente, fargli appunto di mancanza di mansuetudine. L’Apostolo che era tanto mansueto da poter dire: « Maledetti, noi benediciamo; perseguitati, sopportiamo: ingiuriati, supplichiamo» (1 Cor. IV, 12-13); quando a Corinto un Cristiano dà un gravissimo scandalo pubblico, non solo, per mezzo della scomunica, separa il peccatore dalla Chiesa; ma lo sottopone al dominio di satana, perché lo tormenti nel corpo con malattie e dolori, che servano ad indurlo al pentimento. Gesù Cristo, che si presenta a noi come modello di mansuetudine; non ha mancato di usare parole roventi contro gli scandalosi, contro i Farisei, contro i profanatori del tempio. In certi casi è nostro dovere usare del rigore, e allora, «beato chi sa unire insieme la severità e la mansuetudine» (S. Ambrogio. Epist. 74, 10).

3.

Accogliete docilmente la parola inserita in voi, la quale può salvare le anime vostre. Come la superbia è di ostacolo a ricevere con frutto la parola di Dio, similmente, come abbiamo già osservato, la mansuetudine è condizione favorevole ad accoglierla e a farla fruttificare. Ora vogliamo far notare che non solo la mansuetudine cristiana è ottima disposizione ad accogliere e a far fruttificare per la vita eterna la parola di Dio in noi; ma è un’ottima condizione a farla ricevere con frutto dagli altri. Generalmente, l’uomo che non si inquieta per un affronto, che non si scoraggia per una ripulsa, che non si turba per un’ingiuria, esercita molta forza sopra i suoi oppositori. Se è costante, riesce a vincerli e a dominarli. E questo avviene nel mondo, dove il comportamento mansueto è effetto di temperamento, più spesso di calcolo, non raramente di propositi malvagi. Più efficace deve, necessariamente, riuscire un contegno mansueto, quando è ispirato dalla fede. Chi è assuefatto a dominare il proprio cuore con la vittoria sulle passioni, trova la via a dominare il cuore degli altri. Gli Apostoli, cresciuti alla scuola di Gesù Cristo, compivano la missione loro affidata tra numerosi contrasti e difficoltà; ma senza che si potesse scorgere in essi un’ombra di amarezza, di risentimento, di collera. I loro successori, che vanno a portar la luce del Vangelo tra le nazioni che vivono nell’ignoranza e nell’errore, cominciano a guadagnar gli animi, magari dopo anni e anni, quando hanno dato una prova costante del loro animo mite e mansueto. Accolti male, osservati con diffidenza, importunati, angariati in mille modi, si mostrano sempre uguali a se stessi. Non parole aspre, non inquietudini, non ripicchi. A questo modo si comincia a vincere la diffidenza degli abitanti e le loro prevenzioni, e si finisce con edificarli mediante l’esercizio delle altre virtù. Allora la via delle conversioni è aperta. Gesù Cristo ha detto: «Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra (Matt. V, 4). I banditori del Vangelo son riusciti a farlo trionfare in tutte le parti della terra, con l’arma della mansuetudine. Anche nella nostra vita quotidiana, nel piccolo cerchio dei parenti, degli amici, dei compagni, in circostanze diverse, possiamo esercitare un apostolato salutare con un contegno mansueto. Un giovanotto si reca un giorno, a Milano, dalla Venerabile Maddalena di Canossa a chiederle, con minacce, ove si trovava una giovane, che, per sfuggire alle sue insidie, si era rifugiata presso la santa fondatrice. Maddalena risponde che dal suo labbro non l’avrebbe saputo mai. Allora il giovanotto, estratta una pistola, l’accosta alle tempia di Maddalena. Ma essa, con tranquillo sorriso, gli disse: «Oh, povero giovane! Quanto mi fate pietà!… Orsù, date a me quell’arma, ed io ne farò assai miglior uso». Il giovane, commosso e meravigliato della calma imperturbabile della Madre, piega il capo e le consegna l’arma, e s’avvia confuso alla porta. Maddalena lo accompagna, e gli dà una medaglietta d’argento come pegno di gratitudine per la visita che le aveva fatto. Qualche tempo dopo, un rispettabile Sacerdote viene dalla Madre a raccontarle il pentimento del giovane. La fondatrice le consegna l’arma pregandolo di appenderla a un Santuario dell’Addolorata (L’angelo di Canossa. Pavia 1922, p. 60-62). Proprio vero che « nulla è più forte della mansuetudine » (S. Giov. Crisostomo. In Gen. Hom. 58, 5). Quante volte abbiamo lasciato passare la circostanza di far del bene a qualche anima con la nostra dolcezza, e forse di ricondurla a Dio! Quel che non abbiam fatto per il passato, lo faremo per l’avvenire. Vogliamo usare del rigore? Usiamolo con noi. «Poiché, che cosa v’ha di più giusto, che ciascuno si adiri dei propri peccati, anziché dei peccati degli altri?» (S. Agostino. En. in Ps. IV, 7).

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXVII: 16. Déxtera Dómini fecit virtútem: déxtera Dómini exaltávit me. Allelúja [La destra del Signore operò grandi cose: la destra del Signore mi ha esaltato. Allelúia.]

Rom VI:9 Christus resúrgens ex mórtuis jam non móritur: mors illi ultra non dominábitur. Allelúja. [Cristo, risorto da morte, non muore più: la morte non ha più potere su di Lui. Allelúia]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XVI: 5-14

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Vado ad eum, qui misit me: et nemo ex vobis intérrogat me: Quo vadis? Sed quia hæc locútus sum vobis, tristítia implévit cor vestrum. Sed ego veritátem dico vobis: expédit vobis, ut ego vadam: si enim non abíero, Paráclitus non véniet ad vos: si autem abíero, mittam eum ad vos. Et cum vénerit ille, árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício. De peccáto quidem, quia non credidérunt in me: de justítia vero, quia ad Patrem vado, et jam non vidébitis me: de judício autem, quia princeps hujus mundi jam judicátus est. Adhuc multa hábeo vobis dícere: sed non potéstis portáre modo. Cum autem vénerit ille Spíritus veritátis, docébit vos omnem veritátem. Non enim loquétur a semetípso: sed quæcúmque áudiet, loquétur, et quæ ventúra sunt, annuntiábit vobis. Ille me clarificábit: quia de meo accípiet et annuntiábit vobis.

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XXV.

“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Ora vo a Colui che mi ha mandato; e nissun di voi mi domanda: Dove vai tu? Ma perché vi ho dette queste cose, la tristezza ha ripieno il vostro cuore. Ma io vi dico il vero: È spediente per voi che io men vada : perché, se io non me ne vo, non verrà a voi il Paracleto; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. E venuto ch’egli sia, sarà convinto il mondo riguardo al peccato, riguardo alla giustizia, perché io vo al Padre, e già non mi vedrete: riguardo al giudizio poi, perché il principe di questo mondo è già stato giudicato. Molte cose ho ancora da dirvi: ma non ne siete capaci adesso. Ma venuto che sia quello Spirito di verità, v’insegnerà tutte le verità: imperocché non vi parlerà da se stesso, ma dirà tutto quello che avrà udito, e vi annunzierà quello che ha da essere. Egli mi glorificherà, perché riceverà del mio, e ve lo annunzierà. Tutto quello che ha il Padre, è mio. Per questo ho detto che egli riceverà del mio, e ve lo annunzierà” (Jo. XVI, 5-15).

Un padre affettuoso, che si accorga di essere ormai al termine della sua vita, non può far a meno di raccogliere d’intorno a sé i suoi amati figliuoli per discorrere con essi un’ultima volta, per dar loro gli ultimi ammonimenti, per fare ai medesimi le ultime manifestazioni del suo amore. Così appunto fece il divin Redentore co’ suoi cari discepoli. Essendo Egli vicino alla sua passione e ascensione al Cielo, raccolse i suoi discepoli nel cenacolo d’intorno a sé e compiuta con essi la cena legale, lavati loro i piedi, data ai medesimi la estrema prova di amore con l’istituzione ammirabile della SS. Eucaristia, si pose ad intrattenersi ancora con essi con un discorso ripieno dei più sublimi ed importanti ammaestramenti. Ed è appunto un tratto di questo discorso, che la Chiesa nel Vangelo di questa domenica richiama alla nostra considerazione.

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Ora vado a chi mi ha mandato; e nessuno di voi mi domanda: Dove vai tu? Ma perché vi ho dette queste cose, la tristezza ha ripieno il vostro cuore.

Gesù istesso adunque attesta con la sua parola quanto i suoi discepoli si trovassero afflitti nel sapere che era giunto il tempo, in cui si sarebbe separato da loro. E non avevano ragione i discepoli di affliggersi? Gesù li aveva amato tanto, Gesù si era mostrato con essi così indulgente ed affezionato, Gesù era stato il loro amico, il loro maestro, il loro benefattore, il loro padre; ed ora da questo caro Gesù avrebbero dovuto separarsi? Certamente tutte le separazioni sono dolorose, ma chi sa dire quanto fosse dolorosa quella separazione, a cui venivano assoggettati gli Apostoli con la dipartita di Gesù da questa terra! Eppure quella separazione non sarebbe stata che corporale e sensibile. Perciocché quando il Salvatore asceso al cielo avrebbe collocata l’adorabile sua umanità sul trono della gloria, avrebbe dimenticati i suoi discepoli, che aveva scelti per la conquista del mondo? No, certamente. Dall’alto del suo splendore li avrebbe seguiti nella laboriosa loro missione, li avrebbe assistiti nelle fatiche del loro apostolato; sarebbe stato con essi col suo spirito e con la divina sua forza per sempre. Eppure tanto si affliggevano di quella separazione. Or bene, o carissimi, non vedete qui lo strano contrasto tra la condotta degli Apostoli e quella di certi giovani e Cristiani infelici, i quali, avendo commesso il peccato, ed essendosi con esso separati da Dio non ne provano pena alcuna? Quando il figliuol prodigo ebbe ricevuta dal suo buon padre la parte di eredità, che gli aveva chiesta, dice il Vangelo che, messa insieme ogni cosa, se ne andò in lontano paese: profectus est in regionem longinquam (Luc. XV, 15). Ma quando un disgraziato commette una colpa grave, con assai maggior precipizio si separa da Dio, ed assai più lontano è il luogo, dove si trafuga. Mentre son necessari molti giorni, molte settimane, molti mesi e persino molti anni per fare acquisto di un po’ di virtù, al contrario in un istante solo si varca la spaventevole distanza che separa Iddio buonissimo e santissimo dal peccato. Una sola colpa mortale, che non consiste che in un godimento di un minuto, basta anche in un minuto, anzi in un attimo per separare un’anima da Dio, ne è soltanto separarla ma portarla lontano in modo spaventevole. Certamente questa distanza non è materiale, né si può con una misura materiale misurare, con tutto ciò non lascia di essere verissima. E sebbene Iddio, che riempie con la sua immensità gli spazi tutti di tutti i mondi creati, non cessi di essere presente a chi ha commesso il peccato, non è tuttavia men vero, che i peccatori si sono allontanati da Dio, come dice appunto il Signore stesso per bocca di Geremia: Elongaverunt se a me (Ier. XI, 5): e non è men vero, che Iddio resta allontanato dai peccatori: Longe est Dominus ab impiis (Prov. XV. 29). Di fatti che cosa è il peccato? Così appunto lo definisce S. Tommaso: Una separazione da Dio fatta con disprezzo per unirsi invece alle creature: Aversio a Deo et conversio ad creaturas. Chi commette il peccato volta villanamente le spalle e si separa violentemente dal suo Dio, dal suo Padre, dal suo Creatore, dal suo Redentore, dal suo sommo bene per darsi invece alle misere creature di questa terra, ai nefandi piaceri dei sensi. Separarsi da Dio! E si può immaginare una più grande sventura? Ma almeno almeno, quando questa sventura è capitata, si pensasse tosto a ripararla con la pronta risoluzione di ritornare a Dio e di riacquistare la sua unione col domandargli perdono! Ma invece molte volte vi ha chi rimane in questo stato per tanti giorni, per tanti mesi e persino per tanti anni. E quel che è peggio, si è che rinnovando costui le sue colpe sempre più si stordisce, si dissipa, s’ingolfa nell’abisso; ed allora soffoca i rimorsi, impone silenzio alla voce importuna della coscienza, cerca d’ingannarsi e di farsi a credere che è tranquillo e a forza di ripetersi che possiede la pace, giunge financo a persuadersi di realmente possederla. Di fatti è cessato il suo spavento: nell’ora del sonno più non vede i fantasmi, che dapprima lo atterrivano; la calma sembra rientrata del tutto nel suo cuore. Ma ahimè! Quando il malato non sente più il dolore, la è finita, il male è senza rimedio; altro più non resta, che fare gli apparecchi dei funerali. Così quando il peccatore, separato da Dio dall’abisso del peccato mortale, più non sente il dolore di tale separazione, è finita anche per lui; a meno di un miracolo, non ritornerà più a Dio; camminerà a grandi passi verso la separazione, che sarà eterna. Ah miei cari! Noi teniamoci stretti al nostro caro Gesù. Evitiamo diligentemente tutto ciò che potrebbe separarci da lui. Ripetiamo ancor noi Con l’Apostolo Paolo: « Chi ci separerà dalla carità di Cristo? non già la tribolazione, non l’angustia, non la fame, non la nudità, non il pericolo non la persecuzione, non la spada; no, nessuna cosa varrà a staccarci dal nostro Dio » (Rom. VIII, 35). Ma se per isventura ci fossimo da Lui separati, non ritardiamo un istante a ritornare pentiti ai suoi piedi. Ed Egli, che non disprezza un cuor pentito ed umiliato, ci accoglierà con misericordia, anzi con gioia e ci riunirà al suo Cuore divino.

2. Proseguiva il divin Redentore, dicendo: Ma io vi dico il vero: È spediente per voi che io men vada: perché se io non me ne vo, non verrà a voi il Paracleto; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. Or bene, o carissimi, perché mai, secondo quel che dice ai suoi Apostoli il divin Redentore, perché mai quella visita dello Spirito Santo è ella incompatibile con la presenza di nostro Signore! Eccolo: Gli Apostoli amavano il loro divin Maestro, ma in un modo troppo sensibile e troppo umano. Tale attaccamento di ordine troppo naturale era un ostacolo a ricevere lo Spirito Santo nella sua pienezza. Quando il profeta Eliseo volle moltiplicare l’olio della vedova di Sarepta, chiese dei vasi totalmente vuoti: così quando lo Spirito divino vuol recare ad un cuore gli adorabili suoi Doni, figurati dall’olio miracoloso, esige che quel cuore sia vuoto da ogni affetto, non dirò peccaminoso, ciò s’intende, ma eziandio dagli affetti permessi, quando hanno alcun che di troppo terreno e troppo umano. Gli Apostoli pertanto faranno il loro sacrificio; sarà duro, ma sarà pure molto meritorio; e quando verrà il giorno della Pentecoste, il Salvatore manderà loro il divino suo Spirito, ed essi lo riceveranno con l’abbondanza delle sue grazie; e saranno interamente rivestiti di quella forza divina, che assicurerà il buon esito del loro ministero evangelico e del loro Apostolato. Or dunque, o miei cari, se a ricevere in noi con abbondanza le grazie del Signore, è necessario avere il cuore mondo eziandio da certi attacchi che non sono cattivi, quanta maggior attenzione non si dovrà mettere alfine di preservarlo dalle affezioni e dalle amicizie, che sono realmente cattive, od anche solo pericolose! E qui, o miei cari, dacché mi si presenta l’occasione, lasciate che vi dica qualche parola, secondo gli insegnamenti di S. Francesco di Sales, intorno alle amicizie ed alle affezioni, affinché riconosciate bene quali sono le buone, che potete coltivare e quali sono invece le cattive o pericolose, che dovete assolutamente fuggire. Dice adunque questo Santo che diversa è l’amicizia secondo la diversità del fine a cui tende. Non merita nome di amicizia, quella che brutalmente ha per fine il peccato. Ed in vero come mai dovrei io riguardare come amico colui, che insegnandomi, od eccitandomi a fare del male, tendesse per tal guisa a rovinare l’anima mia? Per certo colui, il quale osasse dirmi certe parole, farmi certe proposte, darmi certi consigli…, sarebbe un perfido traditore, dal quale dovrei guardarmi come da un serpente. E se io sgraziatamente facessi relazione con lui, tutt’altro che avere un’amicizia avrei una relazione diabolica. L’amicizia, poi che ha per mira di compiacere i sensi, che si fonda cioè sulla bellezza esteriore del volto, sulla singolarità della voce, sull’eleganza del vestire, sull’abilità del giuocare e simili, è tutta materiale e indegna pur essa del nome di amicizia. E ciò anzitutto perché quest’amicizia è basata su cose vane e frivole, ma poi eziandio perché un’amicizia siffatta non apporta alcun profitto, né onore, né contentezza. Generalmente queste amicizie sensibili fanno perder il tempo e arrischiar l’onore, senza dar altro gusto, fuorché quello d’un’ansietà di pretendere e di sperare, senza saper ciò che si voglia o pretendasi. Imperciocché gli animi meschini e deboli, che sono presi, credono sempre che negli attestati di reciproco amore, coi quali si corrispondono, rimanga sempre qualche cosa ad aggiungere e questo desiderio insaziabile di affezione va sempre straziando il cuor loro con diffidenze, gelosie ed inquietudini incessanti. Epperò quale danno arrecano all’anima tali amicizie! Esse l’occupano in tal modo, e attraggono con tal forza i suoi movimenti, che ella poi non può più esser valevole per alcuna opera buona; i pensieri dell’amicizia sono frequenti a segno, che dissipano tutto il tempo; e in fine chiamano tante tentazioni, distrazioni, sospetti ed altre conseguenze, che tutto il cuore ne rimane conturbato e guasto; senza dire che talvolta vanno poi a terminare in gravi peccati. Insomma queste amicizie sbandiscono non solo l’amor celeste, ma ancor il timor di Dio, in una parola sono la peste de’ cuori. Se invece voi avete amicizia con taluno e trattate amichevolmente con lui per ragione dì virtù, allora sarà buona e virtuosa l’amicizia vostra. Anzi quanto più squisite saranno le virtù, sulle quali verserà il trattar vostro, tanto più sarà perfetta la vostra amicizia. Quindi se la vostra scambievole e reciproca corrispondenza avrà per oggetto la carità, la divozione, la perfezione cristiana, oh allora sarà assai preziosa la vostra amicizia! Sarà eccellente perché verrà da Dio; eccellente perché tenderà a Dio; eccellente perché il suo vincolo sarà Dio; eccellente perché durerà eternamente in Dio. Che bell’amare in terra, come si ama nel cielo, e apprendere ad aver in questo mondo quella vicendevole tenerezza, che avremo eternamente nell’altro! E non si parla qui del solo amore di carità, dovendosi questo avere per ogni persona; ma si parla dell’amicizia spirituale, pel cui mezzo due o tre, o più anime si comunicano la lor divozione, i loro affetti spirituali, e divengono un solo spirito. Quanto giustamente possono cantare queste felici anime: Oh è pur buona e piacevole cosa, che i fratelli soggiornino insieme! Così è propriamente, perché il soave balsamo della divozione stilla da un cuore nell’altro, mediante una partecipazione continua; talché si può dire, che Dio ha versato su questa amicizia la sua santa benedizione. Ed oh come piacciono al Signore queste sante amicizie. Niuno potrebbe certamente negare, che nostro Signore amasse con una più dolce e più speciale amicizia S. Giovanni, Lazzaro, Marta e Maddalena: perché la Scrittura ce ne fa fede. Sappiamo che S. Pietro aveva un tenero amore per S. Marco e per S. Petronilla, come S. Paolo pel suo Timoteo e per S. Tecla. S. Gregorio Nazianzeno si gloria in più luoghi dell’impareggiabile amicizia che passò tra lui e il grande S. Basilio, e la descrive in tal modo: Sembrava non esser in ambedue noi, se non un’anima sola, che movesse due corpi. Una sola mira avevamo entrambi, di coltivar la virtù e di conformare i disegni della nostra vita alle speranze future, uscendo così dalla terra mortale, prima di lasciarvi la vita. S. Agostino attesta, che S. Ambrogio amava singolarmente Santa Monica per le rare virtù, che scorgeva in lei, e che ella reciprocamente l’aveva caro come un angelo di Dio. S. Girolamo, S. Agostino, S. Gregorio, S. Bernardo e tutti i maggiori servi di Dio ebbero amicizie particolarissime, senza discapito della lor perfezione. S. Paolo, biasimando la depravazione dei gentili, li taccia d’essere stati gente senza affezione; vale a dire, che non aveva alcuna amicizia. E S. Tommaso, come tutti i buoni filosofi, confessa che l’amicizia è una virtù. Non consiste dunque la perfezione in non aver alcuna amicizia; ma in non averne veruna, che non sia buona, non sia santa, che non sia sacra. Ecco, o miei cari, come insegna S. Francesco di Sales intorno alle amicizie. Questi suoi insegnamenti sono molto chiari; tuttavia io vi esorto a procedere sempre assai guardinghi nel contrarre delle amicizie, anzi a non stringerne alcuna senza esservi prima consigliati da chi per ragione della sua esperienza e del suo ufficio può intorno a questo consigliarvi bene. Così facendo non correrete mai rischio di accogliere e nutrire in cuor vostro delle affezioni, che vi impediscano di ricevere e conservare nello stesso i Doni dello Spirito Santo.

3. Da ultimo il divin Maestro parlando agli Apostoli di quel che sarebbe venuto a fare lo Spirito Santo, da lui inviato, tra le altre cose disse loro: Io avrei da dirvi ancora molte cose; ma adesso non ne siete capaci. Tuttavia quando sarà venuto lo Spirito Santo, che è Spirito di verità v’insegnerà tutte le verità, ed Egli che ha la stessa mia scienza, vi annunzierà tutto quello che ha da essere.Con le quali parole, voi lo vedete, Gesù Cristo intese a suscitare negli Apostoli una viva brama di apprendere meglio con l’aiuto dello Spirito Santo le verità della fede, in cui essi dovevano credere e che avrebbero pur dovuto predicare agli altri. E così il divin Redentore fece pure intendere a noi, che se vi è cosa, di cui dobbiamo essere sommamente solleciti è la conoscenza, epperò lo studio della nostra santissima Religione. Che se questo studio e questa conoscenza fu utile e necessaria in ogni tempo, chi può dire quanto necessaria ed utile sia ai tempi nostri, in cui tanti e così gravi errori son diffusi nel mondo contro le verità della Fede Cattolica? Eppure è doloroso a dirsi, ma pur vero, non vi ha studio, che sia più di questo negletto! Una certa classe di giovani e di Cristiani non sa nemmeno più che cosa sia lo studio della Religione, e ciò non ostante essi divorano con avidità tutto quello che si scrive contro la verità delle loro credenze. Si leggono e si ascoltano le obbiezioni e gli errori, e non si ascoltano e non si leggono le risposte. Ma allora, dov’è l’amore della verità, dov’è la buona fede e la sincerità dalla parte di cotesti Cristiani? Eppure tralasciano forse i sacerdoti ai dì nostri di farsi a spiegare nelle istruzioni, nei catechismi e nelle prediche le verità della fede? Anzi, forse non si è mai così abbondantemente dispensata la parola di Dio e in modo così adatto a tutte le intelligenze. Si potrà dire che non vi siano ai dì nostri buoni libri, che trattino della Religione in modo acconcio a tutte le menti? No, senza dubbio. Anche qui, si può dire che tali libri abbondano assai più che pel passato. Eppure molti giovani e molti Cristiani rifuggono volontariamente dalle prediche, dai catechismi e dalle istruzioni religiose e gettano via ben presto, se pur loro capita alle mani, un libro che tratti in buon senso di Religione e dei doveri che essa impone. Se il libro solletica il loro amor proprio, se lusinga le loro passioni, se è cosparso di fiori e di tinte romantiche, e talvolta ben anche se contiene cose lubriche, allora lo leggono sino alla fine ad onta dei rimorsi di coscienza, che si studiano di far tacere. Ma se invece è un libro che miri a far loro del bene, ad illuminare la loro mente, ad accendere di amore per Iddio il loro cuore, oh allora lo respingono come un libro noioso, scritto senza garbo e intorno a cose, che già conoscono abbastanza. Non sia così di alcuno di voi. Riconoscendo che la prima scienza è quella della nostra eterna salute, studiatevi di applicarvi con impegno alla stessa con intervenire mai sempre volentieri ad ascoltare umilmente qui in chiesa la parola di Dio. Non paghi di ciò, rifuggendo dalle letture vane e frivole, amate invece le letture buone e di soda dottrina, soprattutto quelle religiose. Procuratevi di tali libri, leggetene volentieri almeno qualcuno, e leggetelo con una seria attenzione e un desiderio sincero di conoscere la verità, e vedrete che, dopo cotali letture, non tornerà più a voi possibile nutrir de’ dubbi sulla verità e sulla santità delle nostre credenze, ed al caso sarete anche in grado di rispondere a chi osasse parlar male di esse. E per tal modo corrisponderete al desiderio di Gesù Cristo, ben conoscerete la verità della fede, ben conoscendole le amerete e le praticherete, ed amandole e praticandole meriterete il premio eterno del cielo.

Credo …

Offertorium

Orémus Ps LXV: 1-2; LXXXV: 16

Jubiláte Deo, univérsa terra, psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja. [Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: venite e ascoltate, tutti voi che temete Iddio, e vi narrerò quanto il Signore ha fatto all’anima mia, allelúia.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrificii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes effecísti: præsta, quaesumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur. [O Dio, che per mezzo degli scambi venerandi di questo sacrificio ci rendesti partecipi dell’unica somma divinità: concedici, Te ne preghiamo, che come conosciamo la tua verità, così la conseguiamo mediante una buona condotta.]

Communio

Joann XVI:8

Cum vénerit Paráclitus Spíritus veritátis, ille árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício, allelúja, allelúja. [Quando verrà il Paràclito, Spirito di verità, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Adésto nobis, Dómine, Deus noster: ut per hæc, quæ fidéliter súmpsimus, et purgémur a vítiis et a perículis ómnibus eruámur. [Concédici, o Signore Dio nostro, che mediante questi misteri fedelmente ricevuti, siamo purificati dai nostri peccati e liberati da ogni pericolo.]

LO SCUDO DELLA FEDE (61)

LO SCUDO DELLA FEDE (61)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

CAPITOLO XII.

SI CONVINCE FALSO IL PROTESTANTISMO PERCHÈ CI TOGLIE LA CONFESSIONE.

Uno dei maggiori benefizi che Gesù Cristo con la sua piissima venuta abbia fatto al mondo, è quello di avere stabilito il Sacramento della Penitenza: perocché come gli uomini sono tanto fragili che sempre peccano, e sempre hanno bisogno di ricevere il perdono: così non vi è grazia maggiore che quella di avercelo agevolato. – Ecco come andò la cosa. Gesù Cristo fattosi presente dopo la sua gloriosa Resurrezione agli Apostoli, soffiò sopra di loro con la sua bocca Divina e comunicò loro lo Spirito Santo; poi conferì ad essi la solenne potestà di perdonare i peccati, dicendo: A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi li riterrete saranno ritenuti (Giov. XX, 23). Così ce lo dice il S. Vangelo. Ora come si può mettere ad effetto quest’ordine Divino? Il sacerdote qui è apertamente costituito giudice da Gesù Cristo: non è vero? E come fa dunque un giudice per assolvere o condannare un accusato? L’interroga, sente i testimoni, e poi o lo assolve o lo condanna. Lo stesso deve fare il Sacerdote, con questa differenza, che il Giudice esterno si può valere dei testimoni esterni; il Confessore che è giudice non di atti esterni, ma di peccati che si fanno principalmente col cuore, deve impiegare la testimonianza della stessa persona che vuole essere assoluta: e però è che il peccatore deve da sé medesimo manifestare le sue colpe. In questo solo modo può mettersi in pratica la parola ineffabile di Gesù, con cui ha voluto che gli Apostoli ed i suoi successori legassero o sciogliessero dal peccato. Ed infatti così sempre si è poi praticato nella S. Chiesa di Dio in tutti i secoli. S. Clemente discepolo e successore di S. Pietro, raccomandava caldamente la Confessione. Origene consigliava per questo che si scegliesse il Confessore adattato. S. Cipriano martire esortava a farlo, mentre avevamo tempo, affinché non ci sorprendesse la morte senza Confessione. S. Girolamo avvertiva che il Confessore sa egli quando debba perdonare i peccati o ritenerli. S. Agostino esorta i Fedeli, che non si lascino prendere dalla vergogna e che dicano tutto chiaramente quello che conoscono di aver fatto male, e così andate dicendo di tutti gli antichi Santi. E quello che è anche più, tanto rimase ferma questa obbligazione, che mai nessuno ne fu dispensato: che si confessarono i più gran Santi, gl’Imperatori Cattolici, i Religiosi, i Sacerdoti, gli stessi Sommi Pontefici, riconoscendo tutti l’indispensabile necessità di osservare la parola immutabile di Gesù Cristo. – Ed ora ecco che cosa avviene: dopo sedici secoli in cui tutta la S. Chiesa guidata dallo Spirito Santo ha fatto così, e l’ha fatto sulla parola medesima di Gesù, spuntano i Protestanti e spacciano che non è necessaria la Confessione, che la Confessione è un’invenzione degli uomini, e che basta confessarsi a Dio. Ma non ci vuole una fronte di bronzo a dire tutto ciò? La Confessione è inventata dagli uomini, dicono; ebbene dunque rispondeteci, chi sono stati gl’inventori della Confessione? In quale tempo fu essa trovata? In quale paese fu messa in uso la prima volta? Chi furono i primi a lasciarsi imporre quel giogo mentre prima ne erano esenti? Probabilmente anche in antico, prima di sottomettersi tutti i fedeli ad un tal peso, avrebbero fatta qualche rimostranza, se gli uomini allora non erano pecore. Alcuni che si credono più sapienti rispondono, che fu inventata dal Concilio Lateranense l’anno 1215: ma o non sanno leggere o sono maligni, perché in quel Concilio si prescrive solamente in riguardo ai trascurati (cheve n’erano allora, come ve ne ha al presente) che dovessero farla almeno una volta l’anno e per apparecchio alla S. Pasqua: e tanto non s’inventò per la prima volta la Confessione: che anzi presupposto già che i Cristiani, ne avessero l’obbligo, si prescrisse soltanto il tempo in cui soddisfarvi: come per esempio ad uno che vi dovesse pagare la pigione, voi gli prescrivereste di pagarla per S. Michele o per S. Giovanni. L’altra bella ragione che vi apportano è questa: Basta confessarsi a Dio. Sì eh? Ma se Dio avesse prescritto che ci confessassimo anche ai Sacerdoti basterebbe poi anche allora confessarsi solo a Dio? Ora chi è che ha stabilito questo Sacramento? Non è lo stesso Gesù, come abbiamo veduto sopra? Chi siete dunque voi che venite a dirci che basta confessarsi a Dio? No, non basta, perché Gesù ha voluto diversamente; non basta perché ha significata chiarissima la sua volontà; non basta perché non tocca a voi fare la legge a Dio, ma tocca a Dio il farla a voi; non basta, perché Gesù ha detto che i peccati ritenuti cioè non assoluti dai suoi ministri, saranno ritenuti anche in Cielo. É pure estrema in ciò l’arroganza di questi Signori. Gesù si compiace, invece di mandarci all’Inferno, come meriterebbero i nostri gravi peccati, di perdonarceli purché li detestiamo col cuore e li manifestiamo ad un suo ministro e ne riceviamo l’assoluzione; e noi superbi diciamo a Dio che non ci piace questa sua istituzione e la trascuriamo, e vogliamo invece confessarci a Lui solo. Dite, se per questa nostra arroganza Iddio ci manderà in fondo all’Inferno, non ne avrà tutta la ragione? – Finalmente alcuni dicono che la Confessione è immorale. E perché? Perché dà ansa a commettere più facilmente il peccato. Ah si vede bene che costoro sono stati poco al Catechismo e che però non lo conoscono gran fatto! Che cosa ci vuole perché uno si rimuova dal commettere il peccato? A detta di tutti, ciò non avverrà mai se non se ne concepisce un grand’odio, una grande detestazione, congiunta con una risoluzione molto ferma di non commetterlo più. Ma e non sono questi precisamente gli atti necessari per la confessione? Non è questo quello che raccomandano tutti i Catechisti, tutti i Predicatori, tutti i Missionari, che non si stancano mai di gridare, che se non abbiamo dolore, se non abbiamo proposito, non ci gioverà né punto né poco la Confessione? È dunque chiaro che nella S. Confessione si fanno quegli atti che sono più efficaci a rimuoverci dalla colpa. L’abbaglio di quei che riprendono la Confessione, consiste in ciò che suppongono che noi Cattolici crediamo perdonati i peccati senza odio o detestazione di essi e senza proponimento di più non commetterli: ma ciò è falsissimo. Perché apporci una dottrina assurda, per avere poi il piacere di trovarla falsa? Riconoscano la dottrina quale la rappresenta la S. Chiesa e poi la riprendano se possono. – Né la esperienza vien poi meno a confermare quanto gran bene apporti la Confessione. Parliamo chiaro. Chi sono quelli che più bestemmiano nel paese, che più mormorano, che più frequentano certe case e certe persone, che danno più da dire di sé? Son quelli che si confessano spesso, oppure quelli che si confessano una volta l’anno e cambiano ogni anno Confessore per non essere conosciuti? Se voi aveste da fare un contratto, di chi vi fidereste più? Se aveste da prender moglie, come la vorreste? Se vi sopravviene una necessità, a chi fate ricorso? A quelli che stanno attorno a’ Confessionali, o a certi altri che sapete voi? Eh via lascino stare la S. Confessione che è quella che mantiene viva la pietà nei popoli, che consola le nostre anime, che ristora le nostre perdite spirituali, che ci riconcilia con Gesù, e che in vita ci chiude l’Inferno, ed in morte ci apre il Paradiso. Nella città di Norimberga i Protestanti tanto fecero e dissero che riuscirono di mandare in disuso la Confessione. Ma che? I furti, le rapine, le carnalità, i delitti di ogni fatta inondarono sì fattamente, che i Magistrati mandarono una deputazione all’Imperatore Carlo V perché la rimettesse in piedi, poiché tolta la Confessione dicevano che non si poteva più vivere. Ecco come è immorale la Confessione! – I Protestanti però che non credono alla istituzione divina di questo Sacramento e che però non hanno Sacerdoti che adempiano il comando divino di rimettere o di ritenere i peccati, dimostrano chiaramente che non sono la Chiesa di Gesù, la quale è quella sola che gode questo gran privilegio.

SAN PASQUALE BAYLON

San Pasquale Baylon

(Panegirico recitato il 17 maggio, giorno dell’Ascensione nel 1798 dal p. m. Vincenzo Cassitti In Ariano nella Chiesa dei PP. Riformati – Da: Saggio di Eloquenza Sacra, parte Seconda; Napoli, tipogr. De Cristofaro – 1854]

Videntibus illìs elevatus est, et nubes suscepìt eum,

Negli atti Apostolici capo 1,

Tra i molti e segnalati benefici, che fece Iddio al popol d’Israello, l’ultimo luogo certamente quello non merita col quale per mezzo di una nuvola prodigiosa, che dal tabernacolo usciva, e che su del popolo pellegrino bellamente stendevasi per luoghi aridi, deserti, e scabrosi libero dalle sferze cocenti del sole lo conduceva. Il perché  Davidde in impegno di rinfacciare alla sempre ingrata e rivoltosa gente le sue sconoscenze, quella nube di protezione singolarmente rammenta. Ma poiché quanto nell’antico Testamento avvenne, ombra soltanto fu e figura dei futuri beni, che nella Legge novella doveva a noi toccare con altra più maestosa nube, che pur esce dal Tabernacolo, e che su dei Fedeli tutti distendesi, in questo misero pellegrinaggio ci accompagna e difende. Voi ben lo intendete, accorti Ascoltanti, che dell’augusto Sagramento dell’Altare senzappiù, io intenda parlare, dove velato come da nube sotto gli Eucaristici accidenti lo stesso Dio, Re Signor degli Eserciti adoriamo, che della Chiesa è il refrigerio, il conduttore, il Maestro. Ed oh! veramente tre e quattro volte felici que’ fedeli che da questa nube amorevole non rifuggono, e si fan da quella amorevolmente condurre! Illustrati singolarmente nell’intelletto, accesi prodigiosamente nel cuore s’innalzeranno eglino dal basso tenebrìo della terra, andranno di virtù in virtù, ed in carne fuor di carne vivendo l’amorevole protezione del Sacramentato Iddio potranno sperimentare. E felice, e fortunato voi ben conchiuderò che foste il pria Pastorello, e poi umile Laico, ma infervorato amante ed Apostolo del Sacramento, onor delle Spagne, gioiello illustre dell’Ordine de’ Minori fecondo mai sempre di Eroi, S. Pasquale Baylon, che a cagion di onore nomino io qui per la prima volta solennemente. E chi meglio si fece condurre dall’Eucaristica nube, chi più di lui fu del sacramentato Iddio e nell’intelletto, e nel cuore singolarmente favorito? Or poiché di sì gran Santo a scioglier voto in suo onore già fatto, imprender devesi da me a tesserne serto di lodi, rallegromi meco stesso non poco che abbia a farlo nel dì in cui la memoria rinnova dell’Ascensione prodigiosa di Gesù Cristo nel Cielo. Io veggio non esser ciò senza occulta disposizion di provvidenza accaduto, perché congiunto osservo in modo l’elogio del Santo con le circostanze che, al riferir di S. Luca negli atti Apostolici l’odierno mistero accompagnarono, che ne resto sopraffatto oltremodo e sbalordito. Elevossi di terra il Redentore, così il Sagro Storico, ed una nuvola tutto ingombrollo. Videntibus illis elevatus est, et nubes suscepit eum. Or quel che accadde in quel dì memorando, veramente accadde moralmente nell’anima del Baylon. Una nube, e ben l’udiste, che fu il Sacramento Eucaristico, l’ingombrò tutto, e mente e cuore, innalzò sua mente, elevò suo cuore, cosicché di lui possiam dir altrettanto, benché in moral senso e spirituale; Elevatus est, et nubes suscepit eum. Egli dunque il gran Santo investito da questa nuvola, elevato fu sinpolarmente nella mente: Posuit nubem ascensum tuum. Egli per ajuto, difesa, e virtù di questa mistica nuvola, elevato venne singolarmente nel cuore. Accensiones in corde suo disposuit. Elevatus diciamolo poi in una parola, elevatus est et nubes suscepit eum. Questi saranno i due riflessi, che senza partirmi dall’odierna geminata solennità, e dall’odierno mistero, in onor di S. Pasquale io andrò proponendo, onde convinti esser possiate quanto più dell’antica sia potente a proteggere, a difendere, ad accompagnare la nube che dal nostro Santuario ascende, cioè il Sacramento dell’Altare; e quanto avventurato fu il nostro Santo che si fè da quella amorevolmente condurre, in virtù di cui ad imitazion dell’ascendente Signore elevossi di terra con la mente, e col cuore; Elevatus est; et nubes suscepit eum.

I . Egli è ben certo, o Signori, che l’uomo non peraltro è creato che per lo Cielo, e che là dovrebbero esser fissi i nostri pensieri, e i nostri affetti indirizzati, dove sono, come nell’orazione dell’odierna festività dice la Chiesa, i veri gaudi riposti: Ibi nostra fixa sunt corda, ubi vera sunt gaudia. Questa è la morale riflessione, che dall’augusto mistero dell’Ascensione vuol che i suoi figliuoli ritraggano l’amorevole Madre S. Chiesa. Come fare però, se per funesto retaggio della colpa primiera si sente l’anima a basso tratta così ed inchinata, che difficil troppo sperimenta e malagevole il volar sempre mai all’unico stato beato, eterno principio e fine? Come fare: un occhio a quel Sacramentato Iddio. Egli velato sotto 1’eucaristica nube, laddove l’anima investa, all’alto la rapisce, la conduce, la trasporta. Ed eccone il bellissimo esempio nel gran Santo del Sacramento, S. Pasquale Baylon. – Anche pria di nascer egli nel Villaggio di Torre Formosa in Aragona, rinchiuso ancora nel seno della Madre Isabella dà segno già, che doveva per 1’Eucaristia esser elevato nella mente e nel cuore. E che altro di fatti voglion dire quei salti che dà il portato gentile, emulando quasi la virtù del gran Battista, nel portarsi in sua Casa l’Uomo Dio medesimo dalle Sacramentali specie coperto e velato, approssimandosi per conforto estremo del già vicino agli ultimi aneliti genitor di lui Martino? Voglion dire, che siccome a quella presenza s’intese muovere, e sollevare nel corpo, così doveva poi e con la mente col cuore e corpo dietro la mistica nuvola sollevarsi. Che cresca pure sotto auspici sì fausti Bambinello sì amabile, e con la bocca spruzzolata ancora di latte non parli che degli altissimi Misteri della Religione; s’involi benché muova ancor titubante il picciol piede agli occhi degli uomini, ed o nel più remoto angolo della casa, o nel più ascoso tugurio della vicina selva si asconda, che non farà che additar al Mondo come da superna forza aveva sua mente investita, e come questa era rapita al Cielo dietro la nube Eucaristica. Ponit ut nubem. – Non giunge di fatti se non al primo fiore di sua giovinezza, e già corre veloce nel tempio, e nell’offrirsi a Dio Padre l’adorata incruenta vittima in guisa di celeste ardore si accende, che sembra un nobello Mosè dopo il memorando colloquio sul Sina; e immobile, modesto, con occhi bassi innanzi al Sacramentato Iddio non fa che meditare, che contemplare. Che preme intanto, che destinato egli venga alla custodia del lanuto armento? Egli ancor nelle foreste non fa che volgersi alle più vicine Chiese, e meditare. Bel vederlo , quando in cava spelonca ritrovarsi mentre sicure pascevano le pecorelle, e quivi impennar le ali, e verso il suo Dio nel Sacramento rivolgersi. Bel vederlo svellere dagli alberi i tronchi, il riverito segno della Redenzione formando contemplar il sacrificio, che da quello operato sulla Croce sol perché senza sangue differisce. Oh quante volte conducendo innanzi le pecorelle, ricordavasi del buon Pastore Gesù; oh! quante volte conducendole a pastura, ricordavasi dell’amor del Pastore medesimo Uomo-Dio, che noi sue pecorelle col sangue proprio, e con le carni sue ne pasce! Puro nelle mani, e di cuore innocente in somma si fa scala delle creature a contemplare Iddio e nelle valli, nelle colline, e ne’ monti e negli alberi, e nell’erbe e nelle piante, e nel fiume o nel rio ritrova sempre somiglianze, che lo ricordano dell’Eucaristia, questa sempre medita, sempre questa  contempla. – Or se così dalla misteriosa nuvola era di Pasquale la mente ingombrata e posseduta, se tanto alto ella poggiava per la contemplazione, figuratevi se poteva farsi trattenere dalle basse cose del mondo, dalle pie ricchezze e da Martino Garzia, e da Giovanni Apparizio offertegli. Che anzi spiccando Aquila generosa di grandi ali ardito il suo volo, d’ogni impaccio di secol togliendosi nei Chiostri di S. Francesco sen fugge, che insiem con Chiara ve lo aveva invitato, e propriamente nella sì romita solitudine di S. Pietro d’Alcantara, che inaccessibil si rende all’armento, al pastore, al bifolco, al pellegrino. – Oh! Quì sì che nella Casa ammesso del suo Dio Sacramentato, felice veramente si stima. Le ore, le notti in santa contemplazione dinanzi a lui ne impiega, né ha riposo, né si sazia, né si stanca dal contemplare. Ha ben dunque a designare questa sublime sua elevazione di mente, ha ben destinato il Cielo che ora tra sontuose Basiliche prodigiosamente da invisibil destra innalzate ai tremendi sacrifici assister si vegga: ed ora tra nobil coro di Angeli si osservi dell’Eucaristia cibarsi. Sia dall’obbedienza inviato di porta in porta ad accattar il necessario vitto; sia impiegato in esercizi meccanici, in servigi annosi, e che preme? Eh! che Pasquale ne punto né poco sa discostarsi dalla contemplazione, e dovunque si porti, qualunque cosa ne operi non pensa che al suo Sacramentato Dio. –  Ed or si che intender possiamo donde e come il Baylon, senza studio, senza lettere, passato dallo stato di Pastorello a quello di umile Laico, tanta dottrina abbia imparato quanta ne dimostrò in ogni rincontro. Nella scuola del Sacramento, nella contemplazione, nella meditazione elevata venne in modo sua mente, che non vi son già dubbiosi, che ei non consigli; non ignoranti, che non siano ammaestrali da lui; e quel che reca più stupore, non sono scolastiche difficoltà, non sono nelle sagre pagine oscure antilogie,

sono di mistica acute questioni, che egli il bel Santo non isviluppi, non ispieghi, non decida o scrivendo o parlando dell’ineffabil mistero della Incarnazione del Verbo, della Triade Sacrosanta, dei Divini attributi, dell’Eucaristico pane con tal precisione, con tal profondità di sentimenti, che stupidi fa esclamare i popoli; E donde Pasquale Baylon semplice idiota cotanto sapere apprese? Quomodo hic scit, eum litteras non didicerit? Donde lo apprese tanto sapere? E non lo vedete investito, ripieno lutto nella mente dell’Eucaristica nube, e non lo vedete sempre a contemplare, ad orare? Ecco la sua scuola, ecco l’origine della elevatezza di sua fortunata mente. Elevatus est, et nubes suscepit eum. Posuit nubem ascensum suum. – Ma se è così, che più si aspetta? Spediscasi pure per obbedienza il Laico Baylon in Francia (ed oh! fosse vissuto a dì nostri per andarvi). A che fare? A predicare, a convincere, a confutare Quingliani, Sociniani, Ugonotti, Luterani con la parola, con la dottrina, cogli esempli, coi prodigi? Eccolo intanto accinto al grand’uopo. Egli verso Parigi a pie nudi incamminasi, mal coperto da poveri cenci; passa i monti Pirenei tra i rigor del Verno, perviene ferito, straziato, e giunto finalmente a fronte degli scherni, delle contumelie, delle minacce, de’ sassi, de’ veleni, delle prigioni, delle ferite, dei pugnali, delle lance, qual altro Stefano pieno di fortezza e di grazia, qua difende la real presenza di Gesù Cristo nell’Eucaristia contro i seguaci di Berengario, di Carlo Stadio, di Zuinglio, di Calvino; là convince Pascasio Roberio e i Luterani, l’uno della impanazione, gli altri della consustanziazione nella Eucaristia acerrimi sostenitori. Or di Filippo Melantone gli audaci discepoli rampogna, che nell’ ostia Santissima non esservi sempre il Signore, ma sol quando ai popoli si distribuisce sostengono: ora altri dommi della Religione contro Pietro Vermiglio, e contro Teodoro Beza, e contro gli Ubiquisti, e contro gli Ugonotti tutti, ed altri innumerevoli settari, con tal felice successo, che moltissimi attoniti e confusi i loro errori detestano. – O mente davvero elevata dal Sacramento, o mirabili ascensioni dell’intelletto di Pasquale da quella nuvola mistica condotto, illustrato, sollevato, difeso: Ponit ut nubem ascensum. Io sbalordisco, Signori, io mi confondo, e sol meco stesso non fo che replicare quante volte queste cose contemplo. Ah ! mio Dio! cosi è, mio Dio creator del Cielo e della terra, è, che ai superbi negaste i misteri vostri, e li deste agli umili, agli idioti: Confiteor tibi Pater. Il perché non fidandomi più di tener dietro ai voli spicca il nostro Santo colla mente, miglior partito stimo che sia se mi rivolga a contemplar le ascensioni del suo cuore: Ascensiones in corde suo disposuit, giacché della nube stessa Eucaristica e l’intelletto, e il cuor di lui sono elevati: Elevalus est, et nubes suscepit eum. Ponit nubem ascensum tuum; ascensiones in corde suo disposuit.

II. Per ammirabile comunicazione non può la volontà e il cuore volere se non quello, che l’intelletto le presenti. Quindi ben persuaso l’intelletto, facil cosa è penetrar per occulte vie nel cuore. Or poiché la mente di Pasquale Baylon fu così ben elevata e sublimata a contemplare il Sacramento, e i misteri, inferir giustamente possiamo, che il cuore suo ancora sia stato tratto dalla mente, poiché l’uno e l’altra furono dall’Eucaristica nube investiti. – Ed oh! se tutti espor vi potessi gli amorosi slanci di quel cuore, i sussulti, i voli, le alterazioni meravigliose! Deh! Quante volte poiché contemplato aveva grandezze del suo Dio e Signore, a se stesso rivolgevasi, ed alto coll’Apostolo sclamava, chi mi spezzerà queste catene? chi mi libererà dai legami di questa morte? Oh! quante volte poi la terra guardando, chiama a gran voce ed invita le creature tutte, le stupide finanche e le insensate ad accompagnar suoi cantici di benedizione e di ringraziamento, ed al risponder degli antri, de’ macigni, degli alberi curvi ed annosi disfogasi in amorosi lamenti! Oh! quante fiate posto in dimenticanza il suo frale, senza moto, senza fiate, e pressocchè senza vita nell’abisso tuffasi della Divina Luce, con esso lei si mischia, si unisce, si confonde in guisa, che già comprensore, e non più viatore comparisce. – Uditelo in grazia, come l’Eucaristico Pane contemplando fuor di se stesso rapito variamente seco stesso favella secondo che vari sono gli affetti, che lo sorprendono: Ahi di me… Il mio Gesù… Dunque per me Sacramentato… Il freddo mio cuore… E dietro a tal voci con occhi ruggiadosi, con volto proprio di Angelo, con pianto non interrotto sospira, geme, grida, si  lamenta. – Qual mirammo noi aerostatico globo per forza di attrazione, e reso specificamente dell’aere più leggiero incamminarsi per le vie del Cielo, tal direi il cuor di Pasquale verso Dio s’indirizza, s’innalza, sen vola, se non conoscessi che scarso pur troppo ei l’è il paragone Pensate voi poi se un cuor così innamorato del Sacramento, non fosse ad imitazion del suo Dio Sacramentato stato amante ancor degli uomini. Si sa bene che, che nella puerile età or il cibo scarso a se destinato riserbava pei poveri, e più grandicello arrivò a togliersi per vestirli il suo pastorale pelliccio. Si sa che egli ora sgrava di pesi i passaggieri, e qual vile giumento sulle sue spalle sacchi interi di frumento, e fasci ben grandi di legna si caricava; ed ora illuminava per carità i ciechi, raddrizzava zoppi, guariva infermi, suscitava defunti, consolava, istruiva – Pensate, se un cuor così innamorato del Sacramento non sapeva umiliarsi ed ubbidire ad imitazione dal suo caro Dio nell’Eucaristia umiliato ed ubbidiente, se il suo stato non fu che di umiltà e di ubbidienza per lo appunto. Ma che dirò della virginea purità, della severa penitenza, della rigida povertà, c del coro delle virtù tutte nelle quali egli andò anzicché profittando, volando a passi di gigante per la contemplazione ed amore del Sacramento? Dirò, che se lingue cento io avessi e cento bocche non potrei fil filo tutto narrare; dirò che tutte queste virtù tutte in eroico grado, sublime egli ebbe; dirò, che il suo cuore infiammato di amore con tutto il treno delle virtù fu elevato dal Sacramento in modo che di pochi si legga altrettanto. Ascensiones in corde suo disposuit. De virtute in virtutem. – Volete convincervene senzappiù, o Signori? Miratelo in grazia disteso sul povero letticciuolo nei giorni di Pentecoste, in quelli appunto nei quali venuto era al mondo, e nei quali è per dipartirsi dal mondo? Penetriamo in quel cuore, esaminiamone i sentimenti. Ah! sono essi un complesso di tulle le virtù dominanti, elevate, condotte dall’amore verso Gesù Sacramentato. Io per me par che lo sento coll’infervorato Davide in quegli ultimi istanti di sua illibatissima vita ripetere: Oh Sacro Altare, o Ciborio, o Tabernacolo del mio Dio, quanto a me siete cari, quanto da me siete amati. Non solo il mio intelletto è rapito in estasi di meraviglia a contemplarvi, ma il cuore altresì s’innammora, ed il corpo sollevasi, s’innalza, esulta per voi: Quam dilecta tabernacula tua. E come non sentirmi rapito, mio Dio, se io penso se anche il passerino sa ritrovarsi una comoda abitazione, un buon nido, voi scegliete ad abitarne mio Dio, mio Re, i Sacri Aliati, e sotto l’umiltà degli Eucaristici accidenti vi nascondete. Ah! beato chi vi sta dappresso sempre, e vi loda in eterno. Ah! beato chi cibato dalle vostre carni, salirà col cuore di virtù in virtù, e malgrado le miserie di questa vita gusterà la felicità dell’altra. Sì, mio Dio, ascoltate le mie preghiere; fate, che dopo di avervi contemplato ed amato Sacramentato in terra venga a contemplarvi ed amarvi in Cielo. Benedetto quel dì che venni nella vostra casa, benedetto quel punto che mi scelsi di star abietto in vostra casa anziché rimanermi nel mondo a mezzo a ricchezze e piaceri, che almen ho speranza così, che voi, che siete tanto pieno di bontà mi darete grazia e gloria, perché sta scritto che arricchirete di beni coloro che camminano nell’innocenza, e beato è l’uomo che in Voi confida: Non privabit bonis, qui ambulant in innocentia. – Queste dovettero esser le voci, e i sentimenti estremi di Pasquale Baylon; queste le tenere espressioni di suo cuore amante. Voli intanto la bell’alma innocente in Cielo, e resti a noi il suo corpo incorrotto per sempre esser testimonio di sua verginità prodigioso. Resti il suo corpo in terra, questo ancora benché senz’anima dimostrerà con inusitato prodigio come fu elevata la mente, il cuor dal Baylon dall’Eucaristica nube, poiché in elevarsi la Sacra Ostia, alza il capo dalla bara più volte, balza, si muove, apre gli occhi prodigiosamente, e li chiude. Resti con noi il suo corpo e sian le sue reliquie, che dimostrano l’amore, ch’ei portò al prossimo, ed ora con festosi rimbombi arrivino le speranze de’ miseri, ora con mesti colpi presagiscano imminenti castighi. Voli al Cielo l’anima e resti il suo corpo con noi, e sia egli in Cielo a vegliare, come dice nel suo antico officio la Chiesa, al ben degli uomini con impegno. Mortalium bono sollicitam vigilantiam. – Ma che vado io più trattenendovi, o Signori, a dimostrare che S. Pasquale Baylon fu elevato nella mente, elevato nel cuore in virtù ed in forza di quella nube Eucaristica che tutto riempillo? La Chiesa stessa che nelle orazioni in onor dei Santi le virtù di essi principali ne addita, non altre ha saputo trovarne infra mille per decorar la memoria e i merito del Baylon, che quella dell’amore verso il Santissimo Sacramento dell’Altare. Gli scultori stessi ed i Pittori in atto di estasi cel rappresentano verso il Sacramento che in mezzo a nuvole un Angelo gli dimostra, quasi per indicar quelle elevazioni di mente, quelle di cuore che dalla nuvola Eucaristica ebbe il Baylon, il caro l’amabile Santo del Sacramento; onde ripeter noi siamo a ragione: Elevatus est, et nubes suscepit eum, cioè quanto veramente avvenne nell’Ascensione del Signore, moralmente nell’anima di S. Pasquale avvenne.  Si elevò colla mente per virtù di quella nuvola benedetta: Posuit nubem ascensum suum, si elevò col cuore; Ascensiones in corde suo disposuit. Elevatus et nubes suscepit eum. – Or che rimane a fare in più di questo vostro qualunque siasi Elogio, o gran Santo, se non pregarvi dall’intimo del cuore, che per le vostre preghiere, per lo vostro merito facciate, che siano i nostri pensieri ancora i nostri desideri al Cielo rivolti, dove l’Autore della solennità odierna ne entra, dove aveste voi rivolta e la mente vostra e i1 cuore. Deh! per quella pinguedine meravigliosa, che voi dall’Eucaristico cibo ricavaste; Deh! per quel meraviglioso amore che portaste al Sacramentato Iddio, fate, o gran Santo, che quella mente, e quell’amore noi abbiamo, onde volar coi pensieri, volar col cuore, dove voi volaste; ut quam ex illo Divino convivio spiritus percepisti pinguedinem, eamdem et nos percipere mereamur; ch’è quanto per i meriti vostri la Chiesa prega in questo giorno il Signore. Ho detto.

Leone XIII, in Mirae caritatis (28 maggio 1902):… di aver curato che i congressi eucaristici fossero numerosi e fruttuosi come conviene; di avere ad essi e ad altre opere simili assegnato per protettore celeste san Pasquale Baylon, che si segnalò nella devozione e nel culto verso il mistero eucaristico.

I SACRI MISTERI (10)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (10)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

XXXVI

Il servente Messa

Alla Messa bassa non deve esserci che un solo servente, anche alla Messa del Curato della parrocchia, dell’Arciprete e del gran Vicario (a meno che un secondo ragazzo non accompagni il servente propriamente detto, per imparare a ben servire Messa, cosa che succede nelle campagne). Nelle comunità, alla Messa principale possono esservene due, così come alla Messa bassa prelatrice. Io ho visto buoni curati impiegarne fino a quattro, sempre secondo il famoso principio riportato in precedenza, «… perché questo è più bello,. » Il servente Messa deve essere, potendo, un ecclesiastico: se è un laico, deve, possibilmente, essere vestito da chierico. Seguendo un recente decreto della Congregazione dei Riti, la sottana del servente Messa, deve essere nera e senza coda; non deve essere né rossa, né viola. Deve avere la testa nuda; non calotta rossa, ancor mano beretta rossa (come talvolta ho visto); la calotta o la beretta rossa sono esclusivamente insegne cardinalizie. I fanciulli del coro non devono portare né rocchette a maniche strette, né alba con cintura rossa o blu o bianca, ma unicamente una piccola cotta a maniche larghe. Alle gran Messa e agli altri uffici, devono avere la beretta nera liturgica a tre corni. Ogni altro abbigliamento, rientra nella deplorevole categoria delle invenzioni anti liturgiche, proibite dall’autorità ecclesiastiche. Il Sacerdote deve istruire al meglio possibile il suo servente Messa dei riti e delle funzioni che gli competono all’altare. Egli deve in particolare, imparare a “scampanellare” come si deve e quando si deve, e non più del necessario. Grazie a certi piccoli serventi dall’indole chiassosa, vi sono delle Messe nelle quali non si sente che il campanello, dall’inizio alla fine. Per il campanello, come per tutto il resto delle rubriche della Messa, ciò che non è prescritto, è proibito; è sempre il medesimo grande principio: serventur rubricæ. Niente scampanellii rivoluzionari, non serventi Messa liberali! È alla porta della sacrestia e non ai piedi dell’altare che si deve suonare l’inizio della Messa; e durante la Messa, non si deve suonare che due volte: 1° al Sanctus, ove il servente deve agitare tre volte il campanellino; 2° alla Consacrazione, ove il servente deve scampanellare tre volte a ciascuna delle due Elevazioni. Egli risuona un primo colpo quando il Sacerdote fa la genuflessione davanti all’Ostia santa, un secondo colpo quando la eleva per farla adorare, un terzo quando fa di nuovo la genuflessione. Allo stesso modo fa per la consacrazione e l’elevazione del Calice; tre colpi. Né più, né meno. Dopo le due Elevazioni, può dare qualche piccolo colpo per avvertire che la Consacrazione è finita. È contro le regole suonare, come troppo spesso avviene, qualche istante prima della Consacrazione; la suoneria che annunzia l’avvicinarsi di questo istante solenne, è la suoneria del Sanctus, quando tutti devono mettersi in ginocchio, raccogliersi, prepararsi all’Adorazione. Il piccolo colpo prima della Consacrazione è un’invenzione dei pigri che vogliono aspettare fino all’ultimo momento per inginocchiarsi. Ugualmente è proibito, sia alla gran Messa che alla Messa bassa, suonare e neanche accennare, prima del Pater, alla piccola Elevazione. Il servente Messa non ha il diritto di farlo, e il Sacerdote ha il diritto di impedirglielo. Non ci sono usanze che tengano; il grande compito dei veri Cattolici, è l’obbedienza. Mai ci si comporta contro le rubriche del Messale. Questo assioma di diritto è stato proclamato varie volte dalla Santa Sede, e non concerne solamente i semplici Sacerdoti, ma restringe anche il potere del Vescovo nella sua diocesi. Ogni prescrizione, ogni uso contrario alla rubrica, è illecito di diritto pieno ed interessa la coscienza. Infine, secondo la lettera della legge, non si dovrebbe suonare né scampanellare per la Comunione; essendo prevalso l’uso contrario quasi dappertutto in Francia, la Congregazione dei Riti, ha dichiarato formalmente che questo uso poteva essere conservato, soprattutto nelle chiese grandi, ove potrebbe essere se non necessario, almeno utile. Il servente Messa, chiunque sia, deve obbedire alle prescrizioni della suoneria liturgica. Anche nelle comunità, anche nei Seminari, vi sono ben pochi serventi che compiono il loro ministero senza difetti, e sovente non c’è nessuno che lo riprenda e lo istruisca. Non bisogna temere di essere rigidi su questo punto; non bisogna far passare nulla al piccolo clero. Questa esattezza perfetta, oltre che un dovere di coscienza sia per il servente che per il celebrante; i fanciulli amano le cerimonie; essi amano conoscerle bene e farle bene, ed è talvolta da questo zelo religioso nei riguardi del Santissimo Sacramento, che nasce nel loro cuoricino, il primo germe della loro vocazione ecclesiastica. Io lo ripeto, non bisogna far passare nulla al servente Messa, chierico o laico, ed esigere da lui quello che da se stesso si rende a Nostro Signore: una obbedienza fedelissima e molto minuziosa. Il servente deve essere in ginocchio tutto il tempo della Messa, dal lato opposto al Messale, salvo nel momento in cui il suo dovere lo fa andare e venire. Tutte le volte che passa al centro dell’altare, deve far compiutamente e piamente, la genuflessione fino a terra, sia davanti al Crocifisso, sia davanti al Tabernacolo. La piccola riverenza non è sufficiente; egli deve avere le due mani giunte, come il Sacerdote, tutte le volte che non porta nulla. Egli deve essere compito, ben lavato, ben pettinato. Anche in campagna, non si devono tollerare le ciabatte ai piedi del piccolo chierico durante la Messa. il lasciarsi andare dei fanciulli del coro è proverbiale, e non sempre la colpa è loro. Quando ero laico, ne ho visto uno che, dopo avere borbottato le prime preghiere ed il Confiteor, se ne andava a sedersi su di un banco, lontano dall’altare e là, prendeva dalla sua tasca un gomitolo di spago e durante tutta la Messa, ne legava il capo ad uno dei suoi piedi e intrecciava delle fruste. Si degnava alzarsi per l’Elevazione, suonava, e si rimetteva “piamente” al lavoro, il Curato guardava e non diceva parola. Mi si raccontava di due altri piccoli serventi che durante la Messa, giocavano a biglie sugli scalini dell’altare. Ve ne sono di quelli che chiacchierano, ridono, si battono. Una volta un buon Curato, al Memento dei viventi, scese dall’altare, diede un bel ceffone (senza dubbio alla maniera del Dominus vobiscum), al suo servente troppo discolo e continuò la sua Messa in pace. Bisogna confessare che questo era contro tutte le regole immaginabili, ma il piccolo l’aveva ben meritato; egli restò per tutto il tempo della Messa a testa bassa, l’aria infuriata, un braccio levato per nascondere la sua figura e meglio celare il suo schiaffo. In sagrestia bisogna abituare i fanciulli del coro ad un buon comportamento ed al silenzio, a non avere con essi eccessiva confidenza e non lasciar loro toccare nulla. – Un degno Curato di campagna, aveva creduto di poter affidare al suo piccolo chierico, la cura delle ampolle; dopo tre mesi il povero Sacerdote si accorse che il fanciullo beveva la metà del suo vino, e “battezzava” l’altra metà, di modo che, per tutto questo tempo, la Consacrazione non era stata valida; il Sacrificio non era stato realmente offerto. Dovette ricordarsi di tutto il passato, dal punto di vista degli onorari. Fortunatamente questa infedeltà del servente, non aveva impedito la validità della Consacrazione sotto la specie del pane, e la pietà del Sacerdote e dei fedeli non era stata frustrata, almeno quanto alla Comunione. – È molto importante insegnare al servente Messa, a leggere bene e pronunziare bene il latino, scandire le parole e non mangiarsi metà delle frasi. Su dieci fanciulli del coro presi a caso, non ve ne sono forse che tre in grado di recitare il Confiteor in modo ortodosso. Nulla è più edificante ed amabile del vedere come un fanciullo pio ben raccolto ai piedi dell’altare, ben applicato al suo ufficio, che non giri la testa al primo brusio e comprenda la dignità delle funzioni che egli compie vicino al Sacerdote. Alla Messa, il servente rappresenta tutta la Chiesa; egli deve dunque avere tutta la fede, tutta la Religione.

XXXVII

Il Tabernacolo ove viene riposto il Santo-Sacramento

Il Tabernacolo nel quale si conserva la Santissima Eucaristia deve essere tenuto con una cura ancor più religiosa, se possibile, dello stesso altare e del restante della chiesa. Secondo le regole tracciate dalla Santa Sede, il Tabernacolo deve essere dorato, se non tutto d’oro « Tabernaculum aureum », a meno che non sia un oggetto d’arte preziosa in marmo, pietra, o legno scolpito, o in mosaico, etc. All’interno deve essere tutto dorato e rivestito completamente di seta bianca. Quando il Santissimo Sacramento vi è chiuso, il Tabernacolo deve essere interamente ricoperto da un velo, chiamato conopea, di colore bianco, colore liturgico della santa Eucaristia (Nelle nostre piccole liturgie gallicane, ci si era voluto raffinare e, in vista del sacrificio, si era adottato il colore rosso come colore liturgico dell’Eucaristia. Era questo un doppio errore teologico; era confondere, innanzitutto il Sacramento con il Sacrificio, poi il Sacrificio incruento con il Sacrificio cruento. Non ci si guadagna mai nulla a volere essere più saggi della Chiesa), e che deve essere di una estrema pulizia. Si tollera che la conopea sia del colore del giorno. Anche alle Messe dei morti, essa non deve essere mai di colore nero, ma violaceo. Il Santo Ciborio deve riposare, nel Tabernacolo, su di un Corporale o su una Palla; esso deve essere coperto interamente da un velo di seta bianca, che si cerca di arricchire con bei ricami. La Conopea non è obbligatoria quando il tabernacolo è, come detto, un’opera d’arte veramente preziosa. È rigorosamente proibito lasciare la chiave sulla porta del Tabernacolo, fuori dalla Messa e nel momento in cui si distribuisce la Comunione; questa regola obbliga sotto pena di peccato grave. È pure comandato di conservare la chiave del Tabernacolo in un posto segreto e conveniente, in cui nessuno possa toccarla. La negligenza su questo punto ha dato luogo a lamentevoli sacrilegi. Se la disposizione della chiesa lo permette, l’altare ove si conserva l’adorabile Sacramento, deve essere sormontato da un baldacchino reale, o in stoffa bianca, o in velluto, o scolpito. GESÙ è il Re dei re, il Re degli Angeli, il Re della Chiesa, e questo baldacchino è l’insegna della sua regalità. Se ne è quasi perduto l’uso, ed è gran danno. Questi segni esterni di riverenza e di adorazione servono per lo più per la conservazione dello spirito di fede, non solo delle popolazioni, ma pure per gli stessi Sacerdoti. Lo stesso è per le lampade del santuario, delle quali abbiamo già detto delle parole, la cui negligenza, poco scusata dalla povertà, si era diffusa, dopo la Rivoluzione, in un gran numero di chiese. In Francia soltanto, più di trenta mila lampade sono state riaccese davanti al Santissimo Sacramento, dopo il ritorno della liturgia romana. La liturgia desiderava che sette lampade bruciassero, notte e giorno, davanti agli altari  ove risiede il Santissimo Sacramento. (Sono i “Septem Spiritus qui adstant ante Dominum dei quali abbiamo parlato trattando dei ceri).  In difetto di sette, ne richiede cinque; in difetto di cinque, tre; se non si possono averne tre, essa esige che ve ne sia almeno uno, acceso giorno e notte senza interruzione. L’autorità del Vescovo non è sufficiente a legittimarne la dispensa, il Sovrano Pontefice, rifiutando questa dispensa ad un pio Vescovo, che gliela chiedeva per una chiesa moto povera, ed egli me lo ha riferito, dichiarava che questo non era in suo potere, perché, aggiungeva il Santo Padre, l’illuminazione della chiesa è di istituzione apostolica, per non dire di istituzione divina. » Questo non è in effetti che la più perfetta e santa continuazione dell’illuminazione sacra del Tempio antico, e ciascuno sa che è per ordine stesso del Signore, che Mosè aveva posto davanti al Santo dei Santi e l’Arca dell’Alleanza, il candeliere d’oro a sette braccia, la cui luce non si spegneva mai. Se era così nel culto figurativo, è forse strano che non sia lo stesso nel culto delle divine Realtà? L’olio della lampada liturgica del santuario, dovrebbe essere di olio di ulivo purissimo; nei paesi in cui l’olio di olivo è raro e costa molto caro, occorre almeno l’olio vegetale di buona qualità. La sostanza grassa e maleodorante che si chiama olio di petrolio, è assolutamente proibita dalla Congregazione dei Riti. Oltre che per l’odore, è malsano ed infetto, e l’uso dannoso, il sedicente olio di petrolio non è oltretutto, come l’olio propriamente detto, il simbolo dello Spirito di luce e d’amore che riempì Nostro Signore e che, per mezzo di esso, illumina, anima, infiamma tutti i suoi fedeli. Tutti i santi Dottori hanno in effetti sottolineato le belle analogie delle proprietà dell’olio che simbolizza lo Spirito Santo; come Lui, esso illumina, guarisce, nutre, brucia, accende, fortifica. Non si soddisfa dunque al precetto liturgico facendo bruciare del petrolio davanti al Santo Tabernacolo; è un affare di coscienza, che la considerazione del buon mercato non può modificare. In ogni caso, il Sacerdote è tenuto, sub gravi, a tenere accesa perpetuamente, sia di notte che di giorno, almeno una lampada davanti al Santissimo Sacramento. Questa lampada, che è un oggetto liturgico, deve essere sospeso davanti all’altare, e non star di lato; ancor meno posta sopra una credenza. Entrando un giorno davanti ad una chiesa nella quale sapevo essere la santa “riserva”, mi stupii di non vedere la lampada accesa; dopo la mia adorazione, mi avvicinai all’altare ed intravidi una lampada. Cercavo di indovinare da dove venisse questa lampada: un vecchio fondo di bottiglia rotta, riempito a metà di una sorta di pasta disgustosa, formata dal deposito di vecchi oli, di antichi residui di polvere, di farfalle notturne; là sopra galleggiava una povera vecchio povero piccolo lume, nascosto agli sguardi dalle spesse pareti della bottiglia!!! Era questa la lampada del santuario, l’illuminazione liturgica di questa parrocchia. Se la lampada del santuario simboleggia, come detto, Nostro Signore GESÙ-CRISTO glorificato, luce eterna della sua Chiesa, essa rappresenta ugualmente davanti a GESÙ gli Angeli adoratori, poi i Sacerdoti ed i fedeli di ogni parrocchia; perché Nostro Signore, dopo aver detto Egli stesso: « Io sono la luce del mondo, » ha detto dei suoi Apostoli e dei suoi discepoli che essi erano anche « la luce del mondo: vos estis lux mumndi ». Questa lampada del santuario dà luogo giornalmente a dei fatti di una edificazione ammirevole. Quanti pii Curati, Superiori di comunità, sovraccarichi di lavoro, tengono in onore di illuminare essi stessi la lampada del Santissimo Sacramento, senza voler fare affidamento a nessuno in questa cura? Il venerabile Mons. De Prilly, antico Vescovo di Châlonns morto a quasi novanta anni, andava ogni giorno a fare la sua adorazione nella sua chiesa Cattedrale, in racchetta e camaglia; e là lo si vedeva ogni giorno curare con le sue mani la lampada che lo rappresentava, come la sua diocesi, davanti al suo Maestro e suo DIO. Il Papa Pio IX fa altrettanto. Egli diceva ad una santa persona di mia conoscenza, che vegliava egli stesso alla manutenzione delle lampade della sua cappella privata, al Vaticano. Che esempio per tutti noi che per nostra vocazione siamo tutti specialmente votati al culto della santissima Eucaristia.

XXXVIII

Gli onorari della Messa.

Consacrato al culto di DIO ed alla salvezza dei suoi fratelli, il Prete rinuncia alle carriere, ai lavori che assicurano nel mondo l’esistenza dei laici. È dunque molto normale che egli viva dell’altare. Del resto è una istituzione non solo apostolica, ma evangelica e divina. Il Prete ha diritto di vivere del suo santo Ministero. Tra le funzioni che l’autorità ecclesiastica ha designato essere occasione di un sussidio, la celebrazione della Messa, con questa o quest’altra intenzione particolare, tiene uno dei primi posti. Le calunnie dei protestanti dapprima, dei voltairiani e di tutti i loro discendenti, hanno accreditato questa menzogna blasfema, « che una Messa vale venti soldi, … che i Preti vendono la Messa, etc. » Inutile è rispondere a queste grossolanità. I Sacerdoti non vendono la Messa più di quanto i magistrati non vendano la giustizia, i militari non vendano la loro devozione ed il loro sangue, benché gli uni e gli altri ricevano un compenso dallo Stato. La Messa è una funzione sacra alla quale la Chiesa ha legato una piccola offerta, detta da noi onorario; in Italia si chiama con un nome più toccante ed umile: la limosina, cioè l’elemosina. Queste elemosina, questo onorario, è la cosa più ovvia del mondo. No, i Preti non vendono la Messa; non più dei fedeli non la comprano. Non c’è Giuda che vende il sangue di DIO, e non c’è che Caifa che sia costretto a comperarla. Il tasso dell’onorario della Messa varia a seconda dei Paesi. Di regola è il Vescovo che, nella sollecitudine paterna, veglia simultaneamente sugli interessi dei suoi Sacerdoti e quelli del suo popolo. Non sono dunque i preti o i curati che reclamano personalmente gli onorari delle Messe che si domandano loro; è la Chiesa che li chiede per lui ai fedeli. Occorre dire che, ad onore del clero, sia molto raro incontrare Sacerdoti che esigano rigorosamente tutti i loro diritti su questo articolo così delicato, soprattutto quando sono i poveri che chiedono delle Messe. Il disinteresse è una tal bella cosa ed un dovere fondamentale per il Prete di GESÙ-CRISTO. Bisogna pure diffidare di ogni tendenza contraria. La piaga del denaro è particolarmente crudele nel cuore della Chiesa. Un Seminarista, pieno di talento e di virtù, mi raccontava un giorno la sua indignazione ascoltando due suoi confratelli, due diaconi, parlare con una compiacenza molto poco mascherata della « fortuna » che essi avevano avuto durante le loro ultime vacanze di occupare tale e tal altra funzione ecclesiastica, « … che aveva riempito bene il loro taschino. » Un altro non arrossiva nel dire ad un pio confratello che « … quando sarà ordinato Prete, la sua prima cura sarà quella di assicurarsi un buon posto. Se non avrò delle solide entrate, farò il precettore. »  Grazie a DIO, questa bassezza di sentimento è rara. Bisogna evitare ad ogni prezzo soprattutto in ciò che tocca più da vicino il culto della Santissima Eucaristia. Nella Chiesa, i « buoni posti » sono quelli in cui c’è più da lavorare, da soffrire per Nostro Signore: sono i posti in cui ci sono più anime da accogliere, servire, santificare ed amare. I grandi onorari dei Preti non si corrispondono che in Paradiso. Una parola ancora sul soggetto degli onorari della Messa: noi dobbiamo tenerne un conto esatto; nel dubbio fare più che meno, e non esporre mai i buoni fedeli a vedersi frustrati nelle loro pie intenzioni per le nostre cose. È affare di coscienza, di rigorosa giustizia. Se ne risponde davanti al tribunale di DIO. 

XXXIX

Come i Santi hanno circondato la Messa e la liturgia del loro più profondo rispetto.

Essendo il Santo Sacramento realmente e personalmente Colui che è il Sovrano Amore, la vita e l’unico Tesoro dei Santi, è naturale che essi lo abbiano amato, adorato, riverito, servito con tutta la loro anima. Si può dire che nella vita di tutti i santi Preti e di tutti i santi Vescovi, senza eccezione, l’amore ed il culto dell’adorabile Eucaristia tenga il primo posto. San Vincenzo de Paoli diceva Messa con tale raccoglimento, che tutti gli astanti erano pieni di ammirazione. « Mio DIO, diceva un giorno uscendo dalla chiesa della Missione, un signore che era entrato per pregarvi e non conosceva M. Vincenzo: mio DIO! Ecco un Prete che dice bene la Messa. » Si informò del suo nome e corse immediatamente a farsi confessare da lui. Fino alla estrema vecchiaia, san Vincenzo dei Paoli osservava, con una obbedienza ed una pietà da novizio, le minime rubriche della liturgia, ed esigeva pure rigorosamente questa stessa osservanza da parte di tutti i Sacerdoti della Missione. Malgrado le sue gambe inferme, ci teneva a fare la sua genuflessione fino a terra e non credeva in coscienza di dispensarsi dai minimi dettagli. In effetti non c’è nulla di piccolo nel culto di DIO. Lo stesso, e forse ancor di più, era per il santo abate Olier, amico intimo di san Vincenzo de Paoli. Il suo spirito di Religione verso il Santo Sacrificio ed il Santo Sacramento risplendevano in tutto ciò che faceva, diceva, scriveva ed istituiva. Egli era molto ricco, e tutto il suo denaro era dispensato in onore della santa Eucaristia, non meno che per il sollievo dei poveri. La magnifica casula della sua prima Messa era costata trenta mila scudi, e si doleva che essa fosse così indegna del divino mistero al quale era riservata. Il suo Calice di oro massiccio è ancora conservato nel tesoro della pia cappella del Loreto, nel Seminario di Issy. Una delle sue preoccupazioni dominanti era quella di ispirare questo stesso spirito di Religione profonda in tutti gli ecclesiastici del Seminario, e bisogna dire che i Preti di San Sulpizio hanno conservato interamente questa santa eredità del loro fondatore. È impossibile non trattare di cose sante, ed in particolare di tutto ciò che ha rapporto con la Messa con una Religione più seria, più vera, più sentita di quanto non lo si faccia nei Seminari di San Sulpizio. E certamente, questo punto è di una grande importanza nell’opera della santificazione personale del Sacerdote. San Francesco di Sales era ammirevole nella sua devozione e deferenza nei confronti dell’altare durante gli Uffici. Nella deposizione ufficiale che fece san Giovanna de Chantal per la beatificazione e canonizzazione del Santo Vescovo, si trova questa bella testimonianza: « Il nostro beato recitava gli Uffici nella chiesa con una attenzione, riverenza e devozione tutta straordinaria. Non girava quasi mai gli occhi né la testa, se non richiesto, e se ne stava con una gravità umilissima, sempre in piedi, senza mai sedersi, per quanto fosse stanco e debole per tante malattie. Egli ne riceveva gran sentimenti da DIO e delle grandi illuminazioni. Mi scriveva una volta che, durante la celebrazione di una gran festa, gli sembrava di essere tra i cori degli Angeli.  – Egli diceva tutti i giorni Messa senza mai mancare. Essendo questo beato all’altare, era facile vedere che si teneva in uno stato di profonda riverenza ed attenzione davanti a DIO. Aveva gli occhi modestamente abbassati, il suo volto era tutto raccolto, con una dolcezza ed una serenità sì grande, che in vero coloro che lo guardavano con attenzione ne erano toccati e commossi per la devozione. – Soprattutto nella santa Consacrazione e Comunione, si vedeva un candore nel suo volto così pacifico che toccava i cuori. Così questo divino Sacrificio era la sua vera vita e la sua forza, e in questa azione sembrava un uomo trasformato in DIO. – Egli pronunciava la sua Messa con voce mediocre e dolce, grave e posata, senza pressare, qualunque affare fosse. Egli mi dice che, da tanti anni, quando si volta verso il lato dell’altare, non soffre di nessuna distrazione. – Io so di persone che avendolo visto comunicare in questo stato talmente preso da devozione, che non ne hanno mai potuto perderne l’idea. – Il nostro beato possedeva in un grado eminente la virtù della santa Religione Cattolica, Apostolica, Romana; egli aveva in grandissimo rispetto tutto ciò che riguardava il culto divino, del quale faceva le azioni con profonda riverenza, gravità e devozione, avendo davanti agli occhi la grandezza di Colui che serviva. Egli celebrava gli Uffici sacri con una sì profonda attenzione, un sì gran raccoglimento ed una maestà sì umile, che in verità rapiva gli astanti. » Che esempio per noi tutti! Il grande Arcivescovo di Milano, san Carlo Borromeo, che si potrebbe definire l’ecclesiastico per eccellenza, si avvicinava ugualmente ogni giorno al santo altare. Egli si preparava alla Messa, con il Sacramento della Penitenza, che riceveva ogni mattino, e con una lunga preghiera. Egli non voleva che gli si parlasse di alcun affare prima che celebrasse la santa Messa, ed aveva l’abitudine di dire che fosse cosa indegna di un Sacerdote di GESÙ-CRISTO, occupare il proprio spirito con un qualsiasi affare temporale, prima di aver compiuto il suo gran dovere. Salvo che per malattia, nulla era capace di impedirgli di dire Messa, né viaggi, né lavori, né affari; e nelle sue malattie, riceveva la santa Comunione almeno ogni giorno. « Egli riempiva con una santa gioia le sacre funzioni, e le faceva con tanta applicazione, maestosità e buona grazia, riporta un testimone oculare, che parecchi passavano quasi l’intero giorno in chiesa, tanto avevano consolazione nel cederlo officiare. » Lo stesso testimone aggiunge: « Il grande zelo che egli aveva per l’onore delle chiese e dei luoghi consacrati del Signore, veniva da questo gran fondo di Religione da cui era penetrato. Egli proibiva ad ogni sorta di persone di passeggiarvi, muovere, o di fare alcuna cosa indegna della santità di questi luoghi. Egli voleva che tutti vi entrassero modestamente vestiti, specialmente le donne. Voleva che i suoi Curati fossero moto vigilanti al proposito; quando egli stesso ne riprendeva qualcuno che non si comportava con la dovuta riverenza a questi santi luoghi, lo riprendeva sul campo, facendogli una forte correzione. Per rispetto dei santi altari, proibiva a tutti i secolari, qualunque essi fossero, di prender posto nel coro. Egli ingiungeva agli ecclesiastici di rivestirsi di cotta tutte le volte che dovevano avvicinarsi all’altare per prepararlo, per pulirlo e per ornarlo; prendeva cura egli stesso di mostrare ai giovani sacerdoti come bisognava fare la genuflessione e gli inchini passando davanti agli altari. « Egli riformò la musica delle chiese, ordinando che tutti i cantori fossero vestiti di sottana e di cotta quando cantavano nel coro. Escluse totalmente le arie profane e gli strumenti musicali che risentivano di mondanità. Egli attribuì una tale importanza alle sue ordinanze liturgiche che non ne dispensava mai nessuno. » – Fu lui che instituì sotto la forma attuale, o che almeno fece istituire a Roma da suo zio, il santo Papa Pio IV, la Congregazione dei Riti, che ha reso sì grande servizio alla Chiesa intera, e con la quale il Sovrano-Pontefice, primo e fedele guardiano del culto divino nella Chiesa, regola, ordina, difende ciò che è conforme o meno alle vere tradizioni liturgiche. San Carlo Borromeo può essere considerato come un perfetto modello di questo spirito di Religione che deve risplendere in tutta la vita di un Prete e che deve portare soprattutto alla celebrazione dei santi Misteri. Ciò che abbiamo detto per San Carlo, San Francesco di Sales, San Vincenzo de Pauli, del venerabile abate Olier, speriamo poterlo dire con altrettanta giustizia, di tutti i santi Preti; per tutti, la celebrazione della Messa ed il culto del Santo Sacramento sia l’affare principale, il centro, il cuore delle loro giornate. Bisogna leggere gli ammirevoli dettagli che riportano su questi punti gli autori contemporanei della vita di San Filippo Neri, della vita di S. Ignazio, della vita di San Francesco Borgia. Tutti congiungevano ad un ardente amore, un fervore più angelico che umano, il rispetto più assoluto delle sante regole liturgiche, e non permettevano mai di infrangerne alcuna. È tutto semplice; la santità non è la perfezione dell’obbedienza e dell’amore? Nulla è più edificante che vedere un Prete che dice bene la Messa: così prega, parla a DIO più di ogni sermone. È una manifestazione irresistibile della santità della Chiesa, della sublimità del sacerdozio, della presenza adorabile di GESÙ sui nostri altari. Uno dei nostri più dotti Vescovi mi riportava un giorno questa parola infantile, ma profondamente cera e toccante, di una povera donna della sua diocesi: « … che è dunque bello un Prete che prega bene il buon DIO. » Ah! Diamo tutti e sempre questo bello spettacolo, soprattutto quando siamo ai piedi degli altari!

EPILOGO

UN BEL RICORDO  LITURGICO

Uno dei più toccanti ricordi della mia vita (con cui mi si permetta di concludere questo libretto), è quello di Pio IX celebrante Messa e distribuente la Comunione, sul grande altare papale, nella Basilica di San Pietro. Era la festa di San Pietro, io avevo avuto l’onore di assistere all’altare come Suddiacono. La maestosa bellezza del suo viso, sì raccolto, sì profondamente e con semplicità applicato alla preghiera, era rigato da grosse lacrime, lacrime che bagnavano continuamente le sue gote; eravamo tutti commossi, penetrati di venerazione solo guardandolo. Dopo la prima di queste tre magnifiche preghiere che precedono immediatamente la Comunione, il Santo Padre raggiunge il suo trono, lasciando sull’altare, in adorazione ed inginocchiato, l’uno di faccia all’altro, a destra ed a sinistra del santo Sacramento, il Diacono, che è sempre un Cardinale, ed il Suddiacono che è sempre un uditore di Rota. Quando il Papa è sul suo trono, il Suddiacono si alza, fa la genuflessione, e prende, con le mani coperte da un velo di lino, la Patena con l’Ostia santa; egli la fa adorare al Diacono sempre inginocchiato; poi, tenendo il Santo Sacramento con grandissimo rispetto all’altezza dei suoi occhi, avanza con passo grave verso il Papa, che si alza e che adora Colui di cui è il Vicario. Il Suddiacono resta un po’ alla sinistra del Papa girato al coro, tenendo sempre il Santo Sacramento sulla Patena. Allora il Diacono si alza a sua volta, fa la genuflessione in mezzo all’altare, prende il Calice santo ed avanza anch’egli verso il Sovrano-Pontefice, tutto solo, nel silenzio più profondo. Il Papa ed il Suddiacono sono in piedi; tutti gli assistenti, Cardinali, Vescovi, Prelati sono in ginocchio: è un momento incomparabilmente maestoso. Dopo avere un istante adorato il prezioso Sangue, e dopo che il Diacono, tenendo il Calice, si è portato alla destra del Papa, in coro, di fronte al Suddiacono, il Santo Padre recita a mezza voce le due orazioni della Comunione; poi il Suddiacono si dispone davanti a lui, affinché possa comunicarsi. Egli prende solamente la metà della santa Ostia e se ne comunica. Il Diacono si avvicina a sua volta, presenta il prezioso Sangue, di cui il Papa prende una parte per mezzo di un lungo cannello d’oro che resta in seguito nel Calice, immerso nel resto del vino consacrato. Dopo un momento solenne di raccoglimento, il Diacono ed il Suddiacono rimettono il Calice e la Patena ai due Vescovi assistenti, si mettono in piedi, uno di lato all’altro davanti al Vicario di GESÙ-CRISTO, il quale spezza in due parti la seconda metà dell’Ostia santa e comunica in silenzio prima il Diacono poi il Suddiacono, dopo di ché dà ad entrambi il bacio di pace sulla gota. Oh! È in questo memento che ho abbracciato Pio IX con amore! Era Nostro-Signore stesso che mi abbracciava e che io abbracciavo. Ed io ho sentito le sue calde lacrime che hanno bagnato il mio volto. – Dopo qualche istante di raccoglimento, il Cardinal Diacono ha ripreso il Calice con il restante del prezioso Sangue ed il cannello; il Vescovo assistente mi ha riconsegnato la Patena vuota; entrambi siamo tornati sull’altare. Là il Diacono, ripreso il cannello d’oro, si è comunicato egli stesso, aspirando la metà di ciò che restava del vino consacrato; poi mi ha passato il calice; io ho deposto il cannello sopra una Patena d’oro; io ho comunicato a questo stesso Calice ed ho preso la particella, come il Sacerdote fa ordinariamente sull’altare; con del vino puro prima, poi con del vino ed acqua, ho purificato (secondo l’espressione liturgica) il cannello ed il Calice e preso le abluzioni; ed il Sovrano Pontefice ha terminato la Messa cantando il Post-Communio ed impartendo la grande benedizione finale.

Io offro nuovamente ed in modo particolare questo piccolo trattato, alla pietà degli allievi del Santuario, pregandoli di profittare al meglio possibile e di non lasciarsi mai indebolire il cuore nel gusto delle cose sante, il rispetto e lo zelo della liturgia, la perfezione dell’obbedienza ai precetti ed alle direttive della Santa Chiesa Romana, Madre e Maestra di tutte le Chiese. – Queste spiegazioni del Santo Sacrificio serviranno ugualmente, io spero, ai miei venerati fratelli del giovane clero. Io prego Nostro Signore di benedire il mio lavoro e tutti i miei lettori.

I SANTI MISTERI (9)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (9)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

XXXI

Dalla Comunione, al termine della Messa.

Dopo la Comunione del popolo, quando il Santo Sacramento è rientrato nel Tabernacolo, il Celebrante prende la prima abluzione, del puro vino, poi la seconda, di vino ed acqua, alfine di far sparire i resti più impercettibile della divina Eucaristia che avrebbero potuto aderire alle pareti interne del Calice o alle dita che lo hanno toccato. Sul soggetto delle abluzioni, ricordo una buona storia, capitata a questo stesso direttore di Seminario che aveva la cattiva abitudine del tono alto ed esclamare durate la Messa, e che interruppe una volta il Canone, come abbiamo già detto. Un giorno che era in “devozione”, e le sue orazioni giaculatorie si moltiplicavano senza misura, alla seconda abluzione, egli aveva, come prescritto, le dita sopra il Calice e di conseguenza, le mani e le braccia sollevate; l’altare, in effetti, era troppo alto per lui, ed il Calice era grande. Il servente Messa, che mi ha raccontato il fatto, ammirava interiormente la devozione del sant’uomo, e versava il vino sulle sue dita. « Signore, mormorava questi, voi mi inondate. » Il servente, intenerito, versava ancora l’acqua, versava sempre. « Voi mi inondate, mio DIO! » ripeteva il buon vecchio. Tutto d’un tratto cambia tono e con aria seccata, dice al servente: « Quando dico che mi inondate!!! Ne ho piene le maniche! » Sorpreso ed imbarazzato, il povero servente si trattenne per non scoppiare a ridere. L’infortunato direttore ne aveva fino al gomito. Dopo le abluzioni, il Sacerdote riprende posto in mezzo all’altare, con i vasi ed i sacri lini, copre il tutto con il velo e recita la breve preghiera chiamata Communio, al lato sinistro dell’altare, nell’angolo dell’Epistola. Come l’introito, il Communio ricorda lo spirito del santo Mistero del giorno. Poi il Sacerdote ritorna al centro, dice il sesto Dominus vobiscum, recita o canta, di nuovo a sinistra, l’orazione chiamata: Post-Communio, chiude il Messale, dà il settimo ed ultimo saluto con il Dominus vobiscum, e congeda l’assemblea annunciando che la Messa è finita: « Ite, Missa est. » Alla Messa solenne, è il Diacono che compie questo ufficio. Tutto il popolo in ginocchio riceve la benedizione che conclude l’adorabile Sacrificio. Mi sembra evidente che il senso liturgico di tutti questi riti si rapporti a quanto detto in precedenza del regno finale di Nostro-Signore e della sua Chiesa, al settimo giorno del mondo, prima della chiusura definitiva dei secoli. In effetti il Sacerdote è pieno di GESÙ, che è disceso in lui ed è corporalmente presente nel suo corpo, come lo sarà nell’ultimo Avvento quando apparirà sulla terra in mezzo alla sua Chiesa glorificata; nello stesso modo in cui ha cominciato il Sacrificio recitando l’Introito, poi il Post-Communio, le quali rappresentano, se non mi sbaglio, la preghiera perfetta, le adorazioni e le azioni di grazie che GESÙ e la Chiesa daranno nel salire, all’epoca della rigenerazione, verso il trono della Maestà divina. Questo sarà il cantico del cielo; questa sarà la santità del cielo sulla terra. Quale darà, in dettaglio, questo stato ultimo della Chiesa? Noi non ne abbiamo alcuna idea; non più dell’idea che abbiamo dello stato della santa umanità del Salvatore resuscitato, tra la Resurrezione e l’Ascensione; non più dell’idea soprannaturale che noi abbiamo dello stato nel quale si trovavano Adamo ed il mondo nel Paradiso terrestre prima della caduta. Non sarà l’uomo solamente, sarà l’umanità intera che regnerà pacificamente su tutti gli elementi e su tutto l’universo; sarà il corpo intero, saranno tutte le membra che, trionfando sulla morte, condurranno sulla terra la vita del cielo, la vita resuscitata, preludio della vita eterna propriamente detta. Noi sappiamo dello stato di beatitudine della Chiesa resuscitata, ed allora « … DIO asciugherà per sempre le lacrime dei suoi eletti; che per essi non ci sarà più morte, più doglia, più gemiti, più dolore; perché il primo stato delle cose sarà sparito: Quia omnia abierunt; perché tutte le cose saranno rinnovate. » È quello che noi sappiamo, ciò che ci ha detto il Signore Nostro medesimo nel Vangelo: « Nel giorno della rigenerazione, quando il Figlio dell’uomo sederà sul trono della sua maestà … nello stato di resurrezione, gli uomini non si mariteranno più, essi saranno come gli Angeli di DIO nel cielo; » essi non saranno degli Angeli, ma « saranno simili agli Angeli: sicut Angeli DEI; » essi non saranno puri spiriti, ma i loro corpi resusciteranno spirituali, spiritualizzati « resurget corpus spirituale », dice S. Paolo. I nostri corpi saranno simili a quello di Nostro-Signore dopo la sua Resurrezione, prima della sua Ascensione. Dopo questa manifestazione terrestre della divinità, della potenza, della gloria, della santità e della bellezza senza macchia di GESÙ-CRISTO e della Chiesa, la grande settimana dell’umanità sarà compiuta; dopo il settimo giorno, dopo il riposo trionfale della settima età della Chiesa, verrà la Domenica eterna, il grande giorno del Signore, il giorno dell’Ottava, dell’accordo perfetto. I riprovati, resuscitati per il giudizio nel momento stesso della fine dei secoli (Nostro-Signore distingue completamente la resurrezione degli eletti dalla resurrezione generale e finale; Egli parla della prima al cap. XXIV, e della seconda al capitolo XXV di San Matteo. Gli eletti della prima resurrezione sono le vergini sagge; i riprovati della seconda, sono le vergini stolte con cui la parabola inizia il cap. XXV; tunc, erit regnum cœlorum), saranno gettati fuori per sempre « con satana ed i suoi angeli, nel fuoco eterno come escrementi della Creazione; « ed essi saranno nel supplizio eterno, mentre i giusti andranno alla vita eterna, » avvolti, come in un vestito immortale, di gloria e di felicità, dalla benedizione suprema del Padre e del Figlio, e dello Spirito-Santo, che Nostro Signore GESÙ-CRISTO darà a tutti i suoi Eletti. È quanto figurano gli ultimi riti della santa Messa. Con quali profondi sentimenti di speranza, con quale gioia non dobbiamo dire queste belle parole finali, ed esprimere a GESÙ il nostro amore! Dapprima Egli ci invita al banchetto nunziale, alle nozze dell’Agnello. « Andate, la Messa è finita; venite, voi tutti, benedetti dal Padre; voi tutti fedeli della mia Chiesa; tutto è consumato; il grande mistero di Cristo, della Chiesa, della creazione, della Redenzione, della grazia è compiuto; voi avete ricevuto il vostro DIO: restate in Lui e Lui in voi! » I fedeli della terra rispondono: DEO gratias, povera e piccola eco anticipata del DEO gratias eterno che nel Paradiso sgorgherà dai loro cuori. Il passaggio dal regno celeste della santa Chiesa sulla terra al suo regno celeste nei cieli, è figurato dal passaggio del Celebrante, del Diacono e del Suddiacono al lato destro dell’altare, dove si recita nel segreto l’ultimo Vangelo. Il Celebrante è allora il Cristo nella sua gloria; il Diacono è la Chiesa degli Angeli; il Suddiacono la Chiesa degli uomini; entrambi in GESÙ-CRISTO e con GESÙ-CRISTO, nella gloria di DIO Padre. Dopo l’Epistola, questo passaggio da un lato all’altro, significava il passaggio dall’antica Alleanza alla nuova, ed il Celebrante si umiliava, si inchinava tra i due; ora questo passaggio, glorioso e gioioso, significa la transizione dal regno della Chiesa sulla terra, al suo Regno nel cielo; dallo stato perfetto della resurrezione, allo stato piuccheperfetto e assolutamente divino dell’Ascensione e dell’Eternità. Così, in mezzo all’altare, il Sacerdote, figura di GESÙ-CRISTO, ribalta le umiliazioni della greppia e del Calvario, con la maestà della pubblica benedizione (Nelle liturgie moderne francesi, il semplice Sacerdote cantava questa benedizione alla fine della Messa solenne e talvolta della Messa bassa (!!!). Si tratta ancora una volta di un’invenzione dell’89, una usurpazione del Prete sul Vescovo). Noi abbiamo già detto che il Dominus vobiscum che segue la comunione è quello che precede la benedizione, e sembra esprimere il Dono dell’Intelletto ed il Dono della Sapienza che Nostro Signore effonderà in quest’ultima età della Chiesa su tutti gli eletti. Oh! Quanti comprenderanno allora e quanti gusteranno le ineffabili beltà, le profondità divine e le eccellenze del mistero di GESÙ-CRISTO! Alla Messa solenne, l’ottavo Dominus vobiscum, si dice a voce bassa, così come il Vangelo della generazione eterna del Verbo, per significare che la beatitudine del Paradiso, cioè l’unione beatifica e la visione intuitiva, appartengono a quest’ordine di parole segrete « … che non è dato all’uomo dire quaggiù; … l’occhio dell’uomo non ha mai visto, né orecchio mai inteso, il suo spirito non può comprendere ciò che DIO ha riservato ai suoi eletti, » sulla terra, ed a maggior ragione nel cielo. Nulla è così toccante come la pia recita di questo bel Vangelo, quando si pensa che il Verbo eterno, il Principe della Vita, la vera Luce è là, sostanzialmente e corporalmente presente in noi, consolandosi con noi ed in noi dell’ingratitudine di coloro che non vogliono riceverlo, e facendo di noi dei figli di DIO! Il Verbo incarnato è in noi, vi è per sempre, pieno di grazia e di verità. – La Messa è finita; il Sacerdote e coloro che lo assistono all’altare rientrano in sacrestia, recitando a voce bassale preghiere dell’azione di grazie. Non è certo che queste preghiere siano obbligatorie, ma è d’uso il non ometterle.

XXXII

Il rispetto dovuto alle sacrestie.

Bisogna rispettare fortemente la Sagrestia delle Chiese, che è un luogo santo, come il suo nome ci indica. La sacrestia fa parte della Chiesa: non vi si deve parlare senza necessità, né ad alta voce, come in una camera ordinaria; ancor meno si deve chiacchierare, scherzare, ridere. Quando è possibile, è preferibile che i cantori e gli impiegati inferiori della chiesa non entrino abitualmente nella sagrestia del clero, propriamente detta. Al Curato ed al Prete sacrestano incombe il dovere, dovere serissimo ed importantissimo, di vegliare sul buon ordine della sagrestia; alle suppellettili più minuziose, non solo dei sacri vasi, dei lini, degli ornamenti, etc. inoltre dei mobili, armadi, tavoli, etc. … vi sono delle sacrestie ove è tutto sottosopra; in cui i teli e gli ornamenti sacri sono riposti alla rinfusa senza ordine negli armadi, a volte con spezzoni di ceri, ampolle con equivoche proprietà, bottiglie vuote, vecchi stracci; le cotte, le sottane dei ragazzi del coro e dei cantori vengono ammassate in un angolo. Tutto questo è sconveniente e poco edificante; un vero Sacerdote non tratta così, in malo modo, le cose del culto di DIO. In più, questo disordine, questo disordine costa caro: così negletti, i paramenti si deteriorano rapidamente; e con una cura maggiore si possono risparmiare centinaia di franchi. Inoltre, le pie dame, i buoni e ricchi donatori vengono pure scoraggiati nella loro generosità verso la Chiesa con la prospettiva della quasi inutilità dei loro sacrifici! « A che pro dare questa casula, questa cotta, questo ornamento d’altare? Si dice: se il nostro curato è così poco accorto, lasciamo perdere tutto questo! Tra pochi mesi, o un anno, non resterà più nulla » Bisogna valutare bene nel non disprezzare il valore di queste cose, per non scoraggiare tanti sacrifici fatti senza profitto. Nulla è più edificante che l’aspetto di una sagrestia ben organizzata e ben tenuta; questo rivela immediatamente l’indole di un Sacerdote pio, zelante della gloria di Nostro-Signore. La povertà non è in causa;  essa può essere propria, ma, grazie al cielo, povertà dignitosa e mala povertà non sono sinonimi.  

XXXIII

 Tempo che conviene consacrare alla celebrazione della Messa

Diciamo una parola sul tempo che bisogna consacrare abitualmente alla celebrazione della Messa. Il Papa Benedetto XIV, dichiara formalmente che la Santa Messa non debba mai durare meno di 20 minuti, anche le Messe da Requiem o le Messe votive, nelle quali le preghiere sono abbreviate. L’esperienza conferma questa decisione dell’Autorità suprema: un Sacerdote che vuole osservare tutte le rubriche e dir Messa con la religione conveniente, a mala pena rientra nei venti minuti. Quasi tutti coloro che dicono la Messa velocemente, a stento vi arrivano, arrampicandosi, preghiera su preghiera, cerimonia su cerimonia; essi terminano le orazioni mettendosi al centro dell’altare; dal corno dell’Epistola iniziano marciando a recitare il Kyrie, il Munda cor meum, e terminano, ancora camminando, con mancamenti simili a regole obbligatorie. Essi “arronzano”, come si dice, questo non è un pregare sacerdotalmente, non è celebrare bene la Messa. Io ho visto una volta un Sacerdote, per altro eccellente e da me conosciuto personalmente come tale, impiegare solo sedici minuti dal segno della croce, in basso all’altare, fino al “Deo gratias” finale. Questa Messa, buona davanti a Dio, senza dubbio, lo era molto poco per gli astanti, tanto che una persona pia mi pregò di avvertire questo buon Prete, che se continuava a dire la Messa “al galoppo”, non vi avrebbe assistito mai più: « … non si sa più ove ci si trova, aggiungeva con assoluta ragione; è un pasticcio, una specie di corsa a cronometro; si direbbe che questo Prete non abbia altra idea che di finirla quanto prima; se non lo conoscessi, gli si potrebbe chiedere se abbia fede! »  I Sacerdoti che prendono la deplorevole abitudine di dire così la Messa, cioè di corsa, hanno certamente la fede, ma io garantisco che essi non hanno al massimo grado lo spirito di fede, il sentimento attuale della fede, la fede viva, efficace, pratica nella divina presenza di Nostro Signore nel suo grande mistero. Mai un uomo penetrato di questa fede viva, ricordando che GESÙ, il bon DIO, il DIO eterno ed onnipotente che sta per scendere nelle sue mani; che è proprio Lui, il Figlio adorabile della Santissima Vergine, il gran Salvatore, il Re degli Angeli, il Santo dei Santi, che è là, nelle sue mani, sotto i suoi occhi, realmente presente e vivente con la sua infinita santità ed il suo amore infinito,… mai, io dico, un uomo, un Sacerdote che penserà a questo, balbetterà le sante preghiere, come spesso accade; mai farà delle genuflessioni tronche o precipitate, non tratterà alla leggera sì grandi cose, non darà la comunione “cotta al vapore”; in una parola, non dirà Messa con una velocità tale da essere in disaccordo con la santità intrinseca del Sacrificio, con il rispetto necessario della liturgia e l’edificazione dovuta al popolo fedele. Quasi sempre si dice la Messa troppo veloce. Quante volta ho sentito i fedeli lamentarsi di questo abuso! Alcuni Sacerdoti, lo so, dicono la Messa troppo lentamente e rischiano così, soprattutto nelle chiese parrocchiali, in cui il pubblico è più disomogeneo, di stancare un certo numero di persone; ma questi abusi, oltre che essere più rari degli altri, si comprendono presto: essi vengono da un raccoglimento più profondo da parte del Sacerdote, da un’osservazione più rigorosa delle rubriche, ed insomma anche se “abuso”, non malefica nessuno, tutt’altro. Per di più non espone il Sacerdote al danno così terribile della routine e della negligenza. – La Messa bassa dovrebbe sempre durare circa una mezz’ora. Questa mi sembra una regola perfetta, tipica; una mezz’ora, più o meno due o tre minuti. È il tempo che impiega ordinariamente il nostro Santo e Santissimo Padre, il Papa Pio IX, che dice la Messa sì mirabilmente come l’abbiamo raccontata adesso. È il tempo che consacrava sempre San Francesco di Sales, il Sacerdote perfetto: una bella e buona mezz’ora.

XXXIV

Come bisogna cantare e recitare le preghiere della Messa.

Alla Messa solenne, bisogna cercare di cantare bene ciò che deve essere cantato; cantare nel modo giusto, se possibile; cantare piamente e semplicemente, senza negligenza, affettazione, rallentamenti. Bisogna cercare di imparare il canto senza nulla aggiungere o alterare del canto liturgico; le fioriture, i gorgheggi, gli svolazzi, sono buoni per il teatro; ma all’altare di DIO, il canto deve essere grave e degno. Nulla è più bello del canto piano (romano) ben cantato. Uno dei più celebri compositori moderni, mi diceva l’altro giorno « il puro cantus planus (canto semplice – vocale a cappella, monodico, gregoriano) non può essere comparato a nessun altra musica, non più di quanto la Chiesa possa essere comparata alle altre società della terra. Il Canto semplice sta alla musica profana, come la preghiera alla conversazione. » I Curati dovrebbero vegliare a che i cantori non “compongano” al leggio; soprattutto nelle campagne, queste composizioni sono disastrose; io vedo ancora un bravo mugnaio, cantore emerito, primo cantore nella sua parrocchia da venti anni, urlante, muggendo un Magnificat impossibile, per non so quale grande festa, in mezzo allo stupore generale, stravolgendo le parole in modo incomprensibile … Magnificat, ficat … fificat … cat ani … cat anima … cat Dominum … ed il “minum” non finiva mai! E l’omaccione rosso come un gallo, con il pollice della mano destra appoggiata sotto il mento per darsi più forza, voltandosi verso l’assistente, occhio brillante e bocca torta, testa alta, alla fine di ogni versetto, come per dire al popolo: « Hei, che ne dite? » Ed il Curato lasciava fare! Quando si canta puramente e semplicemente il canto piano, si ha uno stato di grazia, e non si cade in queste eccentricità. Un altro punto molto importante per il canto delle Messe solenni, ed in generale di tutti gli uffici, è il protrarsi interminabile del canto e nelle grandi città, il suonare all’infinito l’organo; questo rende gli Offici di una lunghezza noiosa. « È edificante, dicono taluni; » no, è noioso e molte persone si lasciano prendere dalla noia. Io ho assistito una volta ad una Messa solenne che è durata, senza predica, quasi due ore e mezza. Più è lunga, più è bella!! Una Messa solenne, senza predica, dovrebbe durare appena un’ora. Tuttavia bisogna prendersi cura di non eccedere nel senso opposto: per guadagnare del tempo, certi buoni Curati, credono di potersi permettere di sopprimere i canti, questa o quella parte del canto liturgico. Vi sono dei paesi in cui non si canta che la metà del Gloria e del Credo; in cui il celebrante, dopo aver recitato a tono basso il Credo, comincia immediatamente l’offertorio tagliando il Credo dal momento che il sacerdote dice l’orate fratres. Alle gran Messe che si cantano durante la settimana, si sopprime il canto del povero Gloria; mai il graduale, mai il Communio cantato. Infine, abuso ancor più strano, nei servizi funebri in cui devono essere celebrate due Gran Messe consecutive, il canto della prima Messa cessa al Sanctus; la Messa cantata diviene subito una Messa bassa; e sempre per guadagnar tempo, la seconda Messa comincia su di un altro altare, immediatamente dopo l’Elevazione della prima, la quale termina come “in segreto”. Tutto questo costituisce una serie di abusi sui quali occorrerebbe richiamare l’attenzione del clero. Il Sacerdote che si permette queste cose, viola delle regole obbligatorie in coscienza; egli deve reagire con tutte le sue forze contro ogni ostacolo. Vi è interessata certamente la sua coscienza sacerdotale. Alla Messa bassa, noi dobbiamo pronunciare distintamente, né troppo alto, né basso, né veloce, né troppo lentamente: ciò che è segnato che debba essere pronunciato basso, sia pronunciato basso, di modo tale che gli assistenti non sentano nulla. Per le parole della Consacrazione, vi si è tenuti sub gravi. Vi sono dei Preti che dicono in tono basso tutte le preghiere; talvolta è per tener più raccolti; tuttavia è un abuso, che solo la stanchezza del torace o del laringe può scusare. In questo, come per tutto il resto, bisogna obbedire alle prescrizioni liturgiche che vogliono che la Messa bassa sia letta con voce intellegibile, distinta e mediocremente elevata. Io ho assistito una volta ad una Messa di un devotissimo abate che “declamava” la sua Messa; era toccante e nello stesso tempo molto ridicolo. Il Vangelo era quello della resurrezione di Lazzaro. Alle parole: « Lazare! Veni foras!!!, Lazzaro, esci dalla tomba! » il buon abate lanciò un vero grido di angoscia, e gli assistenti non poterono trattenersi dal ridere. Il maestro di cerimonia di uno dei nostri Seminari, mi raccontava che durante un viaggio in Italia, aveva ascoltato un Sacerdote dire con voce talmente elevata, stridente, le preghiere della Messa bassa che, entrando in chiesa, aveva creduto che vi si pregasse. Se all’altare, non bisogna parlare troppo forte, bisogna pure evitate con cura il tono di voce languido, biascicato, il tono di voce nasale, o rauco e rude; ci sono Sacerdoti che hanno preso la sgradevole abitudine di dir Messa cavallerescamente, bruscamente; si direbbero piuttosto capitani di dragoni che uomini di preghiera; fanno quasi paura ai bambini. Non è così che parlava Nostro-Signore. Come per il tempo della celebrazione, anche qui c’è un modo giusto da osservare, e bisogna dare al buon DIO, alla Messa, la nostra parola nel modo più perfetto possibile. Nella forma come nel fondo, bisogna rappresentare pienamente GESÙ, il Sacerdote dei Sacerdoti, il Santo dei Santi.  

XXXV

Celebrando la Messa, occorre evitare manie, bizzarrie e singolarità

Si chiamano manie, certe abitudini più o meno singolari che poco a poco si lasciano radicare nella vita di ogni giorno, divenendo quasi un diritto, un nostro modo di fare abituale. Le bizzarre, dappertutto rigettabili, le manie all’altare, sono non solamente proibite, ma assolutamente sconvenienti, inopportune e talvolta anche scandalose. In coscienza, noi non dobbiamo permetterle. Vi sono manie nella posa, nella postura. Io ho conosciuto a Parigi un Sacerdote che, durante tutto il tempo in cui il celebrante resta al centro dell’altare, si teneva su una sola gamba, l’altra ripiegata in aria ed appesa, penso, al polpaccio! Un altro molto anziano, aveva preso l’abitudine bizzarra, tutte le volte che si girava per dire: Dominus vobiscum, di stendere quanto più poteva le braccia a destra ed a sinistra, come un crocifisso, e di salutare profondamente il popolo; inoltre più che dire, cantava: Dominus vobiscum, oremus, etc., con una punta culminante in falsetto su tutti gli “us” e gli “um”. La sua Messa appena si intendeva, anche se si vedeva bene che pregasse di buon cuore. Vi sono dei degni Sacerdoti che prorompono con grande schiamazzo regolarmente in questo tal momento della Messa, né prima né dopo; è sacramentale! Vi sono alcuni che aspirano tabacco, senza mai omettere, alla fine del Credo (cosa che non è notata, che io sappia, nella rubrica; altri più “coscienziosi” aspettano fino all’ultima benedizione; ma giunti qua, si arenano, e la santa tabacchiera, destramente tratta dalla tasca, diviene, sembrerebbe, una sorgente di coraggio e di consolazione spirituale durante l’ultimo Vangelo. C’è poi chi tiene la testa penzoloni o il collo torto; chi dopo aver bevuto il prezioso Sangue, ritiene, per così dire, il Calice a lungo e con strepitio; chi ad un dato momento alza i suoi occhiali sulla fronte, coloro che recitano invariabilmente tali preghiere con un certo tono, ed altri ne impiegano uno diverso; chi durante l’Epistola poggia le mani semplicemente sul Messale o sull’altare, e durante l’ultimo Vangelo, quando devono essere giunte, non si evitano di pulirsi meccanicamente le unghie, etc., etc. Manie nella pronunzia, nel canto, manie nei movimenti; quali esse siano, si evitino queste cattive abitudini con spirito di fede e per amor di obbedienza; e noi celebreremo la Messa più perfettamente ed edificheremo più solidamente i fedeli. Talvolta la mania sfocia in eccentricità, soprattutto negli scrupolosi. Un sant’uomo vivendo in comunità, ebbe un giorno la strana idea di farsi purificare la punta del naso dal servente Messa alla seconda abluzione! Egli credeva che l’Ostia santa gli avesse toccato il naso al momento della Comunione; e, troppo fedele osservatore della rubrica che ordina di purificare con il vino e l’acqua ciò che il Santo Sacramento ha toccato inavvertitamente, mette il suo naso con le quattro dita sopra il Calice, ordinando al povero servente stupito di versargli del vino sulla punta del naso. A sua discolpa, bisogna aggiungere che era un po’ infantile. Dunque evitiamo all’altare ogni singolarità; osserviamo le sante rubriche con esattezza estrema ed una semplicità tutta sacerdotale.