G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (6)
[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]
XXII
Dalle oblazioni fino al Canone della Messa
In vista dei gradi misteri figurati da tutto ciò che precede, la Chiesa vuole che il Sacerdote si ricordi che egli non è dopotutto che un uomo ed un peccatore, indegno di offrire un sì augusto Sacrificio: egli si inchina dunque profondamente, rinnova l’espressione della contrizione per i suoi peccati e l’umiliazione che ne prova; poi si rialza, leva gli occhi e le mani verso il Crocifisso e fa un gran segno della Croce sull’Ostia e sul Calice, per ricordare ancora che il Sacrificio che sta per offrire è lo stesso di quello della Croce, e per sottolineare l’unità di fede e di Religione tra la Legge antica, che rappresenta più direttamente la Patena e l’Ostia, e la Legge della grazia, che rappresenta il santo Calice. Bisogna osservare, in effetti, che il calice è coperto da un velo, che si chiama Palla, e che il vino benedetto è così sottratto allo sguardo del Celebrante, mentre il pane resta visibile e scoperto. Questo significa che il Sacrificio della nuova Alleanza era ancora nascosto agli occhi dell’antico sacerdote, mentre gli era dato di vedere e toccare i sacrifici figurativi e le vittime del culto mosaico. – La Palla, non era un tempo che il Corporale ripiegato sul Calice; per maggiore comodità, si sono fatti del Corporale e della Palla dei veli sacri separati. Questa comunità di origine e di destinazione è la ragione per la quale le Palle devono essere, come il Corporale, di semplice lino bianco, senza ricami; lo si appesantisce un poco per facilitarne l’uso. Il Sacerdote si porta poi al lato dell’Epistola, e là si lava le mani. È un ricordo degli usi antichi: già al momento dell’Offertorio, i fedeli portano all’altare, ed in quantità spesso considerevole, il pane ed il vino del sacrificio, così come dell’olio e della cera per i bisogni del culto divino. Nel nome di Nostro-Signore, il celebrante riceve egli stesso queste offerte; il Diacono, ed il Suddiacono riservano ciò che è attualmente necessario per la Messa; il resto era destinato a nutrire il clero ed i poveri. Il Sacerdote andava dunque naturalmente a lavarsi le mani dopo l’offerta. La Chiesa ha voluto conservare questo lavaggio di mani, per ricordare innanzitutto ai suoi ministri l’estrema purezza di coscienza con la quale essi dovevano servire DIO all’altare. – Il costume di presentare il pane benedetto in questo momento della Messa è un residuo di questa pratica dei tempi antichi. – Tornato in mezzo all’altare, il celebrante si inclina, richiama l’intenzione generale dell’oblazione del Santo-Sacrificio a gloria della Santissima Trinità ed in onore della Santa Vergine, dei santi Apostoli Pietro e Paolo e di tutti i Santi; poi bacia l’altare, si volge verso il popolo e gli domanda di raddoppiare le preghiere, perché il gran momento si avvicina. Egli recita la “Secreta”, orazione così chiamata perché non si recita né ad alta voce né con il canto; essa è simbolo della preghiera interiore e sconosciuta degli uomini, infusa da Nostro-Signore nel cuore dei suoi fedeli. – All’altare, il Sacerdote è tutto in GESÙ-CRISTO; a misura che egli va avanti nella Messa, è sempre più nei cieli e nel Cristo, « in cœlestibus, in Christo; » come dice San Paolo. È là che alza la voce per fare intendere la parola dell’eternità: Per omnia sæcula sæculorum. Egli raccomanda a tutti gli assistenti di elevare con lui i loro spiriti ed il loro cuore ed applicarli al Signore GESÙ; egli rende grazie al buon DIO di tutte le sue misericordie, ricorda il mistero del giorno, si unisce agli Angeli ed agli Arcangeli, alle Virtù dei cieli, alle Potenze, ai Principati, ai Troni, ai Cherubini ed ai Serafini, per GESÙ-CRISTO Nostro Signore, loro e nostro Re; per GESÙ-CRISTO, la Vittima celeste, che si appresta a discendere sull’altare, scortato da tutti i suoi Angeli. Poi abbassando e giungendo le mani, egli si inchina per dire con essi sulla terra, ciò che essi dicono eternamente nel cielo: « Santo, Santo, Santo, è il Signore, DIO degli eserciti. » La Santa Chiesa fonde qui il cantico dei Serafini, con l’Osanna trionfale del popolo di DIO, acclamante il Cristo alla sua entrata in Gerusalemme: « Benedictus qui venit in nomine Domini, Hosanna in excelsis. » La Chiesa angelica e tutta la Chiesa della terra vanno ad unirsi, a raggrupparsi intorno al loro unico Signore GESÙ, nel momento in cui rientra di nuovo, attraverso la mistica porta dell’Eucaristia, nella sua cara Gerusalemme, in mezzo alla sua Chiesa, che è il suo cielo terrestre, al fine di esservi di nuovo offerto in Sacrificio per la salvezza del suo popolo. Ed è così, piuttosto nel cielo che sulla terra, che comincia la parte più venerabile, sublime della Messa, conosciuta con il nome greco di Canone, cioè “regola”, perché le preghiere e le cerimonie che la compongono non variano mai, qualunque sia la Messa che si celebra. – La maggior parte delle preghiere del Canone della Messa, sono di origine apostolica, e sono state affidate alla Chiesa dall’Apostolo San Pietro e dai suoi primi successori. Esse sono così sacre, che sarebbe un errore grave ometterne volontariamente anche la minima parte. A partire del quarto secolo, le preghiere del canone della Messa non hanno ricevuto altra modifica che con l’aggiunta di due parole (Diesque nostros in tua pace disponas, — sanctum sacrificium, immaculatum hostiam.). Il Papa San Gregorio Magno ne è l’autore, e negli Atti del suo Pontificato, si riporta questo fatto come un vero avvenimento, tanto è sacro alla Chiesa stessa il carattere tradizionale delle preghiere del Santo Sacrificio. Se è rigorosamente proibito ai Sacerdoti interrompere le preghiere liturgiche della Messa con delle preghiere personali, a maggior ragione è proibito ogni esclamazione di devozione, durante il Canone. – Io ho una volta sentito in un seminario, un buon uomo affetto da reumatismi, che dall’inizio alla fine della Messa, alzava al cielo tante devote orazioni giaculatorie, a volta pianti e gemiti pii. Si sentiva, ogni tanto, anche durante il Canone, esclamare: « Ah! Signore, io vi amo! Mai sono stato così malato … mio DIO, suscipe spiritum meum!… Mio GESÙ! Miserere! Mio DIO, Santa-Verine, io ve l’offro … Oh! la, là! » etc., etc. – Un giorno, l’autorità diocesana aveva ordinato delle pubbliche preghiere il cui carattere politico spiaceva a quest’uomo, e cominciò la Messa brontolando e senza aver voluto recitare dapprima le preghiere indicate. Nel bel mezzo del Canone ecco che un rimorso lo prese; egli si arresta, riflette; e poi, voltandosi verso il suo servente, gli dice con voce cavernosa e con aria contrita: « Credo che ci sia dell’antipatia, » e scende dall’altare, si mette in ginocchio ed invita tutti alle lunghe preghiere ordinate dal Vescovo (!!!); poi continuò tranquillamente il Canone. Ecco come le persone più sante si espongono a delle cose che materialmente sarebbero dei peccati mortali, a degli inconvenienti realmente ridicoli, per questo solo fatto che non tengono conto che ci siano delle regole austere ed obbligatorie della liturgia. Noi non sapremmo mai insistere tanto su questa obbedienza alla lettera. Al di fuori di questo, non c’è che liberalismo liturgico.
XXIII
Dal Canone della Messa fino alla Consacrazione
Il Sacerdote comincia queste sante preghiere, profondamente inchinato in mezzo all’altare che egli in seguito bacia, attingendo da GESÙ, nel seno del Padre, la benedizione che effonde con un triplice segno di Croce sul pane ed il vino del Sacrificio già tante volte benedetti e santificati. Li chiama anche non più solamente doni, offerte, ma ancora: « sacrifici santi e senza macchia. » La triplice benedizione significa il DIO unico, Padre, Figlio e Spirito Santo, che benedice e santifica le oblazioni con la Croce del Redentore. Tre nomi vengono qui dati a queste oblazioni che stanno per diventare il Corpo ed il Sangue di GESÙ: “dona” , perché è il dono gratuito e misericordioso del Padre; “munera”, perché è il tributo della Religione, di adorazione, di azione di grazie, di preghiere ed espiazione, che il Verbo incarnato ha pagato alla sovrana maestà di DIO; “sancta sacrificia”, perché il tributo non è stato pagato se non con il sacrificio, ed il Sacrificio non è stato offerto da GESÙ che nell’ardore dello Spirito Santo, il quale è stato il fuoco dell’olocausto, in cui « GESÙ si è offerto al Padre come un agnello immacolato. » Queste parole dona, munera, sacrificia, sono al plurale e non al singolare; perché benché il sacrificio di GESÙ-CRISTO, che sta per essere rinnovato sull’altare, sia unico, si presenta nondimeno accompagnato da numerosi sacrifici dei membri del Salvatore, che sono tutti i suoi fedeli, e che formano con Lui una sola Persona morale, « Christus totus, il Cristo intero, » come dice Sant’Agostino. Le oblazioni cambiate in Corpo e Sangue del Salvatore, hanno come scopo finale, di passare, con la Comunione, nei fedeli, e consumare questo mistero di unione, questa unità di Sacrificio. – Il Sacerdote prega nominativamente per il Papa, per il Vescovo e la diocesi e per tutti i fedeli che egli presenta a Dio come facente uno con Lui nella carità. (In Francia ed in qualche altro Paese, si aggiunge, per espressa concessione della Santa Sede, il nome del Sovrano, dopo quello del Vescovo. Ma occorre notare qui una importante osservazione. Un tempo, quando la società era costituita regolarmente e cattolicamente, il Re Cristiano faceva ufficialmente parte della Chiesa a titolo di « Vescovo di fuori, » braccio destro, difensore e figlio primogenito della Chiesa nel suo regno! A causa di ciò si doveva dire: « Una cum Papa nostro N. et Antistite nostro N. e rege (o imperatore) nostro N. et omnibus catholicæ et apostolicæ fidei cultoribus. ». Ora che l’ordine provvidenziale della società è scompaginato, il Sovrano non fa più parte ufficiale della Chiesa che a titolo di semplice battezzato e non più a titolo gerarchico, soprattutto quando non è per nulla consacrato. Così nella concessione Apostolica si è stabilito di aggiungere davanti al nome del Sovrano una parola che sembra insignificante a prima vista, ma che esprime perfettamente il cambiamento della situazione che veniamo a segnalare. Si deve dire « et PRO Rege (o imperatore) N … ». questo “pro” è sufficiente a separare il nome del Sovrano moderno dal nome del Papa e del Vescovo, oramai soli, gerarchi o capi ecclesiastici, ed il povero Sovrano decaduto dal suo antico e sublime privilegio, non è più considerato ufficialmente dalla Chiesa che come un semplice Cristiano, per il quale non è espediente pregare nominativamente, a causa dell’immensa influenza che può egli avere per il bene come per il male negli affari della Chiesa. In questo punto del Canone quindi, si è stabilito di dire: « Una cum Papa nostro N. et Antistite nostro N. et pro imperatore o rege nostro N., et omnibus, etc. » Questa formula è obbligatoria; è stata decretata dalla Congregazione dei Riti). – A questa commemorazione della Chiesa militante, si aggiunge immediatamente la commemorazione della Chiesa trionfante. Con le mani unite e stese, si fa memoria solenne della Santissima Vergine, Madre di DIO, di tutti gli Apostoli, dei primi Papi e dei principali Martiri della Chiesa di Roma, Madre e Maestra di tutte le Chiese. Egli entra in comunione intima con tutta la corte celeste, tutti i beati abitanti si inchinano davanti a noi in GESÙ-CRISTO, realmente e corporalmente presente sui nostri altari. Il Sacerdote congiunge le mani in segno di questa unione religiosa della Chiesa del cielo e della Chiesa della terra. Successivamente, stendendo le mani, con i due pollici sempre incrociati (il destro sul sinistro, perché la Croce è il punto di unione dei due Testamenti, il punto di unione del cielo e della terra), egli copre per così dire l’Ostia ed il Calice, caricandosi prima di tutti i peccati che si è degnato di espiare sulla Croce, l’Adorabile Vittima del Sacrificio. Già il Sommo Sacerdote di Israele stendeva allo stesso modo le mani su due capri, caricandone uno di tutti i peccati del popolo, e per questa ragione lo votava alla morte, e liberando l’altro, facendolo condurre nel deserto, dopo averlo ornato con strisce rosse, segno del sangue sparso per la redenzione del popolo. Secondo San Cirillo di Gerusalemme, san Dionigi l’Aeropagita ed altri antichi Padri, questi due capri, l’uno sacrificato, e l’altro mandato vivente nel deserto, profetizzavano e simbolizzavano il divino Redentore, immolato per i peccati del suo popolo e resuscitato per comunicare ai suoi fedeli la vita nuova, la grazia, la salvezza nello Spirito-Santo. Il deserto è il mondo privo di DIO, a causa del peccato. Ma l’imposizione delle mani sull’Ostia ed il Calice, cela un mistero ancora più profondo, vale a dire l’incubazione dello Spirito Santo, Creatore e Santificatore di queste oblazioni che, con la sua virtù onnipotente, vengono transustanziate nel Corpo e Sangue di GESÙ. Le antiche liturgie greche ritornano spesso su questa misteriosa incubazione dello Spirito-Santo, nel momento del Mistero eucaristico. E così, il prete, dopo aver convocato tutta la Chiesa degli Angeli e dei Beati al divino Sacrificio, fa scendere sulle oblazioni lo Spirito-Santo stesso, lo Spirito di GESÙ, lo spirito di vita eterno che è la vita, la gioia e la beatitudine degli Angeli e dei Santi, affinché si degni di operare con le sue mani consacrate l’ineffabile miracolo e mistero della transustanziazione. Il Sacerdote si raccoglie e porta davanti al petto le sue mani giunte; il momento solenne si avvicina. Egli traccia dapprima tre grandi segni di Croce sia sull’Ostia che sul Calice, poi un altro segno di croce separatamente sull’Ostia ed un altro sul Calice, pregando il Signore che si degni di fare di queste sante oblazioni il Corpo ed il Sangue del suo unico Figlio, GESÙ-CRISTO. I tre grandi segni di Croce che il Sacerdote ha tracciato sulle due oblazioni unite ricordano che il mistero di GESÙ-CRISTO, riassunto e contenuto interamente nel Sacrificio dell’Eucaristia, è stato, fin dalle origini, la benedizione del mondo, il quale è stato creato in vista del Cristo avvenire; che questo mistero è stato realizzato, nel mezzo dei tempi, dal primo Avvento del divino Salvatore; ed infine che sarà consumato dal secondo Avvento, quando GESÙ e la sua Chiesa trionferanno per sempre. Per la virtù onnipotente della Santissima Trinità e per il segno della Croce, il Sacerdote domanda che la sua oblazione sia benedetta dapprima « benedictam» dal Cristo che la realizza in Sé medesimo, perché la sua incarnazione redentrice è sostanzialmente il decreto eterno del Padre, e GESÙ è in Persona il libro della vita nel quale saremo tutti iscritti; infine, che l’oblazione eucaristica sia ratificata, consumata «ratam» dalla virtù dello Spirito-Santo che coprendola, avvolgendola con la sua ombra, la transustanzia in maniera ineffabile. Tracciando poi il segno della Croce sull’Ostia dapprima, poi sul Calice, il Sacerdote chiede che il pane diventi il Corpo, e che il vino diventi il Sangue di GESÙ-CRISTO.Dopo di questo non gli resta che far memoria della Cena del Signore, e consacrare, come GESÙ, con GESÙ ed in GESÙ. Dopo il Sanctus, il servente Messa ha dovuto accendere un cero all’esterno dell’altare, dal lato dell’Epistola, in segno della fede viva del popolo Cristiano nei santi misteri che si stanno operando. Alla Messa bassa pontificale, come alla Messa solenne, si accendono due ceri, uno a destra, l’altro a sinistra (Benché questa rubrica sia in pieno vigore per i due ceri o torce della Messa bassa pontificale, essa è decaduta quasi dappertutto e desueta; ed anche a Roma si accenda raramente, alle Messe dei Sacerdoti semplici, il cero del Sanctus. Io credo che sia meglio osservare questo uso; ma è certo che non sia più obbligatorio). Tutti i preparativi sono terminati; il momento santissimo della Consacrazione è venuto; il silenzio più assoluto deve regnare in tutta la chiesa; tutti devono inchinarsi profondamente attendendo la venuta del Re degli Angeli, del Signore del cielo e della terra.
XXIV
La Consacrazione e l’Elevazione.
Solo in piedi tra il popolo prosternato, il Sacerdote, unendosi più che mai al Sacerdote eterno, che abita e che opera in lui, prende l’Ostia tra il pollice e l’indice di ciascuna delle sue mani consacrate; egli ricorda che GESÙ, prima di cambiare nel cenacolo, il pane nel suo Corpo, alzò gli occhi verso il cielo, benedisse il pane e proferì le parole della Consacrazione: egli fa lo stesso, o piuttosto non è lui, ma è GESÙ che fa tutto questo per lui, con lui ed in lui. Dopo un’ultima benedizione, un ultimo segno di croce dato a questo pane predestinato, egli si inclina sull’altare e con la sua bocca, il Figlio di DIO pronunzia le parole divine, onnipotenti, che cambiano la sostanza del pane nella sostanza stessa del Corpo vivente e celeste di GESÙ-CRISTO. Subito il Sacerdote fa la genuflessione, lentamente, con profonda religione, con gli occhi sempre fissati sull’Ostia adorabile. Poi, rialzatosi e tenendo la santa Ostia con le due mani, la eleva, con gran rispetto, per mostrarla al popolo e fargliela adorare. Come è grande! Come è bello! Ecco l’antico ed il nuovo Testamento uniti nella stessa fede, nella stessa adorazione, mostrando il loro unico Signore, il loro CRISTO prediletto, il Mediatore della loro Religione, la Vittima della loro salvezza, il loro Creatore, il loro DIO. È il primo avvento di GESÙ. Ecco la Chiesa degli Angeli adorante, in unione con la Chiesa della terra, il suo Signore, il suo Re, il suo DIO, corporalmente presente sotto le specie eucaristiche, presente con esse sulla terra, e nondimeno sempre immutabile in cielo nella sua gloria! Ecco la realizzazione dell’antica visione del Profeta Ezechiele, in cui il Cristo venturo gli fu mostrato in mezzo al fuoco dello Spirito Santo, portato dai quattro grandi Serafini che presiedono all’organizzazione del mondo materiale in generale, ed in modo sovreminente, alla santissima umanità del Salvatore, simbolizzata e profetizzata dalla creazione del sole al quarto giorno. GESÙ, nel Santo Sacramento dell’altare, è il sole del firmamento della Chiesa; il suo sacro Corpo, adorabile e deificato, è il riepilogo delle meraviglie del mondo della materia: in cielo Egli è sostenuto ed adorato dai quattro Serafini della visione; sulla terra, sull’altare è sostenuto dalle quattro dita consacrate del Sacerdote, ministro terrestre del suo grande Sacrificio e del suo grande Sacramento. Il Sacerdote deposita con grande rispetto il Santo Sacramento sul Corporale e lo adora una seconda volta con una genuflessione. Poi, rialzandosi, prende il Calice con le sue due mani riunite, come GESÙ l’ha preso nel Cenacolo, lo benedice con Lui e per Lui, si inclina sull’altare e proferisce a voce bassa le parole con le quali GESÙ ha consacrato per primo, e continua a consacrare con i suoi Sacerdoti, il vino nel suo prezioso Sangue. Da questo momento, la sostanza del vino, benché conservi il suo colore, il suo gusto, le sue proprietà e le sue apparenze naturali, si trova cambiato, per l’onnipotente virtù del Signore, nella sostanza stessa del suo Sangue divino. E come dopo la resurrezione, questo Sangue è inseparabile dal Corpo, dall’Anima e dalla divinità di GESÙ, GESÙ intero, GESÙ vivente, GESÙ glorificato, è là presente nel Calice, sotto le apparenze del vino, ed in ciascuna delle gocce che lo compongono. Naturalmente è lo stesso per la santa Ostia e le sue minime particelle: ognuna di esse contiene il Verbo incarnato tutto intero, vivente e glorioso. Il Sacerdote, durante la consacrazione del Calice, lo tiene con la mano destra e con la mano sinistra solo lo sostiene in basso: alla nuova Alleanza appartiene in effetti direttamente il Sacrificio dell’Eucarestia, consumato dalla consacrazione della seconda specie sacramentale; l’antica Alleanza ha avuto, come principale missione, quella di prepararlo. Gli appartiene, è vero, ma a titolo meno immediato. Queste due mani ricordano ancora, amiamo ripeterlo, l’unione degli Angeli e degli uomini, della Chiesa del cielo e della Chiesa della terra, nella Religione che riassume il Sacrificio eucaristico del Figlio di DIO. La mano superiore esprime la Chiesa del cielo; l’altra la Chiesa della terra, ancora militante e soggetta all’infermità. – Il Sacerdote fa con il Calice ciò che ha fatto con la santa Ostia; egli l’adora; lo eleva e lo presenta all’adorazione dei fedeli; dopo averlo ricoperto, stende le braccia e le mani, come in precedenza, e continua sempre, con tono basso, le preghiere del Canone. Al Sacerdote è proibito, tanto sante sono le parole della Consacrazione, lasciare che si intendano intorno. Si dice generalmente che sarebbe peccato grave pronunziare queste parole a voce alta perché le possano ascoltare a tre o quattro passi. Non c’è nulla di più sacro, di più formidabile, di più ineffabile nella lingua umana; queste sono le stesse parole del Verbo incarnato, pronunciate dalle labbra dell’uomo: nessun uomo deve ascoltarle! – Io assistevo un giorno alla Messa di un Sacerdote, del resto molto rispettabile e di molto zelo per le anime; io sentivo, con meraviglia e pena, pronunziare forti le parole della Consacrazione, tanto che sembrava pregasse. Io non mi sono potuto esimere, dopo la Messa, dal seguirlo in sacrestia e richiamare, con ogni riguardo possibile, la sua attenzione su una così grave violazione. « Io vi ringrazio, mi rispose con una strana bonomia; ma io do poca importanza a queste cose! » Non è stupefacente? E, lo ripeto, era un uomo molto degno. Soltanto, occorre riconoscerlo, egli aveva, in fatto di obbedienza e di scienza liturgica, o una negligenza o una ignoranza imperdonabile! E c’è un altro abuso che si presenta molto spesso: temendo di non pronunciare sufficientemente le parole sacramentali, certi Sacerdoti fanno, nel pronunziarle, degli sforzi di gola molto penosi da sentire e veramente molto sconvenienti. Per quanto incomparabilmente sante che esse siano, queste parole devono essere dette dal Sacerdote assai semplicemente, soavemente come quelle del Figlio di DIO alla santa Cena; noi dobbiamo proferirle con grande amore per GESÙ e per le anime. Mi si è parlato di un povero Curato molto scrupoloso che restava talvolta (è un fatto storico!) tre quarti d’ora a sudare sangue ed acqua, e a riprendersi fino a dieci, dodici, quindici volte; lo si sentiva, anche questi, fino al centro della chiesa; egli si eccitava, si incoraggiava da sé, interrompendo le divine parole del Sacramento con interiezioni assolutamente proibite, come queste: « Andiamo! … Bene! … è così! … Si! » etc. – La semplicità nella pietà e nell’obbedienza liturgica è dunque una buona cosa! Consacriamo come GESÙ, con GESÙ, in GESÙ.