CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (25)

Mons. J. J. Gaume:  

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO, VOL. I

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXIV.

(seguito del precedente.)

Numa, scimmia di Mosè — Nuovo tratto di parallelismo: lo Spirito Santo, custode permanente delle leggi sociali della Città del bene — satana, sotto la forma del serpente, custode permanente delle leggi sociali della Città del male — serpente-dio, adorato dappertutto: in Oriente, a Babilonia, in Persia, in Egitto, in Grecia; le Baccanti ad Atene, in Epiro, a Deio e a Delfo: descrizione dell’oracolo di Delfo — A Roma, i serpenti di Lavinium — Il serpente d’Epidauro nell’isola del Tevere — Culto del serpente nelle Gallie e presso i popoli del Nord — Universalità di questo culto nell’antichità pagana — Sua cagione — I serpenti del tempo d’Augusto — Le vestali — Serpenti di Tiberio, di Nerone, d’Eliogabalo — Delle signore Romane.

Per ciò che risguarda l’ispirazione delle leggi nella futura capitale della Citta del male, niente manca alla parodia del Sinai. Ella va continuandosi nella loro promulgazione, come pure nella sua presenza sensibile e permanente del legislatore primitivo, in mezzo al suo popolo, tanto per assicurarne l ‘osservanza, quanto per darne l’autentica interpretazione. Ognun sa con quale apparato di cerimonie religiose, di sacrifici, di purificazioni solenni, Mosè proclamasse la legge ricevuta dal cielo nel misterioso colloquio della montagna. Ei non agì per altro modo che mediante l’ispirazione divina. Il suo scopo evidente era di rendere la legge rispettabile, facendola ricevere con una sottomissione religiosa, e praticare con una fedeltà costante. Numa ispirato da satana, ricorre agli stessi mezzi. Per farsi accettare dai Romani, egli e le sue leggi, lo vediamo, secondo Plutarco, servirsi dell’aiuto degli dei, di solenni sacrifici, di feste, di danze e processioni frequenti, che celebrava egli stesso; nelle quali oltre alla devozione vi era del passatempo misto al diletto. Qualche volta metteva dinanzi ai loro occhi degli spauracchi di dei, dando loro ad intendere che aveva visto qualche strana visione, o che aveva udito delle voci, con le quali gli dei gli minacciavano di qualche grande calamità, per sempre abbassare i loro cuori sotto il timore dei medesimi. Cosi pure, Numa dava ad intendere che era amato da non so quale dea o ninfa alpestre; ch’ella teneva con esso lui segreto commercio, come si è detto; e che egli conversava con le Muse, e aveva con esse reciproca corrispondenza, e però egli riferiva alle Muse la maggior parte delle sue rivelazioni.(Vita di Numa, come sopra, p. 236). » Che Numa abbia fatte tutte queste cose, niuno lo pone in dubbio. Ma che tutte queste cose non siano altro che una ciurmeria, come Plutarco sembra insinuare, è un’altra questione. Prima di tutto Varrone, il più dotto dei Romani, e sant’Agostino il più dotto dei Padri della Chiesa, affermano positivamente il contrario. Quindi, Plutarco non offre nessuna prova del suo asserto; e finalmente egli stesso si contradice. Non ha egli in una opera ben nota, proclamato la verità degli oracoli? Forse non è altro che una ciurmeria della quale nessuno si è accorto? Ma come mai questa stessa ciurmeria si rinviene presso tutti i popoli? E come tutti i popoli hanno preso una ciurmeria per una realtà? Risolvere queste questioni in un senso non cattolico, è negare la storia e la Rivelazione. Ma negare la storia e la rivelazione è negare la luce, e condannarsi all’abbrutimento. – Passiamo ad un altro tratto di parallelismo. Il Signore non si contenta di dare la sua legge. Egli medesimo se ne fa il custode e l’interprete. Sotto questo aspetto egli rimane in mezzo al suo popolo in un modo sensibile e permanente. Israele sa che vi è, come custode invisibile ma vigilante, un oracolo sempre pronto a rispondere. Se in qualche materia sorge una seria difficoltà, se ne domanda al Signore la soluzione. Occorre dare l’assalto ad una città, intraprendere una guerra, segnare un trattato? a lui pure s’indirizzano. Egli stesso indica i mezzi per ottenere il successo, per fargli i rendimenti di grazie, ed i castighi da infliggere ai violatori della sua legge. – Il serpente legislatore imita tutto ciò nella Città del male. Egli è il custode e l’interprete della sua legge, come Jehovah della sua. Come il Dio del Tabernacolo e del Tempio ricorda sempre con la sua terribile maestà, il Dio del Sinai, cosi satana con la forma sensibile sotto la quale si mostra, tiene a ricordare il vincitore del paradiso terrestre. Pronto sempre a rendere oracoli, egli ispira a quando a quando, il timore e la confidenza, decide della pace e della guerra, indica i mezzi di successo, e segna i sacrifici per rendimento di grazie, o d’espiazione ch’egli esige. Il suo popolo lo sa: e, nelle circostanze importanti, non manca di ricorrere a lui per ottenere lume e protezione. La filosofia dell’istoria dei popoli pagani è scritta in questi versi. Alla catena aggiungiamo la trama, ed avremo il tessuto completo. Fra tutti i fatti strani, consegnati negli annali del genere umano, non sappiamo se ve ne sia uno più strano di quello che noi stiamo per raccontare. Oltre le mille differenti forme sotto le quali i popoli pagani, tanto antichi che moderni, hanno onorato il demonio, tutti lo hanno adorato sotto la forma privilegiata del serpente, serpente vivo, serpente in carne e ossa, serpente che rende oracoli; e ciò non una volta, ma sempre. Lo vedemmo già; per i popoli dell’alto Oriente, vicini al paradiso terrestre, i Persiani, i Medi, i Babilonesi, i Fenicii, il Gran Dio, il Dio supremo, il padre delle leggi, l’oracolo della sapienza, era il serpente con la testa di sparviero. A lui i più bei templi, il fiore dei sacerdoti, le vittime scelte, la soluzione delle difficili questioni. I secoli non gli avevano fatto perdere nulla della sua gloria e della sua autorità. A tempo di Daniele il suo culto si era conservato in tutto il suo splendore. Il celebre tempio di Belo, fabbricato in mezzo a Babilonia, serviva di santuario ad un enorme serpente, che i Babilonesi circondavano delle loro adorazioni. (Dan., XIV, 22 e seg.). Sulla sommità di questo tempio di colossali proporzioni, appariva la statua di Rhèa. Questa statua d’oro, fatta a martello, pesava cento talenti, 31 mila kilogrammi circa. Seduta sopra un carro d’oro, aveva la dea ai suoi ginocchi, due leoni, e accanto a lei due enormi serpenti d’argento, ciascuno dei quali pesava trenta talenti, cioè 330 kilogrammi. (Diodoro di Sicilia, Ist., lib. XI, c. IX) Queste mostruose figure annunziavano di lontano la presenza del serpente vivo, e la gigantesca idolatria della quale era l’oggetto. – Per gli antichi Persi, il gran dio era il serpente con la testa di sparviero. Ora adorato come genio del bene, e ora come genio del male; sotto quest’ultimo aspetto era la causa di tutti i mali dell’umanità. La tradizione gli dava il nome d’Arimane. Questo mostro dopo aver combattuto il cielo, sorge sulla terra alla testa di una turba di geni malefici, sotto la forma di serpente; ricopre la faccia del mondo di animali velenosi, e s’insinua in tutta la natura. Le tradizioni cinesi fanno risalire l’origine del male alla istigazione di una intelligenza superiore, ribellata contro Dio e rivestita della forma del serpente. Tchi-seou è il nome del drago. Finalmente, allorché il Giappone ci dipinge la scena della creazione, prende immagine di un albero vigoroso, intorno a cui si avvolge un serpente. (G. di Mousseaux, Gli alti fenomeni dellct magìa, Parigi, 1864, in-8, p. 45). – L’Egitto ci offre, tratto tratto, lo stesso Dio. e lo stesso culto. « Il simbolo di Cnoufi, ossia l’anima del mondo, dice il signor Champollion, è dato sotto la forma di un enorme serpente, montato su gambe umane, e questo rettile, emblema del buon genio, il vero Agathodæmon è spesso barbuto. Accanto a questo serpente i monumenti egiziani portano l’iscrizione: dio grande, dio supremo, signore della regione suprema. 2 »2 (Panth. egypt., testo 3 e lib. II, p. 4). Molto prima di Champollion, Eliano, parlando della religione degli Egizi, aveva detto: « Il serpente venerabile e sacro, ha in sé qualche cosa di divino; e non è bene trovarsi in sua presenza. Così a Meteli in Egitto, un serpente abita una torre, dove riceve gli onori divini. Egli ha i suoi sacerdoti ed i suoi ministri, la sua tavola e la sua tazza. Ogni giorno versano nella sua tazza dell’acqua di miele, mescolata con farina, e si ritirano. Il giorno appresso essi ritrovano la tazza vuota. « Un giorno, il sacerdote più anziano, spinto dal desiderio di vedere il Drago, entra solo, mette la tavola del nume, ed esce dal santuario. Arriva tosto il Drago, sale sulla tavola e fa il suo pasto. Tutto ad un tratto il sacerdote apre, facendo rumore, le porte, che secondo l’uso aveva avuto cura di chiudere. Il serpente scorrucciato si ritira; ma il sacerdote avendo visto per sua disgrazia, quegli che desiderava vedere, diventa pazzo. Dopo aver confessato il suo delitto, perde l’uso della parola e cade morto. » (Aelian., De natur animal. lib. XI, c. XVII, ediz. Bidot, 1858). – Il celebre papiro Anastasi, recentemente scoperto in Egitto, conferma le asserzioni di Eliano, di Clemente Alessandrino e di Champollion. Esso dice: « Non bisogna invocare il gran nome del serpente altro che in una assoluta necessità, e quando non si ha nulla a rimproverarsi. Dopo alcune formule magiche, entrerà un dio con la testa di serpente che darà i responsi. » Che il demone possa dare la morte, basta a provarlo il ricordare nella sacra antichità l’esempio dei figli di Giobbe; nell’antichità profana, il passo dove Porfirio confessa che il dio Pane, quantunque fosse buono, appariva sovente ai coltivatori in mezzo ai campi, e che un giorno ne aveva fatti perire da nove, tanto essi erano stati colpiti di terrore per il suono terribile della sua voce, e per la vista di quel formidabile corpo che con impeto si slanciava. » (Apud Euseb Prαp. evang lib. I, c. VI. – La testimonianza che abbiamo citata del vescovo di Mantchouria, conferma che presso i moderni pagani, Satana non ha niente perduto della sua autorità omicida. Quanto a quel sacerdote fulminato per aver visto il suo Dio, ricorda in un modo così vivo, la proibizione di Jehovah, e la morte dei Bethsamiti che basta soltanto fare osservare la parodia l’usurpatore della divinità ha la sua arca dell’alleanza; ei vuole esservi rispettato come Jehovah nella sua: e nome Jehovah, punisce di morte il temerario che osa alzare gli occhi su di lui. Quel terribile santuario non era in Egitto la sola abitazione del serpente. In quel paese di primitiva idolatria, non si vedevano che serpenti adorati o familiari. I loro templi s’innalzavano in tutti i punti del territorio. Ivi, come a Babilonia si nutrivano con cura, si adoravano, e si consultavano. Gli egizi gli custodivano nelle loro case, gli guardavano con piacere, gli trattavano con deferenza e gli chiamavano a prender parte ai loro pasti. « In nessun luogo, dice Filarco, il serpente era stato adorato con tanto fervore. Nessun popolo mai ha uguagliato l’egizio nell’ospitalità data ai serpenti. » (Apud Aelian. lib. XVII, c. V). Per conseguenza il serpente entrava nell’idea o nella rappresentazione di ogni autorità divina ed umana. « Come segno di divinità, dice Diodoro siculo, le statue degli dei erano circondate da un serpente; lo scettro dei re, in segno di regia potestà; le berrette dei sacerdoti, in segno di potestà divina. »  (lib . V) Le statue di Iside, particolarmente, erano coronate di una specie di serpenti di nome thermuthis, che si consideravano come sacri, ed ai quali rendevansi grandi onori. [Panth. egypt., di Champollion, lib. II, p. 4 — Vedi in questa opera, la rappresentazione degli dei egiziani.]. – Secondo gli egizi, questi serpenti erano immortali, servivano a discernere il bene dal male; si mostravano amici della gente dabbene, e non davano la morte che ai cattivi. Non eravi angolo del tempio, ove non vi fosse un piccolo santuario sotterraneo destinato a questi rettili, che venivano nutriti con del grasso di bove. [Aelian.,De natur. Animal. lib. X, c. xxxi ; e Diod. Sicul., ubi supra]. Di qui quelle parole così note di Clemente Alessandrino: « I templi egizii, i loro portici ed i loro vestiboli sono magnificamente costruiti; le corti sono circondate di colonne; marmi preziosi e brillanti di vari colori ne adornano le mura, di modo che tutto è confacente. I piccoli santuarii rifulgono per lucentezza d’oro e d’argento d’electron, pietre preziose dell’India e dell’Etiopia: tutti sono ornati di tende tessute d’oro. Ma se voi penetrate nel fondo del tempio e vi vien voglia di cercare la statua del nume al quale é consacrato, un pastoforo o qualche altro inserviente del tempio, si avanza con un’aria grave cantando un paean in lingua egizia, e solleva alquanto il velo come per mostrarvi il nume. Che cosa vi vedete voi? Un gatto, un coccodrillo, un serpente! Il dio degli Egizi comparisce…. è una bestia spaventevole che si rotola sopra un tappeto di porpora. » [Champollion, ibid.]. – Il dotto filosofo avrebbe potuto aggiungere: un caprone. Difatti satana aveva condotto l’umanità sino all’adorazione di questo immondo animale, sotto i nomi diversi di fauno, di satiro, di becco, di peloso, pilosi, come lo appella la Scrittura. « Il culto del capro, dice il dotto Jablonski, non era speciale alla città egiziana di Mendès; tutto l’Egitto lo osservava, e tutti gli adoratori avevano presso di sé il ritratto più o meno fedele al loro dio. Il suo domicilio principale lo aveva anche a Mendès, prefettura della quale egli era il dio tutelare. Il suo tempio vi era grande e splendido, e ivi soltanto era un becco vivo e sacro. Esso era posto alla pari degli otto grandi numi anteriori ai dodici altri, » Jablonski, Pantheon egiziano, Jib. II, c. VII] e onorato da pratiche che ci asterremo dal descrivere. Come Eliano ce lo insegna, fosse gatto, capro, o coccodrillo, il dio principale era sempre accompagnato da un corteggio di serpenti. L’Egitto era dunque appunto la terra del serpente. Esso regnava tanto sulla vita pubblica che sulla vita privata, con una potenza, della quale il Cristianesimo ci ha messo nella felice impossibilità di misurare l’estensione. Sarebb’egli superfluo l’attribuire i prestigi eccezionali, riferiti nella Scrittura, a quelle relazioni più consuete e più intime che in nessun altro paese, dei medium egiziani col terribile padre della menzogna? Poiché è certo che il paganesimo occidentale è venuto dal paganesimo orientale, non ci dovremo meravigliare se troviamo il culto solenne del serpente nella Grecia, nell’Italia ed anche presso i popoli del Nord. E qual culto, gran Dio! Nei baccanali aveva per iscopo di celebrare l’alleanza primitiva del serpente con la donna. Ascoltiamo Clemente d’Alessandria: « Nelle orge solenni in onore di Bacco, i sacerdoti che si direbbero punti da un estro furibondo, strappano carni palpitanti, e coronati di serpenti, invocano Èva con urla acutissime, Èva che prima aprì la porta all’errore. Ora, l’oggetto particolare dei culti bacchici, è un serpente consacrato da riti segreti. Perciò, se volete sapere proprio il significato della parola Èva, voi troverete che pronunziato con una forte aspirazione, Beva vuol dire serpente femmina. » [Cohortat. Ad Gentes, c. II]. – Questa alleanza di continuo ricordata, celebrata, figurata, compiuta nella iniziazione ai misteri di certi culti, era cantata dalla poesia, e raccontata dalla storia, che non ardiva rivocarla in dubbio, né in sé medesima, né nelle sue conseguenze. Siccome non v’è niente di nuovo sotto il sole, e che la religione di satana ha sempre lo stesso fine, si può affermare che è nel contrattarla, che le giovinette divenivano nell’antichità pagana, come oggi in Africa, sacerdotesse del serpente. [Arnob., lib. V; …Vedi Boettiger, Sabina t. I, p. 454; xx, 2, 15, 16; e num. xxv, 2; e Lamprid. in Adrian]. Qualunque si fossero queste infamie, indicate qui per ricordare al mondo l’indicibile degradazione a cui satana aveva condotto l’uinanità pagana; l’infinita riconoscenza che dobbiamo al Verbo redentore, e la profonda capienza della Chiesa nelle sue prescrizioni antidemoniache; la venerazione, di cui l’odioso rettile godeva tra i Greci, era tale che Alessandro si faceva gloria d’averlo avuto per padre. Infatti le sue medaglie lo rappresentano sotto la forma di un fanciullo che esce dalla gola di un serpente. [Camer., Medit. Mst., p. n, c. ix, p. 81. — Vedi intorno a questo fatto curiosi particolari in Plutarco, Vita Alexand.]. Nessuno animale ha ottenuto in Grecia gli onori divini, fuorché il serpente. In questa terra, pretesa cuna della civiltà, egli aveva un grande numero di templi. Gli Ateniesi conservavano sempre un serpente vivo, e lo riguardavano come il protettore della loro città: parodia di Jehovah, custode del suo popolo nell’arca dell’alleanza. Essi gli attribuivano la virtù di leggere nell’avvenire. Per questo essi ne nutrivano dei domestici, allo scopo di aver sempre a loro disposizione i profeti e le profezie. [Pausania, lib. II, p. 175, e Dizionario della Favola, art. Serpenti.]. Volendo Adriano continuare con magnificenza questo culto, cosi glorioso per la sapiente Atene, fece fabbricare in questa città un tempio splendidissimo d’oro e di marmo, la cui divinità fu un gran serpente portato dall’India. [Dione, in Adriano]. Abbiamo dunque avuto ragione di dirlo, né  cesseremo di ripeterlo, che nei bei giorni della Grecia, ed altresì a tempo d’Adriano, la civiltà d’Atene, la metropoli dei lumi, almeno nei collegi, era inferiore alla civiltà di Haiti, dove si condanna a morte come ben tosto vedremo, gli adoratori del serpente. Secondo Plutarco, il culto del serpente era osservato nella Tracia, sino al delirio, dagli Edonesi. « Olimpia, dice egli, madre di Alessandro, emulando più ancora delle altre quelle invasioni di spirito divino, e portandosi con maniera più barbarica in quegli entusiasmi, traeva nelle sacre solennità grandi serpenti resi ammansiti, i quali spesse volte strisciando fuori dell’ellera ed i mistici canestri, e rivolgendosi intorno ai tirsi delle femmine ed alle ghirlande, sbigottivano gli uomini. » [Vita di Alessandro, traduzione del Pompei, t. III, p. 292]. Le loro grida erano la continua ripetizione di quelle parole : Evoe, sapoe, flues, altis. Presso gli Epiroti, l’orribile rettile godeva degli stessi onori e della stessa fiducia. Il suo santuario era un bosco sacro, circondato da muri. Una vergine era la sua sacerdotessa. Essa sola aveva accesso nel terribile recinto. Essa sola poteva portare da mangiare agli dei e interrogarli sull’avvenire. Secondo la tradizione del paese questi serpenti erano nati dal serpente Pitone, signore di Delfo. [V. Dizionario della Favola e secondo V opera ; Dio e gli dei, v. I, del Cavaliere Desmousseaux]. A Deio, Apollo era adorato sotto la forma di un drago che rendeva durante l’estate oracoli senza ambiguità. A Epidauro, il dio Esculapio era un serpente. Lo si credeva padre di una razza di serpenti sacri, la cui colonie epidauriche avevano cura di involare con esse un individuo che installavano nel nuovo loro tempio. [Aelìan.j lib. XI, c. II]. – Che sino dalla più remota antichità vi fosse stato a Delfo un mostruoso serpente tenuto per un dio, è ciò che affermano i primi abitanti del paese. Ancorché secondo la favola questo serpente fosse stato ucciso da Apollo, rimane pur sempre, che Delfo era divenuto il più celebre luogo fatidico dell’antico mondo. Sotto una forma o sotto un altra, l’antico serpente vi regnava da padrone, e di là su tutta la Grecia e sopra una gran parte dell’Occidente. Era tale la fiducia ch’egli ispirava, che le città greche ed anche i principi stranieri, mandavano a Delfo i loro più preziosi tesori, e gli ponevano in deposito sotto la protezione del dio rettile. Per un nuovo insulto a Colei che doveva un giorno schiacciargli il capo, a Delfo come in Epiro, a Lavinium e dapertutìo, satana voleva una vergine per sacerdotessa; e come la trattava! Essendo da prima giovine, dové più tardi, a causa della lubricità degli adoratori, essere di un età matura. Allorché il Nume voleva parlare, le foglie di un lauro piantato davanti al tempio si agitavano; lo stesso tempio tremava sin nelle fondamenta. Dopo aver la Pitia bevuto alla fonte di Castalia, condotta dai sacerdoti entrava nel tempio e si avanzava verso l’antro, che era rinchiuso nel tremendo santuario. Parecchi autori hanno scritto che quest’antro era sempre abitato da un serpente, e che nel principio, è lo stesso serpente che parlava.  [Gran dizionario della Favola, art. Serpenti.].  L’orifizio sosteneva il famoso tripode, ch’era una macchina di rame composta di tre sbarre, sulla quale Pitia si poneva nel più indecente modo, a fine di ricevere il soffio profetico. [S. J. Chyrs., in Ep. I ad Cor.,homil. xxix, n. 1]. Tosto si spandeva qualcosa di misterioso nelle sue viscere, e il movimento fatidico cominciava. L’infelice figlia d’Èva non era più padrona di se medesima e dava tutti i segni d’essere invasa. I suoi capelli si rizzavano; la sua bocca schiumava, i suoi sguardi diventavano truci; un tremito violento s’impadroniva di tutto il suo corpo e si era obbligati a mantenerla per forza sul tripode. Ella faceva risuonare il tempio delle sue grida e delle sue urla. In mezzo a questa straordinaria agitazione essa proferiva gli oracoli, che alcuni copisti scrivevano sopra tavolette. Da questi furori diabolici, resultava spesso la morte della Pitia, la quale per questa ragione, aveva due compagne. La scena infernale che abbiamo descritta aveva luogo tutti i mesi. Essa ha durato dei secoli, è stata vista da milioni d’uomini, tra’ quali figura tutto ciò che l’antichità conosce di più grave e di più illustre. [Lucan. Pharsal,, lib. V ; Virgil., lib. VI : Gran diz. Della Favola, etc., etc. ; Stràb. lib. VIII]. Dietro questo fatto e mille altri dello stesso genere, compiti in tutte le parti del mondo, su qual fondamento porre in dubbio il successo favoloso ottenuto sotto il regno di Marc’Aurelio, operato dal Mago Alessandro di Paflagonia? Discepolo di Apollonio Tianeo, questo medium, percorse, come il suo maestro, differenti provincie dell’impero, mostrando un serpente addomesticato e che faceva mille giri divertenti. Ei lo dette per un dio, e un dio che rendeva oracoli. A questa nuova, si videro gli abitanti dell’Ionia, della Galazia, della Cilicia, degli stessi Romani; e persino Rutulio che comandava l’esercito, accorrere in folla all’oracolo vivente, al Pitone viaggiatore. I suoi responsi gli guadagnarono fede. In queste provincie, come nel rimanente della terra si prostrarono tutti dinanzi al dio serpente; gli offrirono olocausti e doni preziosi; gli innalzarono perfino statue d’argento. L’imperatore medesimo volle vedere il nume: Alessandro fu mandato alla corte dove fu ricevuto con grandi onori. [Luciano, in Pseudomate.]. Non solo i Greci tanto vantati per la loro filosofia, ma anche i Romani padroni del mondo, non poterono sfuggire alla dominazione dell’odioso rettile. Sin dall’origine essi hanno adorato il dio serpente, ed i loro omaggi non si sono smentiti. [Proper., ffleg. in Oynthia]. II loro padre Enea fondò presso Roma una villa per nome Lavinium, che può appellarsi l’ava di Roma. Poco distante da Lavinium vi era un bosco sacro, vasto ed oscuro, dove in una profonda caverna abitava un gran serpente. [In Lavinia, oppido Latinorum, quae quidem Roma voluti avia nominari posset…. Prope Lavinium igitur est lucus magnus et opacus. In luco autem latibulum est, ubi draco, etc. Aelìan., lib. XI, c. xvi]. Ancor qui erano giovinette, sacerdotesse di questo dio. Quando esse entravano per dargli, da mangiare, le si bendavano gli occhi; uno Spirito divino le conduceva dirittamente alla caverna. Se il serpente non mangiava le focacce, era una prova che la fanciulla che le aveva presentate aveva cessato d’esser vergine, e veniva spietatamente messa a morte. [Ibid.]. – Come se il culto perpetuo del serpente indigeno non avesse bastato, i Romani, in difficili circostanze, ricorrevano ad un serpente straniero reputato più potente. Còsi nel 401 essendo la loro città da tre anni di seguito desolata da una peste, la cui strage non riusciva ad arrestare, essi consultarono i vecchi libri sibillini, inspectis sìbjllinìs libris. Fu trovato che l’unico modo di far .cessare il flagello era di andare a cercare Esculapio, a Epidauro e di condurlo nella città. Per conseguenza venne allestita una galea ed una deputazione, la quale condotta da Quinto Ogulnio si recò ad Epidauro. Quando ebbero i deputati presentato la loro istanza, un gran serpente uscì dal tempio, si mise a passeggiare nei punti più frequentati della città con occhi dolci e con un passo calmo, in mezzo all’ammirazione religiosa di tutto il popolo. Lo storico Romano continua: « Spinto ben tosto dal desiderio di occupare il celebre santuario che era a lui riserbato, il nume affrettò il suo cammino e sali sulla galea romana. Egli scelse per sua dimora la stessa camera di Ogulnio, si avvolse in tanti cerchi e si abbandonò alle dolcezze di un profondo riposo. I Romani che l’avevano ricevuto con un rispetto misto a spavento, lo condussero a Roma. La galea avendo approdato sotto al Monte Palatino, il serpente si lanciò nel fiume che attraversò a nuoto, e venne a riposarsi nel tempio a lui preparato sull’isola del Tevere. Appena che il nume fu nel suo santuario la peste scomparve.  [Valer, Maxim,, De Miracul., lib. I, c. vm , n° 2, ediz. Lemaìre, Parigi, 1832. — Le parole d’Aurelio Vittore non sono meno esplicite, et pestilentia mira celeritate sedata est]. Lattanzio conferma il racconto di Valerio Massimo, e ammette la scomparsa subitanea della peste attribuendo senza alcun dubbio all’influenza di un potente demonio, sotto la forma del serpente di Epidauro. [De Divin. Institi., lib. II, c. 17]. – Il primo popolo del mondo, la grande repubblica romana che manda una solenne ambasciata al serpente: quale eloquenza in questo sol fatto, e qual luce sinistra getta esso sull’antichità pagana! Anche all’epoca della storia romana, decorata nei collegi del nome del Secolo d’oro, il culto dell’odioso rettile non aveva perduto niente del suo splendore né della sua popolarità; tutto il contrario. Il serpente era dappertutto onorato nei templi del nume, nel palagio degli imperatori, nello spogliatoio delle matrone, nelle case dei semplici privati. Attia, madre di Augusto, essendo venuta a metà della notte a dormire nel tempio d’Apollo, secondo l’uso praticato nei templi dove si rendevano oracoli mediante sogni, fu tocca dal Nume sotto la forma di un serpente. Il suo corpo rimase segnato della figura indelebile di questo animale, in modo che ella non osò più mostrarsi nei pubblici bagni: Dietro questo fatto, Augusto si pretese figlio di Apollo, e volle che le sue medaglie perpetuassero la memoria di questa gloriosa discendenza.2 [Sveton., in Aug., c. XCIV. — Nel rovescio delle sue medaglie Augusto fece incidere Apollo con questa iscrizione: Cassar divi fitius., — Noi l’abbiamo visto coi nostri occhi.]. – Le vestali non avevano soltanto la custodia del fuoco sacro; erano esse specialmente incaricate di allevare un serpente sacro, venerato come il genio tutelare della città di Roma. Esse gli portavano il suo nutrimento tutti i giorni, e gli preparavano un gran banchetto ogni cinque anni. Queste vergini pagane, avevano altresì sotto la loro custodia un altro idolo, che il pudore non permette di nominare: idolo infame che si traeva dal tempio di Vesta i giorni di trionfo, per appenderlo al carro dei trionfatori. Di modo che il fine di satana era di condurre la povera umanità all’ultimo grado della crudeltà e della impudicizia. Ei l’aveva raggiunto, e poi ci vengono a parlare della bella antichità! [Paulin, adv. Pagan., v. 143; Doellinger, Paganesimo e giudaismo, Trad. fr. in-8°, t. i, p. 105 – Tertull, ad Uxor., lib. I, e. vi, p. 325, ediz. Pamel. in-fol;

id. de Monogam, sub. fin. – Plin. Hist. xxviii, c. vii, n. 4.— Vedi altresi Culto del fallo e del serpente, del dott. Boudin. in-8, Parigi, 1864]. – Eliogabalo non faceva nulla di nuovo, nulla che fosse di natura da sorprendere i Romani, ancor meno da urtarli, allorché egli fece portare a Roma dei serpenti egizi, a fine di adorarli come buoni genii. [Aegiptios dracunculus Romae habuit quos illi agathodæmenes appellant. Lamprid. in Heloogàb., p. I li, ediz. in-fol.]. – Tiberio aveva il suo serpente familiare che lo seguitava dappertutto, e ch’egli nutriva da sé medesimo con le sue proprie mani, manu sua. Mentre se ne stava ritirato a Capua, gli saltò in capo di rivedere Roma: non era distante che sole sette miglia da quella capitale, allorquando chiede del suo serpente per dargli da mangiare, quum eco consuetudine manu sua cibaturus. Ora il serpente era stato divorato dalle formiche, e l’oracolo consultato, avendo dichiarato questo accidente di cattivo augurio, l’imperatore prese il partito di ritornare immediatamente a Capua. [Sveton, in Tiber., c. 72]. – Nerone portava come talismano una pelle di serpente legata intorno al braccio. [Camerar., ubi supra]. Che più? « Parecchie medaglie di Nerone, dice Montfaucon, attestano che questo principe aveva preso il serpente per patrono, » [Àntic. spiegata, lib. I] e aggiungasi, per protettore. Così a Roma, sotto le mura della casa d’oro di Nerone, il viaggiatore legge ancora l’iscrizione che minaccia della collera del serpente, chiunque si permettesse di fare delle sozzure presso la reggia imperiale. [in Sveton., c. 72. id. in Neron., c. v.7 n. 6]. – Dietro l’esempio degl’imperatori, le signore romane avevano esse pure dei serpenti domestici. Ora se li passavano attorno al collo a guisa di collane, ora esse scherzavano con questi rettili, che durante il desinare gli montavano addosso e si introducevano nel loro seno. In questa familiarità col serpente, gli uomini galanti imitavano le donne.1 [Senec., De ira, xi, c. 31]. – Le provincie imitavano la capitale. A Pompei si vedono tuttora i santuari degli dei tutelari delle vie, chiamati Lares compitales. Gli affreschi rappresentano i sacrifici offerti a quelle divinità. Ora quasi dappertutto queste divinità sono due serpenti che ingoiano vivande confacenti. Babilonia e Pompei si rassomigliano. L’oriente e l’Occidente osservano lo stesso culto. Nella stessa città, sulle muraglie dei Pistrinæ, luoghi dove si manipola la pasta per fare il pane, è dipinto il sacrificio alla dea Fornax. La scena è coronata da due serpenti che rappresentano una cosi gran parte tra le divinità di Pompei. L’immagine della divinità favorita si rinviene persino negli ornamenti muliebri. Noi abbiamo contato un numero grandissimo di braccialetti d’oro in forma di serpenti, dei quali le signore di Pompei si ornavano le braccia ed i polsi. – Nelle Gallie, i Druidi portavano degli amuleti di pietra rappresentanti un serpente. Il culto dell’odioso rettile vi era talmente diffuso, che i primi missionari del Cristianesimo ebbero a combattere, come abbiamo visto, Draghi mostruosi, terribili divinità del paese. Ai fatti già citati aggiungiamo il seguente: Sant’Armentario arrivando nel Varo, fu obbligato a combattere un Drago. Il luogo del combattimento si chiama ancora il Drago, e lo stesso combattimento ha datò il suo nome alla città di Draguignan. Secondo le circostanze ed il genio dei popoli, il Padre della menzogna, sotto la forma preferita del serpente, si è manifestato come una divinità benefica o come un dio malefico. L’amore, o il timore hanno incatenato l’uomo ai suoi altari. Di qui quella giudiziosa osservazione del dotto Sig. De Mirville. « Il serpente! Tutta la terra lo incensa o lo lapida. » [Pneumatalog. 11, mem., t.II p. 431]. – I Lituani, i Samogizi ed altri popoli del Nord, non erano meno fedeli adoratori del serpente; lo chiamavano specialmente a santificare la loro mensa. In un canto delle loro capanne come nei templi dell’Egitto, erano mantenuti dei serpenti sacri. In certi giorni si facevano montare sulla tavola per mezzo di un panno bianco che scendeva sino alla loro tana. Assaggiavano tutte le pietanze, quindi rientravano nel loro buco. Così le vivande erano purificate; e i barbari le mangiavano senza paura. [Stuckins, Antiquit cenvivial, lib. II, c. xxxvi, p. 432, in-fol.]. Presso i Lituani particolarmente, il culto del serpente esisteva ancora nel quattordicesimo secolo. Nel 1387 il re di Polonia essendosi recato a Wilna, convocò un’assemblea pel dì delle ceneri. D’accordo con i vescovi che lo accompagnavano, si sforzò di persuadere i Lituani a riconoscere il vero Dio. Per mostrar loro che non era la verità che essi abbandonavano, fece spengere il fuoco perpetuo che si manteneva a Wilna, ed uccidere i serpenti che si custodivano nelle case e che si adoravano come tanti dei. I barbari vedendo che non avveniva alcun male a quelli che eseguivano gli ordini del principe, aprirono gli occhi alla luce e domandarono il battesimo. [Vedi anche Arnnal, di Filos. Crist., dicembre 1857, p. 242, e seguenti]. – Non spingeremo più oltre il nostro viaggio d’investigazione presso i popoli antichi. Notiamo soltanto, che il culto del serpente era cosi universale e così splendido nella bella antichità, che i templi avevano preso il nome di Draconie; il che significa che per designare un tempio, si diceva una dimora di serpenti. [Corn. a Lap., in Dan. xiv. 22.] Perciò il culto del serpente vivo, del serpente in carne e in ossa, è stato uno dei più difficili a sradicare; ne daremo bentosto la prova. Difatti secondo il concetto di sant’Agostino, il demonio ama di preferenza la forma del serpente, perché essa gli ricorda la sua prima vittoria. [De Gen. ad Litter., lib. XI, n. 35, ediz. Gaume]. Che tutte le nazioni dell’antichità, niuna eccettuata, abbiano pagato al serpente il tributo delle loro adorazioni, è un fatto acquisito alla storia. Per quanto sia strano, non è però meno certo. Ora quando un culto di una cosi evidente identità, si osserva per un cosi gran numero di secoli, in tutte le parti del mondo conosciuto, sotto tutti i climi, presso le nazioni le più differenti di costumi e di civiltà, come non riconoscere che le condizioni di razza sono senza influenza sulla religione dei popoli? Come non riconoscere che è la religione dei popoli che genera la loro civiltà ed i loro costumi, invece d’essere prodotta da quest’ultimi; lo che non si teme di ripeterlo ogni giorno? In una parola, come mai non riconoscere la verità di questo assioma:

Dimmi ciò che tu credi, ed io ti dirò quello che tu fai!

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (24)

Mons. J. J. Gaume:  

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO vol. I.

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXIII.

Storia Sociale delle due Città.

Parallelismo delle due Città nell’ordine sociale — Per costituire la Città del bene in stato sociale, lo Spirito Santo le dà da sé medesimo le sue leggi mediante il ministero dì Mosè — I Fondatori dei popoli pagani ricevono le loro leggi dal re della Città del male — Testimonianza di Porfirio — I popoli dell’Alto Oriente ricevono le loro leggi dal dio serpente con la testa di sparviero — Licurgo riceve quelle di Sparta dal serpente Pitone — Ninna, quelle di Roma, dall’antico serpente, sotto la figura della ninfa Egeria — Roma fondata mediante l’ispirazione diretta del demonio: passo di Plutarco — Le leggi di Roma, degne di satana per la loro immoralità: passo di Varrone e dì sant’Agostino.

Il parallelismo delle due Città, di cui abbiamo presentato un leggero schizzo nell’ordine religioso, si riscontra pure nell’ordine sociale, né può essere altrimenti. Per la natura stessa delle cose, la religione è stata presso tutti i popoli e sarà sempre l’anima della società: essa ispira le sue leggi, dà la forma alle sue istituzioni, e regola i suoi costumi. Esse la domina e le dà l’impulso, come l’anima stessa domina il corpo, mettendone in movimento tutti gli organi. Ora nella Città del bene lo Spirito Santo è, senza dubbio, il maestro della Religione. Questa autorità religiosa gli assicura dunque, almeno indirettamente, l’autorità sociale: anzi l’ha conquistata con mezzi diretti. – Apriamo la storia. Lasciando da parte i tempi primitivi, giungiamo all’epoca in cui il popolo fedele, essendo assai numeroso per uscire dallo stato domestico, Iddio lo fa passare allo stato di nazione. Niente di più solenne del modo con cui egli consacra questa nuova esistenza dell’umanità. Il sovrano legislatore vuole che la Città del bene sappia, che la sua costituzione e le sue leggi sono discese dal cielo, e che essa non lo dimentichi giammai. – Sulla vetta del Sinai, dove Egli stesso è presente, circondato da folte tenebre, chiama Mosè. In un lungo abboccamento gli comunica i suoi pensieri. Abbassandosi fino agli ultimi particolari dei regolamenti e delle ordinanze, che debbono dare alla nazione la sua forma politica, civile e domestica, non lascia niente all’arbitrio dell’uomo.- Affinché nel succedere dei tempi, nessuno sia tentato di sostituire, in un punto qualunque, la sua volontà a quella divina, la carta è scolpita dallo stesso Spirito Santo su tavole di pietra. Queste tavole conservate gelosamente, interrogate con rispetto, saranno l’oracolo della nazione, e la sorgente della sua vita. Così, nell’ordine sociale, come nell’ordine religioso, la Città del bene sarà, secondo tutta 1’estensione della parola, la Città dello Spirito Santo. Ad esclusione di ogni altro, Egli ne sarà Iddio, il re, il regnante e il governatore. In opposizione alla Città del bene, satana edificò la Città del male. Vediamo con qual fedeltà questa, scimmia eterna, adopra per innalzare il suo edificio, i mezzi che Dio ha adoperati per costruire il suo. Mosè riceve dallo stesso Dio la costituzione degli Ebrei sulla vetta del monte Sinai. Come contraffazione di questo grande avvenimento, satana vuole che i primi fondamenti degli imperi, dei quali si compone la Città del male siano in commercio intimo con lui. È lui stesso che si riserva di dettare le loro costituzioni e le loro leggi. Ei vuole che lo si sappia, affinché si rispettino, non come una elucubrazione umana, ma come una ispirazione divina. Infatti vediamo i primi legislatori dei .popoli pagani affermare ad una voce unanime, che le loro leggi sono discese dal cielo, e che sono state ricevute dalla bocca stessa degli dei. Chi ha il diritto di dar loro una smentita? Dietro a quel che noi sappiamo delle ispirazioni religiose di satana, come negare la possibilità di queste ispirazioni sociali? Chi più può, meno può. D’altronde i fatti rivelano la causa. Di dove vengono i delitti legali che deturpano tutti i codici pagani, niuno eccettuato? Quale spirito autorizzò, anzi comandò il divorzio, la poligamia, l’uccisione del fanciullo e dello schiavo, le crudeltà riguardo al debitore e al prigioniero di guerra? Chi eresse la ragione del più forte in diritto delle genti? Chi iscrisse sulle tavole di bronzo del Campidoglio la lunga nomenclatura d’iniquità civili e politiche, il cui solo nome fa ancora arrossire? Se non è lo Spirito Santo, è lo spirito maligno. In politica come in religione, non vi è per l’uomo che due fonti di ispirazioni. Ma ascoltiamo la storia. Le più antiche tradizioni c’insegnano che nell’Oriente, nella Persia, nella Fenicia, in Egitto, in tutti i luoghi vicini al paradiso terrestre, il demonio, sotto la forma di serpente, si faceva adorare non solo come il Dio supremo, ma come il Principe dei legislatori, la fonte del diritto, e della giustizia. « I Fenici e gli Egizi, dice Porfirio, hanno divinizzato il drago ed il serpente…. » I primi l’appellano Agatodemone, il buon genio, ed i secondi lo chiamano Kneph. Essi gli aggiungono una testa di sparviero, a motivo dell’energia di quest’uccello. Epeis, il più dotto dei loro gerofanti, dice precisamente ciò che segue: « La principale e più eminente divinità è il serpente con la testa di sparviero. Pieno di grazia, allorché apre gli occhi, riempie di luce tutta l’estensione della terra ; se questi vengono a chiudersi, succedono le tenebre.1 » (Porphyr. ex Sanchoniat., Apud Euseb., Præp. evang., lib. I, c. X). – Così nell’ordine sociale come nell’ordine religioso, ogni luce viene dal dio serpente, il più grande degli dei. L’antico legislatore dei Persi, Zoroastro, è anche più esplicito. « Zoroastro il mago, continua Sanconiatone, nel sacro rituale dei Persi si esprime in questi termini: il dio con la testa di sparviero, è il principio di tutte le cose: immortale, eterno; senza principio, indivisibile senza uguali, regola di ogni bene, incorruttibile, l’eccellente degli eccellenti; il più sublime pensatore dei pensatori, il padre delle leggi, dell’equità e della giustizia, non ripetendo la sua scienza che da sé solo; universale, perfetto, savio, solo inventore delle forze misteriose della natura. » (Ibid.). – Lasciamo l’alto Oriente, cuna di tutte le grandi tradizioni, e scendiamo nella Grecia. Allorché Licurgo vuol farsi legistatore va a domandare le famose leggi di Lacedemone allo stesso dio, vale a dire al serpente. Ei si reca a Delfo, luogo celebre nell’intero mondo per il suo oracolo. Appena Licurgo ha toccato il suolo del tempio, che il serpente Pitone – (Come il serpente orientale, così il serpente Pitone è un essere senza pari in natura; è rappresentato come un mostro enorme, un prodigio spaventevole. Ovidio lo chiama il gran Pitone. Serpente sconosciuto, il terrore dei popoli. Sebbene ucciso in apparenza da Apollo, era sempre lui che sotto il nome di Apollo rendeva gli oracoli. Ovidio, Metam., lib. I, v. 488),  gli dice, per l’organo della sua sacerdotessa: « Tu vieni, o Licurgo, nel mio tempio ingrassato dalle vittime; tu, l’amico di Giove e di tutti gli abitanti dell’olimpo. Ti chiamerò io dio o uomo? Io sto in dubbio; ma spero piuttosto che tu sii dio. Tu vieni a chiedermi savie leggi pe’ tuoi concittadini: volentieri te le darò. » (Porphyr, apud Euseb., lib. V, c. XXVII).  Ci si perdoni di profanare i nomi: Delfo è il Sinai dell’antico serpente, seduttore del genere umano. (Era il centro religioso del mondo pagano: da ciò viene che Ovidio lo chiama umbiculum orbis.). – Licurgo è il suo Mosè. Sparta e le altre repubbliche della Grecia, Roma stessa che tolsero ad imprestito da Lacedemone una parte delle loro leggi, formano il suo popolo. Licurgo di ritorno da Sparta, fa conservare preziosamente l’oracolo di Delfo nei sacri archivi della città, come lo stesso Mosè le tavole della legge nell’arca dell’alleanza (Vedi Plutarco, Disc. contro Colotes, c. XVII). – La parodia è completa. Tal’è, rapporto agli stessi pagani, l’origine di una legislazione, che dopo il Rinascimento i Cristiani fanno ammirare ai loro figli! –  Nella Vita dì Teseo, fondatore di Atene, Plutarco ha cura di notare che questo legislatore non mancò esso pure, di prendere i consigli dal serpente Pitone. – Ma lasciamo la Grecia, e veniamo a Roma. Ecco la città misteriosa che per l’accrescimento irresistibile della sua potenza, assorbirà la più gran parte del mondo, e di tutti gl’imperi fondati da satana, non formerà che un solo impero, del quale sarà la capitale. Qual fu l’influenza del serpente legislatore circa la fondazione di Roma? È facile prevedere che essa deve essere qui, più notevole che dappertutto altrove: la previsione non è chimerica. Avanti che ella ancora esista, satana comincia col dichiarare che questa città sarà la sua, e ne prende possesso nel modo il più solenne. Per ordin suo, alcuni sacerdoti, iniziati ai suoi più segreti misteri, sono mandati di Toscana per compiere le cerimonie, con le quali deve essere fondata la futura capitale del suo impero: « Romolo, dice Plutarco nell’antico francese di Amyot, dopo che ebbe seppellito suo fratello, si diede a fabbricare e a fondare la sua città, avendo fatti chiamare dall’Etruria uomini che con certi sacri riti e caratteri gli dichiararono ed insegnarono appuntino tutte le cerimonie che aveva ad osservare, secondo i formulari che possedevano, come se si trattasse di qualche mistero, o di qualche sacrificio. « Imperocché fu scavata una fossa circolare intorno a quel luogo che ora si appella Comizio, e riposte vi furono le primizie di tutte le cose; quindi portando ognuno una piccola quantità di terra dal paese d’onde era venuto, ve la gettarono dentro, e mescolarono insieme ogni cosa: questa fossa nelle loro cerimonie si chiama Mondo; indi all’intorno di questo centro, designarono la città a guisa di cerchio. « Il fondatore, avendo inserito nell’aratro un vomero di rame, ed aggiogati un bue ed una vacca, tira egli stesso, facendoli andare in giro, un solco profondo sui disegnati confini; e in questo mentre, coloro che gli vanno dietro, s’adoperano a rivoltare al di dentro le zolle che solleva l’aratro, non trascurandone alcuna rovesciata al di fuori. Dove poi divisano di far porta, estraendo il vomero e alzando l’aratro, vi lasciano un intervallo non tocco; onde reputano sacro tutto il muro, eccetto le porte. Poiché se credessero sacre anche queste, non potrebbero senza scrupolo né ricever dentro, né mandar fuori le cose necessarie e le impure. » (Vita dì Romolo, traduzione di Girolamo Pompei. Tomo I p. 119, Firenze 1822). Tale fu la fondazione piena di superstizioni sataniche della città di Roma. Ed i Romani del Risorgimento non hanno arrossito di celebrarne l’anniversario con feste religiose! – Se Romolo è il fondatore della città materiale, Numa, suo successore, è considerato con ragione come il fondatore della città morale. satana non poteva sceglier meglio. Noi diciamo scegliere, imperocché è per grazia dello stesso satana che Numa fu re di Roma. Prima di riferire a quelli che l’ignorano questo fatto significantissimo, è bene far conoscere gli antecedenti di Numa. « Dopo la morte di sua moglie, scrive Plutarco, Numa, lasciata allora la città, dimora per le più volte in campagna, dove se n’andava tutto solo vagando e conducendo la vita nei boschi dei numi e ne’ prati sacri e nei luoghi deserti. Dalle quali cose principalmente ebbe origine ciò che si dice intorno alla Dea, cioè che Numa non già per una certa tristezza e vagazione di mente abbia lasciato di conversare con gli uomini, ma perché gustata egli aveva una conversazione più nobile, ed era fatto degno d’incontrar matrimonio divino, unito essendosi ad Egeria, dea innamorata di lui, e passando la vita insieme con essa lei, onde egli era divenuto un uomo beato e nelle divine cose peritissimo. » (Vita di Numa, Plut, Traduz. del Pompei, t. I, p. 227,c. III. — Sed ut ad anguem redeamus, ne adeo mirum sit eum voluptatis et libidinis habere significatum: legimus apud Plutarchum, serpentem Etoliae amasium puellae. Pierius, [il serpente etolia era l’amante della fanciulla] Hierogly., lib. XIII , p. 148, ediz. in fol., Lyon, 1610). A ogni modo, di questo matrimonio e di altri simili, dei quali, stando allo stesso Plutarco, l’alta antichità ammetteva la realtà, (Vedi sant’Agostino e in tutti i grandi teologi, la questione de incubisi) resta che il primo legislatore di Roma ebbe, come i due oracoli della filosofia pagana, Socrate e Pitagora, il suo demone familiare. Vedremo che a questo tenebroso commercio Numa dovette la sua sovranità, e Roma le sue leggi. – Ascoltiamo ancora Plutarco: «Avendo Numa accettato il regno e sacrificato agli Dei, s’incamminò alla volta di Roma. Essendo a lui state presentate le insegne reali, egli comandò che fossero trattenute dicendo, di voler prima far preghiere agli Dei che il confermasse nel regno. Tolti però seco indovini e sacerdoti, salì sul Campidoglio, e quivi il maggiore degli indovini voltartelo a mezzo giorno, colla testa coperta, e standogli presso al di dietro e colla destra toccandogli il capo, si diede a far le sue preghiere, ed osservava d’intorno, guardando per ogni dove, ciò che dagli dei si manifestasse con uccelli o con altri segni. Intanto nella piazza se ne stava un sì numeroso popolo con incredibile silenzio tutto sospeso e in aspettazione di ciò che fosse per avvenire, finché apparvero uccelli destri e favorevoli che approvarono la cosa. Allora Numa, presa avendo la veste regale, discese dal Campidoglio verso la moltitudine, ed ebbe allora acclamazioni ed accoglienze, quali si convenivano ad uomo religiosissimo e carissimo ai Numi. (Vita di Numa, p. 233). Numa divenne re per la grazia del demonio, come Licurgo, come Teseo, come gli altri fondatori degli imperi pagani, legislatore sotto l’ispirazione del medesimo Spirito. Di già i rudimenti di legislazione che Romolo aveva dati ai Romani, uscivano dalla stessa sorgente. Abilissimo nel commercio con i demoni, optimus augur, come lo chiama Cicerone, egli ne aveva composto una parte; il resto, l’aveva tolto in imprestito dai Greci, i quali come abbiamo visto, ripetevano tutto dal serpente legislatore. (Dion. Halyc. Antiquit, rom., lib. XI, in Romul.). – Ma per Roma, sua città di predilezione e la futura capitale del suo impero, una ispirazione indiretta a satana non bastava. Egli stesso in persona volle dettare le sue leggi: Numa fu il suo Mosè. Questo personaggio che oggi noi appelleremo Medium, praticava apertamente l’idromanzìa. Questo genere di magia essendo noto a tutta l’antichità, e tante volte condannato dalla Chiesa, consiste nel fare sull’acqua stagnante o corsiva, delle invocazioni e dei cerchi concentrici, in mezzo ai quali apparisce il demonio sotto una forma visibile, e che pronunzia degli oracoli. (Delrio, disquisit. magic,, lib. IV, c. XI, sect. 3.). – Apulejo riporta questo celebre fatto d’idromanzìa : « Io mi ricordo, egli dice, d’aver letto in Varrone, filosofo di molta erudizione e storico di una grande esattezza, che gli abitanti di Tralles, inquieti dell’esito della guerra contro Mitridate, ricorsero alla magia. Apparve un fanciullo nell’acqua, il quale col volto verso una immagine di Mercurio annunziò loro in centosessanta versi quel che doveva accadere. » (Apolog,, p. 301). Tale fu il mezzo adoperato dal legislatore di Roma. « Numa, scrive sant’Agostino, che non aveva per ispiratore nè un profeta di Dio, né un buon angelo, ricorse all’idromanzia. 3 » (Civ. Dei, lib. VII, c. XXXV). Ei si portò presso ad una fontana solitaria che ancor si mostra, e faceva le pratiche d’uso. Allora sotto la figura di una giovine che pigliava il nome di Egeria, il demonio gli dettava i diversi articoli della costituzione religiosa e civile di Roma e gliene spiegava i motivi. Ora i motivi di questo codice, divenuto per le conquiste dei Romani come il vangelo dell’antichità, erano di tal natura che Numa, benché fosse re, non osò mai farli conoscere. A questo timore umano si aggiungeva un timore divino, che gettò il regio medium nella più grande perplessità. Da una parte, pubblicando le infamie che il serpente gli aveva dettate, temeva di rendere esecrabile agli stessi pagani, la teologia civile dei Romani; dall’altra, non ardiva annientarle, temendo la vendetta di quello al quale si era consacrato. Prese dunque il partito di far sotterrare presso la sua tomba questo monumento di oscenità. Ma un oprante, passando col suo aratro, lo fece uscire di sotto terra. Lo portò al pretore che lo sottomise al senato, e il senato ordinò di bruciarlo. Tale fu la rispettabile origine della legislazione religiosa e civile di Roma. Le cose utili e sensate che essa racchiude, sono un inganno di colui che non dice talora la verità, se non per meglio ingannare.(De civ. Dei, lib. VII, c. XXXV)

CONOSCERE SAN PAOLO (47)

LIBRO V

I canali della redenzione.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

CAPO III.

La Chiesa.

III. IL GOVERNO DELLA CHIESA.

1. I DIGNITARI ECCLESIASTICI. — 2. POTERE COERCITIVO DELLA CHIESA. — 3. RIASSUNTO E CONCLUSIONI.

1. Tutte le cristianità fondate da san Paolo dipendevano direttamente da lui; su lui pesava veramente « la sollecitudine di tutte le Chiese ». Si può domandare se questo concentramento, col prolungare il periodo delle incertezze, non ritardasse lo sviluppo dell’episcopato monarchico; ma esso era necessario nelle origini, per stringere i vincoli dell’unità e per evitare i pericoli di scismi. Non si dovrebbe però conchiuderne che le Chiese di Paolo fossero sprovviste di ogni organizzazione gerarchica: non appena una cristianità era uscita dallo stadio embrionale, riceveva sempre capi e direttori. San Luca ci dice che Paolo e Barnaba, al ritorno dalla loro comune missione in Asia minore, elessero degli anziani (πρεσβυτέρους = presbuterous) dovunque passarono. Tale elezione, accompagnata da preghiere e da digiuni, non fu una semplice designazione dei candidati, ma una cerimonia liturgica che li insediava nelle loro nuove funzioni; infatti fino dai primissimi tempi la consacrazione dei sacri ministri si fa sempre in mezzo a digiuni ed a suppliche solenni. Siccome il racconto degli Atti è rappresentativo, e san Luca non suole ripetere quello che già si può sottintendere e quello che già ha detto una volta per sempre, non vi è punto da fare le meraviglie se tale menzione è isolata, e si deve invece supporre che tale fosse dappertutto la pratica dei missionari. Infatti si fa accidentalmente menzione degli anziani di Efeso (Act. XX, 17) la cui nomina non è raccontata in nessun luogo. – A Tessalonica, pochi mesi dopo la fondazione di questa Chiesa, constatiamo la presenza di operai, di presidenti e di ammonitori ai quali i fedeli devono amore, rispetto e gratitudine. Non sappiamo se essi si siano assunta tale carica spontaneamente col consenso dei neofiti, oppure se a loro fu affidata dall’Apostolo: sta sempre il fatto però che fu sempre riconosciuta e sanzionata da lui. Paolo ricorda ad essi i loro doveri: « Riprendete gli indisciplinati, incoraggiate i pusillanimi, sostenete i deboli, usate longanimità con tutti, vigilate affinché nessuno renda male per male (I Tess. V, 12-14) ». Questi personaggi la cui funzione è di lavorare per l’opera di Dio, di presiedere alle assemblee religiose, di avvertire i fratelli e, occorrendo, di ammonirli, e che in cambio hanno diritto alla stima, all’affetto, alla riconoscenza, occupano una posizione ufficiale o quasi ufficiale. Hanno essi il grado di diaconi o di anziani? L’analogia c’invita a crederlo, benché essi non ne portino il titolo. Una tradizione, già antica al tempo di Origene, considerava Caio, l’ospite di san Paolo a Corinto, come il primo vescovo di Tessalonica. – Si cita volentieri Corinto come tipo di assemblea democratica; è vero che l’Apostolo lascia alla libera scelta dei Corinzi la designazione degli arbitri incaricati di risolvere i litigi, e dei delegati che devono portare a Gerusalemme il frutto delle collette (I Cor. VI, 4-5); pur tuttavia egli conserva sotto la sua tutela immediata quella comunità turbolenta; egli vi si fa rappresentare quasi in permanenza da suoi coadiutori (I Cor. VI, 4-5): egli è sempre quello che regola, giudica e decide in ultimo appello (I Cor. V, 1-13). Accanto al ministero transitorio e carismatico, così fiorente a Corinto, vi era anche un ministero gerarchico e permanente? Chi presiedeva l’agape e chi celebrava l’eucaristia! Non possiamo dirlo, perché le informazioni che ne abbiamo sono quanto mai frammentarie e si riferiscono alle prime origini, al periodo dei tre o quattro anni che seguirono la fondazione. Ma in mancanza di informazioni più precise, noi pensiamo che la Chiesa di Corinto fosse organizzata sul modello delle altre cristianità. – La comunità di Filippi aveva appena dieci anni di vita, quando vi mandava un saluto particolare ai sacerdoti (ἐπίσκοποι = episcopoi) e ai diaconi (Fil. I, 1). Forse quei personaggi avevano presa una parte speciale nella colletta in favore di Paolo prigioniero; forse voleva così Paolo riconoscere loro servizi e rafforzare la loro autorità. La menzione collettiva degli ἐπίσκοποι (= episcopoi) non dimostra assolutamente che essi formassero un collegio di eguali: essa potrebbe comprendere lo stesso presidente, se ai suppone che Epafrodito, « il fratello, il collaboratore ed il compagno d’armi di Paolo (Fil. II, 25) », occupasse il primo posto. tuttavia è più probabile che anche là. come altrove, la giurisdizione suprema, fosse devoluta al rappresentante dell’Apostolo. – Ad Efeso ed a Creta la situazione è chiara: i delegati di Paolo, investiti del suo potere, sono incaricati di stabilire sacerdoti e diaconi, di reprimere gli eretici e gli spiriti turbolenti, di punire i delinquenti, non eccettuati i membri del clero, a patto di osservare le forme giudiziarie (I Tim. I, 3). Quando sarà tempo saranno sostituiti da un solo personaggio, di modo che il governo di quelle Chiese presenta la forma quasi monarchica (Tit. III, 12); alla testa vi è il rappresentante di Paolo, che esercita una giurisdizione suprema; sotto di lui, il collegio dei sacerdoti, le cui funzioni non sono ancora bene determinate; nell’ultimo grado del clero vi sono i diaconi. Non si fa nessuna allusione ad un ministero carismatico. L’organizzazione gerarchica è in via di progresso, e si va gradatamente verso una costituzione definitiva. L’Apostolo non aveva concesso l’autonomia completa alle chiese recentemente fondate, perciò i suoi luogotenenti erano continuamente in giro per visitare e riformare le cristianità che dipendevano da lui: egli era l’unico pastore dell’immensa diocesi che aveva conquistato alla fede del Cristo. Né in Grecia, né in Macedonia, né in Galazia, né a Creta, né ad Efeso vi fu, mentre egli era vivo, altro vescovo che lui ed i suoi delegati. L’antica tradizione che considerava Caio di Corinto come primo vescovo di Tessalonica, ha tutte le apparenze di verità, perché nulla si opponeva alla sua designazione a quel posto lontano; ma non è detto — e non è affatto probabile — che Caio fosse vescovo mentre viveva Paolo. E non erano neppure vescovi Tito e Timoteo. Tito, lasciato a Creta per organizzare quella cristianità, doveva raggiungere il suo capo quando fosse giunto chi doveva sostituirlo; non più stabile era la posizione di Timoteo ad Efeso, e l’Apostolo non tardò a richiamarlo. Insomma, le Chiese dipendenti da Paolo erano servite da diaconi e regolate da un consiglio di dignitari, chiamati indifferentemente πρεσβυτέροι (= presbuteroi) o ἐπίσκοποι (= episcopoi), sotto la sorveglianza sempre desta e sotto la tutela sempre attiva del fondatore o dei suoi sostituti. – Nei primissimi tempi, quando una comunità si riduceva ad un piccolo nucleo di fedeli, i carismi potevano supplire provvisoriamente all’assenza o all’imperfezione della gerarchia ordinaria, perché alcune di quelle grazie avevano per oggetto l’istruzione o il governo; e forse quello stato di cose si prolungò alquanto a Corinto che si distingueva per i doni carismatici. Non dobbiamo dimenticare che, eccetto per la Galazia meridionale, nessuna delle fondazioni di Paolo precedette il suo martirio di più di quindici o sedici anni: quasi tutte erano assai più giovani quando l’Apostolo si occupava dei loro affari. Anche al tempo delle Pastorali, la cristianità di Efeso non contava più di dodici anni di vita, e quelle di Creta erano nate appena allora. – La maniera con cui si faceva la designazione dei sacri ministri dovette variare secondo i luoghi e i tempi. I primi sette diaconi ellenisti di Gerusalemme furono presentati dai fedeli e ordinati dagli apostoli, e fu quello forse un atto di condiscendenza dettato ai Dodici dal desiderio di togliere ai malcontenti ogni pretesto d’insubordinazione ed ogni motivo di lagnanza. Ma Paolo e Barnaba, senza andare evidentemente contro il desiderio dei neofiti e senza trascurare le indicazioni fomite dall’attitudine dei candidati, sembra che consultassero soltanto se stessi quando diedero degli anziani ad ogni Chiesa recentemente fondata (Act. XIV, 23). Nel dominio di Paolo non vediamo che i semplici fedeli abbiano mai avuto parte all’elezione dei dignitari ecclesiastici propriamente detti, poiché gli arbitri ed i portatori di limosine di Corinto, eletti col suffragio del popolo, non appartengono alla gerarchia sacra. È certo che né Tito né Timoteo, tra le loro istruzioni, non hanno quella di sottoporre ai fedeli la scelta o l’approvazione dei diaconi o dei sacerdoti, benché debbano tener conto della buona riputazione degli ordinandi, così nella Chiesa come fuori di essa (I Tim. III, 1-14). Se il governo dell’Apostolo non era né dispotico né arbitrario, il regime democratico non era però di suo gusto.

2. Come ogni società perfetta, la Chiesa possiede inalienabilmente il diritto di reggersi, di difendersi e di perpetuarsi, diritto che deriva direttamente dal suo stesso diritto di vivere. Il potere di governarsi le viene da Dio: « Vigilate su voi stessi e su tutto il gregge nel quale lo Spirito Santo vi ha stabiliti custodi,: governare la Chiesa di Dio che egli si è acquistata col suo proprio sangue (Act. XX, 28) », dice san Paolo agli anziani di Efeso accorsi per ricevere le sue ultime raccomandazioni. Queste parole sono da meditarsi. Le persone di cui si tratta, hanno soltanto un’autorità subordinata, eppure sorvegliano, ispezionano, governano i fedeli di Gesù. Cristo. Benché siano stati designati e costituiti dagli uomini, hanno la loro autorità dallo Spirito Santo dal quale essa, in ultima analisi, deriva. – La loro carica è locale, la loro giurisdizione è ristretta, e tuttavia essi governano la Chiesa di Dio, perché la Chiesa è una e indivisibile. In quanto al potere di legiferare, san Paolo, lo riserva a sé: egli conosce una sola autorità superiore alla sua, quella del Cristo; egli sa benissimo distinguere i precetti del suo Maestro dai suoi propri (I Cor. VII, 8, 10, 25), ma ha coscienza di comandare egli stesso in nome di Colui dal quale è mandato: « Se alcuno è profeta o dotato dello Spirito, scrive egli ai Corinzi ai quali ha fatto alcune ingiunzioni, questi deve riconoscere che quello che scrivo è il comandamento del Signore (I Cor. XIV, 37) » Terribili sono le minacce contro i ribelli e gli insubordinati (II Cor. XIII, 16). Nessuno deve prendere per debolezza il suo esteriore umile e la sua meschina apparenza. « Le armi con cui combattiamo non sono di carne, ma esse sono potenti (di tutta la potenza) di Dio per rovesciare fortezze. (Con esse) noi rovesciamo i ragionamenti ed ogni ostacolo che ci oppone alla conoscenza di Dio; e noi sottomettiamo ogni pensiero all’obbedienza di Cristo; noi siamo perciò pronti a punire ogni disobbedienza quando la nostra obbedienza sarà completa (II Cor. X, 4-6) ». Egli dunque si arroga un intero dominio, non soltanto sulla volontà dei fedeli, ma anche sulla loro intelligenza; potere veramente sovrumano e, come dice egli stesso, divino. Ma se l’Apostolo, né a Corinto né altrove, ammette autorità capace di imporsi alla sua,  riconosce in tette le Chiese un’autorità accanto e sotto la sua: egli investe del suo potere Tito e Timoteo (I. Tim. I, 3; Tit. I, 5); comanda ai Tessalonicesi ed ai Corinzi di far valere il loro potere; si rallegra con questi ultimi perché se ne servirono con moderazione (I Tess. V, 14; I Cor. V, 2, 13); ricorda agli anziani di Efeso il loro diritto e il loro dovere di governare la Chiesa di Dio (Act. XX, 28). – Se la Chiesa primitiva ai nemici esterni oppose soltanto la resistenza passiva, il non possumus, di cui gli Apostoli avevano dato la formula e l’esempio (Act. IV, 20), le occorrevano altre armi contro i nemici interni, soggetti alla sua giurisdizione per il Battesimo (I Cor. V, 12-13). Nel minacciare le sue severità ai faziosi di Corinto, Paolo non suppone neppure che il suo diritto di castigare i colpevoli possa essere messo in dubbio: « Ecco che io vengo a voi per la terza volta; tutto sarà regolato sulla deposizione di due o tre testimoni. Già ho detto, e lo ripeto ora che sono assente come l’ho fatto quando ero presente, a quelli che hanno peccato ed a tutti gli altri, che se io vengo non perdonerò più… Scrivo questo nella mia assenza affinché, nella mia presenza, non abbia da usare con troppo rigore il potere che il Signore mi ha dato per edificare e non per distruggere (II Cor. XIII, 1-2, 10) ». Sempre l’Apostolo rivendica con la stessa energia il suo diritto di punire. La sua repressione non sarà arbitraria, egli manterrà le forme giuridiche, ma castigherà i delinquenti secondo le loro colpe e non farà grazia se non al pentimento (II Cor. XII, 21). Egli prescrive a Timoteo la stessa pratica: « Non ricevere l’accusa contro un anziano se non su testimonianza di due o tre persone. Riprendi dinanzi a tutti, quelli che hanno peccato, affinché gli altri ne concepiscano timore (I Tim. V, 19-20) ». Le pene inflitte da san Paolo erano la riprensione, l’esclusione temporanea e l’anatema. Uno dei primi doveri dei capi della Chiesa è di riprendere coloro che fanno male; vi erano due sorta di ammonizioni: una paterna, o fraterna che poteva essere privata; l’altra più ufficiale e meno benigna che doveva essere pubblica. Sembra che san Paolo indichi, come il Vangelo, che queste due riprensioni erano successive e servivano come preludio ad una correzione più grave: « Dopo una o due ammonizioni, evita il fazioso (il fautore di scisma o di partiti) sapendo che un tal uomo è pervertito e che pecca, condannato dal suo proprio giudizio (Tit. III, 10) ». La scomunica poi aveva due forme totalmente diverse: l’una era soltanto la separazione temporanea dei Cristiani turbolenti o scandalosi, la cessazione provvisoria delle relazioni con loro finché non si fossero emendati: tali erano gli scioperati di Tessalonica; tali i peccatori pubblici di Corinto (II Tess. III, 14 e I Cor. V, 2-7); tali i novatori delle Pastorali, eccetto che questi ultimi non appartenessero alla categoria dei criminali ostinati e incorreggibili che Paolo abbandona a satana per insegnare loro a non bestemmiare: di tale anatema aveva colpito Imeneo e Alessandro (I Tim. I, 20). Per un momento aveva anche pensato di scagliarlo contro l’incestuoso di Corinto, ma poi si contentò di una pena meno severa (I Cor. V, 5), e si rallegrò anzi con la Chiesa che avesse perdonato, poiché il diritto di punire i ribelli implica quello di perdonare i pentiti. La cura con cui certe corporazioni greche, come gli erani ed i tiasi cercavano di schivare l’ingerenza dello Stato nei loro affari interni, le penalità che infliggevano ai membri delinquenti — multe in denaro o in natura, esclusione dalle feste e dai banchetti, espulsione dalla società — illustrano ben poco la costituzione primitiva delle comunità cristiane che non erano affatto formate su tale modello. Potrebbe darne un’idea più giusta l’organizzazione delle comunità ebree nella Diaspora; ma tali comunità erano associazioni legali che, al bisogno, avevano l’appoggio o almeno la tolleranza della forza pubblica. In esse il consiglio degli anziani aveva un potere discrezionale civile e religioso; condannava alla pena del bastone con una liberalità che ci fa stupire, dava la scomunica semplice e la scomunica solenne accompagnata da anatema, la quale era certamente un equivalente mitigato della lapidazione, nei casi in cui questa non era più praticabile. Invece tra i primi Cristiani non troviamo nessun esempio di castighi corporali: le pene si riducevano alla riprensione, all’allontanamento temporaneo ed alla scomunica, con l’abbandono del colpevole nelle mani di satana. Nessuna di queste pene, neppure l’ultima, era puramente vendicativa: la Chiesa non dimentica le raccomandazioni del suo fondatore divino; il suo scopo non è il dominio: il suo ideale non è d’inspirare il terrore e di ostentare la sua forza: la misura ed il limite del suo potere è la difesa delle verità di cui essa fu costituita « la colonna ed il fermo appoggio » (I Tim. III, 15).

3. Riassumiamo in poche parole la concezione della Chiesa quale risulta dagli scritti e dalla pratica dell’Apostolo. Nel dominio di Paolo, tutte le cristianità, dalla loro fondazione o pochissimo tempo dopo, sono provviste di un clero stabilito da lui o dai suoi delegati. Questo clero, oltre i diaconi, comprende altri personaggi chiamati indifferentemente presbiteri o episcopi: i nomi potevano essere sinonimi senza che tali fossero le funzioni; ma la sinonimia dei nomi si poteva estendere anche alle funzioni. Perciò si possono fare tre ipotesi diverse: o i dignitari superiori erano tutti vescovi; oppure erano in parte vescovi e in parte sacerdoti, benché i nomi fossero comuni; oppure erano tutti semplici sacerdoti. Di queste tre ipotesi l’ultima è la sola soddisfacente: la prima che piacque per qualche tempo a Petau, è assolutamente destituita di prove e urta contro gravi obbiezioni; la seconda non è meno precaria, perché ciò che distingue essenzialmente il vescovo dal sacerdote è il potere dell’ordine; ora noi non troviamo la minima traccia di tale potere nel clero sedentario delle Chiese di Paolo. Ogni volta che si trattava di fondare una nuova comunità o di stabilirvi sacerdoti e diaconi, Paolo interveniva personalmente o vi mandava qualcuno dei suoi delegati: Timoteo al quale egli stesso aveva imposto le mani; Tito, il suo collaboratore più attivo; probabilmente Luca che sembra abbia organizzato la Chiesa di Filippi; forse Tichico e Artema che dovevano sostituire a Creta Tito chiamato altrove; e altri ancora senza dubbio. Ma sarebbe un paralogismo il supporre che le cose andassero dovunque in questa maniera, e ben diversa poteva essere la situazione delle comunità cristiane di Gerusalemme, di Antiochia, di Roma e di Alessandria: la gerarchia a tre gradi dovette esistere già nei tempi apostolici. Senza appartenere al clero, le vedove lo aiutavano e lo supplivano talora tra l’elemento femminile. Esse non entravano nell’ordine delle vedove col solo fatto della loro vedovanza, ma con la professione espressa della vedovanza, con la ratifica formale della Chiesa che le prendeva a suo carico sotto certe condizioni. In quanto poi alle pretese diaconesse, queste probabilmente, presso san Paolo, sono semplicemente le mogli dei diaconi o persone che avevano ricevuto dallo Spirito Santo il carisma speciale della διακονία ( = diakonia). Se, nonostante tutto, l’organizzazione delle Chiese paoline sembra alquanto rudimentale, ed il compito dell’autorità sedentaria assai ridotto, bisogna tener conto di quattro circostanze che facilmente si dimenticano. Tutte le cristianità nelle quali le Epistole di san Paolo ci permettono di gettare uno sguardo furtivo, sono di fondazione recentissima: le più antiche datano da otto o dieci anni al massimo; le altre sono appena nate. Dobbiamo meravigliarci di trovarle ancora sotto tutela e possiamo pretendere che abbiano già raggiunto il loro pieno sviluppo? Le città che san Paolo aveva scelto come sua porzione speciale per offrirle al Cristo, erano tra le più turbolente e le più indisciplinate del mondo romano. Se avesse abbandonato quelle cristianità a se stesse, invece di tenerle direttamente in sua mano e di governarle per mezzo di suoi delegati, correva il rischio di vederle consumarsi in brighe e querele interne, come avveniva delle assemblee democratiche di quel tempo e di tutti i tempi. Bisognava pure prevenire il pericolo dell’isolamento. L’unione delle comunità ebreo-cristiane, era cementato dal sentimento nazionale altrettanto, se non più, che dal sentimento religioso. Il primo vincolo mancava nelle chiese della gentilità, poiché l’amore di patria non esisteva nel mondo ellenico, oppure si confondeva con l’orgoglio della stessa città. In tali condizioni, un’autonomia troppo completa o troppo affrettata era un pericolo permanente di scisma e di eresia. Forse i doni carismatici, più abbondanti in origine, supplivano in qualche misura al difetto di organizzazione gerarchica. Quello stato di cose era passeggero, ma poteva servire di transizione tra la prima infanzia delle Chiese e l’epoca della loro maturità.

CONOSCERE SAN PAOLO (46)

LIBRO V

I canali della redenzione.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

CAPO III.

La Chiesa.

II. LA VITA DELLA CHIESA.

1. IL CRISTO MISTICO. — 2. IL CORPO MISTICO DEL CRISTO. — 3. LO SPIRITO SANTO NELLA CHIESA. — 4. LO SPIRITO E IL CRISTO. — 5. LA COMUNIONE DEI SANTI. 6. NEL CRISTO GESÙ.

1. Nell’epistola agli Efesini abbiamo studiato l’essere collettivo formato dall’unione del Cristo e della Chiesa, la sua analogia col corpo umano, le sue principali proprietà, i suoi rapporti col mistero della redenzione. Dobbiamo ora spingere più innanzi questa dottrina, dedurne le conseguenze ed esaminarne il valore. La Chiesa è il « complemento del Cristo (Ephes. I, 23) », come il tronco è il complemento della testa, come le membra sono il complemento dell’organismo. La testa non può nulla senza il corpo; l’organismo non funziona regolarmente se manca qualche organo. Così pure il Cristo senza la Chiesa sarebbe un essere incompleto: incompleto come redentore, poiché la grazia che Egli possiede per diffonderla, rimarrebbe inattiva; incompleto come secondo Adamo, poiché Egli è tale soltanto per il suo carattere rappresentativo; incompleto come Cristo, poiché il Cristo è anche, in san Paolo, una personalità collettiva. Così il Cristo « si completa in tutti, in tutte le maniere »: nei membri della gerarchia sacra come Capo della Chiesa, nei semplici fedeli, come Salvatore e santificatore. Origene fa, sopra questo testo, una profonda riflessione: « La Chiesa è il corpo del Cristo; ma si deve forse considerare come il tronco, distinto dalla testa e da questa governato, oppure tutta la Chiesa del Cristo sarebbe il corpo del Cristo, animato dalla sua divinità e ripieno del suo spirito, secondo l’analogia del corpo umano del quale fa parte anche la testa? Nel secondo caso, quello che vi è di umano in lei sarà un elemento del corpo, e quello che vi è di divino e di vivificante formerà come la potenza divina che anima tutta la Chiesa ». Se lasciamo da parte certe espressioni che avrebbero bisogno di spiegazione, la questione è posta molto bene. San Paolo infatti considera il Cristo e la Chiesa in due maniere assai diverse: qualche volta la Chiesa è paragonata al tronco in opposizione alla testa, e allora la Chiesa e il Cristo sono le due parti integranti del corpo mistico. Tale è il caso di tutti i passi in cui la persona del Cristo è assimilata alla testa (Ephes. I, 22; II Cor. IV, 15). Ma non sempre è così: molte volte la Chiesa e il Cristo sono sinonimi o si distinguono soltanto per una sfumatura di significato appena percettibile; il Cristo e la Chiesa sono un tutto completo; la Chiesa è nel Cristo e il Cristo è nella Chiesa, e l’uno e l’altra si possono sostituire col corpo del Cristo senza mutare notevolmente il significato. Questo fenomeno avviene in tre serie di testi: anzitutto quando il Cristo si presenta come una personalità collettiva, come la vera stirpe di Abramo e la sua « discendenza (spirituale), che è il Cristo (Gal. III, 16) »,  come la somma integrale dei membri il cui insieme forma il corpo « del Cristo (I Cor. XII, 12) ». Qui è il caso di applicare le parole di sant’Agostino, quello, tra i Padri, che più frequentemente e meglio di tutti ha parlato del corpo mistico: « Totus Christus caput et corpus est ». — Poi nelle espressioni rivestire il Cristo, essere immersi nel Cristo, essere innestati sul Cristo: « Voi tutti che siete stati battezzati nel Cristo (εἰς Χριστόν= eis Kriston), avete rivestito il Cristo (Gal. III, 17)… Se sei stato innestato contro natura sopra il buon olivo, quanto più (i rami naturali) saranno innestati sopra l’olivo (che li portava) (Rom. XI, 24) ». — Finalmente nella formula tanto caratteristica in Christo, in Christo Jesu.

2. L’assimilare le società politiche all’organismo del corpo umano è cosa vecchia quanto il mondo, come lo prova il famoso apologo riferito da Tito Livio: alla plebe che si lagnava al vedere il senato attribuirsi tutti gli onori e arrogarsi tutti i privilegi, Menenio Àgrippa seppe dimostrare che lo stomaco, questo organo vorace ed ozioso per il quale si stancano tutte le altre membra, non è il meno necessario al benessere comune. San Paolo adoperava la stessa similitudine per far comprendere che la diversità dei doni spirituali, ben lungi dal nuocere all’unione dei fedeli, tende invece a stringerla di più: “Poiché come noi abbiamo più membra in un solo corpo e tutte le membra non hanno la stessa funzione; così, collettivamente, noi formiamo un solo corpo nel Cristo, e individualmente siamo membra gli uni degli altri” (Rom. XII, 4-5). Le altre società possono benissimo prendere per metafora il nome di corpo, perché la tendenza ad un medesimo fine, i vincoli di autorità e di dipendenza, i diritti e i doveri reciproci danno loro un’unità morale che li somiglia ad un organismo vivente. Ma l’unione del corpo mistico del Cristo è di natura più eccellente. Se si chiama mistico, questo si fa non per negargli le proprietà reali, ma per distinguerlo dal corpo fisico preso dal Verbo nel seno di Maria, per indicare i suoi rapporti con quello che san Paolo chiama il Mistero, e soprattutto per esprimere certe proprietà misteriose dell’ordine soprannaturale le quali, sebbene sfuggano alla verificazione dell’esperienza sensibile, sono tuttavia vere realtà. In questo composto meraviglioso vi è azione reale della testa su tutte le membra e su ciascun membro, reazione delle membra le une su le altre, per la comunione dei santi, compenetrazione reale dello Spiriti Santo che vivifica tutto il corpo e vi forma il più perfetto dei vincoli, la carità. Ciò che distingue essenzialmente il corpo mistico dagli enti morali che abusivamente si fregiano del nome di corpo, è che esso è dotato di vita, e che la sua vita gli viene dall’interno. Il testo sopra citato è appena un abbozzo della dottrina. In esso Paolo si propone soltanto di esortare ciascuno dei fedeli a contentarsi della sua porzione di grazie, con questa considerazione, che i beni spirituali della Chiesa, qualunque sia il membro che li possiede, sono per così dire comuni a tutti, poiché noi siamo membra gli uni degli altri. A questa unione di solidarietà egli dà un’espressione più ampia o più completa nella sua prima Epistola ai Corinzi: “Come il corpo è uno, benché abbia più membra, e tutta le membra di questo corpo, nonostante il loro numero, formano un solo corpo; cosà è del Cristo. Tutti infatti siamo stati battezzati in un medesimo Spirito per (formare) un solo corpo, ed Ebrei, e Greci, e schiavi, e liberi; e tutti siamo stati abbeverati di un medesimo Spirito. Poiché il corpo non è un solo membro, ma più membra. Se il piede dicesse: Perché non sono la mano, io non sono del corpo; forse che per questo non sarebbe del corpo? E se l’orecchio dicesse: Perché non sono l’occhio, io non sono del corpo; forse che per questo non sarebbe del corpo! Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? e se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato? Ebbene, Dio ha disposto le membra nel corpo, ciascuno al posto che piacque a lui. Se tutti fossero un medesimo membro, dove sarebbe il corpo? Vi sono dunque più membra e un solo corpo. – L’occhio non può dire alla mano: Io non ho bisogno di te; né la testa può dire ai piedi: Io non ho bisogno di voi. Al contrario, le membra del corpo reputate più deboli sono le più necessarie; e quelle che noi stimiamo meno onorevoli circondiamo di maggior onore; e le meno oneste trattiamo con più decenza, poiché quelle oneste non ne hanno bisogno. Dunque Dio ha disposto il corpo in modo da dare più onore a quello che ne mancava; affinché non vi sia divisione nel corpo, ma tutte le membra siano piene di sollecitudine vicendevole. Se un membro soffre, tutte le membra soffrono; se un membro è onorato, tutte le membra partecipano alla sua gioia. Ora voi siete (insieme) il corpo del Cristo e individualmente le sue membra” (I Cor. XII, 12-27).La diversità degli organi in un corpo umano non è soltanto un elemento di bellezza, ma è una condizione essenziale di vita. Nelle membra del corpo mistico, essa non deriva dalla loro qualità di Cristiani, perché a questo riguardo non vi è tra loro nessuna differenza; non viene neppure dalla loro qualità di uomini, poiché le differenze stabilite dalla natura non contano nulla sotto l’aspetto di Cristiani; Paolo la fa derivare da quei doni gratuiti che lo Spirito Santo concede ai fedeli per il bene comune della Chiesa: apostolato, profezia, discorso di sapienza o di scienza, discernimento degli spiriti, potere di guarire gli ammalati, di operare miracoli, attitudine a governare, a insegnare, a soccorrere i poveri, a consolare gli afflitti, a praticare altre opere di misericordia. Questi esempi sono assai ben scelti, essendo icarismi, per definizione, proprietà sociali ed avendo per autore lo stesso Spirito Santo il quale forma a suo piacimento il corpo mistico del quale è l’anima; ma tutto quello che dice l’Apostolo, si potrebbe applicare alla gerarchia ordinaria e forse anche alla disuguaglianza che nei santi è prodotta dalla differenza di cooperazione alle diverse chiamate della grazia. L’uomo è per essenza un essere sociale. Un filosofo pagano disse: « Noi siamo tutti fatti per un’azione comune… l’opporsi gli uni agli altri è dunque contro natura (Marco Aurelio, Pensieri, II, 1) ». Se ciascuno degli organi avesse l’istinto di attirare tutto a sé, il corpo intero non tarderebbe a perire: la stessa cosa avverrebbe del corpo sociale; ma la natura ci premunisce contro l’egoismo. Essa ci fa capire che noi non bastiamo a noi medesimi, che ciascun membro ha la sua utilità, che le membra più deboli sono sovente le più necessarie, che le meno nobili sono quelle che si sogliono trattare con maggior onore, che la salute generale dipende dal buon funzionamento dell’insieme, e che il benessere di tutti è subordinato al buono stato di ciascuno. Questa verità si dimostra soprattutto con la sua stessa evidenza, né noi v’insisteremmo se Paolo non ci desse la vera formula dell’altruismo cristiano: « Noi siamo membra gli uni degli altri (Rom. XII, 5) ». L e altre membra non ci sono estranee, ma sono qualche cosa di noi stessi; esse lavorano per noi, come noi lavoriamo per loro; noi abbiamo bisogno del loro aiuto e dobbiamo dare loro l’aiuto nostro. La funzione sociale che riassume l’attività del corpo organico è la comunanza di vita. Il membro non vive di vita propria, ma della vita del corpo; per questo fa bisogno che esso sia unito alla testa da cui deriva l’influsso vitale, e così pure che sia unito alle altre membra che glielo trasmettono, ciascuno nella propria sfera. Il membro separato dalla testa non vive più; isolato dalle altre membra vivrebbe di una vita imperfetta e precaria. San Paolo ce lo dice quando descrive quel visionario di Colossi, « che non aderisce alla testa da cui tutto il corpo, tenuto e unito insieme per mezzo di giunture e di legamenti, riceve l’accrescimento voluto da Dio »; poiché per mezzo del Cristo, « per mezzo della testa, tutto il corpo bene organizzato e saldamente unito, in forza del mutuo aiuto di tutte le membra, operando ciascun membro secondo la propria misura, cresce e si edifica nella carità (Col. II, 18) ». Spesso si è paragonato il Corpo mistico di san Paolo alla Vite allegorica di san Giovanni (Giov. XV, 1-6). I rapporti sono chiari: da tutte e due le parti la vita soprannaturale è somigliata al crescere di un essere vivente, crescere che è dovuto ad un principio interno e che ha per condizione essenziale l’unione al centro della vita. Ma anche le differenze sono degne di nota: in san Giovanni, i rami, direttamente uniti al tronco, ricevono direttamente da esso il succo; in san Paolo invece le membra, unite al capo da altre membra, ricevono l’influsso vitale per mezzo di queste. Il primo considera piuttosto la vita individuale dei credenti, mentre san Paolo mira soprattutto alla vita sociale della Chiesa, che regola e misura il crescere di ciascun fedele. Ma tanto per l’uno quanto per l’altro, l’agente della vita soprannaturale è lo Spirito Santo.

3. Lo Spirito Santo è l’anima del corpo mistico; ora come l’anima nobilita il corpo umano con la sua presenza, lo vivifica col suo contatto, lo muove con la sua attività, così lo Spirito Santo anima il Corpo mistico del Cristo: Egli è l’ospite divino della Chiesa e di ciascun fedele; è il motore e agente unico nell’ordine soprannaturale; Egli è pure u n dono, dono comune del Figlio e del Padre, ed Egli stesso si dà come il più prezioso dei suoi doni. Lo Spirito Santo abita in noi come in un suo tempio, « questo tempio ora è la Chiesa intera, ora una cristianità, ora l’anima individuale: « L o Spirito Santo abita in voi (I Cor. III, 16). — Il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi (I Cor. VI, 19).— Se lo Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù da morte abita in voi, colui che ha risuscitato Gesù da morte vivificherà i vostri corpi mortali per causa del suo Spirito che abita in voi (Rom. VIII, 11) ». Siccome lo Spirito Santo è lo Spirito del Padre e lo Spirito del Piglio, Egli pure abiterà dove abitano il Padre e il Figlio: « Non sapete che voi siete il tempio di Dio? (I Cor. III, 16) — Il  tempio di Dio è santo, e voi siete questo tempio (I Cor. III, 17). — Noi siamo il tempio del Dio vivente (II Cor. VI, 16). — Voi siete stati edificati in un tempio di Dio nello Spirito (Ephes. II, 22). — Il Cristo abita nei vostri cuori per la fede (Ephes. III, 17) ». Ospite dell’anima nostra, lo Spirito di santità non vi rimane inoperoso, ma al suo soffio sboccia tutta la fioritura della nostra vita spirituale. Egli è perciò chiamato da san Paolo « Spirito di vita (Rom. VIII, 2) » e da san Giovanni « Spirito vivificante (Giov. VI, 63) ». Tutti i carismi, di qualsiasi natura, sono conferiti da Lui (I Cor. XII, 4). A Lui l’Apostolo deve la rivelazione del gran mistero che è l’articolo fondamentale del suo Vangelo: poiché lo Spirito che serata le profondità di Dio le rivela a chi vuole (I Cor. II, 10). La sua azione si estende a tutti i Cristiani e a tutte le manifestazioni della vita soprannaturale, dalla rigenerazione battesimale fino alla beatitudine eterna. L’obbedire agl’impulsi della grazia vien detto comunemente « camminare nello Spirito, essere mosso dallo Spirito (Rom. VIII, 4-14) »; il complesso di tutte le virtù è « il frutto dello Spirito (Gal. V, 22) »; tutto ciò che ci eleva sopra la nostra natura carnale e psichica, tutto ciò che ci getta in un’atmosfera divina, tutto ciò che ci trasforma in esseri spirituali, secondo l’espressione cara a san Paolo, riceve il nome generico di spirito per allusione alla fonte da cui emana. Lo Spirito Santo è amore, ed è proprio dell’amore il dare, il dare se stesso con i suoi doni. L’amore con cui Dio ci ama, si manifesta col dono dello Spirito e nel tempo stesso con un’effusione di grazia santificante che è un effetto dello Spirito presente in noi. Questa effusione non è transitoria, ma è inerente e sussiste inseparabilmente unita allo Spirito che ne è la sorgente: « L’amore di Dio è diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci fu dato (Rom. V, 5) ». In noi vi è dunque qualche altra cosa oltre lo Spirito: vi è il prodotto della sua attività. Siccome poi questa effusione è necessariamente finita, poiché viene ricevuta in un essere finito, essa è suscettibile di aumenti indefiniti. Ecco perché san Paolo dice qualche volta che noi abbiamo ricevuto « le primizie (Rom. VIII, 23) » o i « pegni dello Spirito (II Cor. I, 22) ». Noi abbiamo bensì ricevuto lo Spirito tutto intero, perché lo Spirito è indivisibile; ma abbiamo ricevuto soltanto una porzione — e la più piccola, o meglio la meno apparente — dei beni che ci ha destinati. Si è fatta la questione se, per giustificare tutte queste affermazioni dell’Apostolo e le interpretazioni dei Padri, non si dovrebbe concedere allo Spirito Santo un modo speciale di presenza. L’unione dell’anima giusta con Dio avviene direttamente con la natura divina, oppure con la mediazione dello Spirito Santo? Nel primo caso essa riguarderebbe tutte e tre le persone divine a pari titolo e non si potrebbe riferire ad una di esse se non per appropriazione; nel secondo caso invece essa sarebbe propria dello Spirito Santo, e le altre due Persone vi parteciperebbero soltanto per concomitanza, in virtù di quella compenetrazione reciproca che loro non permette di essere separate. È noto che il dotto Petau immaginò, per l’abitazione dello Spirito Santo in noi, qualche cosa di analogo all’unione del Verbo incarnato con la natura umana. Vi mette però una differenza: nell’unione ipostatica del Verbo, un vincolo sostanziale e indissolubile congiunge i due estremi; mentre nell’abitazione dello Spirito Santo il vincolo sarebbe soltanto accidentale — perché essa avrebbe luogo con una facoltà dell’anima e non con la sua sostanza, e si potrebbe sciogliere — ma sarebbe tuttavia personale allo Spirito di santità. Questa teoria seducente è però assai difficile da concepirsi, e lo stesso suo inventore non riuscì a spiegarla. « Essa, egli dice, non è ancora abbastanza dilucidata ». Su che cosa si fonderebbe la relazione speciale di consacrazione o di appartenenza che unirebbe l’anima giusta allo Spirito Santo? Quale funzione ipostatica — o quasi ipostatica — può esercitare lo Spirito Santo nell’anima? E se Egli si unisce a lei con un’operazione, come sarebbe per esempio la produzione della grazia santificante, perché mai la sua unione sarebbe immediata, mentre le altre due persone, che hanno partecipato alla sua attività, sarebbero a lei unite soltanto per un intermediario? D’altra parte la spiegazione volgare la quale, nell’abitazione delle Persone divine, vede soltanto delle differenze di appropriazione, non sembra che combini abbastanza col linguaggio dei Padri e della Scrittura. Per la grazia santificante, si dice, la divinità abita in noi come nel suo tempio; ora la grazia abituale, prodotto di tutte e tre le Persone divine, ci unisce immediatamente a Dio senza distinzione di Persone. Non vi è dunque, nel modo di presenza delle tre Persone divine, altra distinzione possibile, che l’appropriazione, in virtù della quale noi siamo soliti ad attribuire al Padre l’essere e la potenza, al Figlio la scienza e la sapienza, allo Spirito Santo l’amore e la santità, perché noi vediamo in questi diversi attributi un certo rapporto con i loro caratteri personali. Questa teoria è rispettabile, ma non è però altro che una teoria. – Ad ogni modo, non sembra che i Padri e gli scrittori sacri ravvisino in questo modo le cose. Secondo loro, l’unione deifica si fa primieramente con le persone e, per mezzo delle persone, con la natura. La grazia santificante poi è il risultato, non già la condizione, della presenza degli ospiti divini. Quando Dio vuole santificare le anime vi manda il Figlio suo prediletto, mediatore universale della grazia; il Figlio poi, alla sua volta e unitamente al Padre, manda lo Spirito di santità. L’azione santificatrice si svolge dunque secondo l’ordine delle processioni eterne, e lo stesso avviene della presenza delle tre Persone nell’anima santificata. In quest’ultimo caso però l’ordine è invertito: lo Spirito Santo, che è dato all’anima e che dà se stesso, è il primo ad entrare in contatto con lei; priorità di ragione e non di tempo, questo s’intende; ma priorità fondata su qualche cosa di reale, poiché la missione delle Persone non equivale all’appropriazione degli attributi. Sembra che non possano ammettere una diversa esegesi certi testi come il seguente: Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis. Qui si aprirebbe dinanzi a noi un campo immenso nel quale non potremmo tuttavia entrare senza oltrepassare i confini della teologia biblica.

4. Tutto quello che abbiamo detto finora, dimostra quanto intima l’unione del Figlio e dello Spirito Santo nell’opera della santificazione. Questa osservazione non è certamente nuova, e già l’aveva fatta, prima di noi, sant’Epifanio che dice: « Il Cristo è mandato dal Padre, e anche lo Spirito Santo è mandato; il Cristo parla nei santi, e anche lo Spirito Santo parla; il Cristo guarisce, e lo Spirito Santo guarisce; il Cristo santifica, e lo Spirito Santo santifica (Ancoratus, 68 – XLIII, 140) ». Segue poi una serie lunghissima di testi nei quali si afferma questa azione comune. Difatti la grazia, i carismi, la filiazione adottiva, le opere buone, la salvezza, la gloria eterna, insomma tutte le manifestazioni della vita divina, sono riferite ora al Cristo, ora allo Spirito Santo. Così « noi viviamo per mèzzo dello Spirito » e tuttavia « il Cristo è la nostra vita (Gal. V, 25 e Col. III, 4; Fil. I, 12) ». Lo Spirito Santo è il dispensatore di tutti i carismi, senza eccezione, e intanto questi carismi ci sono dati « secondo la misura del dono del Cristo (I Cor. XII, 11 ed Ephes. IV, 9) ». Da Gesù Cristo noi riceviamo la filiazione adottiva; tuttavia lo Spirito Santo è lo spirito di filiazione e « tutti quelli che sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio (Ephes. I, 5 e Rom. VIII, 15) ». I morti risusciteranno « per un uomo », Gesù Cristo; eppure Dio ci risusciterà « per causa dello Spirito » o « per mezzo dello Spirito che abita » in noi (I Cor. XV, 21 e Rom. VIII, 11). Aggiungiamo ancora un fatto accennato molte volte, cioè l’equivalenza delle due formole nel Cristo e nello Spirito. Questa equivalenza, bisogna dirlo, non va tanto lontano quanto ordinariamente si suppone, ma tuttavia è pur sempre suggestiva, come si può vedere da qualche esempio: Giustificato nello Spirito = giustificato nel Signore (I Cor. VI, 11 e Gal. II, 17). Santificato nello Spirito Santo = santificato nel Cristo Gesù (I Cor. VI, 11 e I, 2). Tempio santo nello Spirito = tempio santo nel Signore (Ephes. II, 22 e II, 21). Essere segnati nello Spirito = essere segnati nel Cristo (Ephes. I, 13 e IV, 30). Gioia nello Spirito Santo = gioia nel Signore (Rom. XIV, 17 e Fil. IV, 4). Pace nello Spirito Santo = pace nel Signore (Rom. XIV, 17 e V, 1). Per spiegare questo fenomeno, bisognerà dire che il Cristo e lo Spirito Santo sono identici nel pensiero di Paolo, oppure che lo Spirito è soltanto il modo di operazione del Cristo, oppure che il Cristo, dopo la sua risurrezione, si è totalmente trasformato nello Spirito? Vi è una spiegazione assai più semplice, più naturale e che ha inoltre il vantaggio di evitare l’assurdo. Notiamo anzitutto che l’equivalenza di cui parliamo è limitatissima: il Cristo preesistente non è mai identificato con lo Spirito; il Cristo storico non è mai identificato con lo Spirito; il Cristo Salvatore, nell’opera della redenzione, non è mai identificato con lo Spirito. I punti di contatto tra il Cristo e lo Spirito riguardano unicamente il Cristo glorificato, non però nella sua vita fisica, personale, alla destra del Padre, ma nella sua vita mistica, nel seno della Chiesa. In altri termini, lo Spirito Santo e il Cristo glorificato, che altrove si presentano sempre come due persone distinte, sembrano confondersi nel loro compito di santificatore delle anime (Col. I, 19): qui la loro sfera d’influenza è la medesima e il loro campo di azione è unico; infatti il Cristo è il capo oppure, sotto una figura un po’ diversa, l’organismo del corpo mistico del quale lo Spirito Santo è l’anima; ora nel linguaggio ordinario, specialmente in quello di san Paolo, quasi tutti i fenomeni vitali si possono indifferentemente riferire all’anima o alla testa. Ma l’identità di operazione del Cristo e dello Spirito nella vita dei giusti ha una ragione di essere ben più profonda. Il Cristo, come uomo, possedeva la pienezza dello Spirito (I Cor. XV, 45) e doveva riversarla su noi non appena compiuta la sua opera redentrice. Allora, nel momento della risurrezione, Egli diventa veramente per sé e per noi « spirito vivificante (Gal. IV, 5; Ephes. I, 5) »: per sé, perché la grazia di cui è pieno si riversa sul suo corpo e lo rende spirituale; per noi, perché ci comunica con abbondanza tutti i doni dello Spirito Santo e lo Spirito Santo medesimo. Da quel momento, sotto l’aspetto soprannaturale, noi viviamo per mezzo del Figlio e viviamo per mezzo dello Spirito; o, più esattamente, noi viviamo dello Spirito mandato dal Figlio: identità di operazioni senza confusione di Persone. Prendiamo per esempio la filiazione adottiva. Essa ci viene dal Figlio il quale ci ha adottati e fatti accettare come suoi fratelli; Dio ad essa ci «predestina per mezzo di Gesù Cristo » e ce la conferisce con la fede e col Battesimo, ossia con l’atto e col rito che ci mettono « in comunione col Figlio di Dio (I Cor. I, 9) ». Lo Spirito Santo pure è chiamato « Spirito di filiazione », e tutti quelli che sono animati da Lui, « sono veramente figli di Dio (Rom. VIII, 14-18) ». Dio infatti ci adotta come figli con darci il suo Spirito, e il Cristo ci adotta come fratelli col mandarci il suo Spirito; « poiché se alcuno non ha lo Spirito del Cristo, egli non appartiene al Cristo (Gal. IV, 6-7) ». La prova « che voi siete figli, è che Dio ha mandato lo Spirito di suo Figlio nei vostri cuori dove egli grida: Abba, Padre! Dunque tu non sei più schiavo, ma figlio; e se sei figlio sei dunque anche erede di Dio (Gal. IV, 6-7) ». L o Spirito Santo è il testimonio, il messaggero) l’agente e il pegno della nostra filiazione. Dunque, ben lungi dall’essere una fonte di oscurità, la compenetrazione attiva del Figlio e dello Spirito Santo è per noi un vivo focolare di luce. Per essa noi comprendiamo meglio perché il Cristo doveva risuscitare per mandarci il suo Spirito e per diventare Egli stesso spirito vivificante. Essa rischiara anche la natura del corpo mistico che non è una finzione, una semplice metafora, una pura entità morale, ma un composto di ordine soprannaturale, che riceve l’influsso vitale ad un tempo dalla testa, centro dell’organismo, e dall’anima, principio della vita. E allora la dottrina tanto consolante della comunione dei santi non è più una teoria legata artificialmente alla teologia dell’Apostolo, ma un corollario, chiaro e facile, del suo insegnamento.

5. La comunione dei santi è il vincolo della vita solidale che unisce le membra del Cristo tra loro e col loro capo, sotto l’azione comune di un medesimo Spirito. Questa definizione ha il doppio merito di concordare con la terminologia paolina e di essere abbastanza flessibile da potersi piegare a tutte le ulteriori precisioni, senza pregiudicare il senso dell’articolo inserito tardivamente nel Simbolo. – L’Apostolo chiama « santi » tutti quelli che sono in comunione con Gesù Cristo o, come egli preferisce dire, tutti quelli « che sono nel Cristo ». Sia che ancora stiano lottando nello stadio, sia che già abbiano ricevuto la corona, per lui non vi è differenza, perché la carità « che non viene meno » li unisce ugualmente al Cristo Gesù; o vivi o morti, essi sono sempre « con Lui, in Lui »; essi fanno parte del suo regno, del suo corpo mistico. È cosa degna di nota, che san Paolo adopera costantemente questa parola « santi » come un semplice sinonimo di Cristiani e l’applica senza distinzione a tutti i fedeli, anche dove vi sono gravi abusi da togliere. Sarebbe forse perché egli li suppone tutti individualmente degni di questo titolo, lasciando a colui che scruta le reni e i cuori, la cura di farne la scelta? Oppure prenderebbe forse questo titolo nel senso teocratico e sociale che aveva nell’antica alleanza, e basterebbe forse, per avervi diritto, l’appartenere alla Chiesa la cui santità si riverserebbe allora su ciascuno dei fedeli? Quello che favorisce questa seconda ipotesi è il fatto che Paolo riconosce soltanto due maniere di uscire dal corpo mistico: l’infedeltà e la scomunica. Con l’infedeltà, il battezzato si separa dal capo da cui deriva ogni influsso vitale; con la scomunica, ne viene staccato ufficialmente. Chiunque una volta entrato nell’unità del corpo mistico, non se n’è interamente staccato o non ne è stato solennemente escluso, appartiene dunque alla sfera in cui si svolge la comunione dei santi. Una certa comunanza di beni e di mali è essenziale ad ogni società. Tutti i membri di un corpo morale si prestano un aiuto reciproco; i più umili hanno bisogno dei più nobili, i più nobili hanno bisogno dei più umili, di modo che il benessere o il malessere degli uni è in qualche misura diviso dagli altri, e l’onore o il disonore degli uni ricade moralmente su tutti. Questo è anche più vero nella società cristiana la cui unione più intima ha come emblema il corpo umano. Ogni Cristiano lavora per lo sviluppo del corpo del Cristo. La persona stessa di Gesù Cristo possiede una pienezza alla quale è impossibile aggiungere qualche cosa; ma il Cristo mistico è suscettibile di accrescimenti indefiniti che va ricevendo dal crescere individuale dei suoi membri. Così la Chiesa s’innalza per gradi « in un tempio santo nel Signore », ed il corpo del Cristo acquista a poco a poco la sua statura intera, e diventa « un uomo perfetto », in grazia del continuo progresso del suo organismo. Non vi è parte che guadagni qualche cosa senza che ne abbia vantaggio il tutto; ma anche il tutto non guadagna nulla senza che ne abbiano vantaggio le parti. Così si forma come un circuito vitale che porta al centro tutto il prodotto dell’energia, per diffonderlo poi in tutte le direzioni: così il mare assorbe in sé i fiumi dei quali alimenta le sorgenti. Ma in vantaggio del corpo mistico vi è questa differenza, che esso conserva tutto ciò che ha ricevuto e lo restituisce senza perderne nulla. La comunione dei santi ha lo scopo di arricchire il tesoro della Chiesa e di farne poi la distribuzione a questo o a quel membro. Il primo risultato si ottiene con ogni atto meritorio; il secondo, principalmente con la preghiera. « Ora, dice l’Apostolo, io mi rallegro dei miei patimenti (sostenuti) per voi e compio nella mia carne quello che manca alle tribolazioni del Cristo per il suo corpo, che è la Chiesa (Col. I, 24) ». Secondo i suoi pregiudizi dommatici, il lettore corre pericolo di vedere in questo testo troppe o troppo poche cose; ma vi sono almeno tre fatti certi: anzitutto le tribolazioni del Cristo non sono patimenti paragonabili a quelli di Gesù, ma piuttosto i dolori e i tormenti sopportati dal Cristo durante la sua vita mortale. Queste tribolazioni, nonostante il loro valore infinito, presentano, sotto qualche aspetto, una specie di deficienza; la parola adoperata dall’Apostolo (ὑστέρημα = usterema) non può avere altro significato. — Appartiene agli uomini il colmare questa mancanza e il compiere così l’opera del Cristo; ed è appunto ciò che Paolo è orgoglioso e lieto di fare completando (ἀνταναληρῶ = antanaplero) quello che manca alle tribolazioni del suo Maestro. A questo punto l’esegeta deve procedere molto cauto. Quali sono le tribolazioni del Cristo che si tratta di compiere per il bene della Chiesa? Sono i patimenti del Getsemani e del Calvario, per se stessi più che sufficienti per la salvezza dell’umanità, ma dei quali bisogna ancora assicurare l’applicazione alle anime individuali? Oppure sono le persecuzioni subite per fondare il regno di Dio, persecuzioni di cui tutti gli Apostoli e, dopo di loro, tutti i predicatori del Vangelo devono avere la loro parte? Nella prima ipotesi il dogma della comunione dei santi viene insegnato direttamente; nella seconda, noi apprendiamo almeno che Gesù Cristo ha fondato la salvezza del genere umano sul principio della solidarietà, e che i suoi continuatori devono dividere i suoi travagli per effettuare i suoi disegni di misericordia. – Chi dice solidarietà, dice reversibilità di meriti e di demeriti: era questa un’idea comune nei contemporanei di san Paolo. L’Apostolo, senza fermarsi a giustificarla, la suppone quando afferma che la Chiesa di Corinto espia, con malattie e lutti, l’irriverenza di alcuni nella celebrazione dell’eucaristia; quando dice che il marito cristiano santifica la moglie infedele e che la moglie fedele santifica il marito pagano; che l’elemosina colma in qualche maniera la disuguaglianza tra i discepoli, dando i ricchi il superfluo dei loro beni temporali ai poveri, e restituendoli i poveri  ai ricchi, in beni di ordine superiore (I Cor. XI, 30-32; VII, 14; II Cor. VIII, 13-15). Egli ha tanta fiducia in questo scambio di grazie spirituali, che non cessa di implorare le preghiere dai suoi corrispondenti, di offrire loro in cambio l’aiuto delle sue e di raccomandare loro di pregare gli uni per gli altri: « Fate in ogni tempo, per mezzo dello Spirito, preghiere e suppliche … pregate per tutti i santi ed anche per me, affinché Dio mi conceda di parlare coraggiosamente e di predicare con libertà il mistero del Vangelo (Ephes. VI, 18-19) ». A quelle preghiere egli attribuisce la sua liberazione, la protezione di cui Dio lo circonda ed i buoni risultati della sua predicazione; poiché quando la supplica arriva a tale grado d’intensità da potersi chiamare lotta, combattimento (Rom. XV, 30), è onnipotente presso Dio. – La preghiera dei giusti non è soltanto utile ai vivi, ma giova anche ai morti. Un cristiano di Efeso, Onesiforo, era morto dopo di aver prodigato a Paolo gli attestati più commoventi di affetto e di devozione. Per pagare il suo debito di riconoscenza, l’Apostolo non si contenta di raccomandare a Timoteo la famiglia di Onesiforo, ma egli stesso raccomanda a Dio l’anima del defunto: « Il Signore gli conceda di trovare misericordia presso il Signore in quel giorno (II Tim. I, 18) ». – Parecchi commentatori’ protestanti notano il fatto con manifesto malumore e ne fanno le meraviglie: ma che cosa vi è di più naturale, se la Chiesa è una e se abbraccia tanto i morti quanto i vivi?

6. Qualunque sia l’aspetto sotto il quale si consideri la vita della Chiesa, bisogna fatalmente giungere alla formula In Christo Jesu, la quale è davvero « uno dei pilastri della teologia di san Paolo » (Sanday). Benché non sia esclusivamente sua, poiché san Giovanni ne fa un uso limitato, essa ha in lui una pienezza di significato ed una varietà di applicazioni veramente caratteristiche. Nella sua prima Epistola, san Giovanni afferma a più riprese, che la carità stabilisce tra Dio e noi una relazione di compenetrazione reciproca: « Dio è carità, e chiunque persevera nella carità dimora in Dio, e Dio dimora in lui (I Giov. IV, 16) ». Il nostro atto di carità, per quanto sia finito, non solamente ha Dio come oggetto immediato, ma è veramente una presa di possesso di Dio, l’amore increato. La carità, finché esiste in noi, ci unisce dunque a Lui con un vincolo indissolubile. E ciò, che è vero del Padre, è vero anche del Figlio, poiché essi sono una medesima sostanza: Ego et Pater unum sumus. E vero che nell’Epistola può talora nascere il dubbio se san Giovanni voglia parlare del Padre o del Figlio; ma nel Vangelo il suo linguaggio è ben diverso. Gesù dice ai suoi discepoli: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui (Gio. VI, 56) ». Non già in virtù dell’unione reale della carne del Cristo con la nostra, Gesù Cristo rimane in noi, ma Egli rimane in noi come alimento spirituale dell’anima nostra, anche dopo la corruzione delle specie sacramentali; e noi rimaniamo in Lui perché questo alimento celeste ha la proprietà meravigliosa di trasformarci in Lui, contrariamente a ciò che avviene per ogni altro nutrimento. Alquanto diverso è il caso nell’allegoria della vite: « Rimanete in me ed io in voi… Colui che rimane in me enel quale io rimango porta molto frutto (Giov. XV, 4-5) ». Noi rimaniamo in lui per mezzo di una fede viva, come il ramo sta attaccato al tronco con le fibre e con la scorza; ed egli rimane in noi per mezzo della carità che ci mette in contatto vitale con Lui e per mezzo della quale Egli ci comunica il succo divino. Nel passare da san Giovanni a san Paolo, abbiamo l’impressione che l’orizzonte non è più il medesimo. Anzitutto rileviamo due differenze capitali nell’uso della formola. Diversamente da san Giovanni, san Paolo non dice mai in Gesù o in Gesù Cristo, ma dice sempre nel Cristo o nel Cristo Gesù: prova evidente che egli non considera la persona individuale di Gesù, ma la sua funzione di Messia, la sua qualità di secondo Adamo, insomma il suo carattere rappresentativo. In secondo luogo, mentre san Giovanni stabilisce la reciprocità tra Gesù e noi, san Paolo non lo fa, o almeno non parla di Gesù Cristo in noi se non in rarissimi casi il cui senso preciso è ancora da discutere (Rom. VIII, 10). La formula In Christo Jesu si connette evidentemente alla dottrina del corpo mistico: questo è un punto incontestato. Vediamo dunque in che modo san Paolo descrive l’incorporazione del cristiano al Cristo: “Voi siete tutti figli di Dio per la fede, nel Cristo Gesù; poiché voi tutti che siete stati battezzati nel Cristo avete rivestito il Cristo: non più Ebrei né Gentili, non più schiavi né liberi;… perché voi tutti siete uno nel Cristo Gesù. Non sapete che tutti noi che siamo stati battezzati nel Cristo Gesù siamo stati battezzati nella sua morte! Infatti noi siamo stati sepolti con lui per mezzo del Battesimo (che è) nella sua morte, affinché come il Cristo è resuscitato da morte dalla gloria del Padre, anche noi camminiamo nella novità della vita. Se infatti noi siamo stati innestati su lui dalla somiglianza della sua morte tali pure saremo da quella della risurrezione” (Gal. III, 26-28 ). – Siccome il senso etimologico di battezzare è immergere nell’acqua, non si può quasi dubitare che, nel descrivere gli effetti del Battesimo, san Paolo pensi al rito esteriore dell’immersione e dell’emersione, simbolo efficace di morte e di vita nuova. L’effetto del Battesimo è di immergerci nel Cristo, d’innestarci sul Cristo, d’incorporarci al Cristo, d’identificarci parzialmente col Cristo. Quando si dice che il Cristiano è nel Cristo, come è l’uccello nell’aria o il pesce nell’acqua, questa espressione realistica rimane al disotto della verità; infatti noi non siamo nel Cristo come in un elemento estraneo, ma come in un tutto di cui noi stessi facciamo parte. A dire il vero, il miglior commento della formula In Christo Jesu è questo testo di san Paolo: “La morte è per mezzo di un uomo e la risurrezione da morte sarà per mezzo di un uomo; poiché come tutti muoiono in Adamo, così tutti saranno vivificati nel Cristo(I Cor. XV, 21-22) ». Adamo e il Cristo rappresentano qui tutta quanta l’umanità, e si può dire con sant’Agostino, a patto di non fraintenderlo: In Adam Christus et Christus in Adam(in Ps. CI, sermo I, n. 4). Tutti gli uomini sono in Adamo e tutti sono nel Cristo, benché in modo assai diverso: « Tutti muoiono in Adamo, dice san Cirillo di Alessandria, perché per causa della sua trasgressione la natura fu condannata in lui; così tutti saranno giustificati nel Cristo perché, in grazia del suo atto redentore, la natura è di nuovo benedetta in Lui (Fragm. In I Cor, XV, 22) ». – Si parla poco esattamente quando si dice che « il Cristo della formula In Christo Jesu è sempre il Cristo glorificato come πνεῦμα (= pneuma), e non il Cristo storico » (Sanday). Non è precisamente il Cristo glorificato, ma il Cristo Salvatore, il nuovo Adamo, quello cui allude la formula; ed è questo Cristo Salvatore dal momento in cui inaugura la sua missione redentrice, cioè dalla sua passione. Da quel momento noi soffriamo e moriamo con Lui, noi risuscitiamo e regniamo con Lui; noi partecipiamo della sua forma, della sua vita e della sua gloria. Così pure da quel momento noi siamo chiamati, giustificati, eletti, predestinati in Lui; in Lui otteniamo tutte le benedizioni celesti; la grazia, la filiazione adottiva, la santificazione, la vita eterna. Tale è il valore normale della formola In Christo Jesu, ma essa può subire notevoli aumenti o diminuzioni di significato. Quando l’Apostolo vuole esprimere l’unione ineffabile dei cristiani tra loro e col Cristo nell’identità del corpo mistico, la formola raggiunge il suo massimo valore; quando invece si limita a indicare il principio della solidarietà cristiana, il significato si attenua: allora essere nel Cristo vuol dire muoversi nella sfera del Vangelo o vivere secondo lo spirito del Cristianesimo.

CONOSCERE SAN PAOLO (45)

LIBRO V

I canali della redenzione.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

CAPO III.

La Chiesa.

I. LA CONCEZIONE PAOLINA DELLA CHIESA.

1 . I NOMI DELLA CHIESA. — 2. LA CHIESA DI DIO. — 3. LE NOTE DELLA CHIESA.

1. Era il popolo eletto ora la vigna custodita e coltivata da Dio con una cura gelosa, come nella celebre allegoria di Isaia, alla quale si riferiscono i Sinottici (Is. V, 2-7), ora il ceppo di vite trapiantato in Canaan e suscettibile di una crescenza illimitata: la sua ombra copriva lo montagne, i suoi tralci somigliavano ai cedri di Dio; essa spingeva i suoi rampolli fino al mare e le sue propaggini fino al gran fiume (Sal. LXXIX). San Giovanni dà una forma diversa a questo simbolo tanto caro ai Profeti (Os. X, 1; Ger. II, 21; Is. XVII, 3-6; Cant. I, 6, etc.); san Paolo gli sostituisce quello dell’olivo (Rom. XI, 16-24). Paolo difatti si figura il Battesimo come un innesto che unendoci al Cristo ci fa aspirare la linfa divina; era dunque naturale che egli concepisse la Chiesa sotto l’immagine di un olivo il quale ha le radici nelle profondità dell’economia antica e cresce all’infinito con l’aggiunta di nuovi rami. L’allegoria è trasparente: la « radice santa e il tronco benedetto » sono i patriarchi; l’olivo è la Chiesa che esce dalla Sinagoga con una specie di processo vitale; i rami sono i membri della Chiesa, gli uni (i Cristiani di razza ebrea) venuti naturalmente sul buon olivo, gli altri (i Cristiani del gentilesimo) presi dall’olivo selvatico. L’incredulità è quella che distacca i primi; la fede è quella che innesta i secondi; ma i rami staccati conservano sempre la possibilità di venire nuovamente reintegrati, e i rami innestati devono sempre temere di essere alla loro volta rigettati. Israele era anche la casa, il regno, il popolo di Jehovah; Jehovah era suo padre, suo re, suo Dio. La Chiesa, erede della Sinagoga, sarà pure tutto questo in modo eminente. Il punto di partenza della metafora « casa di Jehovah » pare che sia l’idea di famiglia, più che quella di edificio, benché il senso di edificio appaia chiaramente in alcuni passi (Num. XII, 7; Os. VIII, 1; Ger. XII, 7; cfr. Ebr. III, 6). L’Apostolo non applica molto alla Chiesa militante la nozione della teocrazia ebraica, poiché il « regno di Dio » ha per lo più, nei suoi scritti, un valore escatologico. Egli non le dà neppure il nome di popolo di Dio se non nelle reminiscenze dell’Antico Testamento (II Cor. VI, 16). Il grande onore della nazione santa era quello di essere la figlia e la sposa di Jebovah. Ma col passare nella nuova economia, il titolo di figlio cambia natura, da collettivo diventa individuale: così non è più la Chiesa che è figlia di Dio, ma sono i figli della Chiesa che posseggono personalmente la filiazione adottiva (Rom. VIII, 14). Anche il nome di sposa avrebbe dovuto seguire una simile evoluzione; ma questo simbolo del matrimonio, che ha una parte tanto considerevole nei Profeti (v. Osea), non ha quasi più luogo nel Nuovo Testamento. Lo ricordano san Giovanni e san Paolo: il primo nel descrivere le nozze dell’Agnello (Apoc. XXI, 6-9; XXII, 17), il secondo quando chiama il matrimonio un gran mistero « per rapporto al Cristo e alla sua Chiesa (Ephes. V, 32) », e quando attribuisce a se stesso le funzioni e i sentimenti del paraninfo incaricato di condurre al Cristo la sposa con cui questi è fidanzato (II Cor XI, 2). Ma il Dio geloso dei profeti non è passato agli evangelisti: così l’allegoria del matrimonio non seguì il suo sviluppo normale che avrebbe fatto dell’anima individuale la sposa del Cristo. Vi sono tuttavia, in san Paolo e nel Vangelo, allusioni sufficienti per giustificare il linguaggio degli scrittori mistici (Matth. XXV, 1-10; IX, 15, etc.). Ci voleva il mistero dell’incarnazione — un Dio fatto uomo ed un uomo fatto Dio, due nature infinitamente distinte e congiunte senza confusione nell’unità di una stessa persona — per lasciar sospettare una unione ancora più intima che quella degli sposi. Gli animi vi erano preparati dalla forma che aveva preso, nella bocca del Salvatore, l’allegoria della Vite. Nel promettere l’eucaristia e dopo di averla istituita, Gesù aveva parlato della sua unione con i comunicanti in termini che implicavano un’identità di operazioni, di funzioni e di vita. Le sue parole ponevano la base della dottrina del corpo mistico, che san Paolo riprese, elaborò, considerò sotto ogni aspetto, per farne il punto culminante della sua morale e il centro del suo insegnamento. – Il corpo del Cristo e la Chiesa sono oramai i nomi più caratteristici della sposa di Gesù Cristo: il primo le appartiene come suo proprio, il secondo lo eredita parzialmente dalla Sinagoga.

2. Nell’Antico Testamento, due parole quasi sinonime (qahal e edah) indicavano l’assemblea religiosa del popolo eletto, sotto la presidenza invisibile di Jehovah rappresentato dai suoi mandatari. I Settanta e i traduttori più recenti — Aquila, Simmaco e Teodozione — ordinariamente traducono il primo termine con ἐκκλησία (= ekklesia) il secondo con συναγωγη (= sunagoghe). Ma, nell’epoca evangelica, συναγωγη (= sunagoghe) significava l’edificio in cui gli Ebrei si riunivano nei giorni di sabato, e pare che generalmente indicasse le stesse riunioni. Per la comunità cristiana era una ragione imperiosa d’impadronirsi dell’altro termine: per distinguersi dalla Sinagoga essa si chiamò dunque Chiesa. – Il credere che questa parola sia stata presa dalle turbolente riunioni delle democrazie greche, è un sacrificare inutilmente e per partito preso tutte le verosimiglianze e tutti i dati positivi della storia. In quanto poi alla sua origine storica, questo nome doveva indicare la Chiesa universale prima di applicarsi alle chiese particolari; ed è questo appunto che noi possiamo constatare. Gesù Cristo si propone di fondare su Pietro la sua Chiesa, necessariamente unica; san Luca non conosce che una Chiesa, nonostante la diversità dei luoghi e delle nazioni; san Paolo stesso si ricorda di aver perseguitato la Chiesa di Dio, e quando identifica questa Chiesa col corpo del Cristo o le dà il Cristo come capo, egli evidentemente ne esclude la pluralità. Per indicare le Chiese locali, egli dirà, per esempio, « la Chiesa che è a Corinto », oppure, per derivazione, « la Chiesa dei Tessalonicesi »; eccetto che la Chiesa, al singolare, non sia determinata dal contesto. La Chiesa non è né l’aggregazione dei credenti né la somma delle comunità particolari, ma un ente morale cui è essenziale l’unità. « Non soltanto la parte è nel tutto, ma il tutto è nella parte (Harnak) ». Ecco perché san Paolo si rivolge alla « Chiesa di Dio che è a Corinto »;  infatti che essa ala a Corinto, a Efeso o altrove, è sempre la Chiesa di Dio, poiché la Chiesa è essenzialmente una. Ecco ancora perché l’Apostolo chiama una chiesa particolare il tempio dello Spirito Santo e la sposa del Cristo, perché la Chiesa particolare non è altro che un’estensione della Chiesa universale e si chiamerebbe abusivamente Chiesa se fosse separata dalla Chiesa unica.

3. Le metafore che servono a indicare la Chiesa ne indicano pure i caratteri o le cosiddette note. Come corpo mistico del Cristo, la Chiesa è una; come sua sposa è santa; come tempio di Dio ha per fondamento gli apostoli; come regno dei cieli è cattolica o universale. Ma san Paolo non ha la pretesa di essere costante nelle sue metafore e passa continuamente dall’una all’altra, di modo che questa miscela di immagini disparate produrrebbe una certa confusione per chi volesse interpretarle col rigore di purista. Percorriamo rapidamente questi quattro caratteri di unità, di cattolicità, di apostolicità, di santità, senza uscire dall’Epistola agli Efesini dove questi caratteri sono più evidenti (Méritan). – La nostra incorporazione comune al Cristo è il gran principio dell’unità. Ad una sola testa, un solo corpo, altrimenti si avrebbe un mostro. Come vi è un solo Cristo naturale, così è impossibile avere più di un Cristo mistico. “Vigilate per conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace: un solo corpo, e un solo spirito, come foste chiamati a partecipare per vocazione ad una medesima speranza; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio e Padre di tutti gli uomini, il quale è sopra tatti, agisce per mezzo di tutti, risiede in tutti” (Ephes. IV, 3-6). – Sette elementi — tre intrinseci, tre esteriori, uno trascendentale — entrano nella costituzione della Chiesa e ne stringono l’unità. La Chiesa è una nel suo principio materiale, poiché è un solo corpo; una nel suo principio formale, perché è animata da un medesimo Spirito; una nella sua tendenza e nella sua causa finale che è la gloria di Dio e del suo Cristo, per mezzo della felicità degli eletti. Essa è ancora una per l’autorità che la governa; una per la fede comune che le serve di regola e di norma esteriore; una per la sua causa efficiente, il rito battesimale, che le dà l’essere e l’accrescimento. San Paolo riassume con una frase questi sei principi di unione: « Tutti voi siete uno nel Cristo Gesù (Ga. III, 28) ». Bimane il settimo principio: « il Dio e Padre di tutti gli uomini ». A primo aspetto non si vede quale relazione vi possa essere tra l’unità di Dio e l’unità della Chiesa; ma l’Apostolo determina altrove con precisione il suo pensiero. Egli c’insegna che tutta l’umanità è oramai destinata a formare una medesima famiglia nella casa di un Padre comune, una medesima teocrazia sotto lo scettro di uno stesso re (Ephes. II, 14-22). Sotto questo aspetto, l’unità della Chiesa si confonde con l’unicità e con la cattolicità. La parola cattolico, abbastanza comune nell’uso profano da Aristotele in poi, non si trova nella Bibbia; ma dopo sant’Ignazio di Antiochia, serve ad esprimere un’idea biblica quanto mai, l’universalità della Chiesa. Questa universalità è annunziata dai profeti, e gli Apostoli hanno la missione di effettuarla col predicare il Vangelo fino ai confini del mondo. L’esclusivismo degli Ebrei è finito; la teocrazia antica, ha fatto il suo tempo; il regime del privilegio deve terminare: « Forse che Dio è il Dio dei soli Ebrei? Non è anche Dio dei Gentili? (Rom. III, 29) « Questi Gentili disprezzati, estranei alle alleanze, estranei alle promesse, senza Cristo, senza Dio, senza speranza, sono fusi in un solo corpo di nazione col popolo eletto. Non più stranieri né ospiti; tutti i membri della Chiesa, senza distinzione di origine, sono oramai « concittadini dei santi e della famiglia di Dio (Ephes. II, 19) ». – Il mondo intero non deve più formare che un solo regno, una sola città, una sola casa, di cui Dio, col Cristo suo rappresentante, sarà il solo re, il solo capo, il solo padre. Siccome è stabilito che Dio estende a tutti gli uomini i suoi disegni di redenzione e non li vuole salvare in altro modo che incorporandoli al Cristo, ne segue necessariamente che la Chiesa è una nella sua essenza e universale nella sua destinazione. La Chiesa è una e universale perché è la sposa del Cristo, che abbraccia in potenza tutto il genere umano; perché è il corpo del Cristo nel quale devono rinascere tutti quelli che erano morti nel primo Adamo; perché essa è il Regno di Dio, il vero Israele che succede all’antica teocrazia di cui spezza il particolarismo. Se Paolo si fermasse a questo, il suo insegnamento non avrebbe nulla di notevolmente caratteristico; ma la sua originalità sta in questo, che egli fa derivare questi due attributi dalla stessa sua nozione di Chiesa. La Chiesa, quale è da lui concepita, è essenzialmente una e universale, ossia cattolica, perché essa elimina tutto ciò che si oppone all’unità e all’universalità, sopprimendo, sotto l’aspetto religioso, tutte le differenze nazionali, sociali e individuali, con tutte le disuguaglianze di diritti e di privilegi, e infondendo così a tutti i suoi membri una corrente comune di vita e di azione, di una inesauribile energia: « Tutti voi siete figli di Dio per la fede, nel Cristo Gesù. Poiché voi tutti che foste battezzati nel Cristo avete rivestito il Cristo. Non vi è più né Ebreo né Greco, non più schiavo o libero, non più uomo né donna; perché voi siete tutti uno nel Cristo Gesù (Gal. III, 26-28). — Non vi è più né Greco né Ebreo, non più circonciso e incirconciso, né barbaro né Scita, né schiavo, né libero; ma il Cristo tiene il posto di tutto e (questo) in tutti (Col. III, 11) ». Le differenze di razza, di educazione, di grado sociale, perfino di sesso, sono scomparse. La qualità di figlio di Dio ha scancellato tutte queste distinzioni. Nessuno dunque è più escluso dall’economia nuova, poiché vi sono ammessi gli Sciti, i più barbari tra i barbari. – Non bastava portare il messaggio della salvezza fino ai confini del mondo (Rom. X, 13) e predicare il Vangelo ad ogni creatura che è sotto il cielo (Col. I, 23): bisognava allontanare gli ostacoli che impedivano la fusione perfetta di questi elementi eterogenei. Il più formidabile di tali ostacoli era il particolarismo degli Ebrei. La teocrazia ebraica, nazionale per sua natura ed espressamente chiusa a certe nazioni straniere, non aspirava affatto ad essere la religione del mondo intero; infatti, cessando di essere nazionale, essa perdeva il suo carattere di istituzione privilegiata. Poteva bensì crescere con l’aggiunta di nuovi adepti, ma l’inferiorità umiliante in cui essa li teneva, e le gradazioni diverse che lasciava tra loro, senza parlare delle esclusioni che essa non imponeva, dimostravano chiaramente che essa non mirava punto a fare del genere umano una sola famiglia religiosa. La barriera della Legge, che nel tempo passato aveva protetto la fede monoteistica del popolo eletto, la teneva oramai in un funesto isolamento. Gesù Cristo, per assicurare alla sua Chiesa l’unità e l’universalità, doveva prima di tutto rovesciare il muro di separazione. Egli dunque inchioda sopra la croce la carta antica che si opponeva alla fusione dei popoli (Col. II, 14); spalanca le porte della nuova economia alle nazioni che fino allora ne erano tenute lontano; così tutti gli uomini diventano, per uno stesso titolo, concittadini di un medesimo regno e membri di una stessa famiglia; tutti finalmente, riconciliati tra loro e con Dio, sono uniti nel Cristo, in un solo corpo mistico (Ephes. II, 14-19; Col. I, 20-22). – Una e cattolica per essenza, la Chiesa dev’essere ancora apostolica. Paolo scrive agli Efesini: « Voi siete stati edificati sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti, essendo Gesù Cristo stesso la pietra angolare (Ephes. II, 20) ». Il grammatico potrebbe intendere questo fondamento in quattro diverse maniere: il fondamento sul quale sono edificati gli Apostoli; il fondamento sul quale edificano gli Apostoli; il fondamento che fu edificato dagli Apostoli; il fondamento che si identifica con gli Apostoli. Però l’esegeta non rimane dubbioso: sono gli stessi Apostoli ed i Profeti il fondamento della Chiesa. In questo edificio di cui il Cristo è la pietra angolare, ed i fedeli sono le pietre viventi, bisogna che il fondamento sia della stessa natura e che simboleggi delle persone. I Profeti qui nominati sono quelli del Nuovo Testamento o quelli dell’Antico? Forse sono quelli del Nuovo Testamento, perché nel testo greco lo stesso articolo che comprende le due parole sembra che le metta nella stessa categoria, e poi perché Profeti e Apostoli del Nuovo Testamento sono generalmente raggruppati insieme senza possibilità di equivoco. Tuttavia l’altra ipotesi ci piacerebbe di più. Che i profeti del Nuovo Testamento siano i fondamenti della Chiesa, è un’idea poco naturale della quale non si trova nessuna traccia altrove: il carisma profetico del Nuovo Testamento edifica, ma non fonda. Noi sappiamo invece quanto san Paolo sia geloso nello stabilire la nuova economia sopra le basi dell’antica, e nel presentarci gli Apostoli come gli eredi dei Profeti. – La santità della Chiesa è proclamata con tanta frequenza, che resta superfluo il citare testimonianze a questo riguardo. Basta ricordare che i Cristiani, per il Battesimo ricevuto e come membri del corpo mistico, sono i santi per antonomasia, che la Chiesa è la sposa del Cristo la cui santità si riversa su lei, che Gesù ha dato il suo sangue per purificarla e santificarla, affinché sia « senza macchia, santa e immacolata ».

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – NOSTIS ET NOBISCUM

Indubbiamente, questa lettera enciclica merita attenta riflessione ancor oggi in una Nazione oramai allo sbando sociale, culturale, politico, istituzionale, e soprattutto spirituale. I mali denunciati dal Sommo Pontefice dell’epoca, si sono ampliati fino a raggiungere una portata incommensurabile. Tutti gli argomenti, seppure brevemente, ma efficacemente, sono stati toccati e denunciati dal Pontefice, come le perverse ideologie politiche, socialismo e comunismo, le perverse ed ingannevoli macchinazioni della stampa e della empietà protestante nonché delle conventicole (massoniche e kazare), ma somma attenzione è posta al male sovrano che ha poi sconvolto non solo la Nazione italica, fino a farla divenire terra di Sodoma e di Babilonia, ma tutto l’orbe Cattolico: « … Questi superiori ricorderanno incessantemente, e cogli avvertimenti, e colle rimostranze, e coi rimproveri, ai religiosi delle loro case, ch’essi devono seriamente considerare con quali voti si sono a DIO legati, attendere e mantenere le promesse fatte osservare inviolabilmente le regole del loro istituto, e portando nei loro corpi la mortificazione di GESÙ, astenersi da tutto ciò che è incompatibile colla loro vocazione, dedicarsi interamente a quelle opere che alimentano e crescono la carità verso DIO ed il prossimo, e l’amore della perfetta virtù. Oltreciò, i moderatori di questi ordini invigilino attentamente perché l’ingresso in Religione non sia aperto a chicchessia se non dopo maturo e scrupoloso esame della sua vita, de’ suoi costumi e del suo carattere, e perché nessuno possa esser ammesso alla professione religiosa, se non dopo aver date, in un noviziato fatto secondo le regole, prove di vera vocazione … ». Queste raccomandazioni, allora e successivamente, sono state disattese al punto da corrompere totalmente il clero ed i religiosi [tranne rarissime eccezioni], e rendere possibile l’insediamento e l’infiltrazione dei nemici più tenaci della Chiesa, fino ai vertici – come la Vergine a La Salette e a Fatima, e Papa Leone XIII avevano ben profetato, così da rendere possibile l’azione scardinante di personalità come Rampolla, Lienart, Tisserant, Bea, Roncalli, G. B. Montini, Frings, S. Baggio, Casaroli, A. Bugnini, M. Lefevre, C. M. Martini… ed una massa infinita di gay massoni e kazari-marrani di ogni livello e grado, che hanno permesso il trionfo [apparente!] del nemico sulla società tutta e le nazioni un tempo strappate al potere tenebroso del demonio, nemico oggi tronfio nella sinagoga satanica del “novus ordo” del Vatigay e delle conventicole pseudotradizionaliste, stampelle traballanti della falsa chiesa dell’uomo. Non ci resta che approfondire e fare nostre, se pur tardivamente, ma pur sempre valide e degne di ogni considerazione, tutte le indicazioni di sua Santità, il Beato Pio IX, disconoscendo totalmente le s. s. [… sue satanità] attuali, guide infernali e della dannazione eterna: Nostis et nobiscum una conspicitis, Venerabiles Fratres, quanta …

Nostis et nobiscum

PIUS PP. IX.

AGLI ARCIVESCOVI E VESCOVI D’ITALIA

Venerabili Fratelli,

Salute ed Apostolica Benedizione!

Voi sapete e vedete siccome noi, Venerabili Fratelli, per quale perversità hanno prevalso in questi ultimi tempi certi uomini perduti, nemici d’ogni verità, d’ogni giustizia, i quali, sia colla frode e con artifizi d’ogni maniera, sia ancora apertamente e gettando, come mare spumoso, la feccia delle loro nequizie, si sforzano di spandere per ogni dove, tra i popoli fedeli d’Italia, la sfrenata licenza del pensiero, della parola, di ogni atto empio ed audace, per abbattere nell’Italia stessa la Religione Cattolica e, se fosse possibile, schiantarla dalle fondamenta. Tutto il piano del loro diabolico divisamento si è rivelato in diversi luoghi, ma specialmente nella diletta città, sede del supremo Nostro Pontificato, nella quale, dopo averci costretti ad abbandonarla, essi poterono per alcuni mesi dar più libero sfogo a tutti i loro furori. Là, in un orribile e sacrilego tramestamento delle cose divine ed umane, la loro rabbia s’accrebbe a tal punto che, disprezzando l’autorità dell’illustre Clero di Roma e dei Prelati, che per ordine Nostro stavano intrepidi alla sua testa, non li lasciarono neppure continuar in pace l’opera del santo lor ministero, e senza pietà pei poveri malati in preda alle angosce della morte, allontanavano da loro tutti i soccorsi della Religione e li costringevano a rendere l’anima fra gli allettamenti di qualche sfrontata meretrice.  – Ora benché la città di Roma e le altre provincie dello Stato Pontificio siano state, grazie alla misericordia di Dio, restituite mediante le armi delle nazioni cattoliche, al nostro temporale governo; benché le guerre ed i disordini che ne sono la conseguenza, siano egualmente cessate nelle altre contrade d’Italia, cotesti infami nemici di DIO e degli uomini non desistettero però, né desistono dal loro lavoro di distruzione; essi non possono adoperare la forza aperta, e ricorrono perciò ad altri mezzi, quali velati sotto fraudolenti apparenze, quali visibili a tutti. In mezzo a sì grandi difficoltà portando Noi il carico supremo di tutto il gregge del Signore, e penetrati essendo dalla più profonda afflizione alla vista dei pericoli cui vanno specialmente esposte le Chiese d’Italia, riesce però alla nostra infermità, fra tanti dolori, di grande consolazione, o Venerabili Fratelli, lo zelo pastorale, del quale voi, anche nel più forte della burrasca testè passata, deste tante prove, e che si manifesta ogni giorno con sempre più splendide testimonianze. Ciò non pertanto la gravità delle circostanze ci stimola ad eccitare anche più vivamente colle nostre parole ed esortazioni, secondo il dovere del nostro apostolico ufficio, la vostra fraternità, chiamata a parte delle nostre sollecitudini, a combattere e con noi e nell’unità le guerre del Signore, e preparare ed a prendere d’unanime consenso tutte quelle misure, per le quali colla benedizione di Dio, ne venga dato riparare al male già fatto in Italia alla nostra santissima Religione, e siano pervenuti e respinti i pericoli, de’ quali un avvenire prossimo la minaccia.  – Tra le frodi senza numero che i suddetti nemici della Chiesa sogliono adoperare per mettere in uggia agl’Italiani la fede Cattolica, una delle più perfide si è l’affermare che essi fanno impudentemente e spacciare per tutto a piena gola, che la Cattolica Religione è un ostacolo alla gloria, alla grandezza, alla prosperità dell’italica nazione, e che perciò, per restituire all’Italia lo splendore degli antichi tempi, vale a dire dei tempi pagani, gioco forza è toglier di mezzo la Religione Cattolica, ed in sua vece insinuare, propagare e stabilire gl’insegnamenti dei protestanti e le loro conventicole. Non si saprebbe giudicare qual cosa in tali affermazioni sia più detestabile; se la perfidia dell’empietà furibonda, ovvero l’impudenza della sfrontata menzogna. – Il bene spirituale per cui, sottratti noi alla potestà delle tenebre, siam trasportati nella luce di Dio e, giustificati colla grazia, siam fatti eredi del CRISTO nella speranza della vita eterna, questo bene delle anime derivante dalla santità della Religione Cattolica è certamente di tal pregio e valore che, a petto di esso, tutta la gloria e felicità di questo mondo deve essere riguardata come puro nulla: «Quid enim prodest homini si mundum universum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur? aut quam dabit homo commutationem pro anima sua? (Matt. XVI, 26). » Ma tanto è lungi che la professione della vera fede abbia cagionato alla gente italica i danni temporali di cui si parla, che anzi alla sola Religione Cattolica essa va debitrice, se nello sfasciarsi del romano impero ella non fu ravvolta nella rovina che toccò ai popoli dell’Assiria, della Caldea, della Media, della Persia, della Macedonia. In fatti, nessun uomo leggermente istruito ignora che non solo la santissima Religione del CRISTO ha liberato l’Italia dalle tenebre di tanti e sì gravi errori che tutta la coprivano, ma di più frammezzo alle rovine dell’antico impero, e le invasioni de’ barbari devastanti tutta Europa l’ha innalzata in gloria e grandezza sopra tutte le nazioni del mondo, per forma che par singolar beneficio di DIO, possedendo l’Italia nel suo seno la sacra Cattedra di Pietro, ottenne per la divina Religione un impero troppo più solido ed esteso, che non l’antica sua terrestre denominazione. Questo peculiarissimo privilegio di possedere la Sede Apostolica, e del metter che fece conseguentemente la Religione Cattolica più forti e profonde radici tra i popoli d’Italia, fu per lei la sorgente di altri insigni ed innumerevoli benefici. Imperocchè la santissima Religione del Cristo, maestra della vera sapienza, protettrice e vindice dell’umanità, madre feconda di tutte virtù, spense nell’animo degl’Italiani quella sete funesta di gloria, che aveva trascinati i loro maggiori a fare perpetuamente la guerra, a tener i popoli stranieri nell’oppressione, a ridurre, secondo il diritto di guerra allor vigente, un’immensa quantità d’uomini alla più dura schiavitù, e nello stesso tempo rischiarando le loro menti cogli splendori della Cattolica Verità, li recò con potente impulso alla pratica della giustizia, della misericordia, alle opere più magnifiche di pietà verso Dio e di beneficenza verso gli uomini. Di che sorsero nelle principali città italiane tante sante basiliche ed altri monumenti delle età cristiane, i quali non furono già l’opera dolorosa di una moltitudine gemente nel servaggio, ma sì veramente il libero frutto di una carità vivificante. Al che voglionsi aggiungere le pie istituzioni d’ogni maniera consacrate sia all’esercizio della vita religiosa, sia all’educazione della gioventù, alle lettere, alle arti, alla savia coltura delle scienze, sia infine al sollievo degl’infermi e degl’indigenti. Tale è dunque quella religione divina, che abbraccia: sotto tanti titoli diversi, la salute, la gloria e la felicità dell’Italia, quella Religione che oggidì si vorrebbe far rinnegare ai Popoli della Penisola. Noi non possiamo trattenere le lagrime, Venerabili Fratelli, nel vedere che si trovano in quest’ora degl’Italiani così perversi, così accecati da miserabili illusioni, che non temono di applaudire alle depravate dottrine degli empii, e cospirare con essi alla rovina della lor patria. Ma voi troppo sapete Venerabili Fratelli, che i principali autori di questa orribile macchinazione hanno per scopo di spingere i popoli, agitati da ogni vento di perverse dottrine, al sovvertimento d’ogni ordine nelle cose umane, e di traboccarli negli orrendi sistemi del nuovo socialismo e del comunismo.  – Ora cotesti uomini ben sanno e il veggono per la lunga esperienza di molti secoli, che essi non possono sperare nessun assenso per parte della Chiesa Cattolica, la quale, custode gelosissima del deposito della Rivelazione, non soffre mai che né un apice sia tolto od aggiunto alle verità proposte dalla Fede. Quindi è che eglino son venuti nel disegno di trarre gl’Italiani alle opinioni ed alle conventicole dei protestanti, nelle quali (ripetono essi continuamente a fin di sedurli) non si deve vedere altro che una forma differente della stessa vera Religione Cristiana, in cui si può piacere a DIO egualmente che nella Chiesa Cattolica. Frattanto essi sanno benissimo che nulla può tornar più utile all’empia lor causa, che il primo principio del protestantismo, il principio della libera interpretazione delle Sacre Scritture, fatto dal privato giudizio di ciascuno. Posto questo, dopo aver abusato delle Sacre Scritture, traendole a cattivo senso per ispandere i loro errori, essi sperano di potere, quasi in nome di Dio, spingere dipoi gli uomini, già gonfi dell’orgogliosa licenza di giudicare delle cose divine, a rivocar in dubbio eziandio i principii comuni del giusto e dell’onesto.  – Piaccia a DIO, Ven. Fratelli, piaccia a DIO che l’Italia, nella quale le altre Nazioni sono avvezze ad attingere le acque pure della sana dottrina, perché la Sede Apostolica è stabilita a Roma, non divenga per esse d’or in poi una pietra d’inciampo e di scandalo! Piaccia a Dio che questa cara porzione della Vigna del Signore non sia lasciata in preda alle fiere! Piaccia a Dio che i popoli italiani, dopo aver bevuta la demenza alla coppa avvelenata di Babilonia, non arrivino mai ad impugnar armi parricide contro la Chiesa lor madre! Quanto a Noi ed a Voi, cui DIO nel suo segreto giudizio ha riserbati a tempi di sì gran pericolo, guardiamoci bene dal temere le astuzie e gli attacchi di cotesti uomini che cospirano contro la Fede d’Italia, quasichè noi dovessimo vincerli colle nostre proprie forze, mentre che il Cristo è il nostro consiglio e la nostra forza; il CRISTO, senza del quale possiamo nulla, ma col quale possiamo tutto. Operate dunque, Venerabili Fratelli, operate, vegliate con attenzione sempre maggiore sul gregge che vi è affidato, e fate tutti i vostri sforzi per difenderlo dalle insidie e dagli attacchi dei lupi rapaci. Comunicatevi vicendevolmente i vostri disegni, continuate, siccome avete già cominciato, a tenere riunioni tra di voi, affinché, dopo avere scoperto per comune investigazione l’origine dei nostri mali, e, secondo la diversità dei luoghi, le sorgenti principali dei pericoli, voi possiate trovarvi, sotto l’autorità e la condotta della S. Sede, i rimedi più pronti, ed applichiate così, d’unanime accordo con Noi, coll’aiuto di DIO e con tutto il vigore dello zelo pastorale, le vostre cure e le vostre fatiche a render vani tutti gli sforzi, tutti gli artifizi, tutte le trame e tutte le macchinazioni dei nemici della Chiesa. – A questo fine bisogna che vi adoperiate continuamente, per timore che il popolo, troppo poco istruito intorno alla dottrina cristiana ed alla legge del Signore, istupidito dalla lunga licenza dei vizi, a mala pena arrivi poi a distinguere gli agguati che gli son tesi, e la tristizia degli errori che gli son proposti. Noi domandiamo con istanza alla vostra pastorale sollecitudine, Ven. Fratelli, di non cessar mai dall’adoperare tutte le vostre cure, acciocchè i fedeli a voi confidati vengano ammaestrati, secondo l’intelligenza di ciascuno, circa i santissimi dogmi e precetti di nostra Religione, e nello stesso tempo siano avvertiti ed eccitati con tutti i mezzi a confermar a questi la loro vita ed i loro costumi. – Infiammate per questo fine lo zelo degli ecclesiastici, specialmente di quelli che hanno cura di anime, affinché, meditando profondamente sul ministero ricevuto dal Signore, e tenendo dinanzi gl’occhi le prescrizioni del Concilio di Trento, si adoperino colla massima attività, secondo che esige la necessità dei tempi, all’istruzione del popolo, e procaccino d’imprimere in tutti i cuori le sacre verità, gli avvisi della salute, facendo loro conoscere con discorsi brevi e semplici i vizii che debbono fuggire per evitare la pena eterna, le virtù che devono praticare per ottenere la gloria celeste.  – Bisogna invigilare specialmente a ciò che i fedeli stessi abbiano profondamente scolpito nell’animo il dogma della nostra santissima Religione sulla necessità della Fede cattolica per ottener la salute. A quest’effetto sarà sommamente vantaggioso che, nelle pubbliche preghiere, i fedeli uniti al Clero rendano di tanto in tanto particolari azioni di grazie a Dio per l’inestimabile beneficio della religione cattolica, della quale van tutti debitori alla sua infinita bontà, e chiedano umilmente al Padre delle misericordie di degnarsi di proteggere e conservar intatta nelle nostre contrade la professione di questa medesima Religione. – Tuttavia voi vi farete uno studio speciale di amministrare a tutti i fedeli, in tempo conveniente, il Sacramento della Confermazione, il quale, per sommo benefizio di Dio, conferisce la forza di una grazia particolare per confessare con costanza la Fede Cattolica anche fra’ più gravi pericoli. Voi non ignorate pure esser molto conducevole allo stesso fine, che i Fedeli, purificati dalle sozzure dei loro peccati, espiati con una sincera detestazione e col Sacramento della Penitenza, ricevano frequentemente e con divozione la Santissima Eucaristia, la quale è il cibo spirituale delle anime, l’antidoto che ci libera dalle colpe quotidiane, e ci preserva dai peccati mortali; il simbolo di quel solo corpo di cui Cristo è il capo, ed al quale Egli volle che noi fossimo raggiunti col legame sì forte della Fede, della Speranza e della Carità, affinché formiamo tutti un sol corpo, e non siano scismi tra noi. Noi non dubitiamo punto che i parrochi i loro vicari e gli altri sacerdoti, i quali in certi giorni, e specialmente nel tempo del digiuno, lavorano nel ministero della predicazione, non siano per farsi premura di prestarvi il loro concorso in tutte queste cose. Ciò non pertanto, bisogna di tempo in tempo confortare le loro sollecitudini coi soccorsi straordinari degli esercizi spirituali e delle sante missioni, le quali, quando sono affidate a uomini capaci, sono, colla benedizione di Dio, utilissime a rinfiammare la pietà dei buoni, eccitare a salutar penitenza i peccatori e gli uomini depravati da inveterate abitudini viziose; far crescere il popolo fedele nella scienza di Dio, condurlo a praticare ogni sorta di bene, e munendolo cogl’abbondanti aiuti della grazia celeste inspirargli un’invincibile orrore per le dottrine perverse dei nemici della Chiesa. Del resto in tutte queste cose le vostre cure e quelle dei sacerdoti vostri cooperatori tenderanno particolarmente a far concepire ai fedeli il più grande orrore per quei delitti che si commettono con grande scandalo del prossimo. Imperocchè voi ben sapete quanto è cresciuto in diversi luoghi il numero di coloro che osano bestemmiare pubblicamente i santi del Cielo e lo stesso Santissimo nome di DIO, o che sono conosciuti come concubinari e talora anche incestuosi, o che ne’ giorni festivi si danno alle opere servili, tenendo aperte le botteghe, o che, anche in presenza di molti, disprezzano i precetti del digiuno e dell’astinenza, o che finalmente non arrossiscono di commettere allo stesso modo altri diversi delitti. Alla voce del vostro zelo il popolo si rappresenti e consideri seriamente l’enorme gravezza di cotesti peccati e le pene severissime onde saranno puniti i loro autori, tanto per la colpa lor propria, che pel pericolo spirituale a cui essi espongono i loro fratelli pel contagio del loro mal esempio. Imperocch? sia scritto: Væ mundo a scandalis…. Væ homini illi per quem scandalum venit (Matt. XVIII, 7). – Tra i diversi generi di lumi con che i più sottili nemici della Chiesa e dell’umana società cercano d’invescar i popoli, uno de’ principali è certamente quello che essi avean già preparato da lunga mano nei colpevoli loro disegni, cioè l’uso depravato dell’arte della stampa. Essi vi si appigliano con tutta l’anima, per forma che non passano un giorno senza moltiplicare e spargere nelle popolazioni libelli empi, giornali, fogli volanti pieni di menzogne, di calunnie, di seduzioni. Non basta; servendosi dei soccorsi delle società bibliche già da lunga pezza condannate dalla S. Sede, essi non vergognano di diffondere gran numero di Sacre Bibbie tradotte, senza che si siano osservate le regole della Chiesa, in lingua volgare, profondamente alterate e tratte a cattivo senso con audacia inaudita, e di raccomandarne la lettura al popolo fedele, sotto un falso pretesto di religione. Voi intendete ottimamente nella vostra saviezza, Venerabili Fratelli, con quanta vigilanza e sollecitudine voi dobbiate affaticarvi acciò che i fedeli rifuggano con orrore da questa avvelenata lettura, e si ricordino che, in quanto alle Divine Scritture segnatamente, nessuno appoggiato alla propria prudenza può arrogarsi il diritto ed avere la presunzione d’interpretarle altramente che non le ha interpretate e le interpreta la Santa Chiesa nostra madre, alla quale sola Cristo Signor nostro ha confidato il deposito della Fede, il giudizio sul vero senso dei libri divini. Sarà cosa utilissima, Venerabili Fratelli, per arrestare l’infezione dei libri cattivi, che libri della stessa mole, scritti da uomini forniti di scienza sana e distinta, e previamente da voi approvati, siano pubblicati per l’edificazione della Fede, e la salutare educazione del popolo. Voi vi adoprerete affinché cotesti libri ed altre di dottrina egualmente pura, scritti da altri uomini secondo l’esigenza dei luoghi e delle persone, siano diffusi tra i fedeli. – Tutti coloro che cooperano con voi alla difesa della Fede avranno specialmente in mira di far penetrare, rassodare e scolpire profondamente nell’animo de’ vostri fedeli la pietà la venerazione ed il rispetto verso questa suprema Sede di Pietro, sentimenti questi, pei quali voi eminentemente vi distinguete, o Venerabili fratelli. Si rammentano i popoli fedeli che qui vive e presiede, nella persona dei suoi successori, Pietro il Principe degli Apostoli, la cui dignità non è separata dalla persona del suo indegno erede. Si sovvengano che GESÙ-CRISTO Signor Nostro ha collocato su questa Cattedra di Pietro l’inespugnabile fondamento della sua Chiesa, e che a Pietro Egli ha date le chiavi del regno de’ cieli, e che perciò Egli ha pregato, affinché la Fede di Pietro non venisse mai meno, e comandato a Pietro di confermare i suoi fratelli in questa Fede, di qualità che il Successore di Pietro, il Romano Pontefice, tenendo il primato in tutto l’universo è il vero Vicario di GESÙ-CRISTO, il Capo di tutta la Chiesa, il Padre ed il Dottore di tutti i Cristiani. – Egli è nel mantenimento di quest’unione comune dei popoli nell’ubbidienza al Pontefice Romano che dimora il mezzo più spedito e più diretto per conservarli nella professione della Cattolica verità. Infatti non è possibile ribellarsi alla Fede Cattolica senza rigettare ad un tempo l’autorità della Chiesa Romana, nella quale risiede il Magistero irreformabile della Fede, fondato dal Divin Redentore, e nella quale, per conseguenza, fu sempre conservata l’Apostolica Tradizione. Quindi nasce che gli antichi eretici ed i protestanti moderni, così divisi nel resto delle loro opinioni, sono tutti unanimi nell’attaccare l’autorità della Sede Apostolica, cui non poterono però mai in nessun tempo e con nessun artificio o macchinazione, indurre e tollerare neppur uno dei loro errori. Quindi è parimenti che gli attuali nemici di DIO e dell’umana famiglia niun mezzo tralasciano per strappare i popoli italiani dalla Nostra ubbidienza e dall’ubbidienza della Santa Sede, persuasi che, ottenuto questo troppo verrà lor fatto di ammorbare l’Italia coll’empietà delle loro dottrine e colla peste dei loro nuovi sistemi. – Quanto a questa dottrina di depravazione ed a cotesti sistemi, tutto il mondo conosce che il loro scopo primario si è di spargere nel popolo, abusando delle parole di libertà e di eguaglianza, i perniciosi trovati del comunismo e del socialismo. È cosa evidente che i capi, vuoi del comunismo, vuoi del socialismo, avvegnacchè adoperino metodi e mezzi differenti, hanno per scopo comune di tenere in continua agitazione ed avvezzare a poco a poco ad atti, anche più criminosi gli operai e gli uomini d’inferior condizione, ingannati dal loro scaltrito linguaggio e sedotti dalle promesse di una vita più felice. Essi contano di servirsi poi del loro braccio per attaccare il potere d’ogni autorità superiore, per invadere, saccheggiare, oltraggiare, dilapidare le proprietà della Chiesa dapprima, e poi di tutti gli altri particolari, per violare finalmente tutti i diritti divini ed umani, disperdere dal mondo il culto di Dio e sovvertire da capo a fondo le civili società. – In così grande pericolo per l’Italia, egli è vostro dovere, Venerabili Fratelli, di spiegare tutte le forze dello zelo pastorale per far intendere al popolo fedele che, se essi si lasciano trascinare a queste opinioni da questi perversi sistemi, ne avranno per solo frutto l’infelicità temporale e l’eterna perdizione.  – I fedeli affidati alle vostre cure siano dunque fatti avvertiti che è essenziale alla natura stessa dell’umana società, che tutti ubbidiscano all’autorità legittimamente in essa costituita, e che nulla può esser cangiato nei precetti del Signore, che in questa materia ne vengono enunciati nelle Sacre Lettere.  – Conciossiacchè è scritto: «Subiecti estote omni humanæ creaturæ propter Deum sive Regi, quasi præcellent, sive ducibus, tamquam ab eo missis ad vindictam malefactorum, laudem vero honorum; quia sic est voluntas Dei, ut benefacientes obmutescere faciatis imprudentium hominum ignorantiam: quasi liberi, et non quasi velamen habentes malitiae libertatem, sed sicut servi Dei [1 Piet. II, 13 ss.] (In nome di DIO siate soggettiad ogni umana creatura, sia al re,come sovrano, sia ai governatori, come da Lui inviato a punire i malfattori e a premiare i buoni; poiché questa è la volontà di DIO: comportandovi virtuosamente fate ammutolire l’ignoranza degli stolti; conpotandovi come uomini libri e non servendovi della libertà come un velo per coprire la malizia, ma come servitori di DIO)»; ed ancora: « Omnis anima potestatibus sublimioribus subdita sit: non est enim potestas nisi a Deo: quæ autem sunt, a Deo ordinatæ sunt: itaque, qui resistit potestati, Dei ordinationi resistit: qui autem resistunt, ipsi sibi damnationem acquirunt » ( Ciascuno sia sottomesso ai più alti poteri: non vi è infatti alcun potere se non da DIO; ogni potere esistente è ordinato da DIO. Pertanto chi si oppone al potere, resiste all’ordinamento di DIO. Coloro che resistono, si procurano la condanna) [Rom. XIII, 1 ss.].  – Sappiano essi ancora che, nella condizione delle cose umane, è cosa naturale ed invariabile che, anche tra coloro che non sono costituiti in autorità, gli uni sovrastino agli altri, sia per diverse qualità di spirito o di corpo, sia per ricchezze od altri beni esteriori di questa fatta: e che giammai, sotto nessun pretesto di libertà e di eguaglianza, può esser lecito invadere i beni od i diritti altrui, o violarli in un modo qualsiasi. A questo riguardo, i Comandamenti divini, che sono scritti qua e colà nei libri santi, sono chiarissimi, e ci proibiscono formalmente non pure d’impadronirci del bene altrui, ma eziandio di desiderarlo.  – I poveri, gl’infelici si ricordino soprattutto di quanto essi son debitori alla religione cattolica, la quale guarda viva ed intatta e predica altamente la dottrina di GESÙ-CRISTO, il quale ha dichiarato di riguardare come fatto a sé il bene fatto ai poveri ed ai miserabili [Matt. XVIII, 15]. Egli ha pronunziato a tutti il conto particolare che chiederà, nel giorno del giudizio, intorno alle opere di misericordia, sia per ricompensare colla vita eterna i fedeli che le avranno praticate, sia per castigare colla pena del fuoco eterno quelli che le avranno trasandate [Matt. XXV, 34 ss.]. Da questo avvertimento di CRISTO Nostro Signore, e dagl’avvisi severissimi che Egli ha dati circa l’uso delle ricchezze ed i loro pericoli, [Matt. XIX, 23; Lc. VI, 4; Gc. V, 1] avvisi conservati inviolabilmente nella Chiesa Cattolica, ne è risultato che la condizione dei poveri e dei miserabili è fatta molto più dolce presso le nazioni cattoliche, che presso tutte le altre. Ed i poveri riceverebbero nelle nostre contrade soccorsi troppo più abbondanti, se in mezzo alle recenti commozioni della cosa pubblica numerosi stabilimenti fondati dalla pietà dei nostri antenati, non fossero stati distrutti o derubati. Del rimanente, i nostri poveri non si dimentichino che dietro l’insegnamento di GESÙ-CRISTO medesimo, essi non devono punto accorarsi della lor condizione; poiché, a dir vero, nella povertà la strada della salute è fatta loro più facile, purché tuttavolta essi portino in pazienza l’indigenza loro, e siano poveri non materialmente soltanto, sì ancora di spirito. Perocché è scritto; Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum Cœlorum. [Matt. V, 3]. – Il popolo fedele tutto quanto sappia che gli antichi re delle nazioni pagane ed i capi delle loro repubbliche hanno abusato del loro potere troppo più gravemente e più spesso: e quindi riconosca che è tutto benefizio della nostra santissima religione, se i principi cristiani tementi, alla voce di questa religione, il giudizio severissimo che sarà fatto da coloro che comandano, e l’eterno supplizio destinato ai peccatori, supplizio nel quale i potenti saranno potentemente tormentati (Sap. VI, 6-7), hanno usate, riguardo ai popoli loro soggetti, un modo più clemente e più giusto di governare. – Finalmente i fedeli, confidati alle Nostre cure ed alle Vostre, riconoscano che la vera e perfetta libertà ed uguaglianza degli uomini sono state poste sotto la custodia della legge cristiana, poiché il DIO onnipotente che ha fatto il piccolo ed il grande e che ha cura eguale di tutti (Sap. VI, 8) non esimerà dal giudizio la persona di chicchessia, e non guarderà a nessuna grandezza: egli ha fissato il giorno in cui giudicherà l’universo nella sua giustizia in Gesù Cristo, suo figlio unico, il quale deve venire nella gloria del Padre cogli Angeli suoi, e renderà allora a ciascuno secondo le opere sue (Sap. VI, 8).  – Che se i fedeli, disprezzando gli avvisi paterni dei loro pastori ed i precetti della legge cristiana che abbiamo accennati, si lasciassero aggirare dai promotori delle odierne macchinazioni, e consentissero a cospirare con loro nei perversi sistemi dal socialismo e del comunismo, sappiano essi e considerino seriamente che ciò non fanno che accumularsi presso il Divin Giudice tesori di vendetta nel giorno dell’ira, e che frattanto da questa cospirazione non uscirà alcun vantaggio temporale pel popolo, sì veramente un accrescimento smisurato di miserie e di calamità. Imperocché non è dato agli uomini di poter stabilire nuove società e comunanze opposte alla condizione naturale alle cose umane; epperciò il risultamento di cotali cospirazioni, se si propagassero in Italia, sarebbe questo: Lo stato attuale della cosa pubblica sarebbe scardinato e rovesciato da cima a fondo per le lotte dei cittadini contro i cittadini, per le usurpazioni, per gli omicidi; e poi alcuni pochi arricchiti delle spoglie del gran numero afferrerebbero la somma del potere in mezzo alla comune rovina.  – Per salvar il popolo dagli agguati degli empi, per mantenerlo nelle professione della Religione Cattolica ed infiammarlo alle opere della vera virtù, l’esempio e la vita di coloro che sono consacrati al santo ministero, ha, Voi lo sapete, una grande efficacia. Ma, oh dolore! si son trovati in Italia degli ecclesiastici, in piccol numero è vero, i quali sono passati nelle file dei nemici della Chiesa, e li hanno aiutati non poco ad ingannare i fedeli. Per Voi, Venerabili Fratelli, la caduta di questi è stata un nuovo stimolo che vi ha eccitato a vegliare, con zelo sempre più attivo, al mantenimento della disciplina del Clero. E qui volendo, secondo il Nostro dovere, prendere delle misure preservatrici per l’avvenire, Noi non possiamo trattenerci dal raccomandarvi di bel nuovo un punto, sul quale abbiamo già insistito nella Nostra prima Lettera Enciclica a tutti i Vescovi dell’universo, ed è di non imporre mai leggermente le mani a chicchessia, [1 Tim. V, 22] e di apportare la più attenta sollecitudine nella scelta della milizia ecclesiastica. È necessaria una lunga ricerca, una minuta investigazione a proposito di quelli specialmente che desiderano di entrare negli ordini sacri; fa d’uopo assicurarvi che essi si raccomandano per scienza, per gravità di costumi e zelo del culto divino in siffatta guisa, da darvi certa speranza che, simili a lampade ardenti nella casa del Signore, essi potranno, colla loro condotta e colle loro opere, tornare al vostro gregge di edificazione e di utilità spirituale. – La Chiesa di Dio ritrae dai monasteri, quando questi sono ben regolati, un’immensa utilità ed una grande gloria, ed il Clero regolare fornisce a Voi stessi, nelle vostre fatiche per la salute delle anime, un soccorso prezioso. Egli è perciò che vi sollecitiamo dapprima, Venerabili Fratelli, ad assicurare, da nostra parte, le famiglie religiose di ciascuna delle vostre diocesi, che in mezzo a tanti dolori, Noi abbiamo particolarmente risentiti i mali, che molte di loro ebbero a soffrire in questi ultimi tempi, o che la coraggiosa pazienza, la costanza nell’amore della virtù e della propria Religione, di cui in gran numero di religiosi diedero l’esempio, fu per Noi sorgente di consolazioni tanto più vive, in quanto che alcuni altri furono visti, dimentichi della santità di lor professione, con grande scandalo dei buoni e con infinita amarezza del Nostro cuore e cordoglio dei loro fratelli, prevaricare vergognosamente. In secondo luogo, voi sarete solleciti di esortare, in Nostro nome, i capi di queste Famiglie religiose ed, ove fosse necessario, i superiori, che ne sono i moderatori supremi, a nulla trascurare dei doveri della loro carica, a fine di rendere sempre più rigorosa e fiorente la disciplina regolare dove questa si è conservata, ed a ristabilirla in tutta la sua forza ed integrità dove si fosse illanguidita. Questi superiori ricorderanno incessantemente, e cogli avvertimenti, e colle rimostranze, e coi rimproveri, ai religiosi delle loro case, ch’essi devono seriamente considerare con quali voti si sono a DIO legati, attendere e mantenere le promesse fatte osservare inviolabilmente le regole del loro istituto, e portando nei loro corpi la mortificazione di GESÙ, astenersi da tutto ciò che è incompatibile colla loro vocazione, dedicarsi interamente a quelle opere che alimentano e crescono la carità verso DIO ed il prossimo, e l’amore della perfetta virtù. Oltreciò, i moderatori di questi ordini invigilino attentamente perché l’ingresso in Religione non sia aperto a chicchessia se non dopo maturo e scrupoloso esame della sua vita, de’ suoi costumi e del suo carattere, e perché nessuno possa esser ammesso alla professione religiosa, se non dopo aver date, in un noviziato fatto secondo le regole, prove di vera vocazione, di maniera che si possa a buon diritto presumere che il novizio abbraccia la vita religiosa col solo intendimento di vivere unicamente a Dio, ed attendere, secondo le regole del proprio istituto, alla propria salute ed a quella dei prossimi. Su questo punto Noi vogliamo ed intendiamo che si osservi tutto ciò che è stato stabilito e prescritto, pel bene delle famiglie religiose nei decreti pubblicati il 25 gennaio dell’anno scorso dalla nostra Congregazione sullo stato dei regolari, decreti rivestiti della nostra Apostolica autorità.  – Dopo avervi così parlato del Clero regolare, Noi ci facciamo premura di raccomandare alla Vostra Fraternità l’istruzione e l’educazione dei chierici minori; che la Chiesa non può guari sperare di trovar degni ministri, se non tra coloro che fin dalla loro giovinezza e prima età, sono stati, secondo le regole prescritte, informati a questo sacro Ministero. Continuate dunque, Venerabili Fratelli, ad usare di tutti i vostri mezzi, a fare tutti i vostri sforzi, affinché i giovani, destinati alla sacra milizia, siano ricevuti, per quanto è possibile, nei seminari ecclesiastici fin dalla loro più tenera età, ed affinché, raccolti intorno al Tabernacolo del Signore, essi vigoreggino e crescano, come piantagione novella nell’innocenza della vita, nella Religione, nella modestia, nello spirito ecclesiastico, imparando nello stesso tempo da scelti maestri, la cui dottrina sia al tutto scevra da ogni pericolo, di errore, le lettere, le scienze elementari e le alte scienze, ma soprattutto le lettere e le scienze sacre.  – A quest’effetto, Voi vi rivendicherete la principale autorità, un’autorità pienamente libera sui professori delle sacre discipline e su tutte le cose che spettano alla religione o le si attengono da vicino. Vegliate acciò che in nulla e per nulla, ma specialmente in tutto che tocca alle cose di religione, non si adoperino altro che libri esenti da ogni sospetto di errore. Avvertite quelli che hanno cura di anime, di essere vigilanti cooperatori in tutto ciò che concerne le scuole dei fanciulli e della prima età. Le scuole non siano affidate se non a maestri e maestre di provata onestà, e per insegnare gli elementi della Fede ai ragazzi ed alle ragazze non si usino altri libri, fuorchè quelli approvati dalla Santa Sede. Su questo punto, Noi non possiamo dubitare che i parrochi non siano i primi a dar l’esempio, e che, sollecitati dalle vostre incessanti esortazioni, essi non si applichino ogni giorno più ad istruire i fanciulli intorno agli elementi della Dottrina Cristiana, ricordandosi che questo è uno dei più gravi doveri della carica loro commessa. Voi dovrete parimenti rammentar loro che, nelle loro istruzioni sia ai fanciulli che al popolo, eglino non devono mai perdere di vista il Catechismo Romano, pubblicato conformemente al decreto del Concilio di Trento, per ordine di San Pio V, nostro predecessore, d’immortale memoria, e raccomandato a tutti i pastori di anime da altri Sommi Pontefici, ed in ispecie da Clemente XIII, come un aiuto valevolissimo a respingere le frodi delle perverse opinioni, a propagare e stabilire solidamente la vera e sana dottrina [Enc. 14 giu. 1761. – Voi non vi meraviglierete punto, Ven. Fratelli, se Noi vi parliamo un po’ stesamente su questa materia. La vostra prudenza ha certamente riconosciuto che, in questi tempi pericolosi, Noi dobbiamo, Voi e Noi, fare i più grandi sforzi, lottare con una costanza invincibile, spiegare una vigilanza continua per tutto ciò che s’attiene alle scuole all’istruzione ed all’educazione dei fanciulli e dei giovani dell’uno e dell’altro sesso. Voi sapete che, ai giorni nostri, i nemici della religione e dell’umana società, aggirati da uno spirito veramente diabolico, si sbracciano per pervertire il cuore e l’intelligenza dei giovani fin dalla loro primissima età. Quindi è che s’appigliano ad ogni mezzo, tentano ogni più audace partito per sottrarre interamente all’autorità della Chiesa ed alla vigilanza de’ sacri pastori le scuole ed ogni stabilimento destinato all’educazione della gioventù.  – Noi abbiamo pertanto ferma speranza che i nostri dilettissimi figli in Gesù Cristo, tutti i Principi d’Italia, aiuteranno la Vostra Fraternità col loro potente patrocinio, affinché voi possiate adempiere con maggior frutto i doveri del vostro ufficio che vi abbiam rinfrescati. Non dubitiamo pure in verun modo che essi non abbiano la volontà di proteggere la Chiesa e tutti i suoi diritti, sia spirituali che temporali. Nulla è più conforme alla Religione e pietà che essi hanno ereditata dai loro maggiori, e dalla quale si mostrano animati. Non può sfuggire alla loro sapienza che la causa prima di tutti i mali, onde siam travagliati, non fu altra che il male fatto alla Religione ed alla Chiesa cattolica nei tempi anteriori, ma specialmente all’epoca in cui comparvero i protestanti. Essi veggono, per esempio, che il disprezzo crescente dell’autorità de’ sacri Pontefici, le violazioni, sempre più moltiplicate ed impunite dei Precetti divini ed ecclesiastici, hanno scemato in analoga proporzione il rispetto del popolo verso il potere civile, ed aperto agli attuali nemici della pubblica tranquillità una via più larga alle rivolte ed alle sedizioni. Essi veggono in pari modo, che lo spettacolo sovente rinnovato dei beni temporali della Chiesa invasi, divisi, venduti pubblicamente, avvegnachè a Lei appartenessero in virtù di un legittimo diritto di proprietà, e che l’indebolimento, presso i popoli, del sentimento di rispetto per la proprietà consacrata ad una destinazione religiosa, hanno avuto per effetto di rendere un gran numero d’uomini più accessibili alle audaci asserzioni del novello socialismo e del comunismo, insegnanti che si può, alla stessa guisa, porre la mano sulle altre proprietà, impadronirsene, e spartirle o trasformarle in qualunque altra maniera per uso di tutti. Essi vedono ricadere poco a poco sul potere civile gl’impacci e le pastoie già una volta moltiplicate con tanta perseveranza per impedire i pastori della Chiesa dall’usare liberamente di loro sacra autorità.  – Essi veggono finalmente che, in mezzo alle calamità che ci premono tutt’intorno, è impossibile trovare un rimedio di effetto più pronto, di efficacia maggiore che il far rifiorire e ridonare tutto l’antico splendore alla Religione ed alla Chiesa Cattolica per tutta Italia, a quella Chiesa Cattolica, la quale possiede, non si può dubitarne, i mezzi più acconci a soccorrere le diverse indigenze dell’uomo in tutte le condizioni.  – Ed in verità, per usare qui le parole di sant’Agostino: «La Chiesa Cattolica abbraccia non pure DIO stesso, ma ancora l’amore e la carità verso il prossimo in guisa che ella ha rimedii per tutte le malattie che provano le anime a cagione dei loro peccati. Essa esercita ed ammaestra i suoi figliuoli in modo appropriato alla loro età, i giovani con forza, i vecchi con tranquillità, in una parola, secondochè esige l’età non solamente del corpo, ma eziandio della loro anima. Essa assoggetta la donna al marito, non per appagare il libertinaggio, sì veramente per propagare la specie umana e conservare la dimestica società. Essa fa il marito superiore alla moglie, non già perché egli si faccia giuoco del sesso più debole, ma perché entrambi ubbidiscano alla legge di un sincero amore. Essa assuddita i figli ai loro genitori in una specie di libere servitù, e l’autorità onde investe i parenti è una cotal foggia d’amorevole dominazione. Essa raggiunge i fratelli ai fratelli con un vincolo di religione più forte, più stretto di quello del sangue. Essa stringe e rafferma tutti i legami di parentela e di alleanza per una vicendevole carità, la quale rispetta nodi della natura e quelli formati dalle diverse volontà. Essa insegna ai servitori a star soggetti ai loro padroni, non tanto per la necessità di lor condizione, quanto per l’attrattiva del dovere; essa rende i padroni miti e dolci verso i loro servi col pensiero del comune signore, il sommo Iddio, e far loro preferire le vie della persuasione a quella del costringimento. Essa lega i cittadini ai cittadini, le nazioni alle nazioni, e tutti gli uomini tra di loro, non solamente col vincolo sociale, ma ancora con una specie di fratellanza, frutto della memoria dei nostri primi parenti. Essa addottrina i re ad aver sempre di mira il bene dei loro popoli, ed ammonisce i popoli a sottomettersi ai loro re. Essa fa conoscere a tutti con una sollecitudine instancabile a chi sia dovuto l’onore, a chi l’affezione, a chi il rispetto, a chi il timore, a chi la consolazione, a chi l’avvertimento, a chi l’esortazione, a chi la disciplina, a chi il rimprovero, a chi il supplizio, mostrando come tutte le cose non son dovute a tutti, ma che a tutti è dovuta la carità, a nessuno l’ingiustizia [S. August.: De moribus Cath. Eccl. Lib. 1].  – Egli è dunque Nostro dovere e Vostro, Venerabili Fratelli, di non indietreggiare dinanzi a nessuna fatica, di affrontare tutte le difficoltà, di porre in opera tutta la forza del Nostro zelo pastorale per proteggere, presso i popoli italiani, il culto della Cattolica Religione, non solamente coll’opporci energicamente agli sforzi degl’empi che congiurano a divellere l’Italia stessa dal seno della Chiesa, ma ancora lavorando potentemente per ricondurre nelle vie della salute quei figli degenerati d’Italia, che già ebbero la debolezza di lasciarsi sedurre. – Ma ogni bene eccellente ed ogni dono perfetto viene dall’alto; accostiamoci adunque con fiducia al trono della grazia, Ven. Fratelli, non cessiamo dal supplicare e scongiurare con preghiere pubbliche e particolari il Padre celeste dei lumi e delle misericordie, affinché pei meriti del suo Figliuolo unico GESÙ-CRISTO, rivolgendo il suo sguardo dai nostri peccati, illumini, nella sua clemenza, tutti gli spiriti e tutti i cuori colla virtù della sua grazia, e domando le ribelli volontà, glorifichi la sua Chiesa con nuove vittorie e nuovi trionfi; così che in tutta l’Italia e per tutta la terra, il popolo che lo serve, cresca in numero ed in merito. – Invochiamo altresì la Santissima Madre di Dio, Maria Vergine Immacolata, la quale, col suo onnipossente patrocinio presso Dio, ottenendo tutto ciò che domanda, non può domandar invano. Invochiamo con Lei, Pietro Principe degli Apostoli, Paolo suo fratello nell’apostolato, e tutti i santi del Cielo, affinché il clementissimo IDDIO, placato dalle loro preghiere, volga dai popoli fedeli i flagelli della sua collera, e conceda, nella sua bontà a tutti quelli che portano il nome di cristiani, di potere colla sua grazia e rigettare tutto ciò che è contrario alla santità di questo nome, e praticare tutto ciò che le è conforme. – In fine, Venerabili Fratelli, ricevete in pegno del nostro vivo amore per Voi, l’Apostolica benedizione, che dal fondo del Nostro cuore affettuosamente vi compartiamo, a Voi ed al Clero ed ai Fedeli laici commessi alla vostra vigilanza.

Datum Neapoli in Suburaano Portici, die viii decembris anni MDCCCXLIX Pontificatus Nostri ann. iv.

PIUS PP. IX.

DOMENICA DI SETTUAGESIMA (2019)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XVII:5; 6; 7
Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.  [Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.]
Ps XVII: 2-3
Díligam te, Dómine, fortitúdo mea: Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus.
[Ti amerò, o Signore, mia forza: Signore, mio firmamento, mio rifugio e mio liberatore.]
Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam. [Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.

Oratio

Orémus.
Preces pópuli tui, quǽsumus, Dómine, cleménter exáudi: ut, qui juste pro peccátis nostris afflígimur, pro tui nóminis glória misericórditer liberémur. [O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo: affinché, da quei peccati di cui giustamente siamo afflitti, per la gloria del tuo nome siamo misericordiosamente liberati.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

1 Cor IX: 24-27; X: 1-5

Fratres: Nescítis, quod ii, qui in stádio currunt, omnes quidem currunt, sed unus áccipit bravíum? Sic cúrrite, ut comprehendátis. Omnis autem, qui in agóne conténdit, ab ómnibus se ábstinet: et illi quidem, ut corruptíbilem corónam accípiant; nos autem incorrúptam. Ego ígitur sic curro, non quasi in incértum: sic pugno, non quasi áërem vérberans: sed castígo corpus meum, et in servitútem rédigo: ne forte, cum áliis prædicáverim, ipse réprobus effíciar. Nolo enim vos ignoráre, fratres, quóniam patres nostri omnes sub nube fuérunt, et omnes mare transiérunt, et omnes in Móyse baptizáti sunt in nube et in mari: et omnes eándem escam spiritálem manducavérunt, et omnes eúndem potum spiritálem bibérunt bibébant autem de spiritáli, consequénte eos, petra: petra autem erat Christus: sed non in plúribus eórum beneplácitum est Deo.

OMELIA I

[A. Castellazzi: La Scuola degli Apostoli. S. Tip. Artig. – Pavia, 1929]

“Fratelli: Non sapete che quelli che corrono nello stadio corrono bensì tutti, ma uno solo riceve il premio? Correte anche voi così da riportarlo. Ognuno che lotti nell’arena si sottopone ad astinenza in tutto: e quelli per ottenere una corona corruttibile; noi, invece, una incorruttibile. Io corro, appunto, così, non già come a caso; così lotto, non come uno che batte l’aria; ma maltratto il mio corpo e la riduco in servitù: perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia riprovato. Non voglio, infatti che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, e tutti passarono a traverso il mare, e tutti furono battezzati in Mosè nella nube e nel mare; e tutti mangiarono dello stessa cibo spirituale; e tutti bevettero la stessa bevanda spirituale; (bevevano infatti della pietra spirituale che li seguiva; e quella pietra era Cristo): pure della maggior parte di loro Dio non fu contento”. (1. Cor. IX, 24-27 e X, 1-5).

S. Paolo, volendo incoraggiare i Corinti a sostenere qualunque sacrificio per conseguire l’eterna salvezza, porta l’esempio di se stesso. Come un corridore, perché  vinca, non basta che sia sceso nello stadio, ma deve correre in modo da superare gli altri; così egli corre, nell’aringo della vita, senza sbandarsi qua e là, con la mente fissa al fine da conseguire. Come il lottatore, abbattuto il nemico, se lo conduce schiavo attorno per l’arena, così egli, con le privazioni e le mortificazioni, abbatte il suo corpo, e se lo rende schiavo. È vero che i Corinti avevano ricevuto molti favori da Dio. Anche gli Ebrei, sotto la guida di Mosè, ricevettero tutti da Dio favori segnalatissimi; ma pei loro peccati furono puniti nel deserto; e ben pochi di loro poterono entrare nella terra promessa. La conseguenza da tirare da questo passo della prima lettera ai Corinti è chiara. Quello che avvenne agli Ebrei poteva venire anche ai Corinti, potrà avvenire anche a noi, se non saremo perseveranti. Nessuna presunzione, dunque, perché:

1 Non basta cominciar bene; bisogna continuare,

2 Anche sottoponendosi a sacrifici e privazioni,

3 Sempre sostenuti dal primitivo favore.

1.

Non sapete che quelli che corrono nello stadio, corrono bensì tutti, ma uno solo riceve il premio?

Qui c’è allusione alle corse che avevano luogo, periodicamente a Corinto,e alle quali tanto si appassionavano i Greci.Oggi le corse sono più varie, più frequenti e anche più pericolose; e le popolazioni dei nostri tempi non vi si appassionano meno che quelle dei tempi andati. Ma il buon successo della corsa è sempre il medesimo: arrivare alla fine in tempo. Corrono bensì tutti — osserva l’Apostolo— ma uno solo riporta il premio. Gli altri, o arrivano troppo tardi, o, rimasti scoraggiati, si ritirano dalla corsa. È quello che avviene anche oggi. È indetta una corsa? Un gran numero di corridori si fa inscrivere. Non tutti però prendono parte alla partenza; e non tutti quelli che vi prendono parte arrivano alla meta, specialmente se le corse sono lunghe. Chi ha ceduto il campo nella prima tappa, chi nella seconda, chi nelle successive. Molti sono partiti tra gli applausi e gli auguri, pieni di ardire e di speranza; pochi sono stati accolti dall’applauso finale.Quello che avviene nelle corse, avviene in altre circostanze della vita. Avviene nel campo delle scienze, delle arti, delle lettere, delle industrie, e specialmente nel campo spirituale. Attratti dalla grandezza del premio molti si mettono a servir Dio con slancio, ma non tutti terminano la corsa. Quanti giovani danno sul principio belle speranze! Ci fanno pensare d’aver un giorno degli Apostoli della Religione, e in pochi anni la dimenticano,quando non si volgono a combatterla. Tanti, che sul principio attirano l’attenzione per la loro vita morigerata ed esemplare, o presto o tardi, diventano pietra d’inciampo.Erano entrati pieni di buona volontà nella corsa della vita spirituale; ma non ebbero la forza di continuare.Incominciare, è necessario: chi non comincia, non finisce.Cominciar bene, è assai importante! poiché chi. ben incomincia, è alla metà dell’opera. Ma chi è, che si mette all’opera, senza, pensare di condurla a termine? Qual corridore scende in pista, con la previsione di restare a mezza via? Il buon risultato di un’opera è il suo compimento.Il fine corona l’opera. Chi ha cominciato una corsa per fermarsi a metà, ha sprecato tempo e fatica.La fatica promette il premio, e la perseveranza lo porge. Il Cristiano che ha cominciato una vita buona per fermarsi poi a metà fa pure opera inutile. Si è affaticato un po’ per la speranza del premio, ma il premio, non è dichi si ferma a metà. Chi vuol il premio deve perseverare.« Sii fedele fino alla morte, e ti darò la corona della vita » (Ap. II, 10). Dice il Signore.

2.

Dopo aver incitato i Corinti a imitare i corridori, in modo da poter riportare la vittoria finale, l’Apostolo passa a parlare dei lottatori.

Ognuno che lotti nell’arena si sottopone ad astinenze in tutto. Con queste parole viene a indicare il segreto della perseveranza finale: Non prendersi pensiero delle difficoltà. I lottatori non si accingono alla vittoria dormendo sopra un letto di rose. E si sottopongono a disagi, a sudori, a privazioni, a sacrifici, a prove durissime per mettersi in grado di riportar vittoria. – Il Cristiano, invece, trema davanti alle difficoltà, che incontra per giungere alla meta. Quanto più si dirada il numero di coloro che avevano cominciato bene; tanto più dà nell’occhio chi continua coraggiosamente. Sulle prime si farà poco caso di lui; ma quando si vede che continua sul serio, si cerea di disturbarlo. Non si parla davanti a un ladro, si rimane muti davanti a un bestemmiatore o a un impudico. Bisogna divertirsi a punzecchiare un Cristiano che continua coraggiosamente per la propria via. Forse i primi frizzi fanno poca impressione, Ma se continuano, cominciano a seccare. Poi si va pensando se non sia il caso di non dar pretesto a queste seccature. E quando si discute in queste cose, vuol dire essere vinti presto. Per non dar nell’occhio, prima si dissimula, poi si tralascia. Proprio tutto all’opposto di quanto fanno i lottatori, i quali tanto più si sentono spinti a lottare coraggiosamente, quanto più danno nell’occhio agli spettatori. Così, quelli che si erano messi di buon animo a occuparsi di Dio e dell’anima, tornano a occuparsi del mondo. Altra difficoltà è il cattivo esempio. Non tutti possono ripetere le parole del Salmo: « I superbi agiscono sempre iniquamente, ma io non mi allontano dalla tua legge» (Salm. CXVIII, 51). «L’imitazione dei vizi è pronta» (S. Gerolamo Ep. 107, 4 ad Læt.), più pronta che l’imitazione della virtù. E anche chi non abbandona sulle prime la legge di Dio, non sa sottrarsi alla deleteria influenza che il male continuato esercita sugli uomini. Quando, poi, la cattiva condotta diventa generale, si produce il rilassamento anche nei buoni. « Quando abbonda la dissolutezza, la carità si raffredda »; osserva in proposito S. Ilario (Comm. in Matth. cap. XXV, 2). E chi aveva messo le sue delizie nella legge del Signore, finisce col trascurare i propri doveri. Non mancano neppure in questo caso i forti, ma son pochi. Difficoltà particolare, accennata dall’Apostolo è la lotta contro le nostre cattive inclinazioni. Maltratto il mio corpo e lo riduco in servitù: perché non avvenga, che dopo aver predicato agli altri, io stesso sia riprovato.Le nostre cattive inclinazioni hanno una forza particolare per trattenerci sulla buona via intrapresa. Se non si dominano continuamente, riescono ad avere il sopravvento.Nel primo fervore della vita spirituale, si crocifigge volentieri la carne, si accettano le umiliazioni, si sopportano le privazioni per ridurre in servitù le nostre cattive tendenze. Ma poi, cominciamo a stancarci. A lungo andare pesa anche la paglia. Molto più pesa questa lotta che ci imponiamo da noi stessi, o, più frequentemente,accettiamo dagli altri. Se appena, appena perdiam di vista la meta da raggiungere, vacilliamo nella lotta, e veniamo soggiogati.La vita dei Santi è come uno specchio, che ci fa vedere ciò che facciamo di bene, ciò che facciamo di male.«Vi troviamo — per dirla con S. Gregorio M. — quale è il nostro progresso e quale è la lunga distanza dal progresso» (Mor. L. 2, c. 1). Nella perseveranza tra le difficoltà, siamo in progresso o in regresso? Il Beato Ghebre Michele, nato ed educato nell’eresia eutichiana. la quale in Gesù Cristo ammette una sola natura, non trova appagata la sua ardente aspirazione alla verità. Per trovare questa verità va pellegrinando di convento in convento in cerca di libri e di maestri, che rispondano alle sue domande sulla Persona di Gesù Cristo. Non di rado accolto male, sempre disilluso, si rimette in cammino in cerea di altri libri e di altri maestri che lo possano illuminare: e continua la non piacevole peregrinazione per ben dieci anni, sempre sostenuto dal fervore dei primi giorni. Venuta l’ora della grazia, abiura l’eresia, e abbracciata la verità, non l’abbandonerà più. Ne sarà uno zelante e strenuo banditore, non ostante la guerra spietata dell’eretico vescovo Salama che vuol chiudergli la bocca. Dieci anni di persecuzione non trovano in lui un istante di titubanza. Il carcere e i tormenti più raffinati non lo smuovono d’un passo dalla sua via. Davanti al tiranno Teodoro II, che vuol fargli piegare la coscienza, è incrollabile. I carnefici fanno scendere sul santo vecchio, colpi di flagelli fitti come la gragnola. Ne restano talmente stanchi che devono darsi il cambio. Chi resiste a ogni stanchezza è il nostro Beato. Sospesa la flagellazione, perché lo si crede morto, disteso com’è in un lago di sangue, egli solleva la testa, e rompe il silenzio sepolcrale con queste parole, rivolte ai carnefici: « Siete già stanchi? » (A. Otti S. I . Abessiniens Heimkehr, in Die Katholischen Missionen, 1926, p. 322 segg.).  Da questo eroe della costanza non abbiam proprio nulla da imparare? Per la maggior parte di noi non sarebbe fuor di proposito, e non avrebbe alcun ombra di ironia, la domanda del Beato: « Siete già stanchi? ».

3.

Ci sono altri che camminano nella via del bene come a caso. Si direbbe che non hanno uno scopo fisso. Si muovono, ma non corrono. Si avanzano come uno schiavo che trascina le catene. Si dimenticano lo scopo della loro vocazione.Il mondo dà pure noie e guai a coloro che vogliono arrivare a una meta; eppure quanta costanza! Uno vuol arricchire. Vedetelo: non si stanca mai. Viaggi, privazioni, notti insonni, pericoli di perdere la vita e i beni, acquistati con tante fatiche, non valgono a rallentare il fervore dei primi giorni. Sentieri ripidi, passaggi pericolosi, ascese affaticanti, ghiacciai, tormente, non trattengono l’alpinista dal tentare di raggiungere la vetta. Gli aviatori lottano coi venti, non si curano del pericolo della nebbia, non si spaventano dell’aria gelata. Se le loro macchine si guastano, atterrano con la più grande calma.Tranquilli, attendono alle riparazioni, senza un momento di sfiducia. Se altre circostanze ritardano la ripresa del volo, aspettano pazienti che le circostanze si mutino, in attesa di proseguire il viaggio con lo stesso entusiasmo che li ha spinti alla partenza. È degna di ammirazione la costanza di chi vuol arrivare a una scoperta, a una invenzione. Sono veglie, studi, esperimenti non mai interrotti. Incanutiscono i capelli, ma il suo spirito è sempre giovane. Anzi, quanto più è vicino alla meta, tanto più cresce il suo ardore negli studi e nei tentativi. E tutto questo per acquistarsi una gloria che forse non verrà. Il Cristiano, invece, si scoraggia, e abbandona ben presto i lavoro per l’acquisto della gloria eterna. Sulla bocca di chi lavora, e non si crede retribuito abbastanza o vede il frutto dei suoi sudori dissipato da altri, si sente, delle volte, questo lamento: « Per chi lavoro io? ». E’ una domanda troppo fondata, fatta da chi lavora per il mondo. È una domanda che deve ringagliardire le forze, fatta da chi lavora per Dio, il quale dice ai perseveranti: « Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (Matth. V, 12).Quando non si è sotto l’occhio del padrone o di chi lo rappresenta, si è tentati di rallentare il lavoro o magari di sospenderlo. Tanto, il padrone non vede. I pigri, i neghittosi nel servizio di Dio possono dire: «Tanto il padrone non vede »? Nulla del bene che facciamo sfugge all’occhio di Lui; e quindi nulla andrà perduto. «Pertanto, o fratelli, state fermi e irremovibili, sempre assidui nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è infruttuosa nel Signore ».

Graduale

Ps IX: 10-11; IX: 19-20

Adjútor in opportunitátibus, in tribulatióne: sperent in te, qui novérunt te: quóniam non derelínquis quæréntes te, Dómine, [Tu sei l’aiuto opportuno nel tempo della tribolazione: abbiano fiducia in Te tutti quelli che Ti conoscono, perché non abbandoni quelli che Ti cercano, o Signore]

Quóniam non in finem oblívio erit páuperis: patiéntia páuperum non períbit in ætérnum: exsúrge, Dómine, non præváleat homo. [Poiché non sarà dimenticato per sempre il povero: la pazienza dei miseri non sarà vana in eterno: lévati, o Signore, non prevalga l’uomo.]

Tractus

Ps CXXIX:1-4

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam. [Dal profondo ti invoco, o Signore: Signore, esaudisci la mia voce.]

Fiant aures tuæ intendéntes in oratiónem servi tui. [Siano intente le tue orecchie alla preghiera del tuo servo.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? [Se baderai alle iniquità, o Signore: o Signore chi potrà sostenersi?]

Quia apud te propitiátio est, et propter legem tuam sustínui te, Dómine. [Ma in Te è clemenza, e per la tua legge ho confidato in Te, o Signore.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

[Matt XX: 1-16]

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Simile est regnum coelórum hómini patrifamílias, qui éxiit primo mane condúcere operários in víneam suam. Conventióne autem facta cum operáriis ex denário diúrno, misit eos in víneam suam. Et egréssus circa horam tértiam, vidit álios stantes in foro otiósos, et dixit illis: Ite et vos in víneam meam, et quod justum fúerit, dabo vobis. Illi autem abiérunt. Iterum autem éxiit circa sextam et nonam horam: et fecit simíliter. Circa undécimam vero éxiit, et invénit álios stantes, et dicit illis: Quid hic statis tota die otiósi? Dicunt ei: Quia nemo nos condúxit. Dicit illis: Ite et vos in víneam meam. Cum sero autem factum esset, dicit dóminus víneæ procuratóri suo: Voca operários, et redde illis mercédem, incípiens a novíssimis usque ad primos. Cum veníssent ergo qui circa undécimam horam vénerant, accepérunt síngulos denários. Veniéntes autem et primi, arbitráti sunt, quod plus essent acceptúri: accepérunt autem et ipsi síngulos denários. Et accipiéntes murmurábant advérsus patremfamílias, dicéntes: Hi novíssimi una hora fecérunt et pares illos nobis fecísti, qui portávimus pondus diéi et æstus. At ille respóndens uni eórum, dixit: Amíce, non facio tibi injúriam: nonne ex denário convenísti mecum? Tolle quod tuum est, et vade: volo autem et huic novíssimo dare sicut et tibi. Aut non licet mihi, quod volo, fácere? an óculus tuus nequam est, quia ego bonus sum? Sic erunt novíssimi primi, et primi novíssimi. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”

[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia, il quale andò di gran mattino a fissare degli operai per la sua vigna. Avendo convenuto con gli operai un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. E uscito fuori circa all’ora terza, ne vide altri che se ne stavano in piazza oziosi, e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quel che sarà giusto. E anche quelli andarono. Uscì di nuovo circa all’ora sesta e all’ora nona e fece lo stesso. Circa all’ora undicesima uscì ancora, e ne trovò altri, e disse loro: Perché state qui tutto il giorno in ozio? Quelli risposero: Perché nessuno ci ha presi. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. Venuta la sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e paga ad essi la mercede, cominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti dunque quelli che erano andati circa all’undicesima ora, ricevettero un denaro per ciascuno. Venuti poi i primi, pensarono di ricevere di più: ma ebbero anch’essi un denaro per uno. E ricevutolo, mormoravano contro il padre di famiglia, dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora e li hai eguagliati a noi che abbiamo portato il peso della giornata e del caldo. Ma egli rispose ad uno di loro, e disse: Amico, non ti faccio ingiustizia, non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi quel che ti spetta e vattene: voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso dunque fare come voglio? o è cattivo il tuo occhio perché io son buono? Così saranno, ultimi i primi, e primi gli ultimi. Molti infatti saranno i chiamati, ma pochi gli eletti.]

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

Tutti i secoli, che già passarono dal principio del mondo, uniti insieme con tutti quelli che restano a passare sino alla fine del medesimo, mentre per noi sembrano gran cosa, dinanzi a Dio, secondo la spiegazione di Origene, non sono altro che un giorno. Ora, poiché Iddio vuole che tutti gli uomini, i quali compaiono successivamente sulla terra durante questo gran giorno, attendano al lavoro della loro santificazione, perciò in tutte le ore diverse di questo giorno istesso nella sua bontà infinita si degnò di chiamarli a questo lavoro. – Al mattino, ossia alla prima ora, chiamò i nostri progenitori Adamo ed Eva; all’ora terza chiamò Noè e la sua famiglia; all’ora sesta chiamò Abramo e gli altri patriarchi; all’ora nona chiamò il suo servo Mosè. Finalmente all’ora undecima, che dura tuttora e durerà sino alla fine del mondo, per la bocca dello stesso divin Redentore chiamò gli Apostoli e nella loro persona tutte le nazioni che essi dovevano convertire. Queste varie chiamate rivolte dal Signore al suo popolo e segnatamente agli infedeli, secondo l’insegnamento dei Santi Padri, sono mirabilmente designate nella parabola del Vangelo d’oggi. Noi tuttavia, per nostra maggiore utilità ne faremo l’applicazione alla nostra vita cristiana.

1. Il regno dei cieli, disse Gesù Cristo, è simile ad un padre di famiglia, il quale andò di gran mattino a fermare dei lavoratori per la sua vigna. Ed avendo convenuto coi lavoratori a un denaro per giorno, li mandò alla sua vigna. Ed essendo uscito fuori circa all’ora terza, ne vide degli altri, che se ne stavano per la piazza senza far nulla, e disse, loro: Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quel che sarà di ragione. E quegli andarono. Uscì anche di nuovo circa l’ora sesta e la nona e fece l’istesso. Circa l’undecima poi uscì e ne trovò degli altri, che stavano a vedere, e disse loro: Perché state qui tutto il giorno in ozio? Quelli risposero: Perché  nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. – E qual è adunque questa vigna, che il padre di famiglia, che è Dio, vuol far lavorare da noi che siamo i suoi operai! Questa vigna è l’anima nostra. Iddio l’ha creata Egli immediatamente; l’ha fornita di tanti bei doni, l’ha arricchita di moltissime grazie, e sopra tutto l’ha innaffiata del sangue preziosissimo del suo divin Figlio per mezzo dei santi sacramenti: Egli l’ha posta ora su questa terra, destinandola tuttavia ad essere un giorno trapiantata nel Paradiso. E chi può dir quanto egli ami e quanto desideri che, arricchendosi di abbondanti frutti, abbia a raggiungere il suo fine? Con tutto ciò sebbene egli vi abbia sparso, senza che essa ne avesse alcun merito, i tesori della sua grazia, l’anima nostra non raggiungerà la sua salvezza, se noi non presteremo il nostro concorso all’azione divina, vale adire, se noi non lavoreremo efficacemente a santificarla. Importa adunque sommamente che tutti, mentre siamo in tempo, ci diamo attorno per far delle opere buone, senza le quali è impossibile la santificazione dell’anima. Guai a noi se ce ne stiamo oziosi! E sapete voi di qual maniera ce ne staremmo oziosi? Lo spiega chiaramente S. Tommaso. Si chiamano oziosi, dice egli, non solamente coloro che operano il male, ma coloro eziandio che trascurano di operare il bene: dicuntur otiosi non solum qui mala faciunt, sed etiam qui bonum non agunt (In Matth. cap. XX). Certamente sono oziosi per la vigna della loro anima coloro, che impiegano la loro intelligenza, il loro cuore, i loro sensi, il loro ingegno, la loro sanità, le loro ricchezze, la loro forza come strumenti ad operare il male e a coprire la loro anima degli sterpi del peccato. Ma sono oziosi del pari coloro, che pur non commettendo deliberatamente e di proposito gravi peccati, non impiegano tuttavia le loro forze morali, intellettuali e fisiche a far del bene. Perciocché impiegare queste forze a metter insieme denari, a far delle grandi fortune, a conseguire cariche ed onori, a raggiungere posti elevati, a far acquisto di scienza peregrina e cose simili è lavorare attorno alla santificazione dell’anima propria! Ahimè! Quid hæc ad æternitatem? Che cosa giovano tutte queste cose per l’eternità? Importa adunque che non ci lasciamo con tanta facilità distrarre dal pensiero degli affari temporali. Sì, attendiamo pure con diligenza a quella professione, a quell’arte, a quello studio, nel quale Iddio ci vuole in questa vita, ma non dimentichiamo mai che in capo a tutto deve stare l’affare della nostra eterna salute, che è questa l’unica cosa sommamente necessaria. A che mai, esclama Gesù Cristo, a che mai, o mortali, vi andate occupando in tante cose del mondo ? Una sola cosa è necessaria, e questa è la salute dell’anima vostra. Se voi salvate quest’anima, per voi tutto è salvo, ma se la perdete, tutto è perduto. Voi potete acquistarvi ricchezze, onori, impieghi,gloria; voi potete comparire gran sapiente in faccia agli uomini; essere riputati i più valenti, i più dotti dei vostri compagni, del vostro paese, di tutto il mondo: ma tutte queste cose sono niente se le confrontate con la salvezza dell’anima vostra, che di tutto il mondo è il tesoro più prezioso. Nulla può paragonarsi al valore dell’anima, poiché essa vale il sangue di Gesù Cristo, avendo Gesù Cristo sparso il sangue per la salvezza di ciascuna delle nostre anime. Epperò, che cosa potrai dare, dice lo stesso Gesù, che possa compensare l’anima tua? Che ti giova, o uomo, guadagnare tutto il mondo, se questo guadagno reca danno all’anima tua? E l’Apostolo S. Paolo avvisava i Cristiani della città di Filippi, che con timore e tremore attendessero a salvar l’anima. S. Francesco Zaverio diceva che nel mondo avvi un solo bene ed un solo male, l’unico bene è salvarsi, l’unico male è dannarsi. E S. Teresa andava spesso ripetendo alle sue compagne: Sorelle, un’anima, un’eternità: volendo dire: un’anima sola, perduta questa, tutto è perduto, e per un’eternità. Oh quanto rincresce adunque il sentire talvolta certi Cristiani, che poco o nulla pregando,

andando di mala voglia in chiesa, trascurando di istruirsi convenientemente nella Religione e lasciando da parte molti altri doveri, si scusano col dire che hanno da pensare ad altro, a studiare e a lavorare! Quanto fa pena il vederli talvolta nella chiesa istessa anziché rivolgere la mente a Dio, dissiparla nel pensiero dei loro affari mondani! Ma poveri Cristiani! Pensano essi forse che al suo divin tribunale Dio menerà loro buone queste scuse? Ahimè! Ogni albero, che non produce buoni frutti, diceva già il Precursore di Cristo, sarà tagliato e gettato nel fuoco. E Gesù Cristo medesimo confermò ampiamente questa dottrina. Ricordiamoci adunque che non basta la fede, come insegnano i protestanti, ma sono anche necessarie le opere. « Che prò, domanda l’Apostolo S. Giacomo, che prò se uno dica di avere la fede e non abbia le opere? Potrà forse salvarlo la fede? Che se il fratello e la sorella sono ignudi e bisognosi del vitto quotidiano e uno di voi dica loro: Andate in pace, riscaldatevi e satollatevi; né diate loro le cose necessarie al corpo, che gioverà? Così come le vostre parole non sono di alcuno sollievo al fratello ed alla sorella che sono in urgente necessità ed han bisogno non di parole, ma di effettivo soccorso, così la sola fede non gioverà a voi essendo priva della carità, senza di cui la fede è morta ». Operiamo, operiamo adunque. In mezzo alle nostre occupazioni, ai nostri studi avvezziamoci a mettere le buone opere in cima ai nostri pensieri. Le preghiere del mattino e della sera, la frequenza dei Sacramenti, la santificazione delle feste, le opere di carità, l’esercizio delle cristiane virtù, siano cose che nella nostra estimazione e nella pratica passino innanzi a tutte le altre. Per tal modo, vale a dire col lavoro di una vita cristiana, noi coopereremo con Gesù Cristo, nostro Dio e nostro padrone, alla coltura di quella vigna spirituale, che è l’anima nostra, ed asseconderemo la chiamata, che Egli a tal fine ci fa udire in tutte le età della vita umana.

2. E qui notiamo quale fosse il costume degli antichi. Essi dividevano il giorno in dodici ore. La prima cominciava al levar del sole, la dodicesima al suo tramonto. Tale giorno aveva quattro parti di tre ore, più o meno lunghe, secondo che il sole stava più o meno tempo sull’orizzonte. Quindi la prima, la terza, la sesta, la nona, l’undecima ora corrispondevano a ciò che noi chiamiamo le sei, le nove ore del mattino, il mezzodì, le tre e le cinque ore pomeridiane. Ora, chi non vede come tutte le età della vita umana, assai più acconciamente delle epoche della storia, possono essere paragonate alle ore di un solo e medesimo giorno? Sì, la vita dell’uomo è come un giorno, ma un giorno, cui assai presto succede la notte, dice il profeta Isaia: Venti mane et nox. La prima ora, dice S. Gregorio, è l’infanzia dell’uomo; la terza è la sua adolescenza, in cui comincia a crescere il calore dell’età, come il sole nella terz’ora del giorno; la sesta è la giovinezza, in cui è nella sua forza la pienezza dell’età, come quando il maggior astro è al suo mezzodì; la nona è l’età matura, l’età perfetta, in cui decresce e si diminuisce tutti i giorni il calore; l’undecim’ora è la vecchiezza, in cui per così dire non vi è più che un punto tra la vita e la morte, tra il giorno ed una notte eterna. Ebbene, o miei cari, in tutte le età della vita Dio chiama gli uomini a lavorare nella sua vigna. Egli li chiama anzi tutto nell’infanzia. Benché nulla possiamo ancora fare per Iddio, Egli si mostra fin d’allora infinitamente generoso. Per mezzo del santo Battesimo egli infonde in noi le virtù soprannaturali, che sono in allora altrettante potenze, per cui siamo obbligati ad operare il bene, appena saremo giunti all’uso della ragione. Epperò col compiere in noi questa opera, benché noi non possiamo intendere

la sua voce, tuttavia Iddio ci chiama al suo santo servizio, alla santificazione dell’anima nostra, facendo con noi la convenzione di darci per mercede del nostro lavoro la vita eterna del cielo. Egli chiama gli uomini nell’adolescenza, età, in cui le nostre facoltà incominciano a metter fuori i primi raggi e a dare i primi slanci. E chi sa dire le molteplici guise, con cui Iddio fa sentire la sua voce al cuore di un fanciullo? Egli lo chiama con la sana educazione dei genitori e dei maestri, lo chiama col catechismo e con l’apprendimento delle prime verità cristiane, lo chiama con gli insegnamenti, che il sacerdote dà in modo adatto alla sua tenera mente, lo chiama colle dolcezze delie pratiche di pietà e soprattutto con quelle della prima Comunione;

lo chiama insomma in mille modi ed amorosamente lo invita a darsi interamente al suo amore. – Ma Iddio non chiama meno all’età della giovinezza, età delle passioni e de’ suoi scatti impetuosi. Pur troppo allora più che mai anche il mondo fa sentire la sua voce e grida che quella è l’età del piacere. E guai se il giovane insensatamente ascolta la voce del mondo! Egli allora butta nel vizio la forza e l’energia della sua vita e da se stesso si conduce innanzi tempo ad una vergognosa vecchiaia. Ma se invece egli ascolta le chiamate di Dio, chi sa dire il gran bene, di cui diventa capacissimo operatore? Che non fecero mai in questa età un S. Luigi Gonzaga, un S. Stanislao Kostka, un S. Giovanni Berchmans? Iddio chiama ancora all’età matura. Anzi allora, quanto più il giorno della vita si avanza, tanto più insistente diventa la sua chiamata. E quando l’uomo ha resistito, quando ha passato il fiore della sua vita nell’indifferenza, nella mollezza e nell’ingratitudine, quando arriva alla triste età della vecchiezza, quando già porta sulla fronte il segnale d’una morte vicina, Iddio degnasi di chiamarlo ancora, accontentandosi degli estremi avanzi di una vita, che sta per spegnersi, e che forse fu passata tutta a disconoscerlo e ad oltraggiarlo. Con tutto ciò, o miei cari, guardiamoci bene dall’inganno del demonio, dal fidarci cioè di poter poi rispondere facilmente alla chiamata di Dio nell’estrema nostra età. S. Agostino e S. Girolamo insegnano, che colui il quale nella sua gioventù si dà al mal fare, si viene abituando allo stesso, e l’abitudine forma come una seconda natura, una catena di ferro, una forza tirannica e prepotente, che malgrado qualche buon desiderio in contrario, trascina al male. Or come farà a darsi al servizio del Signore e per conseguenza a cangiare costume di vita, colui che per una lunga serie di anni è sempre vissuto nella spensieratezza della vita cristiana e talvolta nei più gravi disordini del vizio? Ecco perché si vedono pur troppo talora dei vecchi, che hanno già il crin canuto e bianco e pur sono sì spudorati nel parlare, sì disonesti nell’agire, sì irreligiosi nel sentire. Ecco perché costoro talvolta scendono nella tomba senza aver punto corretta la loro vita, che cominciò ad essere malvagia nella loro gioventù. È proprio la sentenza dello Spirito Santo, che si avvera: Ossa eius implébuntur vitiis adolescentiæ eius, et curri eo in pulvere dormient: Le ossa di lui saranno imbevute dei vizi della sua gioventù, e questi andranno a giacere con lui nella tomba (Giobb. XX, 11). Tutti adunque, in qualunque età ci troviamo, ascoltiamo la voce di Dio che ci chiama al lavoro della santificazione, e tutti senza dubbio ne avremo l’adeguata mercede. È Gesù Cristo stesso, che ce lo assicura nella seconda parte della parabola di quest’oggi.

3. Venuta la sera, prosegue egli, venuta la sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama i lavoratori, e paga ad essi la mercede, cominciando dagli ultimi sino ai primi. Tenuti adunque quelli che erano andati circa l’undecima ora, ricevettero un denaro per ciascheduno. Et reliqua. Or bene, o miei cari, la sera, di cui trattasi qui è il fine della vita. L’economo è Gesù Cristo, a cui il suo padre ha dato ogni podestà, e che dopo essersi a noi dato come Salvatore, si presenterà un giorno come rimuneratore divino. Il denaro consegnato all’operaio laborioso si è la vita eterna, retaggio di tutti gli eletti. E se, come accadde agli operai della prima ora, ci sorprende che gli operai dell’ultima ricevano come gli altri quel denaro della beatitudine infinita, riflettiamo, che Dio pesa piuttosto i santi ardori dell’anima di quello che misuri la durata del lavoro. Vi sono di quelli che datisi assai tardi al servizio del Signore, vi hanno portato tuttavia un ardore sì grande, una così mirabile energia, una forza di volontà così potente, che ben presto hanno sorpassato coloro che, non avendo mai disertato dalla via del bene, non vi hanno però fatto progressi sensibili, e non camminarono che a piccioli passi nel sentiero della perseveranza. Non han fatto così un S. Paolo, un S. Agostino, un S. Ignazio di Loyola, un S. Francesco Zaverio e tanti altri? Inoltre non dobbiamo dimenticare quella sentenza del Salvatore: « Nella casa di mio Padre vi sono molte mansioni » (Ioann. XIV, 2); e quell’altro insegnamento di S. Paolo: « In quella guisa che le stelle differiscono in chiarezza, così sarà nella risurrezione dei morti » (1 Cor. XV, 41). I Santiri fletteranno gli splendori divini del Signore secondo la maggiore o minore loro santità e perfezione. Finalmente riflettiamo, che se molti sono i chiamati, pochi sono gli eletti; vale a dire, come molti commentatori spiegano, se il numero dei Cristiani chiamati con grazie ordinarie ad una vita ordinaria è grande, in quella vece è scarso quello di coloro, che con grazie straordinarie sono chiamati ad una straordinaria santità; epperò se Iddio darà un premio specialissimo a quei pochi che da lui eletti praticarono una santità eroica, la comune dei Cristiani dovrà accontentarsi della ricompensa ordinaria, che sarà ad ogni modo troppo grande in confronto dei loro pochi meriti, secondo quel che disse Iddio al suo servo Abramo: « Ego merces tua magna nimis » (Gen. XV, 1). Quindi senza più oltre voler scrutare quanto vi restasse di impenetrabile in questa condotta del Signore, Padre di tutta quanta l’umana famiglia, accertiamoci, nulla di meno, che Egli, giusto rimuneratore dei buoni, in paradiso darà certamente a ciascuno il premio corrispondente a quel tanto di bene che avrà fatto, e con questo consolantissimo pensiero animiamoci senz’altro a fare il maggior bene per noi possibile. Suvvia, mettiamoci davvero con impegno. Obbediamo al comando del padrone delle anime nostre: « Ite et vos in vineam meam ».

Credo …

Offertorium

Orémus
Ps XCI:2

Bonum est confitéri Dómino, et psállere nómini tuo, Altíssime. [È bello lodare il Signore, e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

Secreta

Munéribus nostris, quæsumus, Dómine, precibúsque suscéptis: et coeléstibus nos munda mystériis, et cleménter exáudi. [O Signore, Te ne preghiamo, ricevuti i nostri doni e le nostre preghiere, purificaci coi celesti misteri e benevolmente esaudiscici.]

Communio

Ps XXX: 17-18

Illúmina fáciem tuam super servum tuum, et salvum me fac in tua misericórdia: Dómine, non confúndar, quóniam invocávi te. [Rivolgi al tuo servo la luce del tuo volto, salvami con la tua misericordia: che non abbia a vergognarmi, o Signore, di averti invocato.]

Postcommunio

Fidéles tui, Deus, per tua dona firméntur: ut eadem et percipiéndo requírant, et quæréndo sine fine percípiant. [I tuoi fedeli, o Dio, siano confermati mediante i tuoi doni: affinché, ricevendoli ne diventino bramosi, e bramandoli li conseguano senza fine.]

LO SCUDO DELLA FEDE XLIX

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S. E. I. Ed. Torino, 1927

XLX.

IL PARADISO.

Esistenza ed essenza del paradiso. — Come vi si veda Iddio — Come in Dio si conoscano tutte le creature. — Differenza fra i beati e contentezza che tutti provano nonostante tale differenza. — Felicità dell’anima prima della risurrezione, e del corpo dopo di essa. — Se si possa in cielo essere sorpresi dalla noia. — Se ivi si soffra per la perdita di qualche nostro caro.

— Ed ora eccomi a farle alcune domande intorno al paradiso. E primieramente: esiste esso davvero?

L’esistenza del paradiso è verità di fede, espressa nel simbolo sotto il nome di vita eterna; e tutti i popoli l’hanno sempre ammessa, benché molti di essi abbiano  errato ed errino tuttora, intorno alla sua essenza. Tutte le nostre aspirazioni più sublimi e più pure lo reclamano; e se l’uomo sopporta la vita con i suoi dolori, con le sue fatiche, con i suoi travagli è perché sente che un giorno sarà consolato e ricompensato in cielo. Infine gli attributi di Dio lo esigono non meno delle facoltà dell’uomo; la sua giustizia, la sua potenza, la sua sapienza, il suo amore, tutte insomma le sue perfezioni importano l’esistenza di una felicità eterna per colui che, ossequente alla legge del Signore, ha menato quaggiù una santa vita, o per lo meno è morto nella grazia di Dio.

— E dove si trova il paradiso?

Questo non si può dire. « Certamente, dice l’illustre Bougaud è un luogo, e un luogo materiale, perché deve accogliere non solamente delle anime, ma delle anime unite ai corpi, e già a quest’ora ne accoglie. È un luogo immenso, milioni di volte più grande della terra, perché deve riunire senza ombra di confusione tutti i santi, che hanno abitato il nostro globo dalle sue più remote origini, e che lo abiteranno sino al chiudersi dei secoli. È un luogo d’uno splendore ineffabile, in confronto del quale la terra, con tutte le sue meraviglie, non è che un luogo di esilio ed una regione di tenebre ». Ma dove sia collocato non si sa. Che se alcuni, anche dotti, in tempi remoti, hanno collocato il cielo nel firmamento, negli astri, ciò essi non fecero che esprimendo le loro supposizioni. D’altronde a me pare inutile ricercare dove il paradiso materialmente si trovi, giacché il paradiso piuttosto che dal luogo dev’essere costituito dallo stato di felicità, che gode il beato.

—- E in che cosa consiste propriamente la felicità del cielo?

La felicità o beatitudine essenziale consiste nel veder Dio, nel contemplare la sua infinita bellezza, chiara com’è, e nell’amare la sua infinita bontà con un amore che procaccia una gioia ed una dolcezza ineffabile.

— Perché mi disse beatitudine essenziale?

Perché questa è la beatitudine, che costituisce davvero il paradiso e così compiutamente da saziare per sé sola, tutti i desideri dei beati. Tuttavia questi godono ancora della bellezza materiale del cielo, della compagnia dei Santi loro compagni e di quella degli Angeli, della presenza della Regina del cielo Maria, e soprattutto della SS. Umanità di Gesù Cristo. Ma siccome questo gaudio non è punto necessario alla perfetta felicità dei beati, perciò si può chiamare accidentale ossia accessorio. – Inoltre secondo l’insegnamento di S. Tommaso i vergini, per la vittoria che riportarono sulla carne, vivendo da Angeli in corpo umano, i Martiri che trionfarono delle persecuzioni del mondo, e i Dottori che abbatterono il demonio con la difesa e spiegazione della dottrina di Gesù Cristo, avranno una gloria accidentale tutta loro propria, la quale dopo la risurrezione ridonderà pure nel loro corpo, glorificato. – Infine la felicità di tutti i beati del paradiso sarà compitissima dalla sicurezza che hanno di non perderla più mai e di goderla per sempre.

— In paradiso pertanto si vede davvero Iddio?

Senza alcun dubbio, e si vede faccia a faccia, quale Egli è. Così c’insegnano la Sacra Scrittura e la Chiesa.

— E lo si vede con questi occhi materiali?

No, certamente, neppure dopo la risurrezione, quando i beati saranno in cielo non solo con l’anima ma eziandio col corpo: perché i nostri occhi materiali non potendo vedere le cose spirituali non potranno neppure mai vedere Iddio, che è purissimo spirito. Anzi neppure con la sola intelligenza si può vedere Iddio, quando pure, dice S. Tommaso, egli aumentasse indefinitamente le sue forze proprie e native, perché vi sarebbe sempre tra la sua natura e la nostra un abisso insormontabile. Lo si vede adunque con la intelligenza fornita da Dio di una disposizione nuova, apposita, d’ordine superiore, che si chiama lume della gloria.

— Dunque neppure in cielo senza questo lume della gloria Dio non si vede?

No, certamente, di quella guisa che cogli stessi occhi materiali non possiamo vedere nemmeno una montagna per quanto a noi vicina senza l’aiuto della luce.

— E vedendo Iddio col lume della gloria, i beati lo comprendono chiaramente?

Questo no. Per comprendere Iddio non basta vederlo; bisognerebbe arrivare a conoscerlo con quella perfezione, con cui Dio conosce se stesso con la sua scienza infinita, la qual cosa è impossibile ad ogni creatura.

— E allora che cosa significa quel vedere Iddio, che costituisce in cielo la felicità dei beati?

Significa che i beati in cielo conoscono Iddio, la sua divina sostanza, le sue divine perfezioni, la sua augustissima Trinità quanto è loro possibile, secondo le forze della natura elevata dalla grazia; le quali forze essendo finite non possono perciò procacciare un conoscimento infinito di Dio, ossia la sua comprensione.

— Dunque anche lassù in cielo continuano ad esservi dei misteri, che i beati non possono comprendere. E così persistendo l’ignoranza, come può essere pienamente appagata la loro mente ?

No, caro mio, non è come tu dici. Benché il conoscimento, che i beati hanno di Dio, non sia infinito, tuttavia è tale da far scomparire ogni mistero e da mostrar loro con chiarezza ogni verità, ragione per cui in paradiso cessa la fede, che serve a farci credere ciò che non vediamo. Siccome poi la mente dei beati in cielo conosce Iddio quanto può bramare di conoscerlo con tutte le sue forze di natura e di grazia, perciò resta pienamente appagata in tutti i suoi desideri spinti all’ultimo punto, si trova perfettamente sazia e felice di tale conoscimento, ancorché non sia la comprensione, e non soffre alcun patimento, neppure minimo.

— È vero che nel conoscimento di Dio i beati hanno altresì il conoscimento di tutte le creature?

Verissimo. Essi conoscono anche le creature come effetti nella loro causa. « Mettiamoci innanzi agli occhi della mente, ti dirò con l’illustre Mons. Bonomelli, tutte le creature materiali, dall’atomo inorganico al cedro del Libano, dal microbo all’elefante. Quante creature! Quante forze! Quante doti e proprietà e rapporti infiniti tra loro! Quale immensa moltitudine! Salite all’uomo, alla sua mente, alla mente di ciascuno. Quanti pensieri e cognizioni in una sola! in tutte! Poi salite agli Angeli! Tutte le loro cognizioni, atti, ecc. ecc. Poi tutto l’universo con tutte le sue evoluzioni passate, presenti, future; è tal mole di cose, di pensieri ed atti da opprimere qualunque intelligenza. Ebbene: tutto ciò che fa l’Artefice è nella sua mente, nella sua volontà: così tutte le cose create in cielo, in terra, nell’universo, le loro evoluzioni, i loro fenomeni sono tutti in Dio, che come Creatore li precontiene in se stesso; tutte le cognizioni degli uomini e degli Angeli, tutti gli atti delle loro menti, delle loro volontà, sono in Dio, in quanto che tutto questo è esplicazione di quella forza che Iddio ha collocato in essi, e perciò tutto precontiene in se stesso; Più: Dio contiene in se stesso tutti i possibili, relativamente a sé ed agli altri tutti, tutto ciò che può fare e quello che realmente farà. Come dunque chi potesse entrare nella mente dell’uomo, vi leggerebbe tutti i suoi pensieri, così chi può entrare nella mente di Dio (come i beati in paradiso) vi vede senza studio, senza speculazioni, senza fatica, senza sforzo alcuno ogni cosa, comprese quelle che non furono, che non saranno mai, ma che potrebbero essere; è un oceano sterminato di cognizioni certe, limpide, perfette, inamissibili, in cui il beato ènaufrago. Quale gioia! quale felicità!»

— Davvero che questa è una gioia ed una felicità, che allieta al solo pensarvi. Ma il conoscimento di Dio, della sua grandezza, della sua potenza e volontà, da cui questa gioia e felicità emana, è desso per tutti i beati eguali?

Oh! no, certamente. Là si è tutti uguali in quanto che tutti si possiede lo stesso Dio immediatamente e sempre; ma in quanto al conoscerlo e goderlo si è differenti a seconda del maggiore o minore lume di gloria, che i santi hanno ivi da Dio, in conformità ai loro maggiori o minori meriti e alla maggiore o minore carità, di cui conseguentemente arderanno. È perciò appunto che Gesù Cristo ha detto nel Vangelo che «nella Casa del suo Padre vi sono molte mansioni, » cioè in numero sterminato e di diversi gradi.

— Ma questa diversità non è causa di invidia e di disgusto ai beati?

Niente affatto. I beati non possono essere capaci né di invidia per il maggior bene altrui, né di disgusto per il loro minore, perché sono tutti animati dalla carità più perfetta, e tutti godono del bene degli altri come del proprio. D’altronde siccome la felicità di quegli stessi beati, che in cielo sono fra i minori, è tanto perfettamente commensurata alla capacità che hanno di godere, perciò neppure a loro rimane alcun minimo desiderio da soddisfare. Supponi che un uomo adulto ed un fanciullo arrivino assetati ad una sorgente abbondantissima di acqua pura e fresca, e che tutti e due bevendo di quell’acqua, quanto ciascuno di essi ne può bere, si dissetino ciascuno pienamente. Forseché il fanciullo, che per la minore capacità del suo stomaco non può bere tant’acqua come quell’uomo adulto, provi perciò dell’invidia e del disgusto? No, certamente, essendo egli contentissimo di poter bere quanto vuole e quanto può. Così è dei beati in cielo. Quindi bellamente il nostro sommo poeta fingendo nel Paradiso (Canto III) di interrogare un’anima celeste così:

Ma dimmi: Voi, che siete qui felici,

Desiderate voi più alto loco,

Per più vedere, e per più farvi amici?

si fe’ rispondere:

Frate, la nostra volontà quieta

Virtù di carità, che fa volerne

Sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta,

sicché in fine conchiuse:

Chiaro mi fu allor, com’ogni dove

In cielo è paradiso, e sì la grazia

Del Sommo ben d’un modo non vi piove.

— Ho inteso. Ma questa grande felicità è certo che Iddio la conceda alle anime di coloro, che muoiono in grazia, prima ancora della risurrezione dei corpi e dell’universale giudizio?

— Certissimo, anzi di fede secondo l’insegnamento datone dalla Chiesa in uno de’ suoi Concilii, nel Concilio Fiorentino. Le anime dei giusti appena sciolte dal loro corpo, se sono libere da ogni pena temporale e da ogni neo di colpa veniale, subito vanno al paradiso; altrimenti vi vanno tosto che abbiano scontata la pena temporale e compiuta la loro purificazione nel purgatorio.

— E dopo la risurrezione e l’universale giudizio, il corpo unito all’anima in cielo godrà esso dei piaceri come ne gode qui in terra?

No, caro mio, in cielo il corpo godrà dei piaceri come si conviene alla condizione gloriosa, in cui è risuscitato. Perciò non vi saranno più per lui questi piaceri meschini, grossolani, materiali e terreni, ma piaceri di ordine superiore, del tutto spirituali ecelesti.

— Con tutto ciò a me pare che in cielo si debba finire per essere sorpresi dalla noia. Quello starsene lì sempre allo stesso posto, intenti alla stessa contemplazione non è cosa, che per lo meno ad un certo punto renda indifferenti?

Ben si vede che tu ti fai del cielo una idea molto meschina e ben diversa da quella che dovresti farti. È vero che i pittori sogliono rappresentare il cielo come un vasto cerchio, ove i beati se ne stanno ciascuno estatico al proprio posto, nella contemplazione di Dio. Ma i pittori fanno così non già per rappresentarci il cielo quale esso è, ma per aiutare in qualche modo la nostra fantasia a figurarcelo. Così fanno pure i poeti e gli oratori colle loro descrizioni, anzi così fa la stessa Scrittura, la quale a darci qualche idea del cielo si serve di immagini materiali, di tutto ciò che di bello, di buono, di piacevole vi è in questo mondo. Perché nell’ordine presente non è possibile per noi formarci un’idea pura di tutto ciò che è spirituale e soprasensibile, senza l’involucro d’una forma o immagine sensibile: sempre abbisogniamo dell’aiuto dei fantasmi per rappresentarci l’anima, gli Angeli, le virtù, le perfezioni, lo stesso Dio. Epperò come quando la Scrittura ci parla di posti, di seggi, di mansioni in cielo, di corone, di palme, di vesti che là si hanno ecc., non intende parlarci di posti, di seggi, di mansioni, di corone, di palme, di vesti materiali, ciò che sarebbe ridicolo degli Angeli e delle anime ancora separate dai corpi, ma di gradi diversi di felicità, così i pittori seguendo queste stesse immagini ci rappresentano i beati fermi ciascuno al proprio posto, nella stessa contemplazione di Dio. Ma la cosa è ben diversa. Ed anzitutto i beati sia con la sola anima prima della risurrezione, sia con l’anima e col corpo dopo la risurrezione, come insegna san Tommaso, potranno muoversi e recarsi di qua e di là a seconda della loro volontà, sia per esercitare quegli atti di cui sono capaci, e per essi rendere gloria alla divina sapienza, sia per ricreare la loro vista dalla bellezza delle diverse creature, nelle quali la stessa divina sapienza eminentemente risplende; e tutto ciò senza che avvenga il menomo decrescimento della loro beatitudine, essendo che da per tutto hanno presente Iddio e ne godono la visione. Come dunque si può ingenerare la noia nei beati, i quali, ora da soli, ora in compagnia di altri beati andranno di sfera in sfera, visiteranno i milioni e milioni di astri, vi contempleranno le bellezze che in essi vi sono, le meraviglie che in ciascuno si trovano? E che dire di quello che i beati potranno considerare ed ammirar nel mondo degli Angeli e in quello delle anime ? « Una sola anima in cielo, dice Bougaud, ben conosciuta, basta a rapire. Si vede a rilucervi la bontà di Dio, la sua pazienza, la sua delicatezza infinita, i suoi colpi di folgore temprati dalla tenerezza per divellerla dal male. La biografìa di ciascuna di esse rivela, starei per dire, una nuova scienza di Dio, siffattamente getterà luce nuova e inaspettata sopra i suoi attributi ». Che dire ancora di quei colloqui e di quelle relazioni dolcissime, che i beati del cielo hanno coi loro parenti coi loro amici salvi con essi, e tra i quali vi èperfetto riconoscimento, con gli Angeli e coi Santi tutti, per cui del continuo si scambiano nuovi pensieri, nuovi sentimenti, nuove adorazioni, nuovi entusiasmi, nuove espansioni di carità e di gioia! E poi la stessa visione di Dio, bellezza infinita, nella quale vivono e palpitano tutte le bellezze, e che pur appagando pienamente la nostra intelligenza e il nostro cuore, senza lasciarci nulla da cercare o desiderare, come felicemente si esprime il Padre Felix, « dà ai beati, con un’espressione sempre nuova dell’infinito, una felicità che ringiovanisce eternainente, » come mai puòlasciarci cadere nella noia? No, certamente, ciò non è possibile: se così fosse, il cielo non sarebbe più cielo.

— Ma per lo meno in Paradiso non si prova dai beati qualche pena nel sapere dannato qualcuno dei loro cari?

È fuori di dubbio che nessun’ombra di dolore offusca la felicità dei beati in cielo; epperò non possono soffrire neppure per la dannazione dei loro cari, perché la vedono giustissima, pienamente conforme ai loro demeriti. Tuttavia a capire e spiegare come ciò avvenga ti confesso che è difficile assai, e di tutte le spiegazioni, che si adducono, non appaga interamente la ragione che questa: Dio con la sua onnipotenza può dare ai beati una miracolosa disposizione d’animo, per cui mentre essi godono ineffabilmente ed eternamente, e vedono certi loro cari a soffrire spaventosamente e pure eternamente, non restano tuttavia menomamente amareggiati.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (23)

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXII.

(fine del precedente)

Esistenza degli oracoli divini e degli oracoli satanici provata dal fatto dei sacrifici — Parole d’Eusebio — Nuovo tratto di parallelismo — Lo Spirito Santo, oracolo permanente della Città del bene; satana, oracolo permanente della Città del male — satana si serve d’ogni cosa per parlare — Non si contenta del sacrificio del corpo: in odio del Verbo incarnato vuole il sacrificio dell’anima — Egli esige delle infamie e delle ignominie: prove generali — Quando egli non può uccidere l’uomo, lo deforma — Tendenza generale dell’uomo a deformarsi fisicamente — Spiegazione di questo fenomeno — Un sol popolo fa eccezione, e perché — Altro tratto di parallelismo: per far l’uomo a sua similitudine, Iddio si mostra a lui nei quadri e nelle statue. Per fare l’uomo a sua similitudine, satana adopra lo stesso mezzo: ciò che predicono le sue rappresentazioni.

A meno che non si voglia negare ogni certezza storica, i due fatti che siamo per leggere sono lampanti per quei che negano gli oracoli. Essi lo sono non solamente a causa della gravità degli autori che li riferiscono, ma ancora per la loro connessione con una moltitudine di altri fatti, egualmente certi. Per conservare il minimo dubbio sull’esistenza universale degli oracoli demoniaci, e sulla terribile autorità dei loro ordini, fa d’uopo essere giunti ad un partito preso di negazione che concerne la stupidità. Tutta la storia del mondo incivilito non riposa essa sulla certezza di un oracolo satanico? Cento volte nella Scrittura non vediamo noi la consultazione degli oracoli? cento volte questi oracoli non chiedono agli Ebrei, come ai Cananei, l’immolazione dei loro figli e delle loro figlie? Ci si citi una pagina della storia profana che non affermi l’esistenza degli oracoli presso tutti i popoli pagani d’una volta, che non raffermi altresì presso tutti i popoli pagani d’oggidì. Fra le innumerevoli pratiche, ridicole, infami e crudeli che deturpano la loro esistenza, ve ne ha forse una sola che essi non riferiscano alla prescrizione delle loro divinità? Intorno a questo punto, se la storia conferma la ragione, la fede dal canto suo spiega la storia. satana, come rivale implacabile del Verbo incarnato, vuole essere tenuto per Iddio. Il segnale della divinità, è il culto di latria. L’atto supremo del culto di latria, è il sacrificio. Il mezzo d’ottenere il sacrificio, è di comandarlo. Il mezzo di comandarlo, è l’oracolo. satana, immutabile nel male, ha sempre voluto farsi passare per Iddio, e sempre lo vorrà. Dunque egli ha voluto sempre e sempre vorrà il sacrificio. Dunque sotto un nome o sotto un altro, vi furono sempre e sempre vi saranno oracoli, dappertutto dove la scimmia di Dio potrà esercitare il suo impero. Eusebio dice: « Che nulla prova meglio l’odio dei demoni contro Dio, quanto la loro rabbia di farsi passare per iddìi, con la mira di togliergli gli omaggi che gli sono dovuti. Ecco perché essi impiegano le divinità e gli oracoli, a fine di attirare, gli uomini a sé, di strapparli al Dio supremo, e di sommergerli nell’abisso senza fondo dell’empietà e dell’ateismo. » (Præp. evang., lib. VII, c. XVI; vedi pure S. Tomm. I p., q. 115, art. 5 ad 3). Non è soltanto in cose di religione, e quando si tratta del sacrificio, che il ee della Città del male vuole essere consultato. Ei lo vuole e lo è nelle cose dell’ordine puramente sociale ed umano. Quest’è un nuovo tratto del parallelismo di già notato. Sappiamo che innanzi di incominciare qualche cosa d’importante, l’antico popolo di Dio aveva ordine di consultare l’oracolo del Signore: os Domìni. Il Vangelo non ha niente cambiato a questa prescrizione. Non vediamo noi il nuovo popolo di Dio, la Chiesa Cattolica, fedele ad implorare i lumi dello Spirito Santo all’oggetto di sapere, in circostanze importanti, quel che conviene di fare, e il modo di farlo? Le nazioni d’Oriente e d’Occidente finché furono cristiane, non si indirizzarono al Sovrano Pontefice, come oracolo vivente dello Spirito Santo, per domandare a lui regole di condotta, pregandolo a decidere tra il vero ed il falso, tra il giusto e l’ingiusto? Che cosa vuol dire, se non consultare l’oracolo del Signore: Os Domìni! Nella loro vita privata gli stessi Cattolici che hanno conservato la fede alle relazioni necessarie del mondo superiore col mondo inferiore, si mostrano religiosi osservatori di questa pratica. Cosa è infine questo, se non un consultare l’oracolo del Signore: Os Domìni? – È molto evidente che satana abbia dovuto contraffare a suo profitto un uso cosi proprio, ad ottenere la confidenza e gli omaggi degli uomini; prima di averne le prove ne abbiamo la certezza. Di fatti che cosa vediamo noi presso tutti i popoli pagani? degli oracoli che si va a consultare intorno a cose di guerra o di pace; circa a pubbliche calamità e intorno a sciagure domestiche; circa a matrimoni, a intraprese commerciali e malattie. Questi oracoli sono talmente rispettati, che i più fieri generali non ardiscono porsi in campagna senza averli interrogati. Essi sono talmente numerosi, che Plutarco non teme di scrivere questo celebre detto: « Sarebbe più facile trovare una città fabbricata nell’aria che una città senza oracoli. » (Vedi pure Theatrmn magnrnn vitæ hunanæ. Art. Oracula) Per tutti i popoli dell’antichità, l’esistenza degli oracoli satanici era dunque un articolo di fede, e la base della religione. Quanto al modo con cui venivano pronunziati, per quanto apparisca strano, esso non ha nulla che debba meravigliare, nulla che riguardi la certezza del fenomeno. Come il corpo è sotto la potestà dell’anima che lo fa muovere e parlare, così il mondo materiale in tutte le sue parti è soggetto al mondo degli spiriti, e specialmente degli spiriti maligni che sono chiamati i moderatori, ed i governatori: rectores mundi tenébrarum harum.D’allora in poi, per pronunziare i loro oracoli, fu per loro ogni cosa buona; per esempio un serpente o un pezzo di legno come nella Scrittura; una tavola, come vediamo in Tertulliano: un uomo, una donna, come si vede nella Storia Sacra e nella storia profana; una querce, come si vede in Plutarco; una statua di bronzo, come la statua di Memnone; una fontana, come quella di Colofone o di Castalia; una fava, un chicco di frumento, le interiora di un animale, una capra, un corvo, come vediamo in Clemente Alessandrino, e in venti autori pagani. (Fascinationis veluti negotiationis sociς habeantur capr  ad diviuandum informatæ, nec non corvi illi, quos ad responsa reddenda homines (i medium) erudiere. Exhort. Ad Græc., ec., ec.). – Porfirio aggiunge che, « nulla è più evidente né più divino, né più naturale di questi oracoli. » (Bis, nihil evidentius, nihil aut cum divinitate, aut cum ipsamet natura conjunctius dici queat. Apud Euseb., Præp. evang. lib. V, c. III). – Con tutto ciò, per quanto sia abominevole, il sacrificio del corpo, tante volte comandato per mezzo degli oracoli, non basta al demonio. Il suo odio ne esige un altro ancor più abominevole: quest’è il sacrificio dell’anima. Come ispira il primo, cosi ispira il secondo. Nella Citta del bene, lo scopo finale del sacrificio, come di tutte le pratiche religiose, si è di riparare o di perfezionare nell’anima l’immagine di Dio, affinché resa simile al suo Creatore, essa entri, al momento della morte, in possesso della felicità eterna. Spogliare l’anima della sua beltà natia, come ancora della sua santità, cioè cancellare in lei perfino le ultime vestigia di rassomiglianza con Dio, affinché all’uscir della vita essa divenga la vittima eterna del suo corruttore; è il fine diametralmente opposto che ha il Re della Città del male. Con la stessa tirannia con cui egli esige l’effusione del sangue, così esige la profanazione delle anime. La penna nostra rifugge dal descrivere l’ecatombe morali, compiute per suo ordine, su tutti i punti del pianeta, come pure le circostanze ributtanti, di cui il principe delle tenebre le circonda. Ignominie ed infamie: queste due parole riassumono il suo culto pubblico o segreto (quest’ultimo oggi praticato senza orrore nelle conventicole e logge massoniche! – ndr. – ).

Ignominie. Non vedete voi satana padrone di queste anime immortali, immagini viventi del Verbo incarnato, che le costringe a prostrarsi dinanzi a lui, non sotto la figura di un Serafino,, risplendente di luce e di bellezza; ma sotto la figura di tutto ciò che vi ha di più laido e di più ributtante nella natura? Coccodrillo, toro, cane, lupo, caprone, serpente, animali anfibi, animali di terra e di mare, sotto tutte queste forme, egli chiede omaggi, e li ottiene (Si pensi al baphomet adorato nelle logge massoniche – ndr. -). Questa lunga galleria di mostruosità non gli basta. A fine di trascinare l’uomo in più profonde ignominie, egli ne inventa una nuova. Sotto la sua ispirazione l’Oriente e l’Occidente, l’Egitto, la Grecia, Roma, tutti i luoghi insomma dove il genere umano respira, hanno visto le città e le campagne, i templi e le abitazioni particolari, popolarsi di figure mostruose sconosciute alla natura. Esseri spaventosi, metà femmine e metà pesci, metà uomini e metà cani, donne con chioma composta di serpenti, uomini coi pié di montone, donne con la testa di toro, uomini con quella di lupo, serpenti con la testa d’uomo o di sparviero, Magots e Budda aventi per testa un pan di zucchero, per bocca una tana spaventosa, correre da un orecchio all’altro; per ventre un tonno, tutti in attitudini ridicole, minacciose o ciniche; a questi dei, incarnazione moltiforme e lungo sogghigno di disprezzo dello spirito maligno, dovrà l’uomo, tremando, offrire i suoi incensi e domandare i suoi favori. Infamie. A qual prezzo sarà ricevuto l’incenso? A quali condizioni accordati i favori? Lo si domandi ai misteri di Cerere, ad Eleusi; a quelli della Dea Buona, a Roma; a quelli di Bacco, in Etruria; a quei di Venere, a Corinto ; a quei d’Astarte, in Fenicia; di Mendòs, in Egitto; del tempio di Gnido, di Delfo, di Cìaros, di Dodona e di certi altri che ci asteniamo dal nominare; in una parola, lo si domandi a tutti i santuari tenebrosi, dove, simile al tigre che aspetta la sua preda, satana notte e giorno attende l’innocenza, il pudore, la virtù, e l’immola senza pietà, con raffinamenti d’infamia che il Cristiano più non sospetta, e che lo stesso pagano non avrebbe mai inventati. (Clem. Alexand., Exhortat, ad Græc.; ed Euseb.,, Præp. evang. lib. IV, c. XVI. — Il Sig. di Mirville, Pneumatologìa ecc., t. III, seconda Memoria, p. 846 e seg.). – Quel che satana faceva presso tutti i popoli pagani, ei lo fece presso gli Gnostici loro eredi (i massoni odierni ad es. – ndr. -): lo fa ancora, quanto al fondo, tra i settari moderni, soggetti più direttamente al suo Impero. Udiamo il racconto di ciò che accade da lungo tempo in America, terra classica degli spiriti percussori, e dei grandi medium. Nel mese di settembre, dopo successe le raccolte, i metodisti hanno l’abitudine di tenere delle riunioni notturne, che durano tutta una settimana. Un annunzio è fatto nei giornali, affinché ogni fedele sia debitamente prevenuto, e possa profittare delle grazie che lo Spirito Santo prodiga in queste circostanze. Si sceglie un vasto spazio in mezzo alle foreste; il meeting ha luogo all’aperto, e nel silenzio della notte. Si vedono arrivare i settari da tutte le strade e per tutti i veicoli immaginabili: uomini, donne, bambini, tutti accorrono al convegno. Il luogo del meeting è ordinariamente in forma ovale. Ad una estremità si costruisce il palco per i predicatori, che sono sempre in buon numero. Questa specie disgraziatamente non manca in America. Da ciascun lato, in forma di ferro di cavallo, si erigono delle tende, e dietro di esse si pongono le vetture ed i cavalli. All’intorno sopra dei pali stanno lampioni o torce, che gettano una pallida luce. Il centro è vuoto. Qui si tiene il popolo, durante il meeting. Verso le nove o le dieci di sera, ad un dato segno, i ministri salgono sul palco; accorre il popolo, e se ne sta in piedi, o seduto sull’erba. Un ministro incomincia alcune preghiere, quindi declama un piccolo speech, che è il preambolo. Parecchi altri si succedono, e cercano di eccitare l’entusiasmo. Presto la scena si anima pigliando uno strano aspetto. Uno dei ministri intuona con voce lenta e grave un canto popolare; (È il carmen, consueto in tutte le evocazioni), la moltitudine accompagna su tutti i tuoni; poi il ministro aumenta la voce e va sempre crescendo, accompagnando il suo canto con gesti i più eccentrici. La Sibilla non era più tormentata sul suo tripode. Si canta, si declama a quando a quando, e l’entusiasmo aumenta. Ciò dura delle ore intere; l’eccitazione finisce col giungere ad un tal punto, di cui è impossibile dare un’idea (la stessa identica scena si osserva nei meeting del c. d. Rinnovamento dello spirito, dei pseudo-carismatici del novus ordo – ndr. – ). Fra le altre esclamazioni che odonsi risuonare, citiamo questa: Nella nuova Gerusalemme avremo del caffè senza denaro, e del vìn vecchio. Alleluia!. Tosto tutta questa moltitudine che riempie il recinto si mescola, si urta; tutto ciò in mezzo alle grida, a danze, a gemiti e a scoppi di risa. Viene lo Spirito! viene lo Spirito! Sì, viene di fatti; ma deve essere uno spirito infernale, a vedere quei contorcimenti, a udire quelle urla. Allora una confusione, una gazzarra degna del manicomio. Gli uomini si battono il petto, si onduleggiano come tanti scimmiotti cinesi, o eseguiscono evoluzioni come tanti dervis. Le donne si avvoltolano per terra con i capelli sparsi. Le giovani si sentono sollevarsi in aria e sono infatti trasportate da una forza soprannaturale. Frattanto i ministri, che sembrano presi dalla stessa follia, continuano a cantare e a dimenarsi come tanti ossessi: è una completa confusione, un caos…. all’infuori del pudore e della morale, tutto è puro per questi energumeni. Dio perdona tutto. Onta e infamia sopra i ciechi capi di un popolo cieco!… Le stelle del firmamento spargono una dolce luce su questo orrendo quadro; talora il vento muggisce nella foresta, e le torce fanno apparire gli uomini come tante ombre. La notte si passa allo stesso modo. Il mattino tutta quella moltitudine è sdraiata, inerte, stanca, snervata. Il giorno è consacrato al riposo, e la notte successiva si ricomincia. (Storia d’un meeting, del 1868, Estratti dai giornali americani). – Ecco che cosa si fa nella setta puritana dei metodisti. Chi oserebbe raccontare ciò che ha luogo presso i Mormoni? Noi siamo dunque in diritto di ripetere: perseguitare il Verbo incarnato nell’uomo suo fratello e sua immagine; perseguitarlo imitando, per perderlo, tutti i mezzi divinamente stabiliti per salvarlo; perseguitarlo senza posa e su tutti i punti del pianeta; perseguitarlo di un odio che va fino all’uccisione del corpo e dell’anima: tale è l’unica occupazione del Re della Città del male. Se egli non sempre raggiunge quest’ultimo risultato, sempre vi tende: quando non gli è dato distruggere l’immagine del Verbo, ei la sfigura. In mancanza di una completa vittoria, egli ambisce un successo parziale. Quel luminoso principio della filosofia cristiana ci conduce dinanzi a un fatto notabilissimo, fino ad ora poco notato in sé medesimo, e per nulla studiato nella sua causa. Vogliamo parlare della tendenza generale dell’uomo, a sfigurarsi. Noi diremmo universale, se un sol popolo che tosto nomineremo, non facesse eccezione. Avanti di occuparci della causa, avveriamo il fenomeno. La manìa di trasfigurarsi, o di deformarsi fisicamente, s’incontra dappertutto. Inutile d’aggiungere che essa è particolare all’uomo; quale esso sia, l’animale n’è esente. Se noi percorriamo le differenti parti del pianeta, troviamo in tutte le epoche e sopra un’ampia scala le deformità seguenti: deformazione dei piedi, mediante la compressione; deformazione delle gambe e delle cosce con legature; deformazione della statura, per mezzo di maggior corporatura; deformazione del petto e delle braccia col dipingersi il corpo; altra deformazione del petto, delle braccia, delle gambe e del dorso, con delle spaventevoli escrescenze di carne provenienti da incisioni, fatte per mezzo di conchiglie; deformazioni di unghie colorandole; deformità delle dita, per via dell’amputazione della prima falange. Deformazione del mento, mediante l’epilazione; deformazione della bocca, mediante lo spacco del labbro inferiore; deformazione delle gote, col bucherellarsele e colorirle; deformazione del naso, con lo schiacciarlo e forarlo dall’una all’altra estremità; con l’appendervi una larga placca di metallo, o un allungamento esagerato, derivante da una compressione verticale delle pareti; deformazione delle orecchie, per mezzo di pendenti che le allungano fino alla spalla; (« Nei dì di festa, le donne dell’isola di Pasqua si mettono i loro orecchini. Esse cominciano di buon ora a bucarsi il lobo dell’orecchio con un pezzetto di legno appuntato; a poco a poco si fanno entrare più avanti quel legno, e il foro s’ingrandisce. Quindi esse vi introducono un piccolo cilindro di scorza, il quale facendo l’ufficio di molletta, si distende ed allarga sempre più l’apertura. In capo a qualche tempo il lobo dell’orecchio è diventato una piccola correggia che ricade sulla spalla come un nastro. I giorni di festa vi introducono un enorme cilindro di scorza: questa è una grazia perfetta! » Tanto perfetta quanto il chignon moderno. Annali della propag. della fede. 11); deformazione degli occhi, dipingendoseli; o con la pressione dell’osso frontale che gli fa uscire dalla loro orbita; deformità della fronte con caratteri osceni, incisi in rosso col legno di sandalo; deformità del cranio, sotto l’azione di varie compressioni che gli fanno prendere, ora la forma conica, ora appuntata, ora convessa, rotonda, ora triangolare, ora stiacciata, ora quadra; deformazione generale mediante il belletto, con i cosmetici e con le ridicole mode; ecco il fenomeno. (Per le autorità e il nome dei popoli, vedi l’opera del medico dottor L. A. Glossò di Ginevra, intitolata: Saggio sulle formazioni del cranio; Parigi, 1855; Annali della propag. della fede, n. 98, p. 75). – Quale spirito suggerisce all’ uomo che esso non è ben fatto, come Dio lo fece? D’onde gli viene questa imperiosa mania di deformare, nella sua persona, l’opera del Creatore? Dare per causa la gelosia degli uni, la civetteria degli altri, non è un risolvere la difficoltà, ma respingerla. Si tratta di sapere qual principio ispiri questa gelosia brutale, questa civetteria ributtante; perché l’una e l’altra procedano mediante la deformazione, vale a dire in senso inverso della bellezza, e come esse si trovino su tutti i punti del pianeta. Se vogliamo non appagarci di parole ed avere il segreto dell’enimma, bisogna ricordarsi di due cose, del pari certe: la prima, che l’uomo è stato fatto nel suo corpo e nella sua anima ad immagine del Verbo incarnato, la seconda, che il fine di tutti gli sforzi di satana è di fare sparire dall’uomo l’immagine del Verbo incarnato, a fine di formarlo alla propria. Queste due verità certissime conducono logicamente alla seguente conclusione: che la tendenza generale dell’uomo a sfigurarsi, è l’effetto di una manovra satanica. Parecchi fatti il cui senso non è equivoco, vengono a confermare questa conclusione.

1° Certi popoli riconoscono positivamente in queste deformazioni, l’influenza dei loro Dei. « Quanto alle donne australiane, scrive un missionario, è meno il gusto dell’acconciatura che l’idea di un sacrificio religioso, che le porta a mutilarsi. Allorché esse sono tuttora di piccola età gli si lega la punta del dito mignolo della mano sinistra con fili di tela di ragno; la circolazione del sangue trovandosi così interrotta, si stacca in capo a pochi giorni la prima falange, che si dedica al serpente boa, ai pesci, o ai kanguroos. » (Annali ec., n. 98, p. 75). – Così è della deformazione della faccia, mediante la colorazione. Il suo carattere d’oscenità ributtante rivela un’altra causa, cioè la gelosia dell’uomo, o la civetteria della donna.

2° La parte del corpo più universalmente e più profondamente deformata è il cervello. Donde viene questa preferenza? Dal punto di vista dell’azione demoniaca, è facile comprenderne il motivo. Il cervello è il principale istrumento dell’anima. L’alterarlo, è alterare tutto l’uomo. Ora questa deformazione ha per resultato d’impedire lo sviluppo delle facoltà intellettuali, di favorire le passioni brutali, e di degradare l’uomo al livello della bestia. (Gosse, p. 149, 150. — In diversi punti della Francia e dell’Europa, la deformità della faccia ha luogo anche oggidì. Ivi-).

3° Fra tutti i popoli, uno solo, misto a tutti i popoli, rifugge da questa tendenza, ed è il popolo ebreo; e satana non ha il permesso di sfigurarlo. « Come esente dalla deformazione, io citerò questa piccola nazione ebrea che ha rappresentato una parte cosi notabile nella umanità, e il cui tipo si è conservato puro sino dai più remoti tempi. » (Gosse, p. 16).

4° Quanto più le nazioni si trovano straniere all’influenza del Cristianesimo o dello Spirito Santo, tanto più la tendenza alla deformazione è generale; al contrario più esse sono cristiane e più essa diminuisce. « Parlando degli abitanti della Colombia, il sig. Duflot di Mofras, fa notare che là dove il Cattolicismo si è introdotto, la deformazione ha cessato. » (Gosse, p. 9). Essa scompare completamente presso i veri Cattolici, i santi, i preti, i religiosi e le monache. Non basta difformare l’uomo allo scopo di cancellare in esso l’immagine di Dio; satana vuole ad ogni costo farlo a immagine sua. Qui viene ad aggiungersi ancora un nuovo tratto al costante parallelismo che abbiamo osservato. – Nella Città del bene, l’immagine di Dio, la più eloquente e popolare, è il Crocifisso. Dunque il Crocifisso è l’immagine obbligata dell’uomo quaggiù. Mortificazione universale della carne e dei sensi, impero assoluto dell’anima sul corpo, sacrificio senza limiti, distacco dalle cose temporali, rassegnazione, dolcezza, umiltà, aspirazione costante verso la realtà della vita futura: non è in tutto ciò l’uomo vincitore? Ed ecco il Crocifisso. Quindi, quella definizione della vita, data dal concilio di Trento. La vita cristiana è una penitenza continua, vita Christiana, perpetua pænitentia. Con queste immagini, il re della Città del male definisce parimente la vita: ma la definisce alla sua maniera. In tutte le innumerevoli statue che si presentano agli omaggi degli uomini, vi è sempre un appello ad una certa passione. Abbiamo più volte visitato le gallerie di Firenze, i musei di Roma e di Napoli, le rovine di Pompei e di Ercolano. Abbiamo visto gli Dei dell’Oceania; altri han visto per noi i templi del Thibet, le pagode dell’India e della Cina. Ora, quelle migliaia di figure, emblemi, statue antiche e moderne che ingombrano quei luoghi, cosi differenti di età e di destinazione, ripetono, ciascuna a suo modo, la parola seducente che perdé l’uomo nel paradiso terrestre. Godi, cioè dire, dimentica i tuoi destini, dimentica il fine della tua vita, adora il tuo corpo, disprezza la tua anima, degradati, deformati; che l’immagine del Crocifisso si cancelli dalla tua fronte, dai tuoi pensieri e dai tuoi atti, affinché tu sii l’immagine di colui che tu adori, la Bestia. Si potrebbe facilmente continuare, sotto il rapporto religioso, la storia parallela delle due Città, ma è tempo di delineare la loro storia sotto il rapporto, non meno istruttivo, dell’ordine sociale.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (22)

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXI.

(altro seguito del precedente.)

Nuovo tratto di parallelismo tra la Religione della Città del bene e la religione della Città del male: il cibarsi della vittima — L’antropofagia: sua causa — Lettera di un missionario d’Africa: storia di un sacrificio umano con divoramento della vittima — Altre testimonianze— L’antropofagia presso gli antichi; prove — Altro tratto di parallelismo: il sacrificio comandato da Dio e da satana — Prove di ragione — Testimonianza d’Eusebio — Tirannie di satana per ottenere vittime umane: passi di Dionigi d’Alicarnasso e di Diodoro di Sicilia.

Non è solamente nella istituzione del sacrificio che il re della Città del male contraffà il Re della Città del bene: ei lo scimmiotta altresì nelle circostanze che l’accompagnano e nella ispirazione misteriosa che lo comanda. Conosciamo le purificazioni, le astinenze, le preparazioni che nella Città di Dio hanno sempre preceduto l’oblazione del sacrificio. Conosciamo del pari i trasporti di gioia, i canti, le danze, la musica sacra che l’accompagnavano presso l’antico popolo di Dio, come pure l’allegrezza e la pompa con cui il nuovo popolo l’accompagna nelle grandi solennità. – Inutile provare che tutto ciò si ritrova intatto, benché sfigurato nella Città del male. Il fatto è conosciuto da chiunque ha la più lieve nozione dell’antichità pagana. (Vedi tra altri Theatrum magnum vitæ humanæ art. Sacerdotes.). Ve n’ha un altro che ci sembra chiedere una speciale spiegazione. In tutte le condizioni del sacrificio la più universale, perché la più importante, è la partecipazione alla vittima mediante il mangiare. Abbiamo visto che quest’atto è materiale, morale o figurativo. Ad imitazione del vero Dio, satana lo vuole per se medesimo. Come egli esige delle vittime umane, cosi spesso esige dai suoi adoratori la partecipazione all’abominevole sacrificio, con un mangiare reale. Di qui l’antropofagia. Che in generale l’antropofagia sia dovuta ad una ispirazione satanica, ci sembra facile il provarlo con un perentorio ragionamento. L’antropofagia è un fatto. Ogni fatto ha una causa. La causa dell’antropofagia è naturale o soprannaturale. Naturale, se ella si trova negli istinti della natura o nei lumi della ragione. Ora gli istinti della natura portano cosi poco l’uomo a mangiar l’uomo, che per esempio, in una città assediata o sopra una nave priva di ogni mezzo di sussistenza, si è all’ultima estremità e con una ripugnanza estrema, che l’uomo si decide per salvar la sua vita, a nutrirsi della carne del suo simile. La ragione nei suoi lumi, non trova niente che comandi, che approvi, ed a più forte ragione, che glorifichi una simile azione. Che dico? appena si giunge a scusarla. Non vi è nessuno che non provi un sentimento di orrore, leggendo nella storia i fatti, per fortuna assai rari, di antropofagia, allorquando pare che sieno comandati dalle circostanze. Ci si lamenta, si deplora, ma non si applaudisce mai. – Se la causa dell’antropofagia non è naturale, essa è dunque soprannaturale. Vi sono due soprannaturali, quello divino, e quello satanico. È forse nel primo, che noi troviamo la causa dell’antropofagia? No per certo. Iddio la condanna. A meno che non si ammetta un effetto senza causa, rimane dunque l’attribuirlo al secondo, vale a dire all’eterno nemico dell’uomo,. Difatti è desso l’ispiratore, esso la cui infernale malizia perverte tutti gli istinti della natura, spegne tutti i lumi della ragione, sino al punto di far trovare all’uomo il suo piacere in un atto, che è il rovescio completo di tutte le leggi divine ed umane. Noi ritorneremo su questo fatto: per il momento dobbiamo occuparci dell’antropofagia, considerata come appendice obbligata del sacrificio. L’antichità ce la mostra praticata presso i Bassari, popolo della Libia. « Essi avevano, dice Porfirio, imitato i sacrifici dei Tauri e mangiavano la carne degli uomini sacrificati. Chi non sa che dopo quegli orrendi pasti, essi entravano in tal furore contro sé medesimi, che mordendosi reciprocamente, non cessavano di nutrirsi di sangue, se non quando, coloro che primi (i demoni) avevano introdotto quella specie di sacrifici, non ebbero distrutta la loro razza. » (De abstinent., lib. II, i, 56, ediz. Didot, p. 45). – Sotto la stessa forma l’abbiamo trovata presso la maggior parte dei selvaggi del nuovo mondo; essa si pratica ancora nell’Oceania e nell’Africa centrale. Non potendo trattenerci a lungo, ne riferiremo un solo esempio: « Il 18 ottobre 1861 uno dei nostri missionari, venuto a Parigi, dopo dodici anni di dimora sulla costa occidentale dell’Africa, ci diceva e, più tardi, voleva altresi scriverci ciò che segue: « Nel mese di settembre 1850 io stesso era in quei luoghi, dove si fece il sacrificio di cui ora vi parlo. Bisogna notare, che questo non è un fatto isolato; ma questa sorte di sacrifici sono di un uso molto frequente. La vittima era un bel giovane, preso da un borgo vicino. « Per quindici giorni fu tenuto attaccato per i piedi e per le mani ad un tronco d’albero in mezzo alle case del villaggio. Sapendo egli la sorte che gli toccava, questo disgraziato fece durante la notte, tra il quattordicesimo e quindicesimo giorno, un supremo sforzo per liberarsi da quei legami, e vi riuscì. Smarrito egli giunge avanti giorno ad un posto francese. Nessuno intendeva la sua lingua, per cui fu preso per uno schiavo fuggitivo, e si consegnò senza difficoltà ai negri, i quali essendosi posti in cerca di lui, non tardarono a reclamarlo. Ricondotto al villaggio, il sacrificio fu deciso per quello stesso giorno, che era un venerdì; ed ebbe luogo al solito modo. « La vittima fu strettamente legata e distesa sopra una pietra, a guisa di altare, nel centro di una gran piazza. Intorno alla piazza vengono poste sopra dei focolari, delle marmitte piene d’acqua. Una musica assordante accompagnata da innumerevoli tamtam, occupa una delle estremità della piazza, e aspetta il segnale. La popolazione del villaggio e di quei all’intorno, spesso in numero di tre o quattro mila persone, vestite dei loro abiti da festa si distendono in cerchio intorno alla vittima: in piccolo, assomigliava agli anfiteatri dei Romani. « Al dato segnale, la musica, i tamtams, i clamori della moltitudine riempiono l’aria di un frastuono infernale: è l’annunzio del sacrificio. I sacrificatori si accostano alla vittima, armati di pessimi coltelli, ed incominciano il loro atroce ministero. Secondo i riti, la vittima deve essere fatta a pezzi ancor viva, e con le articolazioni. Si comincia dalla mano destra che si stacca dal braccio, tagliando l’articolazione del polso; quindi si passa al piede sinistro, che viene tagliato sotto la noce; poi si viene alla mano sinistra, e al piede destro. Dai polsi si passa ai gomiti, dai gomiti ai ginocchi, dai ginocchi alle spalle, dalle spalle alle cosce, alternando sempre fino a che non resta che il tronco, sormontato dalla testa. Così fu immolato il mio disgraziato giovine. – « Via via che cadono le membra della vittima, vengono esse portate in quelle caldaie piene d’acqua bollente. L’operazione si termina troncando, o meglio, segando il capo che è gettato in mezzo alla piazza. Allora comincia uno spettacolo, del quale nulla saprebbe dare neppure una debole idea. Gli spettatori sembrano invasati da un furore diabolico. Al suono di una musica orribilmente scordante, al rumore di vociferazioni umane, le donne scapigliate, gli uomini strafiguriti da non so quale magica ebbrezza, si abbandonano a dei balli, o piuttosto a delle contorsioni spaventose. La ronda infernale non ha altra regola che l’obbligo per ciascun danzatore di dare, ballando e senza fermarsi, una pedata alla testa della vittima, da farla rotolare per tutti i punti della piazza, e di cogliere con un coltello, passando vicino a quelle caldaie, un pezzo di carne, mangiato con la voracità della tigre. Con ciò essi credono pacificare il feticcio scorrucciato. « Sotto una forma palliata, l’antropofagia religiosa si manifesta nei banchetti che seguono la vittoria. L’uomo comprende benissimo ch’è diretto da esseri a lui superiori, che senza distinzione di razze, di climi, o di civiltà, tutti i popoli celebrano gli avvenimenti felici, come i successi riportati in guerra, con feste religiose. Le nazioni cristiane offrono il loro Dio in olocausto, e cantano il Te Teum in rendimento di grazie. Il sacrificio dell’uomo è l’Eucaristia di quelle che non lo sono; e il mangiare della carne umana, è il Te Deum dell’antropofago: qui i fatti abbondano. « Innanzi la loro conversione gli abitanti delle Isole Gambier erano in continua guerra. Essi erano antropofagi a tal punto che una volta, dopo una lotta sanguinosa tra le due parti, un enorme cumulo di cadaveri essendo stato innalzato, i vincitori lo divorarono in un gran banchetto che durò otto giorni. » (Annali, ecc., n. 148, p. 299). – Quelli dell’Arcipelago Fidji non depongono mai le armi. « Tutto quel che cade nelle mani del vincitore, scrivono i missionari, è in un attimo, massacrato, arrostito e divorato. Adesso vi è una battaglia o piuttosto una strage di questo genere tra Pan e Reva, dove ogni giorno si rinnovano scene di un cannibalismo degno di bestie feroci. Immense piroghe vanno da una sponda all’altra, cariche, di corpi morti, dei quali ogni partito fa omaggio alle sue divinità sanguinarie,, innanzi di portarli al forno…. In certe isole si aggiunge l’insulto alla crudeltà. Si taglia la testa della vittima; la si profuma di olio; si accomodano con gran simmetria i suoi capelli, e quando il .corpo è arrostito, ella viene a riprendere il suo posto sulla tavola del banchetto. » (Id., n. 115, p. 509). « A Viti-Levou, quando arriva il tempo delle pubbliche feste, una vivanda qualunque è sempre decretata a prezzo d’omaggio al vincitore. Allorché noi sbarcammo, era il corpo arrostito di un infelice Vitiano. Io era stato invitato a prender parte alla festa. Voi indovinate il motivo del mio rifiuto. Del resto, in questa isola, e in quelle più prossime, i desinari di carne umana sono frequentissimi…. Per celebrare un avvenimento, ancorché sia di poco rilievo, il re ha uso di servire i suoi amici delle membra di qualcuno dei suoi disgraziati sudditi. » (Annali, ecc., n. 82, p. 198). – Sotto questo punto di vista l’antropofagia religiosa è molto più antica che non si crede. Nessun popolo l’ha praticata con pari tracotanza e sopra una più grande scala, dei Romani. Che cosa erano in ultima analisi quei combattimenti di gladiatori, quei giochi sanguinosi dell’anfiteatro, se non vasti banchetti di carne umana? Come presso i selvaggi, così erano imbanditi per ringraziare gli dei di qualche vittoria. Ond’è che lo stesso spirito che gli ordinava anticamente, gli comanda oggi; là sotto il nome di Marte o di Giove; qui sotto il nome di Feticcio o di Manitou. L’Oceanico mangia le sue vittime con i denti, mentre il Romano le divorava con gli occhi, e le gustava con delizia. L’Oceanico è un selvaggio incolto, il Romano era un selvaggio incivilito. Ma nell’uno come nell’altro, trovasi la sete naturalmente inesplicabile di sangue umano. (Credere che l’antropofagia fosse sconosciuta dai popoli dell’antico mondo sarebbe un errore. Sino al IX secolo essa regnava nella Cina, al Pegu, a Giava, è presso i popoli dell’Indocina. I condannati a morte, i prigionieri di guerra, erano uccisi e divorati; si facevano persino dei pasticci di carne umana. – Lettera del Sig. De Paravey. Annali di Filosofia cristiana, t. VI, 4a serie, p. 162). A questo proposito, dice il sig. Veuillot, « che l’Antica Roma, vista attraverso della Roma cristiana, ispira subito disgusto. Quei grandi Romani, quei padroni del mondo non appariscono se non che tanti selvaggi letterati, Vi è egli presso i cannibali nulla di più atroce, di più abominevole o di più abietto, della più parte delle costumanze religiose, politiche e civili dei Romani? Non vi si vede un lusso il più sfrenato, una crudeltà la più infame, un culto il più stupido? Che differenza di forma può segnalarsi, tra il Feticcio ed il nume Lare? Che differenza, tra il capo di un’orda antropofaga, che mangia il suo nemico vinto, ed il patrizio che compra dei vinti, perché essi combattono e si uccidono nei banchetti? » (Profumo di Roma. — Lo stolto pagano). – Fra le circostanze che accompagnano il sacrificio nella Città del bene, come nella Città del male, vediamo che il parallelismo è completo. Non lo è meno nella ispirazione misteriosa che lo comanda. Abbiamo mostrato che sotto nessun punto di vista l’idea del sacrificio si trova logicamente nella natura umana. Nonostante essa vi è dappertutto, e vi è fino dall’origine del mondo. Viene dunque dal di fuori; ed i fatti confermano il ragionamento. Che cosa dicono gli annali della Città del bene, l’Antico e Nuovo Testamento? Nell’immensa varietà di sacrifici offerti, sotto la legge mosaica, vi dicono che non ve ne ha uno, il cui ordine non sia venuto da un oracolo divino. Essi vi dicono che nella legge evangelica, l’augusto Sacrificio sostituito a tutti i sacrifici, è una rivelazione divina, Dio ha parlato, e l’uomo sacrifica. Ecco quel che succede nella Città del bene. – Per una ragione analoga, la stessa cosa ha luogo nella Città del male. satana ha parlato, e l’uomo sacrifica. La sua parola è tanto più certa, quanto più l’uomo sacrifica il suo simile. Ei lo sacrifica su tutti i punti del globo; la parola dunque di satana è universale. Ei lo sacrifica malgrado le più vive ripugnanze della natura, la parola dunque di satana è assoluta, minacciosa. Ei lo sacrifica dappertutto, dove il vero Dio non è adorato: l’Ebreo stesso, tosto che abbandona Jehovah, cade nel Moloch e gli sacrifica i suoi figli e le sue figlie. Il sacrificio umano non è dunque, né l’effetto dell’immaginazione, né il resultato di una deduzione logica, né un affare di razza, di clima, di epoca, di civiltà o di circostanze locali: è un affare di culto. Così nella Città del male, come nella Città del bene ogni sacrificio riposa sopra un oracolo: qui ancora l’istoria consacra la logica. – (Si è preteso spiegare il sacrificio umano dicendo: « L’uomo si è immaginato che quanto più la vittima era nobile, tanto più era accetta alla Divinità. Questo ragionamento ha dato luogo al sacrificio umano. » L’uomo si ‘è immaginato! Ecco che ciò è presto detto. Questo ragionamento, o piuttosto questa immaginazione, suppone che l’idea del sacrificio sia naturale all’uomo. Ora ciò è falso, come noi lo abbiamo provato. L’uomo non ha potuto immaginare il sacrificio di un pollo; perché ha egli immaginato il sacrificio del suo simile? L’uomo si è immaginato! ma quando gli è venuta questa immaginazione? Come si trova essa presso tutti i popoli che non adorano il vero Dio? come mai non si trova altro che là? Come sparisce ella con lo sparire del culto del grande omicida? L’uomo si è immaginato! non avvi di immaginario in tutto ciò che il ragionamento di coloro, i quali, per ignoranza o per paura del soprannaturale, hanno immaginato una simile spiegazione). – « I sacrifici umani, dice Eusebio, debbono essere attribuiti agli spiriti impuri, i quali hanno congiurato la nostra perdita. Non è la nostra voce, ma quella di coloro che non partecipano alle nostre credenze, che rende omaggio alla verità. È quella che accusa altamente la perversità dei tempi che ci hanno preceduto: dove la superstizione degli infelici, avidamente stimolata e ispirata dai demoni, era venuta sino al punto di abiurare tutti i sentimenti naturali, credendo di placare le potestà impure, mediante lo spargimento del sangue degli esseri più cari, è con innumerevoli vittime umane. Il padre immolava al demonio il suo unico figlio; la madre la sua figlia adorata; i vicini scannavano i loro parenti; i cittadini i loro concittadini ed i loro commensali nelle città e nelle campagne. Trasformando in una ferocia inaudita i sentimenti della natura, essi mostravano evidentemente, che una frenesia demoniaca

erasi impadronita di loro (la medesima assurda frenesia del “diritto all’aborto” diffusa in tutto il mondo scristianizzato ed oggi soggetto nuovamente alla schiavitù del demonio, al lucifero-baphomet, il signore dell’universo! – ndr. -). – La storia greca e barbara ne offre esempi innumerevoli. » (Præp. Evang. lib, IV, c. XV). – La voce di cui parla Eusebio, è quella degli autori pagani. Dopo averne nominati un gran numero, aggiunge: « Io citerò ancora un altro testimone della ferocia crudele di questi demoni, nemici di Dio e degli nomini: è Dionigi d’Alicarnasso, scrittore versatissimo nella Storia romana che ha tutta abbracciata in un’opera, fatta con grandissima cura. I Pelasgi, dice egli, rimasero poco tempo in Italia, grazie agli dei che vegliavano sugli aborigeni. Avanti la distruzione delle città, la terra era rovinata dalla siccità; nessun frutto giungeva a maturità sugli alberi. I grani che arrivavano a germogliare ed a fiorire, non potevano giungere al tempo in cui la spiga si forma. Lo strame non bastava più al nutrimento del bestiame. Le acque perdevano la loro salubrità; e tra le fontane, le une seccavano durante l’estate, le altre a perpetuità. « Una sorte simile colpiva gli animali domestici e gli uomini. Essi perivano prima di nascere, o poco dopo la loro nascita. Se taluni scampavano alla morte, erano colpiti da infermità o da deformità d’ogni specie. Per colmo di mali, le generazioni giunte al loro intero sviluppo erano in preda a malattie ed a mortalità che oltrepassavano tutti i calcoli di probabilità. « In questi estremi, i Polasgi consultarono gli oracoli per sapere quali dii mandavano loro queste calamità, per quali trasgressioni e infine con quali atti religiosi potevano essi sperare la cessazione. Il nume rese questo oracolo : « Nel ricevere i beni che avevate sollecitati non avete reso ciò che avevate fatto voto di offrire; ma vi ritenete il più prezioso. » Infatti i Pelasgi avevan fatto voto d’offrire in sacrifizio a Giove, ad Apollo ed ai Cabrii, la decima di tutti i loro prodotti. (Offerte delle primizie e delle decime: altro tratto di parallelismo…). – « Allorché fu loro riferito questo oracolo, essi non poterono comprenderne il senso. In questa perplessità uno dei loro vecchi disse: Voi siete in un completo errore, se voi credete che gli dei vi facciano ingiuste richieste. È vero, avete dato fedelmente le primizie delle vostre ricchezze; … ma la parte della umana generazione, la più preziosa di tutte per gli dei, è ancora dovuta. Se voi pagate questo debito, gli dei saranno placati e vi restituiranno il loro favore. « Taluni considerarono questa soluzione come perfettamente ragionevole; altri come un inganno. In conseguenza si propose di consultare il nume per sapere se infatti, gli conveniva di ricevere la decima degli uomini. Deputarono essi dunque una seconda volta, dei sacri ministri, e il nume rispose in un modo affermativo. Si sollevarono tosto delle difficoltà tra di loro circa il modo di pagare questo tributo. La dissensione ebbe luogo da primo tra i capi della città; quindi scoppiò tra tutti i cittadini, i quali sospettavano dei loro magistrati. Intere città furono distrutte; una parte degli abitanti disertò il paese, non potendo tollerare la perdita di esseri che erano più a loro cari, e la presenza di quelli che gli avevano immolati. Però i magistrati continuarono ad esigere rigorosamente il tributo, parte per essere offerti agli dei, parte pel timore di essere accusati di avere dissimulato delle vittime, finché alla fine la razza dei Pelasgi, trovando la sua esistenza intollerabile, si disperse in lontane regioni. » (Dion. Halyc lib. I).A questa testimonianza contentiamoci di aggiungere quella di un altro storico non meno autorevole: « Dopo la morte di Alessandro il Macedone e vivente il primo Tolomeo, scrive Diodoro di Sicilia, i Cartaginesi furono assediati da Agatocle tiranno di Sicilia. Vedendosi ridotti all’estremo, essi sospettarono che Saturno gli fosse contrario. Il loro sospetto si fondava su ciò che in tempi anteriori, avendo uso di immolare a questo dio i figli delle migliori famiglie, più tardi ne avevano fatti comprare alcuni clandestinamente, che educavano per essere sacrificati. Un’inchiesta ebbe luogo, e si scopri che parecchi dei fanciulli immolati erano stati supposti. « Pigliando questo fatto in considerazione, e vedendo i nemici accampati sotto le loro mura, furono presi da un religioso terrore per avere trascurato di rendere gli onori tradizionali ai loro dei. A fine di riparare al più presto questa omissione, scelsero a voce di suffragi duecento fanciulli delle migliori famiglie, e li immolarono in un solenne sacrificio. Quindi coloro che il popolo accusava di avere defraudato gli dei, si eseguirono da se medesimi, offrendo spontaneamente i propri figli. Ve ne furono circa trecento. » (Lib. XX). – La terribile potenza che esigeva il sacrificio dei fanciulli, comandava tutte le altre pratiche sanguinarie od oscene dei culti pagani. Ascoltiamo un altro rivelatore non sospetto dell’abominevole mistero. « Le feste, dice Porfirio, le immolazioni, i giorni nefasti e consacrati al lutto, che si celebrano, divorando delle crude vivande, sbranandosi le membra, imponendosi delle macerazioni, cantando e facendo cose oscene, con clamori, agitazioni violente di capo e movimenti impetuosi, non si rivolgono a nessun nume, ma ai demoni, per distornare la loro collera e come un addolcimento all’antichissima usanza di sacrificare loro delle vittime umane. – « Riguardo a questi sacrifici, non si può né ammettere che gli dei li abbiano pretesi, né supporre che alcuni re o generali li abbiano offerti spontaneamente, sia consegnando i propri loro figli ad altri per sacrificarli, ossia consacrandoli ed immolandoli essi medesimi. Essi volevano mettersi al coperto dalle ire e dalle violenze di esseri terribili e malefici, o saziare gli animi frenetici di quelle viziose potenze, le quali volendolo, non potevano unirsi corporalmente alle loro vittime. Come Ercole assediando Oechalia per amore di una vergine, così del pari i demoni forti e violenti, volendo godere di un’anima, tuttora impacciata dai legami del corpo, mandano alle città, pesti e sterilità, fanno nascere guerre e divisioni intestine, fino a che essi non abbiano ottenuto l’oggetto della loro passione. » (Apud Euseb., Pmep. evang., lib. IV, c. IV). – Come lo stesso sacrificio, cosi era il modo del sacrificio prescritto dagli oracoli. Non vi è miglior prova della presenza dello spirito infernale, quanto la maniera con cui si compieva l’uccisione abominevole di tutto ciò che l’uomo ha di più caro. A Cartagine esisteva una statua colossale di Saturno di bronzo: essa aveva le mani aperte e volte verso la terra. Ai suoi piedi era un fornello pieno di fuoco. Il fanciullo posto sulle braccia dell’idolo, non essendo ritenuto da niente, scivolava nel fornello, dove era consumato al rumore di canti e d’istrumenti musicali. (Diod. Sicul., ibid., ecc.,etc.). Sotto nomi differenti, questa statua omicida esisteva in Oriente ed in Occidente, presso i Giudei e presso i Galli.