LIBRO V
I canali della redenzione.
[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA, S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]
CAPO III.
La Chiesa.
III. IL GOVERNO DELLA CHIESA.
1. I DIGNITARI ECCLESIASTICI. — 2. POTERE COERCITIVO DELLA CHIESA. — 3. RIASSUNTO E CONCLUSIONI.
1. Tutte le cristianità fondate da san Paolo dipendevano direttamente da lui; su lui pesava veramente « la sollecitudine di tutte le Chiese ». Si può domandare se questo concentramento, col prolungare il periodo delle incertezze, non ritardasse lo sviluppo dell’episcopato monarchico; ma esso era necessario nelle origini, per stringere i vincoli dell’unità e per evitare i pericoli di scismi. Non si dovrebbe però conchiuderne che le Chiese di Paolo fossero sprovviste di ogni organizzazione gerarchica: non appena una cristianità era uscita dallo stadio embrionale, riceveva sempre capi e direttori. San Luca ci dice che Paolo e Barnaba, al ritorno dalla loro comune missione in Asia minore, elessero degli anziani (πρεσβυτέρους = presbuterous) dovunque passarono. Tale elezione, accompagnata da preghiere e da digiuni, non fu una semplice designazione dei candidati, ma una cerimonia liturgica che li insediava nelle loro nuove funzioni; infatti fino dai primissimi tempi la consacrazione dei sacri ministri si fa sempre in mezzo a digiuni ed a suppliche solenni. Siccome il racconto degli Atti è rappresentativo, e san Luca non suole ripetere quello che già si può sottintendere e quello che già ha detto una volta per sempre, non vi è punto da fare le meraviglie se tale menzione è isolata, e si deve invece supporre che tale fosse dappertutto la pratica dei missionari. Infatti si fa accidentalmente menzione degli anziani di Efeso (Act. XX, 17) la cui nomina non è raccontata in nessun luogo. – A Tessalonica, pochi mesi dopo la fondazione di questa Chiesa, constatiamo la presenza di operai, di presidenti e di ammonitori ai quali i fedeli devono amore, rispetto e gratitudine. Non sappiamo se essi si siano assunta tale carica spontaneamente col consenso dei neofiti, oppure se a loro fu affidata dall’Apostolo: sta sempre il fatto però che fu sempre riconosciuta e sanzionata da lui. Paolo ricorda ad essi i loro doveri: « Riprendete gli indisciplinati, incoraggiate i pusillanimi, sostenete i deboli, usate longanimità con tutti, vigilate affinché nessuno renda male per male (I Tess. V, 12-14) ». Questi personaggi la cui funzione è di lavorare per l’opera di Dio, di presiedere alle assemblee religiose, di avvertire i fratelli e, occorrendo, di ammonirli, e che in cambio hanno diritto alla stima, all’affetto, alla riconoscenza, occupano una posizione ufficiale o quasi ufficiale. Hanno essi il grado di diaconi o di anziani? L’analogia c’invita a crederlo, benché essi non ne portino il titolo. Una tradizione, già antica al tempo di Origene, considerava Caio, l’ospite di san Paolo a Corinto, come il primo vescovo di Tessalonica. – Si cita volentieri Corinto come tipo di assemblea democratica; è vero che l’Apostolo lascia alla libera scelta dei Corinzi la designazione degli arbitri incaricati di risolvere i litigi, e dei delegati che devono portare a Gerusalemme il frutto delle collette (I Cor. VI, 4-5); pur tuttavia egli conserva sotto la sua tutela immediata quella comunità turbolenta; egli vi si fa rappresentare quasi in permanenza da suoi coadiutori (I Cor. VI, 4-5): egli è sempre quello che regola, giudica e decide in ultimo appello (I Cor. V, 1-13). Accanto al ministero transitorio e carismatico, così fiorente a Corinto, vi era anche un ministero gerarchico e permanente? Chi presiedeva l’agape e chi celebrava l’eucaristia! Non possiamo dirlo, perché le informazioni che ne abbiamo sono quanto mai frammentarie e si riferiscono alle prime origini, al periodo dei tre o quattro anni che seguirono la fondazione. Ma in mancanza di informazioni più precise, noi pensiamo che la Chiesa di Corinto fosse organizzata sul modello delle altre cristianità. – La comunità di Filippi aveva appena dieci anni di vita, quando vi mandava un saluto particolare ai sacerdoti (ἐπίσκοποι = episcopoi) e ai diaconi (Fil. I, 1). Forse quei personaggi avevano presa una parte speciale nella colletta in favore di Paolo prigioniero; forse voleva così Paolo riconoscere loro servizi e rafforzare la loro autorità. La menzione collettiva degli ἐπίσκοποι (= episcopoi) non dimostra assolutamente che essi formassero un collegio di eguali: essa potrebbe comprendere lo stesso presidente, se ai suppone che Epafrodito, « il fratello, il collaboratore ed il compagno d’armi di Paolo (Fil. II, 25) », occupasse il primo posto. tuttavia è più probabile che anche là. come altrove, la giurisdizione suprema, fosse devoluta al rappresentante dell’Apostolo. – Ad Efeso ed a Creta la situazione è chiara: i delegati di Paolo, investiti del suo potere, sono incaricati di stabilire sacerdoti e diaconi, di reprimere gli eretici e gli spiriti turbolenti, di punire i delinquenti, non eccettuati i membri del clero, a patto di osservare le forme giudiziarie (I Tim. I, 3). Quando sarà tempo saranno sostituiti da un solo personaggio, di modo che il governo di quelle Chiese presenta la forma quasi monarchica (Tit. III, 12); alla testa vi è il rappresentante di Paolo, che esercita una giurisdizione suprema; sotto di lui, il collegio dei sacerdoti, le cui funzioni non sono ancora bene determinate; nell’ultimo grado del clero vi sono i diaconi. Non si fa nessuna allusione ad un ministero carismatico. L’organizzazione gerarchica è in via di progresso, e si va gradatamente verso una costituzione definitiva. L’Apostolo non aveva concesso l’autonomia completa alle chiese recentemente fondate, perciò i suoi luogotenenti erano continuamente in giro per visitare e riformare le cristianità che dipendevano da lui: egli era l’unico pastore dell’immensa diocesi che aveva conquistato alla fede del Cristo. Né in Grecia, né in Macedonia, né in Galazia, né a Creta, né ad Efeso vi fu, mentre egli era vivo, altro vescovo che lui ed i suoi delegati. L’antica tradizione che considerava Caio di Corinto come primo vescovo di Tessalonica, ha tutte le apparenze di verità, perché nulla si opponeva alla sua designazione a quel posto lontano; ma non è detto — e non è affatto probabile — che Caio fosse vescovo mentre viveva Paolo. E non erano neppure vescovi Tito e Timoteo. Tito, lasciato a Creta per organizzare quella cristianità, doveva raggiungere il suo capo quando fosse giunto chi doveva sostituirlo; non più stabile era la posizione di Timoteo ad Efeso, e l’Apostolo non tardò a richiamarlo. Insomma, le Chiese dipendenti da Paolo erano servite da diaconi e regolate da un consiglio di dignitari, chiamati indifferentemente πρεσβυτέροι (= presbuteroi) o ἐπίσκοποι (= episcopoi), sotto la sorveglianza sempre desta e sotto la tutela sempre attiva del fondatore o dei suoi sostituti. – Nei primissimi tempi, quando una comunità si riduceva ad un piccolo nucleo di fedeli, i carismi potevano supplire provvisoriamente all’assenza o all’imperfezione della gerarchia ordinaria, perché alcune di quelle grazie avevano per oggetto l’istruzione o il governo; e forse quello stato di cose si prolungò alquanto a Corinto che si distingueva per i doni carismatici. Non dobbiamo dimenticare che, eccetto per la Galazia meridionale, nessuna delle fondazioni di Paolo precedette il suo martirio di più di quindici o sedici anni: quasi tutte erano assai più giovani quando l’Apostolo si occupava dei loro affari. Anche al tempo delle Pastorali, la cristianità di Efeso non contava più di dodici anni di vita, e quelle di Creta erano nate appena allora. – La maniera con cui si faceva la designazione dei sacri ministri dovette variare secondo i luoghi e i tempi. I primi sette diaconi ellenisti di Gerusalemme furono presentati dai fedeli e ordinati dagli apostoli, e fu quello forse un atto di condiscendenza dettato ai Dodici dal desiderio di togliere ai malcontenti ogni pretesto d’insubordinazione ed ogni motivo di lagnanza. Ma Paolo e Barnaba, senza andare evidentemente contro il desiderio dei neofiti e senza trascurare le indicazioni fomite dall’attitudine dei candidati, sembra che consultassero soltanto se stessi quando diedero degli anziani ad ogni Chiesa recentemente fondata (Act. XIV, 23). Nel dominio di Paolo non vediamo che i semplici fedeli abbiano mai avuto parte all’elezione dei dignitari ecclesiastici propriamente detti, poiché gli arbitri ed i portatori di limosine di Corinto, eletti col suffragio del popolo, non appartengono alla gerarchia sacra. È certo che né Tito né Timoteo, tra le loro istruzioni, non hanno quella di sottoporre ai fedeli la scelta o l’approvazione dei diaconi o dei sacerdoti, benché debbano tener conto della buona riputazione degli ordinandi, così nella Chiesa come fuori di essa (I Tim. III, 1-14). Se il governo dell’Apostolo non era né dispotico né arbitrario, il regime democratico non era però di suo gusto.
2. Come ogni società perfetta, la Chiesa possiede inalienabilmente il diritto di reggersi, di difendersi e di perpetuarsi, diritto che deriva direttamente dal suo stesso diritto di vivere. Il potere di governarsi le viene da Dio: « Vigilate su voi stessi e su tutto il gregge nel quale lo Spirito Santo vi ha stabiliti custodi,: governare la Chiesa di Dio che egli si è acquistata col suo proprio sangue (Act. XX, 28) », dice san Paolo agli anziani di Efeso accorsi per ricevere le sue ultime raccomandazioni. Queste parole sono da meditarsi. Le persone di cui si tratta, hanno soltanto un’autorità subordinata, eppure sorvegliano, ispezionano, governano i fedeli di Gesù. Cristo. Benché siano stati designati e costituiti dagli uomini, hanno la loro autorità dallo Spirito Santo dal quale essa, in ultima analisi, deriva. – La loro carica è locale, la loro giurisdizione è ristretta, e tuttavia essi governano la Chiesa di Dio, perché la Chiesa è una e indivisibile. In quanto al potere di legiferare, san Paolo, lo riserva a sé: egli conosce una sola autorità superiore alla sua, quella del Cristo; egli sa benissimo distinguere i precetti del suo Maestro dai suoi propri (I Cor. VII, 8, 10, 25), ma ha coscienza di comandare egli stesso in nome di Colui dal quale è mandato: « Se alcuno è profeta o dotato dello Spirito, scrive egli ai Corinzi ai quali ha fatto alcune ingiunzioni, questi deve riconoscere che quello che scrivo è il comandamento del Signore (I Cor. XIV, 37) » Terribili sono le minacce contro i ribelli e gli insubordinati (II Cor. XIII, 16). Nessuno deve prendere per debolezza il suo esteriore umile e la sua meschina apparenza. « Le armi con cui combattiamo non sono di carne, ma esse sono potenti (di tutta la potenza) di Dio per rovesciare fortezze. (Con esse) noi rovesciamo i ragionamenti ed ogni ostacolo che ci oppone alla conoscenza di Dio; e noi sottomettiamo ogni pensiero all’obbedienza di Cristo; noi siamo perciò pronti a punire ogni disobbedienza quando la nostra obbedienza sarà completa (II Cor. X, 4-6) ». Egli dunque si arroga un intero dominio, non soltanto sulla volontà dei fedeli, ma anche sulla loro intelligenza; potere veramente sovrumano e, come dice egli stesso, divino. Ma se l’Apostolo, né a Corinto né altrove, ammette autorità capace di imporsi alla sua, riconosce in tette le Chiese un’autorità accanto e sotto la sua: egli investe del suo potere Tito e Timoteo (I. Tim. I, 3; Tit. I, 5); comanda ai Tessalonicesi ed ai Corinzi di far valere il loro potere; si rallegra con questi ultimi perché se ne servirono con moderazione (I Tess. V, 14; I Cor. V, 2, 13); ricorda agli anziani di Efeso il loro diritto e il loro dovere di governare la Chiesa di Dio (Act. XX, 28). – Se la Chiesa primitiva ai nemici esterni oppose soltanto la resistenza passiva, il non possumus, di cui gli Apostoli avevano dato la formula e l’esempio (Act. IV, 20), le occorrevano altre armi contro i nemici interni, soggetti alla sua giurisdizione per il Battesimo (I Cor. V, 12-13). Nel minacciare le sue severità ai faziosi di Corinto, Paolo non suppone neppure che il suo diritto di castigare i colpevoli possa essere messo in dubbio: « Ecco che io vengo a voi per la terza volta; tutto sarà regolato sulla deposizione di due o tre testimoni. Già ho detto, e lo ripeto ora che sono assente come l’ho fatto quando ero presente, a quelli che hanno peccato ed a tutti gli altri, che se io vengo non perdonerò più… Scrivo questo nella mia assenza affinché, nella mia presenza, non abbia da usare con troppo rigore il potere che il Signore mi ha dato per edificare e non per distruggere (II Cor. XIII, 1-2, 10) ». Sempre l’Apostolo rivendica con la stessa energia il suo diritto di punire. La sua repressione non sarà arbitraria, egli manterrà le forme giuridiche, ma castigherà i delinquenti secondo le loro colpe e non farà grazia se non al pentimento (II Cor. XII, 21). Egli prescrive a Timoteo la stessa pratica: « Non ricevere l’accusa contro un anziano se non su testimonianza di due o tre persone. Riprendi dinanzi a tutti, quelli che hanno peccato, affinché gli altri ne concepiscano timore (I Tim. V, 19-20) ». Le pene inflitte da san Paolo erano la riprensione, l’esclusione temporanea e l’anatema. Uno dei primi doveri dei capi della Chiesa è di riprendere coloro che fanno male; vi erano due sorta di ammonizioni: una paterna, o fraterna che poteva essere privata; l’altra più ufficiale e meno benigna che doveva essere pubblica. Sembra che san Paolo indichi, come il Vangelo, che queste due riprensioni erano successive e servivano come preludio ad una correzione più grave: « Dopo una o due ammonizioni, evita il fazioso (il fautore di scisma o di partiti) sapendo che un tal uomo è pervertito e che pecca, condannato dal suo proprio giudizio (Tit. III, 10) ». La scomunica poi aveva due forme totalmente diverse: l’una era soltanto la separazione temporanea dei Cristiani turbolenti o scandalosi, la cessazione provvisoria delle relazioni con loro finché non si fossero emendati: tali erano gli scioperati di Tessalonica; tali i peccatori pubblici di Corinto (II Tess. III, 14 e I Cor. V, 2-7); tali i novatori delle Pastorali, eccetto che questi ultimi non appartenessero alla categoria dei criminali ostinati e incorreggibili che Paolo abbandona a satana per insegnare loro a non bestemmiare: di tale anatema aveva colpito Imeneo e Alessandro (I Tim. I, 20). Per un momento aveva anche pensato di scagliarlo contro l’incestuoso di Corinto, ma poi si contentò di una pena meno severa (I Cor. V, 5), e si rallegrò anzi con la Chiesa che avesse perdonato, poiché il diritto di punire i ribelli implica quello di perdonare i pentiti. La cura con cui certe corporazioni greche, come gli erani ed i tiasi cercavano di schivare l’ingerenza dello Stato nei loro affari interni, le penalità che infliggevano ai membri delinquenti — multe in denaro o in natura, esclusione dalle feste e dai banchetti, espulsione dalla società — illustrano ben poco la costituzione primitiva delle comunità cristiane che non erano affatto formate su tale modello. Potrebbe darne un’idea più giusta l’organizzazione delle comunità ebree nella Diaspora; ma tali comunità erano associazioni legali che, al bisogno, avevano l’appoggio o almeno la tolleranza della forza pubblica. In esse il consiglio degli anziani aveva un potere discrezionale civile e religioso; condannava alla pena del bastone con una liberalità che ci fa stupire, dava la scomunica semplice e la scomunica solenne accompagnata da anatema, la quale era certamente un equivalente mitigato della lapidazione, nei casi in cui questa non era più praticabile. Invece tra i primi Cristiani non troviamo nessun esempio di castighi corporali: le pene si riducevano alla riprensione, all’allontanamento temporaneo ed alla scomunica, con l’abbandono del colpevole nelle mani di satana. Nessuna di queste pene, neppure l’ultima, era puramente vendicativa: la Chiesa non dimentica le raccomandazioni del suo fondatore divino; il suo scopo non è il dominio: il suo ideale non è d’inspirare il terrore e di ostentare la sua forza: la misura ed il limite del suo potere è la difesa delle verità di cui essa fu costituita « la colonna ed il fermo appoggio » (I Tim. III, 15).
3. Riassumiamo in poche parole la concezione della Chiesa quale risulta dagli scritti e dalla pratica dell’Apostolo. Nel dominio di Paolo, tutte le cristianità, dalla loro fondazione o pochissimo tempo dopo, sono provviste di un clero stabilito da lui o dai suoi delegati. Questo clero, oltre i diaconi, comprende altri personaggi chiamati indifferentemente presbiteri o episcopi: i nomi potevano essere sinonimi senza che tali fossero le funzioni; ma la sinonimia dei nomi si poteva estendere anche alle funzioni. Perciò si possono fare tre ipotesi diverse: o i dignitari superiori erano tutti vescovi; oppure erano in parte vescovi e in parte sacerdoti, benché i nomi fossero comuni; oppure erano tutti semplici sacerdoti. Di queste tre ipotesi l’ultima è la sola soddisfacente: la prima che piacque per qualche tempo a Petau, è assolutamente destituita di prove e urta contro gravi obbiezioni; la seconda non è meno precaria, perché ciò che distingue essenzialmente il vescovo dal sacerdote è il potere dell’ordine; ora noi non troviamo la minima traccia di tale potere nel clero sedentario delle Chiese di Paolo. Ogni volta che si trattava di fondare una nuova comunità o di stabilirvi sacerdoti e diaconi, Paolo interveniva personalmente o vi mandava qualcuno dei suoi delegati: Timoteo al quale egli stesso aveva imposto le mani; Tito, il suo collaboratore più attivo; probabilmente Luca che sembra abbia organizzato la Chiesa di Filippi; forse Tichico e Artema che dovevano sostituire a Creta Tito chiamato altrove; e altri ancora senza dubbio. Ma sarebbe un paralogismo il supporre che le cose andassero dovunque in questa maniera, e ben diversa poteva essere la situazione delle comunità cristiane di Gerusalemme, di Antiochia, di Roma e di Alessandria: la gerarchia a tre gradi dovette esistere già nei tempi apostolici. Senza appartenere al clero, le vedove lo aiutavano e lo supplivano talora tra l’elemento femminile. Esse non entravano nell’ordine delle vedove col solo fatto della loro vedovanza, ma con la professione espressa della vedovanza, con la ratifica formale della Chiesa che le prendeva a suo carico sotto certe condizioni. In quanto poi alle pretese diaconesse, queste probabilmente, presso san Paolo, sono semplicemente le mogli dei diaconi o persone che avevano ricevuto dallo Spirito Santo il carisma speciale della διακονία ( = diakonia). Se, nonostante tutto, l’organizzazione delle Chiese paoline sembra alquanto rudimentale, ed il compito dell’autorità sedentaria assai ridotto, bisogna tener conto di quattro circostanze che facilmente si dimenticano. Tutte le cristianità nelle quali le Epistole di san Paolo ci permettono di gettare uno sguardo furtivo, sono di fondazione recentissima: le più antiche datano da otto o dieci anni al massimo; le altre sono appena nate. Dobbiamo meravigliarci di trovarle ancora sotto tutela e possiamo pretendere che abbiano già raggiunto il loro pieno sviluppo? Le città che san Paolo aveva scelto come sua porzione speciale per offrirle al Cristo, erano tra le più turbolente e le più indisciplinate del mondo romano. Se avesse abbandonato quelle cristianità a se stesse, invece di tenerle direttamente in sua mano e di governarle per mezzo di suoi delegati, correva il rischio di vederle consumarsi in brighe e querele interne, come avveniva delle assemblee democratiche di quel tempo e di tutti i tempi. Bisognava pure prevenire il pericolo dell’isolamento. L’unione delle comunità ebreo-cristiane, era cementato dal sentimento nazionale altrettanto, se non più, che dal sentimento religioso. Il primo vincolo mancava nelle chiese della gentilità, poiché l’amore di patria non esisteva nel mondo ellenico, oppure si confondeva con l’orgoglio della stessa città. In tali condizioni, un’autonomia troppo completa o troppo affrettata era un pericolo permanente di scisma e di eresia. Forse i doni carismatici, più abbondanti in origine, supplivano in qualche misura al difetto di organizzazione gerarchica. Quello stato di cose era passeggero, ma poteva servire di transizione tra la prima infanzia delle Chiese e l’epoca della loro maturità.