LIBRO V
I canali della redenzione.
[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA, S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]
CAPO III.
La Chiesa.
I. LA CONCEZIONE PAOLINA DELLA CHIESA.
1 . I NOMI DELLA CHIESA. — 2. LA CHIESA DI DIO. — 3. LE NOTE DELLA CHIESA.
1. Era il popolo eletto ora la vigna custodita e coltivata da Dio con una cura gelosa, come nella celebre allegoria di Isaia, alla quale si riferiscono i Sinottici (Is. V, 2-7), ora il ceppo di vite trapiantato in Canaan e suscettibile di una crescenza illimitata: la sua ombra copriva lo montagne, i suoi tralci somigliavano ai cedri di Dio; essa spingeva i suoi rampolli fino al mare e le sue propaggini fino al gran fiume (Sal. LXXIX). San Giovanni dà una forma diversa a questo simbolo tanto caro ai Profeti (Os. X, 1; Ger. II, 21; Is. XVII, 3-6; Cant. I, 6, etc.); san Paolo gli sostituisce quello dell’olivo (Rom. XI, 16-24). Paolo difatti si figura il Battesimo come un innesto che unendoci al Cristo ci fa aspirare la linfa divina; era dunque naturale che egli concepisse la Chiesa sotto l’immagine di un olivo il quale ha le radici nelle profondità dell’economia antica e cresce all’infinito con l’aggiunta di nuovi rami. L’allegoria è trasparente: la « radice santa e il tronco benedetto » sono i patriarchi; l’olivo è la Chiesa che esce dalla Sinagoga con una specie di processo vitale; i rami sono i membri della Chiesa, gli uni (i Cristiani di razza ebrea) venuti naturalmente sul buon olivo, gli altri (i Cristiani del gentilesimo) presi dall’olivo selvatico. L’incredulità è quella che distacca i primi; la fede è quella che innesta i secondi; ma i rami staccati conservano sempre la possibilità di venire nuovamente reintegrati, e i rami innestati devono sempre temere di essere alla loro volta rigettati. Israele era anche la casa, il regno, il popolo di Jehovah; Jehovah era suo padre, suo re, suo Dio. La Chiesa, erede della Sinagoga, sarà pure tutto questo in modo eminente. Il punto di partenza della metafora « casa di Jehovah » pare che sia l’idea di famiglia, più che quella di edificio, benché il senso di edificio appaia chiaramente in alcuni passi (Num. XII, 7; Os. VIII, 1; Ger. XII, 7; cfr. Ebr. III, 6). L’Apostolo non applica molto alla Chiesa militante la nozione della teocrazia ebraica, poiché il « regno di Dio » ha per lo più, nei suoi scritti, un valore escatologico. Egli non le dà neppure il nome di popolo di Dio se non nelle reminiscenze dell’Antico Testamento (II Cor. VI, 16). Il grande onore della nazione santa era quello di essere la figlia e la sposa di Jebovah. Ma col passare nella nuova economia, il titolo di figlio cambia natura, da collettivo diventa individuale: così non è più la Chiesa che è figlia di Dio, ma sono i figli della Chiesa che posseggono personalmente la filiazione adottiva (Rom. VIII, 14). Anche il nome di sposa avrebbe dovuto seguire una simile evoluzione; ma questo simbolo del matrimonio, che ha una parte tanto considerevole nei Profeti (v. Osea), non ha quasi più luogo nel Nuovo Testamento. Lo ricordano san Giovanni e san Paolo: il primo nel descrivere le nozze dell’Agnello (Apoc. XXI, 6-9; XXII, 17), il secondo quando chiama il matrimonio un gran mistero « per rapporto al Cristo e alla sua Chiesa (Ephes. V, 32) », e quando attribuisce a se stesso le funzioni e i sentimenti del paraninfo incaricato di condurre al Cristo la sposa con cui questi è fidanzato (II Cor XI, 2). Ma il Dio geloso dei profeti non è passato agli evangelisti: così l’allegoria del matrimonio non seguì il suo sviluppo normale che avrebbe fatto dell’anima individuale la sposa del Cristo. Vi sono tuttavia, in san Paolo e nel Vangelo, allusioni sufficienti per giustificare il linguaggio degli scrittori mistici (Matth. XXV, 1-10; IX, 15, etc.). Ci voleva il mistero dell’incarnazione — un Dio fatto uomo ed un uomo fatto Dio, due nature infinitamente distinte e congiunte senza confusione nell’unità di una stessa persona — per lasciar sospettare una unione ancora più intima che quella degli sposi. Gli animi vi erano preparati dalla forma che aveva preso, nella bocca del Salvatore, l’allegoria della Vite. Nel promettere l’eucaristia e dopo di averla istituita, Gesù aveva parlato della sua unione con i comunicanti in termini che implicavano un’identità di operazioni, di funzioni e di vita. Le sue parole ponevano la base della dottrina del corpo mistico, che san Paolo riprese, elaborò, considerò sotto ogni aspetto, per farne il punto culminante della sua morale e il centro del suo insegnamento. – Il corpo del Cristo e la Chiesa sono oramai i nomi più caratteristici della sposa di Gesù Cristo: il primo le appartiene come suo proprio, il secondo lo eredita parzialmente dalla Sinagoga.
2. Nell’Antico Testamento, due parole quasi sinonime (qahal e edah) indicavano l’assemblea religiosa del popolo eletto, sotto la presidenza invisibile di Jehovah rappresentato dai suoi mandatari. I Settanta e i traduttori più recenti — Aquila, Simmaco e Teodozione — ordinariamente traducono il primo termine con ἐκκλησία (= ekklesia) il secondo con συναγωγη (= sunagoghe). Ma, nell’epoca evangelica, συναγωγη (= sunagoghe) significava l’edificio in cui gli Ebrei si riunivano nei giorni di sabato, e pare che generalmente indicasse le stesse riunioni. Per la comunità cristiana era una ragione imperiosa d’impadronirsi dell’altro termine: per distinguersi dalla Sinagoga essa si chiamò dunque Chiesa. – Il credere che questa parola sia stata presa dalle turbolente riunioni delle democrazie greche, è un sacrificare inutilmente e per partito preso tutte le verosimiglianze e tutti i dati positivi della storia. In quanto poi alla sua origine storica, questo nome doveva indicare la Chiesa universale prima di applicarsi alle chiese particolari; ed è questo appunto che noi possiamo constatare. Gesù Cristo si propone di fondare su Pietro la sua Chiesa, necessariamente unica; san Luca non conosce che una Chiesa, nonostante la diversità dei luoghi e delle nazioni; san Paolo stesso si ricorda di aver perseguitato la Chiesa di Dio, e quando identifica questa Chiesa col corpo del Cristo o le dà il Cristo come capo, egli evidentemente ne esclude la pluralità. Per indicare le Chiese locali, egli dirà, per esempio, « la Chiesa che è a Corinto », oppure, per derivazione, « la Chiesa dei Tessalonicesi »; eccetto che la Chiesa, al singolare, non sia determinata dal contesto. La Chiesa non è né l’aggregazione dei credenti né la somma delle comunità particolari, ma un ente morale cui è essenziale l’unità. « Non soltanto la parte è nel tutto, ma il tutto è nella parte (Harnak) ». Ecco perché san Paolo si rivolge alla « Chiesa di Dio che è a Corinto »; infatti che essa ala a Corinto, a Efeso o altrove, è sempre la Chiesa di Dio, poiché la Chiesa è essenzialmente una. Ecco ancora perché l’Apostolo chiama una chiesa particolare il tempio dello Spirito Santo e la sposa del Cristo, perché la Chiesa particolare non è altro che un’estensione della Chiesa universale e si chiamerebbe abusivamente Chiesa se fosse separata dalla Chiesa unica.
3. Le metafore che servono a indicare la Chiesa ne indicano pure i caratteri o le cosiddette note. Come corpo mistico del Cristo, la Chiesa è una; come sua sposa è santa; come tempio di Dio ha per fondamento gli apostoli; come regno dei cieli è cattolica o universale. Ma san Paolo non ha la pretesa di essere costante nelle sue metafore e passa continuamente dall’una all’altra, di modo che questa miscela di immagini disparate produrrebbe una certa confusione per chi volesse interpretarle col rigore di purista. Percorriamo rapidamente questi quattro caratteri di unità, di cattolicità, di apostolicità, di santità, senza uscire dall’Epistola agli Efesini dove questi caratteri sono più evidenti (Méritan). – La nostra incorporazione comune al Cristo è il gran principio dell’unità. Ad una sola testa, un solo corpo, altrimenti si avrebbe un mostro. Come vi è un solo Cristo naturale, così è impossibile avere più di un Cristo mistico. “Vigilate per conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace: un solo corpo, e un solo spirito, come foste chiamati a partecipare per vocazione ad una medesima speranza; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio e Padre di tutti gli uomini, il quale è sopra tatti, agisce per mezzo di tutti, risiede in tutti” (Ephes. IV, 3-6). – Sette elementi — tre intrinseci, tre esteriori, uno trascendentale — entrano nella costituzione della Chiesa e ne stringono l’unità. La Chiesa è una nel suo principio materiale, poiché è un solo corpo; una nel suo principio formale, perché è animata da un medesimo Spirito; una nella sua tendenza e nella sua causa finale che è la gloria di Dio e del suo Cristo, per mezzo della felicità degli eletti. Essa è ancora una per l’autorità che la governa; una per la fede comune che le serve di regola e di norma esteriore; una per la sua causa efficiente, il rito battesimale, che le dà l’essere e l’accrescimento. San Paolo riassume con una frase questi sei principi di unione: « Tutti voi siete uno nel Cristo Gesù (Ga. III, 28) ». Bimane il settimo principio: « il Dio e Padre di tutti gli uomini ». A primo aspetto non si vede quale relazione vi possa essere tra l’unità di Dio e l’unità della Chiesa; ma l’Apostolo determina altrove con precisione il suo pensiero. Egli c’insegna che tutta l’umanità è oramai destinata a formare una medesima famiglia nella casa di un Padre comune, una medesima teocrazia sotto lo scettro di uno stesso re (Ephes. II, 14-22). Sotto questo aspetto, l’unità della Chiesa si confonde con l’unicità e con la cattolicità. La parola cattolico, abbastanza comune nell’uso profano da Aristotele in poi, non si trova nella Bibbia; ma dopo sant’Ignazio di Antiochia, serve ad esprimere un’idea biblica quanto mai, l’universalità della Chiesa. Questa universalità è annunziata dai profeti, e gli Apostoli hanno la missione di effettuarla col predicare il Vangelo fino ai confini del mondo. L’esclusivismo degli Ebrei è finito; la teocrazia antica, ha fatto il suo tempo; il regime del privilegio deve terminare: « Forse che Dio è il Dio dei soli Ebrei? Non è anche Dio dei Gentili? (Rom. III, 29) « Questi Gentili disprezzati, estranei alle alleanze, estranei alle promesse, senza Cristo, senza Dio, senza speranza, sono fusi in un solo corpo di nazione col popolo eletto. Non più stranieri né ospiti; tutti i membri della Chiesa, senza distinzione di origine, sono oramai « concittadini dei santi e della famiglia di Dio (Ephes. II, 19) ». – Il mondo intero non deve più formare che un solo regno, una sola città, una sola casa, di cui Dio, col Cristo suo rappresentante, sarà il solo re, il solo capo, il solo padre. Siccome è stabilito che Dio estende a tutti gli uomini i suoi disegni di redenzione e non li vuole salvare in altro modo che incorporandoli al Cristo, ne segue necessariamente che la Chiesa è una nella sua essenza e universale nella sua destinazione. La Chiesa è una e universale perché è la sposa del Cristo, che abbraccia in potenza tutto il genere umano; perché è il corpo del Cristo nel quale devono rinascere tutti quelli che erano morti nel primo Adamo; perché essa è il Regno di Dio, il vero Israele che succede all’antica teocrazia di cui spezza il particolarismo. Se Paolo si fermasse a questo, il suo insegnamento non avrebbe nulla di notevolmente caratteristico; ma la sua originalità sta in questo, che egli fa derivare questi due attributi dalla stessa sua nozione di Chiesa. La Chiesa, quale è da lui concepita, è essenzialmente una e universale, ossia cattolica, perché essa elimina tutto ciò che si oppone all’unità e all’universalità, sopprimendo, sotto l’aspetto religioso, tutte le differenze nazionali, sociali e individuali, con tutte le disuguaglianze di diritti e di privilegi, e infondendo così a tutti i suoi membri una corrente comune di vita e di azione, di una inesauribile energia: « Tutti voi siete figli di Dio per la fede, nel Cristo Gesù. Poiché voi tutti che foste battezzati nel Cristo avete rivestito il Cristo. Non vi è più né Ebreo né Greco, non più schiavo o libero, non più uomo né donna; perché voi siete tutti uno nel Cristo Gesù (Gal. III, 26-28). — Non vi è più né Greco né Ebreo, non più circonciso e incirconciso, né barbaro né Scita, né schiavo, né libero; ma il Cristo tiene il posto di tutto e (questo) in tutti (Col. III, 11) ». Le differenze di razza, di educazione, di grado sociale, perfino di sesso, sono scomparse. La qualità di figlio di Dio ha scancellato tutte queste distinzioni. Nessuno dunque è più escluso dall’economia nuova, poiché vi sono ammessi gli Sciti, i più barbari tra i barbari. – Non bastava portare il messaggio della salvezza fino ai confini del mondo (Rom. X, 13) e predicare il Vangelo ad ogni creatura che è sotto il cielo (Col. I, 23): bisognava allontanare gli ostacoli che impedivano la fusione perfetta di questi elementi eterogenei. Il più formidabile di tali ostacoli era il particolarismo degli Ebrei. La teocrazia ebraica, nazionale per sua natura ed espressamente chiusa a certe nazioni straniere, non aspirava affatto ad essere la religione del mondo intero; infatti, cessando di essere nazionale, essa perdeva il suo carattere di istituzione privilegiata. Poteva bensì crescere con l’aggiunta di nuovi adepti, ma l’inferiorità umiliante in cui essa li teneva, e le gradazioni diverse che lasciava tra loro, senza parlare delle esclusioni che essa non imponeva, dimostravano chiaramente che essa non mirava punto a fare del genere umano una sola famiglia religiosa. La barriera della Legge, che nel tempo passato aveva protetto la fede monoteistica del popolo eletto, la teneva oramai in un funesto isolamento. Gesù Cristo, per assicurare alla sua Chiesa l’unità e l’universalità, doveva prima di tutto rovesciare il muro di separazione. Egli dunque inchioda sopra la croce la carta antica che si opponeva alla fusione dei popoli (Col. II, 14); spalanca le porte della nuova economia alle nazioni che fino allora ne erano tenute lontano; così tutti gli uomini diventano, per uno stesso titolo, concittadini di un medesimo regno e membri di una stessa famiglia; tutti finalmente, riconciliati tra loro e con Dio, sono uniti nel Cristo, in un solo corpo mistico (Ephes. II, 14-19; Col. I, 20-22). – Una e cattolica per essenza, la Chiesa dev’essere ancora apostolica. Paolo scrive agli Efesini: « Voi siete stati edificati sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti, essendo Gesù Cristo stesso la pietra angolare (Ephes. II, 20) ». Il grammatico potrebbe intendere questo fondamento in quattro diverse maniere: il fondamento sul quale sono edificati gli Apostoli; il fondamento sul quale edificano gli Apostoli; il fondamento che fu edificato dagli Apostoli; il fondamento che si identifica con gli Apostoli. Però l’esegeta non rimane dubbioso: sono gli stessi Apostoli ed i Profeti il fondamento della Chiesa. In questo edificio di cui il Cristo è la pietra angolare, ed i fedeli sono le pietre viventi, bisogna che il fondamento sia della stessa natura e che simboleggi delle persone. I Profeti qui nominati sono quelli del Nuovo Testamento o quelli dell’Antico? Forse sono quelli del Nuovo Testamento, perché nel testo greco lo stesso articolo che comprende le due parole sembra che le metta nella stessa categoria, e poi perché Profeti e Apostoli del Nuovo Testamento sono generalmente raggruppati insieme senza possibilità di equivoco. Tuttavia l’altra ipotesi ci piacerebbe di più. Che i profeti del Nuovo Testamento siano i fondamenti della Chiesa, è un’idea poco naturale della quale non si trova nessuna traccia altrove: il carisma profetico del Nuovo Testamento edifica, ma non fonda. Noi sappiamo invece quanto san Paolo sia geloso nello stabilire la nuova economia sopra le basi dell’antica, e nel presentarci gli Apostoli come gli eredi dei Profeti. – La santità della Chiesa è proclamata con tanta frequenza, che resta superfluo il citare testimonianze a questo riguardo. Basta ricordare che i Cristiani, per il Battesimo ricevuto e come membri del corpo mistico, sono i santi per antonomasia, che la Chiesa è la sposa del Cristo la cui santità si riversa su lei, che Gesù ha dato il suo sangue per purificarla e santificarla, affinché sia « senza macchia, santa e immacolata ».