LIBRO V
I canali della redenzione.
CAPO II.
I Sacramenti.
[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA, S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]
III. L’EUCARISTIA.
1. FORMULE DI PAOLO. — 2. ALLUSIONI AL SACRIFIZIO.
1. Se il Battesimo fa nascere il corpo mistico, l’eucaristia lo alimenta e lo fa crescere. San Paolo presenta insieme il tipo dei due Sacramenti. Gli Ebrei, egli dice, « furono battezzati in Mosè nella nube e nel mare; e tutti mangiarono il medesimo cibo spirituale e bevvero la medesima bevanda spirituale (I Cor. X, 1-21) ». La manna e l’acqua della rupe sono dette spirituali, sia perché erano frutto di un miracolo, sia perché figuravano i due elementi dell’Eucaristia, cibo e bevanda dell’uomo rigenerato nel Battesimo. – Ad una combinazione fortuita noi siamo debitori dell’insegnamento di Paolo riguardo l’Eucaristia. Egli lo aveva dato a viva voce ai Corinti, come a tutti gli altri catecumeni, e non lo avrebbe ripetuto per iscritto, se non fossero stati i dubbi dei nuovi Cristiani circa gli idolotiti, e se non fossero state le loro irriverenze nella celebrazione dell’agape. Si può credere che il suo insegnamento orale sia stato più diffuso, ma è difficile che fosse più preciso. L’Apostolo ci indica anzitutto la fonte delle sue affermazioni, Gesù Cristo medesimo: « Io ho ricevuto dal Signore quello che alla mia volta ho trasmesso a voi (I Cor. XI, 23) ». Nel descrivere l’istituzione dell’Eucaristia, egli insiste su le circostanze di tempo — « la notte stessa in cui il Signore Gesù veniva consegnato » ai suoi nemici, « alla fine del banchetto » di addio — sia per meglio fissare la scena nella mente dei neofiti, sia piuttosto per metterla in relazione diretta con la morte del Signore Gesù. – La formula della consacrazione del pane non potrebbe essere più chiara. Essa sarebbe non soltanto oscura, ma incomprensibile e contradittoria, se il Salvatore avesse detto: « Questo pane è il mio corpo »; poiché è assolutamente impossibile che una cosa sia e non sia nel medesimo tempo, e non si toglierebbe la difficoltà col racchiudere il corpo del Cristo nel pane ordinario, perché sarebbe sempre falso che il pane reale sia il vero corpo del Cristo. Ma Gesù parla senza equivoco: « Questo è il mio corpo il quale (è) per voi (I Cor. XI, 24) ». Il soggetto della frase è il pronome dimostrativo « questo », cioè questo che voi vedete dinanzi a voi. questo che io vi indico col gesto, questo che non è ancora designato né come pane ordinario né come corpo del Cristo, ma il cui senso sarà determinato alla fine della proposizione, quando si sarà affermato qualche cosa. verbo sostantivo che serve di copula, esprime, come sempre, l’identità pura e semplice tra il soggetto e il predicato. È consolante il vedere oggi gli esegeti protestanti e razionalisti unirsi ai Cattolici nel riconoscere una verità tanto elementare e nel respingere l’esegesi tendenziosa che traduceva « essere » con « significare », contro l’uso biblico non meno che contro l’uso profano. L’equivoco sarebbe nel predicato? Il « corpo » si dovrebbe prendere in senso figurato, per il simbolo del corpo? L’ipotesi è già inaccettabile per questo, che sconvolge senza ragione il senso naturale dei termini; ma se ne sentirà meglio l’assurdo col sostituire a « corpo » il suo preteso equivalente: « Questo è il simbolo del mio corpo, il quale (simbolo) è per voi. Chiunque mangia il pane e beve il calice indegnamente è colpevole del simbolo del corpo e del simbolo del sangue del Signore ». In quanto poi all’identificazione del corpo eucaristico con la Chiesa, è meglio non parlarne: certi sistemi non hanno bisogno di confutazione e si accennano unicamente per far vedere a quali soluzioni disperate si riduca l’abbandono del solo senso naturale e legittimo. Presa in se stessa indipendentemente dalle allusioni e dalle circostanze che la determinano, l’altra formula di consacrazione: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue (I Cor. XI, 25) », presenterebbe qualche oscurità. Vi sono due metonimie delle quali l’una prende il contenente per il contenuto, e l’altra prende l’effetto per la causa, cioè la nuova alleanza conchiusa nel sangue del Cristo, per il sangue del Cristo che suggella la nuova alleanza. Però la prima è di uso tanto comune, che « questo calice » desta subito nella mente l’idea di una bevanda. Del resto, eccetto che si fosse adoperato il solo dimostrativo indeterminato « questo », il linguaggio metonimico era qui indispensabile. Difatti Gesù non poteva dire: « Questo vino è il mio sangue » senza profferire un errore e senza imporre alla fede dei suoi discepoli un’equazione incomprensibile. La seconda metonimia è un po’ meno comune, ma essa diventa chiara se si mette nel suo contesto: non potendo il contenuto di un calice materiale essere l’alleanza sigillata nel sangue, bisogna che questo sia il sangue dell’alleanza. — Gesù Cristo si comporta nella stessa maniera nelle due consacrazioni; tra i due atti v’è un parallelismo completo; dunque se, in virtù delle parole sacramentali, vi è da una parte il Corpo del Cristo, vi sarà dall’altra il suo Sangue. — L’allusione manifesta al racconto dell’esodo, non lascia più nessun dubbio. Mosè, aspergendo il popolo col sangue del sacrificio, dice: « Ecco il sangue dell’alleanza ». Il sangue dell’alleanza e l’alleanza nel sangue sono dunque una medesima cosa. – Certamente nell’una e nell’altra formola la parola del Figlio di Dio è creatrice. La verità enunciata non è anteriore all’enunciazione stessa, come nelle affermazioni ordinarie; essa ne è il prodotto. Ma Gesù Cristo aveva abituato i discepoli a tali miracoli della sua parola, e Colui che guariva con una parola, dicendo: « Tuo figlio è guarito », eppure: « Tu sei libero dalla tua infermità », meritava la stessa fede quando, con una formola analoga, concedeva il dono promesso del suo corpo e del suo sangue. San Paolo aggiunge alla doppia consacrazione l’ordine dato dal Cristo agli Apostoli, di perpetuare l’Eucaristia fino alla consumazione dei secoli. San Luca lo ricorda soltanto dopo la consacrazione del pane, e gli altri due Sinottici non ne fanno menzione, giudicandolo forse superfluo, per motivo della tradizione vivente della Chiesa.
2. In virtù del precetto divino e della spiegazione data dall’Apostolo, l’Eucaristia diventa un rito commemorativo: « Fate questo in memoria di me. Poiché tutte le volte che mangerete questo pane e che berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore fino a che Egli venga ». Ma il rito eucaristico non è una semplice commemorazione del Sacrificio della croce: è esso medesimo un sacrificio commemorativo. San Paolo non dice già: « Questo calice è commemorativo della nuova alleanza conchiusa sul Calvario nel mio sangue »; egli dice invece: « Questo calice è esso medesimo l’alleanza; » in altri termini: « Il sangue contenuto in questo calice sigilla l’alleanza ». È dunque il sangue di una vittima; e il rito che lo versa misticamente avrà il carattere di un sacrificio. Questo risulta anche più chiaramente dal testo parallelo di san Luca: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue il quale è sparso per voi ». San Luca non dice che il sangue sarà sparso nel momento della passione; ma dice che il sangue è sparso presentemente, nel momento in cui si compie il rito eucaristico; dice anzi, con maggiore energia, che il calice — il sangue contenuto nel calice — è sparso per gli uomini. Presa isolatamente, la formula della consacrazione del pane non suggerisce l’idea del sacrificio: « Questo è il mio corpo il quale è per voi ». Si potrebbe intendere: « che vi è dato come nutrimento » invece di: « che è immolato per voi ». Anche il testo, più esplicito, di san Luca, non toglierebbe pienamente il dubbio: « Questo è il mio corpo che è dato (o abbandonato) per voi ». Si potrebbe, è vero, domandare se un corpo dato in cibo non sia per questo stesso un corpo immolato, e soprattutto se le parole « dato per voi » significhino veramente « dato in cibo » e non indichino piuttosto, come in tutti gli altri casi, l’atto col quale il Cristo si offre come vittima. Ma una certa quale oscurità resterebbe sempre, se si fa astrazione dal parallelismo. – Un altro passo di san Paolo ci fornisce un supplemento di luce. Volendo dimostrare ai Corinzi, che la partecipazione ai banchetti idolatrici è un abuso illecito, qualunque sia l’intenzione con cui si faccia, perché è uno scandalo, un pericolo e un atto formale d’idolatria, l’Apostolo si appella alla loro coscienza: « Io parlo a gente sensata; giudicate voi medesimi quello che dico. Il calice di benedizione che noi benediciamo, non è la comunione al sangue del Cristo? E il pane che spezziamo non è forse la comunione al corpo del Cristo! Poiché vi è un solo pane, noi siamo, nonostante il nostro numero, un solo corpo; perché noi partecipiamo a questo medesimo pane. Vedete Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime non comunicano forse all’altare? ». E san Paolo, traendo la morale da questa dottrina, conchiude con queste parole: « Quello che i pagani immolano, lo immolano non a Dio ma ai demoni; ora io non voglio che voi siate i commensali dei demoni. Voi non potete bere il calice del Signore e la tazza dei demoni; voi non potete prendere parte alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni (I Cor. X, 15-21) ». Se i ragionamenti dell’Apostolo non sono paralogismi, la comunione eucaristica è per i Cristiani quello che per i Gentili è il mangiare gli idolotiti, quello che per gli Ebrei è il banchetto sacro. Ora il banchetto sacro ha un significato religioso; esso costituisce un atto di culto in quanto è il complemento del sacrificio e unisce i fedeli col sacerdote sacrificatore, con l’altare sul quale fu immolata la vittima, e con la vittima stessa.
IV. L’ORDINE.
Il rito d’inaugurazione dei sacri ministri fu sempre e in ogni luogo l’imposizione delle mani. Questo rito, indeterminato per se stesso, prende il suo significato preciso dalle circostanze che lo circondano o dalle parole che lo accompagnano. Noi vediamo nella Scrittura che si fa l’imposizione delle mani dal superiore per benedire, dal taumaturgo per guarire, dagli Apostoli per conferire lo Spirito Santo, dalle autorità ecclesiastiche per comunicare il potere di cui sono investite. L’idea comune a questi quattro modi è la trasmissione di un dono spirituale, di un favore soprannaturale o di un potere sacro. Tutti i fedeli avevano concorso all’elezione dei sette diaconi ellenisti, ma i soli Apostoli imposero loro le mani. Si trattava di renderli atti ad una funzione santa per sua natura, poiché la celebrazione dell’agape era ancora strettamente legata all’Eucaristia. Così si era vigilato affinché i candidati fossero ripieni dello Spirito Santo; l’imposizione delle mani si era fatta in mezzo alle preghiere pubbliche; terminata la cerimonia, i Sette, oltre la cura delle mense, si erano assunto il ministero della predicazione e l’amministrazione del Battesimo, ma senza pretendere di conferire lo Spirito Santo, potere esclusivamente riservato agli Apostoli. La loro istituzione aveva avuto un carattere religioso, e il loro potere era di ordine spirituale, pure rimanendo subalterno (Act. II, 1-6). L’imposizione delle mani era pure adoperata per il grado intermediario del chiericato. Quando Paolo scrive a Timoteo: « Non imporre troppo presto le mani a chiunque (I Tim. V, 22) », parla nominatamente degli anziani nel senso ecclesiastico, e non degli uomini avanzati in età. Finalmente lo stesso rito — fatta astrazione dalle parole o dalle preghiere che dovevano accompagnarlo — serviva egualmente per il grado superiore della gerarchia; e qui i testi sono alquanto più espliciti. Non si può quasi resistere all’impressione, che l’imposizione delle mani descritta nel capo XIII degli Atti avesse lo scopo di trasmettere a Barnaba ed a Saulo il supremo potere dell’ordine. Una semplice benedizione di addio non sarebbe stata circondata da tanta solennità, preceduta da digiuni e compiuta durante la liturgia, per comando dello Spirito Santo. I missionari sono specialmente designati per la conversione dei Gentili, cioè per la fondazione di nuove chiese ove è loro indispensabile il potere dell’ordine. Infatti subito noi li vediamo stabilire degli anziani (πρεβυτέρους = presbuterous) nelle città ove hanno fondato delle cristianità. Si può credere che nessuno avrebbe inteso diversamente il passo degli Atti, senza le difficoltà di trovare in Antiochia un ministro idoneo. Se Barnaba, il personaggio principale di quella chiesa, secondo ogni apparenza, non fosse stato Vescovo, come supporre che fossero Vescovi gli altri profeti e dottori nominati dopo di lui! D’altra parte san Luca non fa menzione della presenza degli Apostoli in Antiochia, in quella circostanza. Si può dire, è vero, che non aveva bisogno di farne menzione, se era cosa riconosciuta, come tutto ci lascia credere, che un potere non viene mai conferito se non da chi lo possiede. Allorché si trattasse di una semplice benedizione, la difficoltà rimarrebbe ancora, perché la benedizione discende dal superiore e non viene data da inferiori o da uguali. – Con la consacrazione di Timoteo da parte di san Paolo, noi ci troviamo in terreno più sicuro. L’Apostolo scrive al suo discepolo: « Non trascurare la grazia (χάρισμα = karisma) che è in te per la profezia (oppure a causa delle profezie . con l’imposizione delle mani del collegio presbiterale. — Io ti esorto a ravvivare la grazia di Dio (χάρισμα = karisma), la quale è in te per l’imposizione delle mie mani (I Tim. IV, 14) ». Noi abbiamo qui un rito esterno — l’imposizione delle mani — ed una grazia interna prodotta dal rito. Qual è questa grazia, questo carisma? Evidentemente non è il dono puramente gratuito che lo Spirito Santo concede o ritira a suo talento, che non è permanente, e che nessuno è in grado di ravvivare o di far nascere. Non è neppure, come certuni suppongono, il carattere episcopale, il potere dell’ordine, poiché non ha nessun bisogno di essere ravvivato, non essendo suscettibile di diminuzione né di perdita. Questo carisma è piuttosto l’attitudine soprannaturale ricevuta col degno esercizio di un ministero sacro, è presso a poco quella che noi chiamiamo grazia dello stato, ossia il complesso dei doni spirituali e il diritto alle grazie attuali che i doveri dell’episcopato esigono. Benché associata al carattere e al potere dell’ordine, ne è tuttavia distinta. Mentre il carattere è indelebile e il potere è inalienabile, il carisma può languire per mancanza di sforzo o di vigilanza; se non arriva a estinguersi, ha bisogno almeno di essere ravvivato. San Paolo indica abbastanza nettamente la natura di questo carisma quando aggiunge: « Poiché Dio non ci ha dato uno spirito di timore ma (uno spirito) di forza, di carità e di temperanza ». Questo carisma ammette dunque un aumento di grazia interiore, con le grazie attuali richieste dalla carica di Vescovo. Ora tutto questo è conferito « dall’imposizione delle mani » dell’Apostolo, non senza il concorso e l’assistenza del collegio presbiterale di Efeso, se la consacrazione, come è probabile, avvenne a Efeso. – Abbiamo dunque, nell’ordinazione di Timoteo, i tre elementi di ciò che la Chiesa oggi chiama Sacramento: un rito esteriore, l’imposizione delle mani; una grazia permanente (χάρισμα = karisma), sorgente di diverse grazie dello stato, prodotta da questo rito; una grazia interiore corrispondente al simbolo del rito esteriore, determinata nel suo significato da un complesso di circostanze, come la designazione profetica e la missione alla quale era destinato Timoteo. L’istituzione divina con la promulgazione immediata o mediata da parte di Gesù Cristo, si sottintende, dal momento che si tratta di annettere la grazia ad un rito.
V. IL MATRIMONIO.
A questa citazione della Genesi: « L’uomo lascerà suo padre e sua madre, e si unirà alla sua sposa, e saranno tutti e due una sola carne », san Paolo aggiunge questa riflessione: « Questo mistero è grande; e io dico: per rapporto al Cristo e alla Chiesa (Ephes. V, 12) ». Secondo il Concilio di Trento, il Sacramento del matrimonio è insinuato in questo testo (Sess. XXIV). Questa è la parola più esatta. In mancanza di affermazione espressa, vi è qui un’indicazione di cui il teologo deve tener conto. Non già che non si possa nulla dedurre dalla traduzione latina: Sacramentum hoc magnum est. Il significato biblico di sacramentum (μυρτήριον= murterion) non è sacramento; esso è o un segreto disegno di Dio relativamente alla salute degli uomini, o una parola o fatto che racchiude un significato simbolico. L’argomentazione da fondare sul testo dell’Apostolo, per provare che il matrimonio è un vero Sacramento, è assai complessa e, qualunque sia la cura con cui venga istruita, vi saranno sempre dei punti deboli. Che l’unione coniugale abbia un carattere sacro — che sia un Sacramento nel senso più largo della parola — non lo nega nessuno. Secondo san Paolo, l’istituzione primitiva del matrimonio o, il che è quasi la stessa cosa, il racconto della Genesi che riferisce tale istituzione, è un gran mistero che simboleggia l’unione del Cristo e della sua Chiesa e che per conseguenza è segno di una cosa eminentemente santa: Sacramentum hoc magnum est, id est sacræ rei signum, scilicet conjunctionis Christi et Ecclesiæ, dice san Tommaso. Se si tratta di un tipo propriamente detto, il matrimonio sarebbe, sotto questo aspetto, un sacramento allo stesso titolo che la circoncisione ed i sacrifici dell’Antica Legge. Siamo ancora ben lontani dal segno sensibile istituito da Gesù Cristo per produrre la grazia che significa. Senza dubbio, una volta che fosse dimostrata la produzione efficace della grazia, l’istituzione divina si dedurrebbe naturalmente dal fatto che a Dio solo appartiene l’annettere la grazia ad un rito esteriore; e la promulgazione da parte del Cristo ne seguirebbe come corollario, poiché Gesù Cristo è il mediatore unico e universale della nuova Alleanza. La questione principale è di sapere se il nostro testo ci permette di concludere che il matrimonio cristiano, al momento in cui si contrae, conferisce la grazia santificante. Non vi è teologo cattolico il quale abbia sostenuto quest’affermazione con più di sottigliezza scolastica o con maggiore erudizione scritturale che il P. Palmieri. Il suo ragionamento si può riassumere così: I riti figurativi della nuova legge sono per loro natura pratici e non speculativi, cioè producono la grazia che significano; ora il matrimonio cristiano, secondo san Paolo, figura l’unione del Cristo e della sua Chiesa; dunque produce la grazia significata da questa unione. Se il matrimonio cristiano in facto esse impone agli sposi obblighi soprannaturali, bisogna che conferisca in fieri una grazia interiore proporzionata a tali obblighi. Si obbietterà che il simbolo del misterioso imene del Cristo e della sua Chiesa è il matrimonio in se stesso, e non il matrimonio cristiano; che per conseguenza, se la dimostrazione precedente provasse qualche cosa, proverebbe che ogni matrimonio è un sacramento. Ma questa obbiezione si può benissimo risolvere. Anzitutto il matrimonio cristiano — e san Paolo parla soltanto di questo perché si rivolge esclusivamente ai fedeli — impone ai coniugi doveri speciali che richiedono l’aiuto di grazie speciali. Gli sposi cristiani, nei loro mutui rapporti, si devono modellare sopra il Cristo e sopra la sua Chiesa: da una parte, sommissione rispettosa fino al sacrificio, dall’altra amore e devozione fino alla morte. Questa fonte di obblighi soprannaturali suppone una fonte corrispondente di grazie soprannaturali; e san Paolo ragiona appunto in tale ipotesi quando esorta i fedeli ad effettuare in se stessi l’imene della Chiesa e del Cristo, di cui la loro unione è l’emblema. In secondo luogo ogni matrimonio potrebbe essere segno, senza essere, per questo, segno efficace, come è il matrimonio cristiano. I riti della nuova legge sono commemorativi e non profetici; essi non guardano verso un avvenire che è ancora in potenza, ma verso il passato che essi fanno rivivere; essi sono pratici e non speculativi: non figurano soltanto la grazia, ma la producono. Se la circoncisione fosse stata mantenuta da Gesù Cristo, come segno della sua alleanza con l’umanità, abbiamo ragione di credere che essa sarebbe diventata un sacramento nel senso stretto della parola. Mutando direzione e significato rivolta verso il passato e non più verso l’avvenire, essa sarebbe stata capace di produrre effettivamente la grazia dell’alleanza; mentre invece, abbandonata a se stessa come un rito infimo e grossolano, perde ogni valore dopo la morte del Cristo. Così il matrimonio, che era in altri tempi il tipo dell’unione del Cristo con la sua Chiesa, cambia significato quando questa unione si consuma sul Golgota: da profetico diventa commemorativo; da speculativo diventa pratico; da inerte diventa efficace. Tuttavia perché l’argomento ricavato dal nostro testo fosse decisivo, bisognerebbe dimostrare: che il simbolismo indicato da san Paolo non è una creazione della sua mente o un rapporto mistico immaginato da lui — ego autem dico — ma che esiste veramente e parte rei per il fatto di una volontà positiva di Dio; che questo simbolo non è un semplice tipo profetico ma un segno pratico e commemorativo; che la grazia annessa al matrimonio non deriva soltanto dai nuovi obblighi inerenti allo stato coniugale — come avviene, per esempio, per lo stato religioso —: ma che essa viene conferita strumentalmente dal rito stesso del contratto matrimoniale in fieri. Ora tutto questo è piuttosto insinuato che affermato nelle parole dell’Apostolo. Quando già si sa che il matrimonio è un Sacramento, si può benissimo trovare in questo testo un’allusione più e meno chiara al rito sacramentale; altrimenti non si penserebbe forse a cercarcela.