CONOSCERE SAN PAOLO (41)

LIBRO V

I canali della redenzione.

CAPO I.

La fede principio di giustificazione.

I. LA FEDE GIUSTIFICANTE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. FEDE PROTESTANTE E FEDE CATTOLICA. — 2. NATURA DELLAFEDE. — 3. OGGETTO DELLA FEDE. — 4. VALORE DELLA FEDE.

1. È assai difficile sapere che cosa intendessero per la fede che giustifica i riformatori del secolo XVI, perché in loro non si trovanoné definizioni precise né nozioni uniformi. I loro testi messi a confronto lasciano una forte impressione di oscurità e d’incoerenza. I corifei del protestantesimo erano bensì concordi nel negare che la fede informe sia una vera fede; ma siccome volevano eliminare dall’atto di fede l’elemento intellettuale, pure lasciando gli la certezza, il loro imbarazzo nel definire la loro fede speciale era grandissimo. Se essi dicevano con Calvino, che la fede è « una conoscenza fermae certa della benevolenza divina verso di noi », avevano bisogno dilunghi commenti per spiegare che tale atto partiva dal cuore e nondall’intelletto, e non sapevano dove basare la realtà di una tale fedeil cui oggetto, nel momento in cui veniva percepito come esistente,non esisteva ancora. Se preferivano la definizione di Lutero: « unafiducia certa e profonda nella bontà divina e nella grazia manifestatae conosciuta per mezzo della parola di Dio », era loro impossibile ildire in che modo questa fiducia fosse certa, eccetto che si ammettesseche essa medesima fosse preceduta da un atto di fede intellettuale.Non abbiamo il diritto di aspettarci maggiore precisione e chiarezzadai protestanti moderni. La maggior parte, anche di coloroche si potrebbero credere disposti a emanciparsi dall’ortodossia luterana,considerano sempre la fiducia come l’elemento unico o principale della fede. In molti di loro si nota però la cura di evitare ciòche la nozione protestante ha di troppo urtante o di apertamentecontrario alla Scrittura. Così B. Weiss unisce la fiducia all’adesione intellettuale e intende soprattutto per fiducia quella che si dimostraa Dio col credere alla sua parola; è il pius ædulitatis affectus dei teologi cattolici. Al contrario, certi razionalisti mantengono senza riguardi le concezioni radicali dei primi riformatori e con questo appunto ne mettono a nudo l’assurdità fondamentale. Agli occhi diBaur, per esempio, « la fede, come principio di giustificazione, è la persuasione fondata sopra Gesù Cristo, che ciò che non è, tuttavia è »: e si domanda con stupore che cosa possa giovare un tale attoper la nostra salute. Vi è infatti proprio da sbalordire, perché è la negazione pura e semplice del principio di contraddizione. Ma la confusione va ancora più avanti: « La fede, secondo Fricke, è una presadi possesso ricevente, la quale tuttavia è prima resa possibile dalla recezione della grazia preparata in Dio prima di ogni recezione ».Quale sfinge sarebbe capace d’indovinare tale enigma? Non bisogna meravigliarsi se la nozione della fede protestante manca di chiarezza; poiché, secondo l’autore della definizione citata or ora, il pensiero di Paolo è così profondo, che pochissimi uomini sono riusciti a penetrarlo, e prima di Lutero era interamente sconosciuto da più dimille anni. Il primo che lo abbia compreso, al dire di Harnack, è l’eretico Marcione, che però lo comprese molto male. Di fronte a tali incertezze, mettiamo la dottrina costante dellaChiesa Cattolica, così formulata dal Concilio Vaticano: « La fede è una virtù soprannaturale con la quale, sotto l’influsso e con l’aiuto della grazia, noi crediamo come vere le cose rivelate, non per motivo della loro verità intrinseca accessibile ai lumi naturali della ragione, ma per l’autorità di Dio stesso che le rivela e che non può né ingannarsi né ingannare ». Il Concilio di Trento dichiara che « noi siamo giustificati dalla fede, perché la fede è l’origine, il fondamento e la radice di ogni giustificazione » e che « noi siamo giustificati gratuitamente, perché nulla di ciò che precede la giustificazione, né la fede né le opere, può meritare la grazia della giustificazione (Conc. Vatic. Sess. III, cap. 2; Conc. Trid. Sess.VI, cap. 8) ». La fede è l’origine della nostra salvezza perché è la prima disposizione salutare, e senza di essa il peccatore non può né sperare né pentirsi veracemente, né amare Dio di un sincero amore. Essa ne è il fondamento, perché tutto il resto si appoggia sopra la fede; se questa cade, cade con lei tutto l’edificio, mentre essa si può reggere anche se cadono le altre virtù. Essa ne è la radice, non già perché essa sia il germe spontaneo e infallibile delle altre disposizioni soprannaturali, ma perché essa concorre, con l’aiuto divino, a produrle e a mantenerle. – Prima di esaminare in che modo la fede giustifica, studiamo in san Paolo la natura, l’oggetto e il valore della fede giustificante.

2. In questa analisi bisogna evitare tre vizi di metodo. Il primo sarebbe quello di spiegare l’uso biblico con l’uso profano: la fede cristiana e la fede pagana differiscono in tutto e per tutto; esse non hanno nessuna misura comune; i classici hanno bensì fornito agli scrittori sacri la parola « fede », ma nulla più. Un secondo sbaglio sarebbe quello di prendere come punto di partenza l’etimologia della parola greca. Quando gli Apostoli — e prima di loro i Settanta — adottarono questa parola, la nozione di fede aveva dietro di sé una lunga storia: prodotto di una razza e di una civiltà diversa, è ben poco rischiarata dall’etimologia greca (= cercar di persuadere). Finalmente. l’ultimo scoglio sarebbe quello di procedere dalla nozione di « fede » alla nozione di « credere ». Bisogna fare la strada a rovescio; poiché in ebraico, dove cominciò a elaborarsi il concetto della fede cristiana, la derivazione grammaticale, conforme all’evoluzione logica dell’idea, va dal verbo « credere » al sostantivo « fede »; e quest’ultima parola non ha ancora quasi mai il significato religioso che il verbo « credere » ha ordinariamente. Ogni attento lettore rimane colpito dal fatto che san Paolo, come pure il redattore dell’Epistola agli Ebrei, suole collegare la fede cristiana con la fede dell’Antico Testamento e non sembra fare nessuna differenza tra queste due fedi; fatto questo tanto più curioso perché nell’Antico Testamento il compito della fede pare a tutta prima assai ridotto: si spera in Dio, gli si obbedisce, lo si teme, si ama; ma non si pensa a farsi un merito col credere in Lui, poiché il rifiutarsi di credere è l’errore del solo « insensato ». La fede è quasi soltanto menzionata nei casi eccezionali in cui essa ha ostacoli da superare, dubbi da vincere o gravi obblighi da compiere; allora, è vero, è la virtù capitale, come il suo contrario, l’incredulità, è il vizio più odioso. La salute o la rovina del popolo dipendeva dalla sua fede: « Se non credete, voi non sussisterete (Is. VII, 9. Cfr. XLIII, 10) ». — « Credete in Jehovah vostro Dio e voi sarete salvi  (II Paral. XX, 20) ». Tale fu la fede di Abramo, la fede dei Niniviti, la fede di cui parla Abacuc, la fede d’Israele al suo uscire dall’Egitto: « Essi credettero a Jehovah ed a Mosè suo servo (Es. XIV, 31) ». Dappertutto la fede si afferma come un assenso alla parola di Dio o del suo profeta, ma l’elemento intellettuale raramente è isolato; quasi sempre gli va unito un sentimento di sicurezza, di fiducia, di abbandono, di obbedienza, di amore filiale: l’adesione della mente produce la vibrazione del cuore. – Passando dall’Antico al Nuovo stamento. noi possiamo misurare con uno sguardo tutta la via percorsa. La fede non è più indicata come un fatto eccezionale, ma è oramai l’atteggiamento normale del Cristiano; le due parole « fede » e « credere » si presentano ad ogni pagina in proporzioni quasi uguali; l’accezione profana, completamente eliminata dal sostantivo, tende a scomparire anche nel verbo; finalmente i due termini hanno acquistato un significato tecnico il quale permette di adoperarli in modo assoluto: la, fede è l’accettazione del Vangelo, e credere vuol dire professare il Cristianesimo. Questa pienezza di significato rende malagevole l’analisi della fede cristiana; tuttavia un confronto attento dei testi ci suggerisce le seguenti osservazioni: La fede non è una pura intuizione, una tendenza mistica verso un oggetto piuttosto sospettato che non conosciuto; essa « suppone la predicazione: Fides ex auditu; essa è l’adesione della mente a una testimonianza divina (Rom. X, 17; Gal. III, 2-5; I Tess. II, 13). — La fede è opposta alla visione, e quanto all’oggetto conosciuto e quanto alla maniera di conoscere; l’una è immediata e intuitiva, l’altra ha luogo mediante un intermediario (II Cor. V, 7). — Tuttavia la fede non è cieca; essa è pronta a dare ragione di sé medesima e aspira sempre a una maggiore chiarezza (II Cor. IV, 4-6). — Essa è intimamente unita, da una parte alla speranza e alla carità, con le quali forma una terna inseparabile, e dall’altra all’obbedienza e alla conversione del cuore. — La fede, per quanto ferma e incrollabile nella sua adesione, ha tuttavia dei gradi e può crescere d’intensità e di perfezione (I Cor. III, 1-2; II Cor. X, 15; Col. II, 7; II Tess. I, 3, etc.). — Finalmente, derivando dalla grazia, essa possiede un valore intrinseco che la rende gradita a Dio (Ephes. II, 8).  Prima di esaminare donde le venga il suo valore, diciamo qual è il suo oggetto.

3. Nell’atto di fede bisogna distinguere l’oggetto formale — il motivo di credere — e l’oggetto materiale sul quale la fede si dirige. Quello che provoca l’adesione della mente è sempre la testimonianza di Dio, sia che si produca direttamente, sia che arrivi per mezzo degli araldi autorizzati della rivelazione. Dio stesso parlò ad Abramo, a Mosè; a noi parla per mezzo dei Profeti e degli Apostoli; ma questa differenza nel modo di trasmissione non cambia nulla alla testimonianza divina: « Avendo ricevuto la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto intendere, voi l’avete ricevuta non come parola degli uomini, ma, quale è veramente, come parola di Dio (I Tess. II, 13) ». Il Vangelo non è una invenzione degli Apostoli, perché essi non l’hanno « né ricevuto né appreso da un uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo (Gal. I, 12) » che è la Sapienza incarnata. Quindi la parola evangelica è la parola di Dio, o semplicemente la Parola, e credere ai messaggeri di Dio è credere a Dio medesimo. – Mentre l’oggetto formale non cambia mai, l’oggetto materiale varia all’infinito. Esso può riguardare il complesso della rivelazione o un gruppo di verità o un dogma particolare: « Se noi siamo morti con Gesù Cristo, noi crediamo che vivremo anche con Lui. — Se confessi con la bocca, che Gesù è il Signore, e se credi nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, tu sarai salvo (Rom. VI, 8; X, 9). — Se crediamo che Gesù morì e risuscitò, così pure Dio per mezzo di Gesù ricondurrà con sé quelli che sono morti (I Tess. IV, 14) ». Qui la fede è un’adesione intellettuale a una verità di ordine storico, senza nessuna idea accessoria di fiducia o di abbandono; tuttavia è la fede verace, la fede cristiana, poiché ad essa è legata la salvezza. Infatti, per quanto sia ristretto l’oggetto materiale, l’oggetto formale rimane sempre il medesimo, ed è questo che specifica la fede. Quando non è espresso, l’oggetto materiale è più che mai comprensivo. San Paolo suole chiamare i fedeli col nome di « credenti », perché la fede è il sentimento vasto e universale che riassume meglio il carattere del Cristiano. La « fede » è la professione di tutto il Vangelo ed è anche, oggettivamente, il Vangelo in tutta la sua ampiezza. In una parola, « credere » è essere discepolo del Cristo; poiché oltre all’adesione intellettuale, la fede sincera implica anche una sommissione tacita e virtuale ai doveri che il Cristianesimo impone. Quando l’oggetto della fede è indicato — se lasciamo da parte certe locuzioni eccezionali, come « fede nel Vangelo, fede nella verità » — esso è sempre Dio o il Cristo. E allora, coincidendo l’oggetto materiale con l’oggetto formale, la nozione della fede è abbastanza complessa.- Se il credere a Dio (Θεῷ = teo) può non essere altro che il prestar fede alla sua testimonianza, il credere in Dio aggiunge a questo concetto certe delicate sfumature di cui rendono bene il significato le particelle greche. Credere in Dio non è soltanto credere alla sua esistenza, ma riposare su Lui (ἐπὶ Θεῷ = epi teo) come sopra un appoggio incrollabile, è rifugiarsi in Lui (ἐπὶΘεόν = epi teon) come in un asilo sicuro, è tendere a Lui (εἰς Θεόν = eis teon) come al proprio ultimo fine. In questi ultimi anni si è negato che la « fede del Cristo » sia la fede al Cristo; si vorrebbe invece che sia la fede che Gesù stesso avrebbe avuto durante la sua vita mortale. Fortunatamente i teologi e gli esegeti, così protestanti come cattolici, resistendo a quel certo fascino che esercita sempre un’opinione nuova, per quanto possa essere arbitraria, continuano a vedere nella « fede del Cristo » la fede di cui il Cristo è oggetto da parte dei fedeli. Non vi è espressione più adeguata della fede giustificante di Paolo (Gal. II, 16). Gesù Cristo non è soltanto il plenipotenziario di Dio e il mediatore unico della nuova Alleanza; egli è ancora il compendio del Vangelo, poiché è il centro dell’economia della salute, e tutte le promesse di Dio si compiono in Lui. Perciò predicare il Cristo è predicare il Vangelo, confessare il Cristo è professare la Religione che Egli venne a fondare, credere al Cristo è accettarlo come Salvatore, confidare nella sua mediazione, sottomettersi alla sua legge. Noi siamo giustificati dalla fede di Gesù Cristo e viviamo nella fede del Figlio di Dio (Gal. II, 20), perché questa fede, ben lungi dall’essere confinata nel dominio dell’intelligenza, è una fede pratica, attiva, obbediente, che dalla carità riceve la sua forma e il suo merito.

4. Anche spogliato delle sue modalità accidentali, come la fiducia e la sommissione al volere divino, l’atto di fede possiede un valore morale intrinseco. Infatti esso non può esistere, neppure allo stato più semplice, senza il pius credulitatis affectus col quale l’uomo liberamente si inchina sotto l’autorità di Dio e confessa implicitamente la veracità della sua testimonianza. « Senza la fede è impossibile piacere (a Dio); poiché chiunque si avvicina a Dio deve credere che Egli esiste e che diventa rimuneratore per coloro che lo cercano (Ebr. XI, 6) ». Noi abbiamo qui la fede più intellettuale, la più sciolta dalle condizioni morali, quella in cui ha meno parte la volontà; eppure l’autore ispirato afferma che senza questa fede è impossibile piacere a Dio, e che con essa è possibile piacergli. Ne è testimonio Enoc: la Scrittura non dice nulla della sua fede, ma gli rende la testimonianza di essere stato gradito a Dio; e il nostro autore ne conchiude che egli piacque a Dio per la fede, poiché senza la fede non è possibile piacergli (Ebr. XI, 5). – Da ciò si conchiude necessariamente che la fede possiede per se stessa un valore morale capace di attirare sopra l’uomo il favore divino … Non è altrimenti della fede di cui parla Abacuc. Dio ha detto al suo profeta: « Se la visione ritarda, tu aspettala; poiché certamente verrà e non mancherà ». Poi soggiunge: « Ecco che soccombe colui la cui anima non è retta, mentre il giusto, per la sua fede, vivrà (Abac. II, 4) ». – Il senso del primo membro non si può fissare con certezza; ma sono fuori di dubbio tre cose: vi è contrasto tra la sorte dell’incredulo, del superbo, che si rifiuta di credere alla visione profetica, e la sorte dell’uomo giusto e pio che vi crede. La fede consiste appunto nel credere che la profezia fatta in nome di Dio si compirà; dunque è proprio la fede quale l’abbiamo descritta una ferma adesione alla parola divina. Il frutto della fede è che per essa il giusto vivrà, cioè sarà oggetto di una preservazione provvidenziale. Per i contemporanei di san Paolo, come per lo stesso san Paolo, la fede di Abramo è la fede tipica. Essa infatti esclude tre difetti chele toglierebbero il merito e il valore: l’incredulità, il dubbio e l’esitazione. Il suo oggetto era arduo, incredibile, umanamente impossibile: eppure il Patriarca non si abbandonò all’incredulità, ma credette anzi contro ogni verosimiglianza, e, se si può dire, contro ogni ragione: qui contra spem in spem credidit. Egli non si fermò punto alle considerazioni che potevano far nascere il dubbio — la sua vecchiaia, il suo corpo debole, l’età avanzata di Sara — ma credette con fede robusta, incrollabile: confortatus est fide. Fece anzi assai più: volgendo subito i suoi pensieri verso Colui la cui veracità è pari alla potenza, non ebbe neppure un momento d’incertezza: non hæsitavit diffidentia. La sua fede fu pronta, ferma, intera, perfetta; perciò fu premiata: « Dio, dice la Scrittura, gl’imputò questo a giustizia ». Benché non vi sia né eguaglianza nè equivalenza tra la fede e la giustizia, bisogna tuttavia assolutamente che vi sia una certa proporzione tra la fede e la giustizia; infatti ciò che è nulla non può essere imputato a nulla. San Paolo poi ci dice come la fede di Abramo fu gradita a Dio e perché ebbe la ricompensa: perché il Patriarca, con la fermezza del suo assenso, con l’implicita confessione della veracità divina, col suo atteggiamento fiducioso verso promesse che parevano irrealizzabili, con la prontezza della sua obbedienza, aveva dato gloria all’Autore di ogni bene: dans gloriam Deo (Rom. IV, 16-22). Tale è il valore proprio, il valore morale della fede. Non già che la fede abbia per se stessa questo valore, o che l’uomo se ne possa vantare. Se essa è in noi e se non è senza di noi — poiché è un atto umano — l’Apostolo c’insegna che, in ultima analisi, essa non viene da noi, ma da Dio: « Voi siete stati salvati dalla grazia per mezzo della fede; e questo non da voi stessi — è un dono di Dio — non per ragione delle opere, affinché nessuno si vanti (Ephes. II, 8-9 ) ». Essere salvati nel tempo stesso dalla fede e dalla grazia sembrerebbe una contraddizione, e tale veramente sarebbe, se la fede venisse da noi; ma non è così, risponde l’Apostolo, tutto questo è un dono di Dio; voi non potete attribuirlo né a voi né alle vostre opere. Perciò la fede è un’operazione, un prodotto dello Spirito Santo o, come dice ancora lo stesso Apostolo, un frutto dello Spirito (Gal. V, 22): alla sua origine soprannaturale essa va debitrice del suo valore. Ora noi siamo in possesso dei tre elementi della fede cristiana quale ci è descritta da san Paolo: l’elemento intellettuale non manca mai: nel caso in cui il doppio oggetto, materiale e formale, fosse pienamente evidente, si potrebbe concepire la fede senza il concorso della volontà, ma non mai senza il concorso dell’intelligenza. La fede in cui non intervenisse affatto la volontà, non sarebbe la fede libera, la fede meritoria, la fede teologica; tuttavia le si potrebbe dare, per estensione, il nome di fede, come fa san Giacomo; la fede in cui l’intelligenza non avesse nessuna parte, non è neppure concepibile, perché ogni fede è una convinzione, e ogni convinzione suppone un assenso della mente. — Un secondo elemento della fede è l a fiducia, e si può intendere in due maniere: fiducia in colui che parla, e fiducia in colui che promette. La prima è inerente all’atto di fede; è, presso a poco, il pius credulitatis affeetus dei teologi. L’altra, accidentale, non è che una modalità dell’oggetto materiale, quando questo consiste in un aiuto presente o in un benefizio promesso: Contra spem in spem credidit — Il terzo elemento della fede viva è una doppia obbedienza: obbedienza della mente alla parola di Dio con l’accettazione pronta e ferma della testimonianza divina, obbedienza del cuore pronto a conformarsi in tutto al volere divino nella misura in cui si manifesta.