GREORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – 2° Corso di esercizi spirituali (2)

IL MAGISTERO IMPEDITO

2° corso di ESERCIZI SPIRITUALI (2)

Nostra conversatio in cœlis est

[G. SIRI: Esercizi spirituali, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1962] –

2. Il fine della vita

Facciamo la meditazione sul fine perché è la meditazione fondamentale degli Esercizi Spirituali. Vi accorgerete che il primo passo per far sì che conversatio nostra in cœlis sit è quello di portare l’idea del fine della nostra vita ad agitare tutte le nostre azioni. È il primo passo, e bisogna farlo bene. Ecco quindi la trama della meditazione e il raccordo di essa al tema generale degli Esercizi Spirituali. Il fine della nostra vita è Dio. Noi dobbiamo ritornare a Lui e portare con noi tutto quanto Egli ci ha dato; ma dobbiamo riportare tutto con il reddito che Egli giustamente ci richiede. Dobbiamo ritornare a Dio. Che il tempo scorra, ve ne siete accorti. È vero che fino ai 20 anni scorre come l’acqua di certi fiumi che non si sa se vadano avanti o indietro. Scorre a un altro modo dopo i 20 anni; allora il fiume, sì, è ancora in pianura, ma a guardare l’acqua, ci si accorge che cammina. Scorre a un altro modo dopo i 30, e allora si ha l’impressione dell’acqua allorché incontra i piloni dei ponti. L’avete mai notato? Fa i baffi l’acqua, allora. E così anche lo scorrere del tempo nella vita degli uomini: a un certo momento entra in cateratta, salta. Che noi dobbiamo ritornare a Dio, lo sappiamo tutti, e l’argomento non ha bisogno di essere troppo rimenato; ma dobbiamo tornare a Dio con tutto quello che Egli ci ha dato. Ci ha dato la vita e, nella vita, ci ha dato il tempo, che è l’articolazione della vita. Il che vuol dire che il tempo bisogna riportarglielo tutto. Non c’è una frazione di tempo che noi possiamo legittimamente abbandonare giù per le scarpate delle strade, siano esse poco o molto rilevate. Ci ha dato l’intelligenza che dobbiamo far funzionare a un certo modo. Ci ha dato la volontà, facoltà motiva. Insomma, dobbiamo tornare a Dio con tutto; non possiamo ritornare a Dio disarticolati, monchi, con una gamba sola, con un occhio solo. Materialmente potrebbe anche essere così, ma spiritualmente non possiamo ritornare a Dio diversi da come Lui ci ha fatti. Ma non basta riportargli quello che Lui ci ha dato. Dobbiamo riportarlo a Lui col reddito, ossia coi frutti. Voi sapete che frutto è qualunque atto buono, qualunque atto che non sia cattivo, perché per gli uomini svegli non si danno atti praticamente indifferenti. Ecco che cosa vuol dire fine. È questo il primo punto della nostra meditazione. Bisognava richiamare questi elementi senza dei quali non si poteva costruire un discorso. Ora avviciniamoci bene a quello che c’è di profondo nel raccordo con il tema generale. Il fine agisce tanto quanto è presente. – Ecco il secondo punto della meditazione. Il fine è l’ultima cosa che si raggiunge, d’accordo, ma la contemplazione di esso è quella dalla quale si deve partire. Se non si parte da quella, allora si vagola, manca la costruzione, manca il legamento delle pietre nell’edificio, manca l’architettura, manca la bellezza. E manca la gioia. Dio ci ha forniti di un dispositivo che ci avverte automaticamente di quando noi siamo veramente a posto. E il dispositivo è il funzionare in noi della gioia, pacata e costante anche nel dolore. La gioia pacata e costante che non è il divertimento, che non è la varietà, che non è il sussulto clamoroso che copre altri disturbi. No, quando essa c’è, è segno che siamo per la strada giusta. La gioia serena, pacata, costante, imperturbabile è un cielo che si stende sopra di noi. Ebbene tutto questo può esserci a un patto: che il fine sia presente. Quando il fine della nostra vita — Dio, il nostro ritorno a Lui, la pace eterna, la vera vita — è reso presente, allora c’è uno stimolo per tutte le azioni, c’è un talismano con il quale si cambia volto a tutto ciò che in questo mondo è brutto, col quale si riduce a espressione splendida tutto quanto in questo mondo è deforme. E allora tutto diventa piacevole, non perché si debbano cercare le cose piacevoli, siamo sulla via della croce, ma di fatto è così e ringraziamone Iddio. – Ma credete voi, ed eccoci al secondo punto, che la presenza del fine consista semplicemente e puramente nel fatto di averlo in testa? Credete che basti dire: Io dovrò ritornare a Dio, devo riportare a Dio tutto quello che mi ha dato, per di più debbo riportargli il reddito, come Lui stesso ha detto nella parabola dei talenti? Vi credete che sia solo questo? Eh, no! Qui arriviamo a qualcosa di un po’ più difficile. Perché la presenza del fine sia quella che deve essere nell’anima nostra, bisogna avere un’idea della sua trascendenza. Quando si parla di Dio e delle cose divine, le nostre idee sono puramente e semplicemente analogiche. L’analogia è il concetto più grande che sia a nostra disposizione per intendere e, dove si può, capire la teologia. Le nostre idee sono analogiche. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che le nostre rappresentazioni delle cose di Dio in parte sono aderenti a quello che rappresentano e in parte no. Per la parte in cui non sono aderenti, le nostre idee, che sono tutte analogiche, non è che siano false, le possiamo rendere vere, ma sono inadeguate. Le capacità nostre, finite, limitate come sono, non riescono a estendersi tanto quanto le cose eterne. Rimangono lì, senza vita e senza fiato, non possono andare oltre! Notate che tutte le rappresentazioni che noi ci facciamo delle cose divine sono soggette alla legge dell’analogia. Come facciamo allora a far sì che le nostre idee analogiche rimangano vere, cioè che per quella parte in cui non si adeguano all’oggetto che rappresentano evitino di essere false? Ricordando che tutto quello che è bello e buono è in Dio, e che tutto quello che è difetto non è in Dio, e sapendo che tutto quello che noi rappresentiamo di Dio va riportato all’infinito; sapendolo, anche se questa operazione non può essere eseguita, perché la operazione dell’infinito noi non possiamo eseguirla. Ma sappiamo che esiste, e la affermiamo, e allora le nostre idee intorno a Dio diventano vere. Rimangono analogiche, ma sono vere! E allora si può soffiare dentro ai nostri desideri e ingigantirli e prendere tutte quelle cose che sono velleità e dare loro la caratteristica delle volontà. Si può prendere tutto quello che fu desiderio di tutti i tempi e di ogni luogo e di ogni anima che visse sulla terra, e dire che tutto va al di là, perché le rappresentazioni nostre sono soltanto analogiche. E quello che io avrò, e quello che troverò in Dio va al di là della mia stessa capacità di pensare. E questa capacità di pensare non la esaurirò mai, perché tutti gli elementi che mi verranno in mente saranno semplicemente simbolici, cioè pedane di lancio per gettarmi verso l’infinito. Il fine deve essere presente così: come se accanto alla tua affermazione sì levasse un’ombra che dicesse: ma tu non vedi, tu non sai. Ecco che cosa significa la presenza del fine nella nostra vita. – E veniamo al terzo punto della meditazione. Dobbiamo finalizzare la nostra vita. Vi accorgerete più tardi che cosa significhi finalizzare; quale impegno costituisca, quale luce ci dia questa parola quando venga bene analizzata, come ci presenti straordinariamente chiaro il prospetto della nostra vita, di quello che la nostra vita deve essere. Cosa vuol dire finalizzare la vita? Vuol dire usare tutti quegli espedienti tattici, quell’arte che è un complesso di regole, perché il fine della nostra vita sia sempre presente e porti come un tocco d’arte a tutte le cose banali che noi facciamo ogni giorno. Come si fa a sensibilizzare la nostra vita nel fine? Voi direte: anzitutto pensare molto al fine della nostra vita. Voi certamente non penserete che ciò consista nel dire dalla mattina alla sera a noi stessi: Ehi, attento al fine! Di questo passo non si vivrebbe più. È chiaro che la finalizzazione deve avvenire in altra forma, più umana, più fattibile, che non porti con sé il problema di salire a ogni istante un gradino più alto della nostra statura. E allora da che cosa è data la finalizzazione della nostra vita? È data da questo: tappezzare i muri nostri di quel che riguarda Iddio. Vedete, entrando, io guardavo la facciata della vostra chiesa e leggevo alcune lapidi: « Et Verbum caro factum est…. et habitavit in nobis » ; « I Magi trovarono Gesù con Maria sua Madre e l’adorarono ». Che dappertutto, come avete fatto qui, ci siano immagini sacre, ci siano parole sacre: accettatele, abbracciatele; sono strumenti di finalizzazione della vita. La preghiera dell’offerta, che certamente voi fate al mattino e alla sera, è strumento di finalizzazione della vita. La preghiera, tutta la preghiera è strumento di finalizzazione. Ma c’è un punto: la ricerca dell’intenzione attuale. Voi sapete che cos’è l’intenzione: l’intenzione è la ragione per cui si fa una cosa, è il motivo della cosa. Allora lo sforzo per finalizzare la nostra esistenza è quello di vivere a occhi aperti, cioè di acquistare l’abitudine di sapere perché si fa questo, perché si fa quest’altro, anche nelle cose più banali. Bisogna che noi tendiamo a eliminare le azioni incolori, cioè quelle delle quali non si vede perché si fanno. Perché ora sto scambiando quattro parole con questa persona? Perché debbo essere cortese. Perché continuo a parlare? Perché ne ho bisogno; mi accorgo che se non parlo un po’, si rabbuia qualche cosa nella mia vita. Questo vuol dire concretare la intenzione. Si comprende allora l’opera di purificazione, di rettitudine dell’intenzione. Si arriva a finalizzare veramente la vita. La rettitudine dell’intenzione si verifica quando si vuole il fine naturale di ciò che si compie e non se ne vuole uno che sia innaturale, disonesto o contorto. Allora si finalizza veramente la nostra esistenza. Lo vedete allora il quadro della vita? Entrarvi sempre con la testa, con la intelligenza, non con la testa fra le nuvole. Ricordate, ho premesso che conversatio in cœlis non significa vagare per aria e finire nella luna, ma è invece l’unico modo per tenere i piedi sulla terra. Ve ne state accorgendo, no, che cosa vuol dire finalizzare la nostra vita, e cioè rendere presente ad essa l’ultimo fine sicché spiritualmente sempre ci si trasferisca là, a quel livello, e si raggiunga quell’altezza? Vuol dire vivere ogni momento impiegando tutto il tempo con la coscienza di quello che si fa, con la visione della strada che si deve percorrere, piccola o grande che sia — non parlo soltanto delle grandi strade maestre, parlo anche dei viottoli — con la visione del valore che hanno le più piccole azioni accanto alle più grandi. Ora io celebrerò la S. Messa e voi vi assisterete; dopo andremo a fare colazione. Anche quella bisogna finalizzare e, finalizzandola, diventa una divina liturgia. Ho notato che vi siete messi a cantare prima di mangiare. Bene, anche gli antichi monaci facevano così e cantavano, come cantano ancora, una lunga preghiera in modo che anche il prendere cibo sia una cosa bella, e mentre è una comunione con le creature che si prestano a noi per diventare qualcosa di noi, sia anche una comunione con le ragioni più alte che presiedono alle creature. Una sorta di comunione nell’ordine, perché anche la cosa più materiale che noi possiamo fare, come è quella di mangiare, sia una cosa bella e sia pure questa nella rettitudine e nell’ordine. – Perché, quando avviciniamo persone che sono sante, abbiamo l’impressione che tutto sia nell’ordine, che tutto sia bello, che tutto sia come il velluto, pur sentendo sotto il velluto un’anima di ferro? Noi abbiamo quell’impressione perché queste anime hanno finalizzato tutta la loro vita, non hanno lasciato che qualche cosa scioperasse, che divagasse, che prendesse direzioni senza criterio, senza ordine e legamento alcuno. È la bellezza della vita, questa! Finalizzarla! Anche perché, finalizzandola, si sa dove si va. E tutto diviene grande, così, tutto. Perché dove arriva la luce, arriva Iddio che l’ha creata; dove giungono le creature, giunge Iddio che le ha create; dove arriva l’energia, il movimento, arriva Iddio che l’ha creato. Non ci sono cose piccole, cose che siano in sé stesse, ontologicamente parlando, brutte. Ora finalizziamo bene quello che stiamo per fare, la S. Messa. Tornerà Gesù Cristo, e tornerà nella forma più vicina, più accessibile a noi, più grande e più amorevole, che è quella del SS. Sacramento, presente sull’altare. Ma ricordiamoci che in altra forma, certo minore, Cristo ritorna dovunque e sempre se la nostra conversazione è nei cieli.

S. S. GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – 2° corso di esercizi spirituali (1).

Anche quest’anno iniziamo con il meditare un corso di esercizi che S. S. Gregorio XVII [già Cardinal G. Siri] proponeva a suo tempo a giovani operatori pastorali. Abbiamo tutti da apprendere dalle parole di S. S., il cui Magistero fu impedito dalle forze del male insediate fin sul soglio di Pietro con una serie di impostori, veri Simon Mago, al posto di Simon Pietro. Che le sue parole siano per noi “piccolo gregge”, in questo nuovo anno, uno stimolo di crescita spirituale fattivo, di desiderio ardente del Regno dei Cieli, in attesa della venuta del Nostro Signore Gesù Cristo.

S. S. GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

2° corso di ESERCIZI SPIRITUALI

Nostra conversatio in cœlis est

[G. SIRI: Esercizi spirituali, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1962] –

– 1. Nostra conversatio in cœlis est

Il tema dei nostri Esercizi Spirituali è questo: « Nostra conversatio in cœlis est » (FILIPP. III, 20).

E cioè il nostro trattenimento, il nostro ambiente, la nostra vita, la nostra mentalità sta nel cielo. Ma non basta fare una traduzione alquanto libera come è quella che ho fatto io: bisogna dare una certa giustificazione dell’argomento. In sostanza, quando si dice « Nostra conversatio in cœlis est » che cosa s’intende? Che mentre coi piedi si sta in terra, con la mente e col cuore si sta già in cielo. È tutto qui. – Ora con questi Esercizi io voglio dire a me stesso e a voi: Prendiamo il coraggio a due mani, non stiamo alle mezze misure, in cielo andiamoci ora. E la vita pensiamola, misuriamola, conduciamola, coloriamola come tutte queste cose possono essere fatte di là. Portiamo e spostiamo questa nostra esistenza coraggiosamente e risolutamente là. Non crediate che vivere con l’anima in cielo sia cosa impossibile. Naturalmente andrà fatta “humano modo”, ma non è impossibile. Anzi, è l’unica cosa che veramente risponde all’appello del Signore: « Dove sono io, voglio che siate anche voi ». Dove sono io. Si tratta forse di una delle parole più impegnative e più forti che Nostro Signore abbia mai dette. Non si tratta di una cosa impossibile, si tratta semplicemente di una cosa decisa. Tenere il piede in due staffe non si può. Stare tutto dalla parte di Dio, stare tutto e soltanto dalla parte delle cose soprannaturali, stare tutto e soltanto dalla parte della fede, dello spirito di fede, significa avere la testa in cielo. Sarete voi in grado di misurare il livello di possibilità di tutto ciò? Ma di una cosa siate e certi e sicuri: che si tratta nient’altro che di un atto decisivo, da Cristiani. Non sono venuto a parlarvi di doni carismatici, non sono venuto a dirvi che dovete divenire delle Sante Terese o dei San Giovanni della Croce. Sono venuto a dirvi quello che tutti i Cristiani possono fare e debbono fare. Perché noi che siamo del clero o apparteniamo a pie associazioni, potremmo avere l’impressione di essere diversi dai buoni Cristiani. Ma badate che quando avremo fatto tutto quello che possiamo immaginare o pensare, noi saremo soltanto dei buoni Cristiani e niente di più. – Perché ho scelto questa linea? Non penserete che sia per non ripetere le cose che ho già detto altre volte. No, non mi guida la preoccupazione dell’originalità. Ma chiedendo a me stesso di che cosa avessi bisogno, ho dovuto rispondermi questo: che arrivato ormai alquanto al di là del “mezzo del cammin di nostra vita”, in cielo è bene che ci vada già mentre sono qui, tanto per assicurare le cose, senza aspettare che venga sirocchia morte a prendermi. Perché, se mai, dirò come il Giusti: « Quando arriverà lei, me ne andrò io ». E ho pensato che era meglio che la mia vita la portassi lassù, anche perché sono profondamente convinto che quello sia l’unico modo per essere veramente concreti, pratici e concludenti nella vita terrena. – Conversatio nostra in cœlis est. Questo il motivo adeguato a me. Ora espongo i motivi per cui tale linea può adeguarsi a voi. Non che il motivo che va bene per me non possa andar bene per voi. Ditemi: lo sapete se siete giunti o no a “mezzo del cammin di vostra vita”, anche voi più giovani? Non sapete un bel nulla. Potreste essere a un quinto, potreste essere alla vostra ventitreesima ora. E tutti possiamo essere alla ventitreesima ora. Quindi la ragione che va bene per me va bene anche per voi. Ma vi sono ragioni universali che forse non è male ricordare qui. – La prima: in questo mondo tutto va male. Non nel senso che non vi sia del bene; ce n’è moltissimo, ma nel senso che le grandi linee di questo mondo indicano uno scivolare. Non so se abbiate presente il messaggio natalizio del 1956 di Pio XII. – Il succo di quel messaggio che il mondo non ha capito del tutto, e se ne pentirà, è questo: Badate, o uomini, voi vi siete costruiti la macchina, avete studiato non per diventare migliori voi, ma per farvi delle macchine; ci siete riusciti e la macchina è già la vostra padrona. Ci sono delle frasi in quel messaggio che alludono a qualche cosa di più, che credo di poter tradurre così, sperando di non alterare il pensiero del grande Pontefice: Della macchina voi vi siete fatti il criterio e il modello della vostra vita; ormai la vostra vita la conducete, la dosate, la sistemate, la metodicizzate, la coartate, la irrigidite come si dispongono, si irrigidiscono, si coartano le macchine. Le costituzioni degli Stati hanno un’unica tentazione: di diventare il disegno di una macchina. Il marxismo è nient’altro che il grande disegno di una macchina, i cui pezzi di montaggio sono gli uomini. Gli uomini non godono più della natura, ed è inutile che si facciano venire le lacrimette a sentire il Cantico delle Creature. Il sole non lo vedono neppure. Le stelle. Oh, hanno persino rubato il nome alle stelle! È su linee sbagliate il mondo. Certamente sotto ci sono tante cose buone, perché il disegno di Dio non si tradisce mai, perché la potenzialità che Dio ha messo nei cuori degli uomini non si inaridisce mai. E poi c’è la grazia di Dio, c’è la vita sotterranea della Chiesa, ma quello che è il « mondo-mondo », quello del quale N. S. Gesù Cristo ha detto: « totus in maligno positus est », quello scivola male. La seconda: tutto quello che il « mondo-mondo » fa, prende la modulazione del canto di una sirena, e c’inghiotte. Io dovrei invitarvi a riconoscere probabilmente nella vostra, nella nostra vita, delle tristezze, delle incertezze, dei dubbi, che sono nient’altro che l’aver accolto la stimolazione, la suggestione, lo spavento che incute questo mondo-mondo stolto. Notate che dico mondo-mondo quasi a riecheggiare la frase scolastica « reduplicative », e quando dico mondo-mondo, sia inteso una volta per sempre, mi riferisco a quello del quale parla N. S. Gesù Cristo, cioè l’insieme dei peccati e tutto ciò che precede, stimola e consegue al peccato. Questo è il mondo, e noi siamo tutti nel pericolo di ricevere per osmosi tutto quello che di venefico ha il mondo. Allora è come se si dicesse: Non ci accorgiamo noi che stiamo in una cantina? Sì, un po’ di luce viene perché ci sono delle feritoie, però avvertiamo che vi sono delle esalazioni venefiche, c’ è una conduttura di metano che perde, qui non ci si sta bene, a lungo andare ci si intossica. Se uno accende un fiammifero, si salta all’aria tutti. – E con questo discorso che si conclude? E volete continuare a stare in cantina? Prendiamo la scala e andiamo al piano di sopra: nostra conversatio in cœlis est. Ecco perché propongo a voi di ragionare in quest’ordine. Dobbiamo arrivare a piazzarci lassù. Come si fa? Che cosa guadagneremo? Attenti, questo, tradotto in linguaggio povero, è: Prendiamo la scala, facciamo presto, andiamocene al piano di sopra. Qui sotto non ci si sta bene. Saliamo: nostra conversatio in cœlis. Nei momenti in cui nella storia della Chiesa, ci è stata questa intuizione profonda, come di un’alluvione che sommergesse le cose, moralmente parlando, a che cosa abbiamo assistito? A questo movimento: prendere la scala e andare al piano di sopra. Sempre! – Secolo III – Quando la infiltrazione dei culti orfici e misteriosofici dell’Asia aveva portato all’ultima decantazione oscena il culto degli dei nell’area greca e soprattutto in Egitto, davanti a questa alluvione di miseria infernale, uomini a torme immense sono fuggiti e sono andati a contemplare il cielo nel deserto. E così sono nate le laure: il deserto della Tebaide accolse fino a 3000 monaci. – Quando caduto l’Impero parve oscurarsi il mondo, e tutto stemperare i propri colori nell’acquosità ormai oscura del crepuscolo, allora esplose il fatto del monachismo nella Chiesa. E il mondo fu per secoli, di fatto, retto da monaci. Era la Chiesa, certo, ma il più grande strumento che ebbe la Chiesa, allora, furono i monaci. La vera prima capitale d’Europa, dal punto di vista politico, si chiama Cluny. Gli uomini un’altra volta presero la scala e andarono al piano di sopra. Questa è una interpretazione di tutta la grande epoca, anzi epopea monastica. E noi ora, che cosa stiamo a fare? – Ho veduto oggi una cosa che mi ha divertito immensamente. Passavo in treno accanto alla stazione di Arezzo e ho indovinato che al di là della stazione doveva esserci un campo da gioco, piuttosto miseretto. Non lo vedevo: indovinavo le ultime scalee. E questo era spettacolo comune. Ma l’altro spettacolo era questo: accanto c’era un viale, con alberi mezzo stecchiti dal fumo della stazione, miseri, spogli di foglie, ed erano tutti addobbati di uomini saliti lassù per guardare la partita. Da quanto tempo quegli uomini erano lassù? Quanto vi sarebbero rimasti? Io li guardavo, e poi pensavo che poco più in alto c’era un pinnacolo ardito, quello della cattedrale di Arezzo, e mi chiedevo se mai a quell’ora ci fosse una folla a cantare il Vespro. Probabilmente no. – Che cosa stiamo a fare? Tutte le cose così, ridotte a un circo, all’imitazione dei clown. Tutte le cose così, appese a degli alberi spogli, nel freddo già invernale, nel pizzicore del vento gelido che scendeva dalle vette nevose di Pratomagno, del Casentino, del Monte Falterona laggiù in fondo. Bisogna prendere la scala e andare al piano di sopra: nostra conversatio in cœlis est. Allora la vita è un’ altra cosa, e può essere anche una cosa piacevole, meravigliosa, non dimenticando mai che può essere bella e meravigliosa anche quando è al colmo della sofferenza. Gesù Cristo in croce fu, come uomo, al colmo della sofferenza e al colmo del gaudio, perché aveva la visione beatifica: uno dei grandi misteri dell’Incarnazione. Ma la stessa cosa, fatte le dovute proporzioni, può accadere anche a noi. È una bella cosa vivere in terra, ma di lassù si ha una prospettiva diversa. – Che cosa è la tristezza? È quella cosa che documenta agli uomini che la loro conversatio non è in cœlis. La noia: è la stessa cosa. I dubbi, le incertezze, il fastidio, la stanchezza morale sono gli elementi che nel pellegrinare terreno documentano agli uomini, perché lo capiscano, che la loro conversatio non è in cœlis. – I santi Angeli, quelli che la vostra mente trova allorché pensa lassù, in cielo, accompagnino il vostro primo sonno di questi SS. Esercizi e vi facciano intendere qualche cosa delle celesti melodie, perché possiate sapere che è dato a noi, vivendo quaggiù, di stare già lassù, con vantaggio infinito del merito nostro e dei nostri fratelli. Lo immaginate come sono gli occhi di un uomo la cui conversazione è in cielo? Qual è la serenità, la letizia, anche nella prova e nei giorni bui, di una creatura la cui conversazione è in cielo? Forse e senza forse ne conoscerete. Che cosa irradiano intorno a sé queste creature? Dove passano, avvengono cose di cui non si accorgono, ma avvengono. Che cosa sarà il vostro apostolato domani, se conversatio vestra in cœlis erit? È bello pensarlo, ma abbiamo cinque giorni per volerlo.

14 GENNAIO: SANT’ILARIO CI PROTEGGA DALLA CLOACA MODERNISTA DEL NOVUS ORDO E DAGLI PSEUDOTRADIZIONALISTI!!!

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14 GENNAIO

SANT’ILARIO, VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA

[Dom Guéranger: L’Anno Liturgico, vol. I, Ed. Paoline, 1957 – imprim.-]

Dopo aver consacrato alla gloria dell’Emmanuele manifestato alla terra l’Ottava dell’Epifania, sempre intenta al divino Bambino e alla Madre sua, fino al giorno in cui Maria porterà fra le braccia il frutto benedetto del suo seno al Tempio, dove deve essere offerto, la santa Chiesa celebra numerosi amici di Dio che ci segnano dal cielo la via che conduce dai gaudi della Natività al mistero della Purificazione. Innanzitutto, ecco fin dall’indomani del giorno consacrato alla memoria del Battesimo di Cristo, Ilario, onore della Chiesa delle Gallie, fratello di Atanasio e di Eusebio di Vercelli nelle lotte che sostenne per la divinità dell’Emmanuele. Le persecuzioni sanguinose del paganesimo sono appena finite che comincia l’Arianesimo. Questo aveva giurato di sottrarre a Cristo – vincitore con i suoi martiri della violenza e della politica dei Cesari – la gloria e gli onori della divinità. La Chiesa non venne meno su questo nuovo campo di battaglia; numerosi Martiri sigillarono ancora con il proprio sangue, versato da principi ormai Cristiani ma eretici, la divinità di Colui che si è degnato di apparire nella debolezza della carne. Ma a fianco di questi coraggiosi atleti brillarono, anch’essi martiri di desiderio, grandi Dottori che rivendicarono, con la dottrina e l’eloquenza, la fede di Nicea che era stata quella degli Apostoli. In primo piano appare Ilario, elevato – come dice san Girolamo – sul coturno gallico e ornato dei fiori della Grecia, il Rodano dell’eloquenza latina e l’insigne Dottore delle Chiese – secondo S. Agostino. Sublime per il genio, profondo nella dottrina, Ilario è ancora più grande nell’amore per il Verbo incarnato e nello zelo per la libertà della Chiesa; sempre divorato dalla sete del martirio, sempre invitto in quell’epoca in cui la fede, vittoriosa sui tiranni, sembrò un giorno sul punto di spirare, per l’astuzia dei principi e per la vile diserzione di tanti pastori.

Vita. – Sant’Ilario nacque in Aquitania fra il 310 e il 320. Unitosi prima in matrimonio, fu quindi elevato alla sede di Poitiers nel 353. A quell’epoca, l’imperatore Costanzo perseguitava i Cattolici. Ilario si oppose con tutte le sue forze all’eresia ariana, ciò che gli meritò, nel 356, di essere esiliato in Frigia. È qui che scrisse i suoi dodici libri sulla Trinità. Nel 360 si trova a Costantinopoli dove chiede all’imperatore il permesso di discutere intorno alla fede con gli eretici. Questi ultimi, per sbarazzarsene, lo fanno rimandare a Poitiers. Nel 361 per opera sua tutta la Gallia, nel Concilio nazionale di Parigi, condanna l’empietà ariana. Muore nel 368. Pio IX lo dichiarò Dottore della Chiesa il 29 marzo 1851.

La lotta per la libertà della Chiesa.

Così ha meritato di essere glorificato il santo Vescovo Ilario, per aver custodito con la sua opera coraggiosa, fino a rischiare la vita, la fede nel principale dei misteri. Un’altra gloria che Dio gli ha concessa è quella di aver messo in luce il grande principio della Libertà della Chiesa, principio senza il quale la Sposa di Gesù Cristo è minacciata di perdere insieme la fecondità e la vita. Poco fa abbiamo onorato la memoria del santo Martire di Cantorbery; oggi celebriamo la festa di uno dei più illustri Confessori il cui esempio lo illuminò e lo incoraggiò nella lotta. L’uno e l’altro si ispiravano alle lezioni che avevano impartite ai ministri di Cristo gli stessi Apostoli, quando comparvero per la prima volta davanti ai tribunali di questo mondo e pronunciarono la profonda massima che è  meglio obbedire a Dio che agli uomini (Atti V, 29). Ma gli uni e gli altri erano così forti contro la carne e il sangue solo perché erano distaccati dai beni terreni e avevano compreso che la vera ricchezza del Cristiano e del Vescovo risiede nell’umiltà e nella nudità della mangiatoia, come la sola forza vittoriosa nella semplicità e nella debolezza del Bambino che ci è nato. Avevano gustato le lezioni della scuola di Betlemme, e appunto per questo nessuna promessa di onori, di ricchezze e persino di pace poté sedurli. Con quanta dignità questa nuova famiglia di eroi di Cristo sorge in seno alla Chiesa! Se la politica dei tiranni, che vogliono apparire Cristiani malgrado il Cristianesimo, rifiuta ad essi ostinatamente la gloria del martirio, con quale voce vibrante non proclamano la libertà dovuta all’Emmanuele e ai suoi ministri! Innanzitutto, sanno dire ai principi, come il nostro grande Vescovo di Poitiers nel suo primo Memoriale a Costanza: « Glorioso Augusto, la tua singolare sapienza comprende che non è giusto, non è possibile costringere con la violenza uomini che si rifiutano, con tutte le loro forze, di sottomettersi e di unirsi a coloro che non cessano di spargere i semi corrotti d’una dottrina adultera. L’unico scopo delle tue fatiche, e dei tuoi disegni, del tuo governo e delle tue veglie deve essere di far godere le dolcezze della libertà a tutti quelli che comandi. Non c’è altro modo di sedare i tumulti, e di riunire ciò che era stato violentemente diviso, fuorché rendere ciascuno esente dalla servitù e padrone della propria vita. Lascia dunque giungere alle orecchie della tua mansuetudine tutte le voci che gridano: io sono Cattolico e non voglio essere eretico; sono Cristiano, e non sono ariano: preferisco morire in questo mondo piuttosto che lasciar corrompere dal dominio d’un uomo la purezza immacolata della verità » (P. L. X, c. 557-558).

Supremazia della legge divina.

E quando si faceva risuonare agli orecchi d’Ilario il nome profanato della Legge per giustificare il tradimento di cui era oggetto la Chiesa da parte di coloro che preferivano le buone grazie di Cesare al servizio di Gesù Cristo, il santo Vescovo, nel suo Libro contro Ausenzio, richiamava coraggiosamente ai suoi colleghi l’origine della Chiesa, la quale ha potuto stabilirsi solo contro le leggi umane, e si gloria di infrangere tutte quelle che ostacolano la sua conservazione, i suoi sviluppi e la sua azione. – « Quale pietà ci ispirano tutte le brighe del nostro tempo, e come dobbiamo piangere considerando le folli opinioni di questo secolo, quando si incontrano uomini i quali pensano che le cose umane possano proteggere Dio e che cercano di difendere la Chiesa mediante l’ambizione secolare! Io chiedo a voi, o Vescovi: di quale appoggio si sono valsi gli Apostoli nella diffusione del Vangelo? Quali sono le potenze che li hanno aiutati a predicare il Cristo, a far passare quasi tutte le nazioni dal culto degli idoli a quello di Dio? Ottenevano forse qualche dignità dalla corte essi che cantavano inni a Dio nelle prigioni, stretti in catene, e dilaniati dai flagelli? Era forse con gli editti del principe che Paolo radunava la Chiesa di Cristo? Certo, agiva sotto il patrocinio d’un Nerone, d’un Vespasiano o d’un Decio, di principi il cui odio ha fatto fiorire la predicazione divina! Erano Apostoli che vivevano con il lavoro delle proprie mani, che tenevano le loro assemblee in luoghi segreti, che percorrevano i villaggi, le città e le nazioni, per terra e per mare, a dispetto dei Senaticonsulti e degli Editti reali, e perciò non potevano aver le chiavi del Regno dei Cieli! E poi, non era certo la virtù di Dio che trionfava sulle passioni umane in quei tempi in cui la predicazione del Cristo si diffondeva in proporzione delle proibizioni a cui era soggetta! » (P. L. X, c. 610-611).

La persecuzione senza il martirio.

Ma quando è giunto il momento di rivolgersi all’Imperatore stesso e di protestare apertamente contro l’asservimento della Chiesa, Ilario, il più dolce degli uomini, si riveste di quella divina indignazione di cui Cristo stesso parve animato contro i violatori del Tempio, e il suo zelo apostolico sfida tutti i pericoli per segnalare gli errori del sistema che Costanzo ha inventato per soffocare la Chiesa di Cristo dopo averla inaridita. « È giunto il tempo di parlare, perché è finito il tempo di tacere. Bisogna che aspettiamo il Cristo, poiché è cominciato il regno dell’Anticristo. Che i pastori diano l’allarme, poiché i mercenari hanno preso la fuga. Diamo la vita per le nostre pecore, poiché sono entrati i ladri e il leone furioso gira intorno a noi. Andiamo incontro al martirio, poiché l’angelo di satana è trasformato in angelo di luce. » Perché, o Dio onnipotente, non mi hai fatto nascere e compiere il mio ministero al tempo di Nerone o di Decio? Pieno del fuoco dello Spirito Santo, non avrei avuto timore dei supplizi, al ricordo di Isaia segato in due, e non mi avrebbe spaventato il fuoco al pensiero dei Fanciulli Ebrei che cantavano in mezzo alle fiamme; né mi avrebbero fatto paura la croce e le torture, ricordando il ladrone trasportato in paradiso dopo tale supplizio; non avrebbero indebolito il mio coraggio gli abissi del mare o il furore delle onde, perché l’esempio di Giona e di Paolo mi avrebbero insegnato che i tuoi fedeli possono vivere anche sotto i flutti. » Contro i tuoi nemici accaniti, avrei combattuto volentieri, perché non avrei avuto alcun dubbio che fossero veri persecutori quelli che mi avessero voluto costringere, con i supplizi, con il ferro ed il fuoco, a rinnegare il tuo Nome; per renderti testimonianza, sarebbe bastata solo la nostra morte. Avremmo combattuto apertamente e fiduciosamente contro coloro che ti rinnegano, contro i carnefici e i giustizieri, e i nostri popoli, venutine a conoscenza per il clamore della persecuzione, ci avrebbero seguiti come loro capi nel sacrificio che ti rende testimonianza. » Ma oggi dobbiamo combattere contro un persecutore mascherato, contro un nemico che ci lusinga, contro l’Anticristo Costanzo che ha per noi non colpi mortali ma carezze, che non proscrive le sue vittime per dare loro la vera vita, ma le colma di carezze per dar loro la morte, che non dà la libertà delle prigioni oscure, ma una servitù di onori nei propri palazzi, che non lacera i fianchi, ma invade i cuori, che non stacca la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro, che non pubblica editti per condannare al fuoco, ma accende per ciascuno il fuoco dell’inferno. Non discute, per timore di essere sconfitto, ma lusinga per dominare, confessa Cristo per rinnegarlo, procura una falsa unità perché non vi sia affatto la pace, infierisce contro alcuni errori per meglio distruggere la dottrina di Cristo, onora i Vescovi, perché cessino di essere Vescovi, costruisce chiese, mentre va distruggendo la fede. » Si finisca di accusarmi di maldicenza e di calunnia; il dovere dei ministri della verità è di dire soltanto cose vere. Se diciamo cose false, siano le nostre parole ritenute infami; ma se facciamo vedere che tutto ciò che diciamo è manifesto, non abbiamo oltrepassato la libertà e la modestia degli Apostoli, noi che accusiamo solo dopo lungo silenzio. » Io dico ad alta voce, o Costanzo, quanto avrei detto a Nerone e quanto avrebbero inteso dalla mia bocca Decio e Massimiano; tu combatti contro Dio, infierisci contro la Chiesa, perseguiti i santi, odi i predicatori di Cristo e distruggi la religione; sei un tiranno, se non nelle cose umane, almeno nelle cose divine. Ecco quanto avrei detto a te e ad essi. Ora, ascolta quanto fa solo per te. Sotto la maschera di Cristiano, tu sei un nuovo nemico di Cristo; precursore dell’Anticristo, tu metti già in opera i suoi odiosi misteri. Vivendo contro la fede, ti ingerisci per dettare formule; distribuisci i vescovadi alle tue creature e sostituisci i buoni con i cattivi. Per un nuovo trionfo della politica, trovi il modo di essere persecutore senza fare dei martiri. » Quanto fummo più debitori alla vostra crudeltà, o Nerone, Decio e Massimiano! Con voi abbiamo vinto il diavolo. La pietà ha raccolto in ogni luogo il sangue dei martiri, e le loro ossa venerate rendono testimonianza da ogni parte. Ma tu, più crudele di tutti i tiranni, ci attacchi con molto maggior pericolo, e ci lasci minor speranza di perdono. A coloro che avessero avuto la disgrazia di esser deboli, non rimane nemmeno la scusa di poter mostrare all’eterno Giudice il segno delle torture e le cicatrici dei loro corpi lacerati, per farsi perdonare la debolezza in considerazione della necessità. Come il più scellerato degli uomini, tu temperi i mali della persecuzione in modo tale che togli l’indulgenza alla colpa e il martirio alla confessione. » Noi ti riconosciamo sotto le tue vesti di agnello, o lupo rapace! Con l’oro dello Stato decori il santuario di Dio, e gli offri quanto sottrai ai templi dei Gentili e quanto estorci con i tuoi editti e le tue esazioni. Ricevi i Vescovi con lo stesso bacio con il quale fu tradito Cristo. Chini il capo alla benedizione, e calpesti la fede; esenti dalle imposte i chierici per farne dei Cristiani rinnegati e rinunci ai tuoi diritti con lo scopo di far perdere a Dio i suoi » (Libro contro Costanzo, P. L. X, c. 577-587).

Lotta contro il Naturalismo.

Ecco il coraggio del santo Vescovo di fronte ad un principe il quale finì per fare dei martiri. Ma Ilario non ebbe solo da lottare contro Cesare. In tutti i tempi la Chiesa ha avuto nel suo seno dei mezzi fedeli che l’educazione, un certo benessere e qualche prestigio di grandezza e di talento trattengono fra i cattolici, ma che lo spirito del mondo ha pervertiti. Essi si sono fatta una Chiesa umana, poiché, avendo il naturalismo falsato il loro spirito, sono divenuti incapaci di cogliere l’essenza soprannaturale della vera Chiesa. Abituati ai mutamenti della politica e agli abili raggiri con i quali gli uomini di Stato giungono a mantenere un effimero equilibrio attraverso le crisi, sembra loro che la Chiesa, anche nella proclamazione dei dogmi, debba tener conto dei suoi nemici, che potrebbe ingannarsi sull’opportunità delle sue risoluzioni e che in una parola la sua precipitazione può attirare su di essa e su quelli che comprometterà con sé, un funesto svantaggio. Alberi sradicati, dice un Apostolo, poiché infatti le loro radici non affondano più nel suolo che li avrebbe nutriti e resi fecondi. Le promesse formali di Gesù Cristo, l’immediata assistenza dello Spirito Santo sulla Chiesa e l’aspirazione del vero fedele a sentir proclamare nella sua pienezza la verità che nutre la fede nell’attesa della visione, e la sottomissione passiva dovuta previamente ad ogni definizione che emana ed emanerà dalla Chiesa sino alla fine del mondo: tutto ciò non appartiene per essi all’ordine pratico. Nell’ebbrezza della politica mondana e degli appoggi che essa procura loro da parte di quelli che odiano la Chiesa, si compromettono davanti a Dio e davanti alla storia con i disperati sforzi che ardiscono fare per arrestare la promulgazione della verità rivelata.

La pace nell’unità e nella verità.

Anche Ilario doveva incontrare sul suo cammino questi uomini atterriti dal consustanziale, come già altri si sono adirati per la transustanziazione e per l’infallibilità. Si oppose come un baluardo alle loro pusillanimità e ai loro volgari calcoli. Ascoltiamolo mentre è commentato dal più eloquente dei suoi successori : « E la pace? Mi dite. Non turberai forse la pace e l’unione? ». – « È un bel nome quello della pace ed è anche una bella cosa l’idea d’unità; ma chi ignora che, per la Chiesa e per il Vangelo non vi è altra unità e altra pace fuorché l’unità e la pace di Gesù Cristo? ». – « Ma, gli si obiettava ancora, non sai forse con chi ti misuri, e non hai paura ? ». – « Sì, veramente ho paura; ho paura dei pericoli che corre il mondo; ho paura della terribile responsabilità che graverebbe su di me per la connivenza e la complicità del mio silenzio. Ho paura infine del giudizio di Dio, ne ho paura per i miei fratelli usciti dalla via della verità e ne ho paura per me, che ho il dovere di guidarveli ». Si aggiungeva ancora: « Ma non vi sono delle reticenze lecite, degli adattamenti necessari? ». Ilario rispondeva che la Chiesa non ha affatto bisogno di essere istruita, e che non può dimenticare la sua missione essenziale. Ora, ecco quella missione: «Ministri della verità, spetta a noi dichiarare ciò che è vero. Ministros veritatis decet vera proferre » (Opere del Cardinal Pie, vescovo di Poitiers).

* * *

Tutto le parole di S. Ilario possono essere ancor più oggi essere applicate ai falsi vescovi e prelati modernisti, gli apostati del novus ordo e gli scismatici pseudotradizionalisti, tutti conniventi dei poteri kazaro-massonici con cui stanno mietendo anime a milioni, senza pietà e riguardi, in disprezzo della dottrina di Cristo e delle leggi della sua unica e vera Chiesa, la Chiesa Cattolica Romana. Altro che imperatore eretico, oggi abbiamo da fare con finti vescovi e marionette in talare di ogni colore, che si spacciano per pastori e sono lupi e leoni ruggenti in cerca di anime da divorare. Venga con la Santissima Vergine e San Michele Arcangelo,  Sant’Ilario a difenderci, ad urlare come un tempo: al fuoco, al fuoco, stanno uccidendo i nostri fratelli, stanno massacrando le anime di tanti uomini, donne, bambini, giovani e vecchi con la spada dell’eresia modernista, la cloaca di tutte le eresie, la fogna putrida che ha invaso i templi cristiani ed i sacri palazzi del mondo intero!!! [ndr. -].

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: TESTEM BENEVOLENTIÆ NOSTRÆ

Dopo la “Longinqua oceani”, il Santo Padre Leone XIII riprende il tema del cosiddetto “americanismo”, indirizzando questa nuova lettera al cardinale Gibbons di Baltimora, e tramite lui, a tutti i Vescovi statunitensi. Questa lettera è ai tempi nostri monito validissimo contro le novità e le “diversità dottrinali” [leggi eresie] dei nostri tempi, propagatesi come virus venefico, pestifero e mortale dopo i lavori del c. d. concilio Vaticano II, in realtà, come tutti sanno, un conciliabolo messo su dalla kazaro-massoneria ecclesiastica, per ribaltare la millenaria dottrina della Chiesa ed il Sacro Deposito della Fede, affidato alla sua Chiesa ed al suo Vicario in terra, dallo stesso Gesù-Cristo. Colpisce notare come gli argomenti, ancora oggi sbandierati dai novatori del “Novus ordo”, siano sempre i medesimi, tanto per cominciare l’argomento dello Spirito Santo che “spira dove vuole e su chi vuole”, secondo gli affabulatori modernisti, anche fuori dalla Chiesa di Cristo, l’unica vera, Santa, Cattolica ed Apostolica, e che spirerebbe anche su movimenti [leggi Rinnovamento nello spirito, … di satana evidentemente, o carismatici diversamente abili …] e sette apertamente eretiche, protestanti, blasfeme, sacrileghe. Sentiamo come il Sommo Pontefice stigmatizzi questa “… licenza che assai sovente si confonde con la libertà, la smania di parlare e sparlare d’ogni cosa, la facoltà di pensare ciò che si vuole e di manifestarlo con la stampa, portarono così profonde tenebre nelle menti, che, ora più che per l’innanzi, è utile e necessario un Magistero, per non andare contro la coscienza e contro il dovere-, ( …) Ma chi consideri la cosa più in profondità, tolta di mezzo ogni esterna direzione, non si scorge chiaramente a che debba servire, secondo la sentenza dei novatori, questo più ampio influsso dello Spirito Santo, che essi tanto esaltano”. A che cosa serve dunque la luce dello Spirito Santo se non ci si attiene rigorosamente ad un Magistero illuminante come quello della Chiesa? Allora non si tratta dello Spirito di verità che soffia su un’anima incamminata verso il percorso della Verità, bensì di uno “spiritello” falso e beffardo che in nome di una presunta libertà sganciata dalla verità, piomba nelle tenebre coloro che non hanno lo sguardo fisso sulla luce di Cristo, della verità evangelica eterna e sulla Sapienza del Magistero ecclesiastico, cioè là dove solo ha operato ed opera con assoluta certezza lo Spirito Santo, Spirito di Verità e di Salvezza. Lo Spirito Santo che è Persona trinitaria, non opera fuori dalla Chiesa del vero Dio, la seconda Persona incarnata e Redentrice che ci ha lasciato alla custodia del suo Vicario e dei suoi insegnamenti. Queste cose, ovvie e scontate per il Cattolico, sono oggi avversate dai novatori del “novus ordo”, come allora lo erano dagli americanisti spinti dai soliti kazaro-massoni della palladiana sinagoga di satana. Facciamo dunque nostre le osservazioni del Santo Padre Leone XIII, alla luce delle allucinanti iniziative ultramoderniste di spaventapasseri e ventriloqui in talare, mossi dal puparo luciferino delle logge e del gran kahal.

S. S. Leone XIII

 Testem benevolentiæ nostræ

Lettera apostolica al Cardinale James Gibbons di Batimora del 22 gennaio 1899

in cui si condanna l’“americanismo

Pegno di Nostra benevolenza inviare a te questa lettera, di quella benevolenza cioè, che, per il lungo corso del Nostro pontificato, mai non tralasciammo di professare a te e ai vescovi tuoi colleghi e a tutto il vostro popolo, prendendone volentieri occasione sia dai felici incrementi della chiesa cattolica in America, sia dalle cose utilmente e saggiamente da voi operate a tutela e accrescimento del cattolicesimo. Anzi più d’una volta Ci avvenne di ammirare e lodare l’indole egregia del vostro popolo, pronta ad ogni nobile impresa e al conseguimento di quanto giova al civile benessere e allo splendore della nazione. Benché poi questa Nostra lettera non abbia come scopo di rinnovare la lode, che già altre volte vi tributammo, ma piuttosto di additare alcuni punti da evitarsi e correggersi, nondimeno, poiché è dettata dalla stessa carità apostolica, con cui sempre vi amammo e più volte vi abbiamo parlato, a buon diritto Ci ripromettiamo che la riterrete quale nuovo argomento del Nostro amore; e tanto più lo speriamo, perché è fatta e destinata a togliere di mezzo talune contese, che, sorte di recente fra voi, turbano gli animi, se non di tutti, certamente però di molti, con danno non piccolo della pace. – Ti è ben noto, diletto figlio Nostro, che il libro intorno alla vita di Isacco-Tommaso Hecker, specialmente per opera di coloro che lo tradussero in altra lingua o lo commentarono, suscitò non poche controversie per talune opinioni espresse intorno al vivere cristiano. – Or Noi, volendo provvedere, per il supremo ufficio dell’apostolato, sia all’integrità della fede sia alla sicurezza dei fedeli, siamo venuti nella determinazione di scrivere a te diffusamente intorno a tutta questa materia. – II fondamento dunque delle nuove opinioni accennate a questo si può ridurre: perché coloro che dissentono possano più facilmente essere condotti alla dottrina cattolica, la Chiesa deve avvicinarsi maggiormente alla civiltà del mondo progredito, e, allentata l’antica severità, deve accondiscendere alle recenti teorie e alle esigenze dei popoli. E molti pensano che ciò debba intendersi, non solo della disciplina del vivere, ma anche delle dottrine che costituiscono il “deposito della fede”. Pretendono perciò che sia opportuno, per accattivarsi gli animi dei dissidenti, che alcuni capitoli di dottrina, per così dire di minore importanza, vengano messi da parte o siano attenuati, così da non mantenere più il medesimo senso che la Chiesa ha tenuto costantemente per fermo. Ora, diletto figlio Nostro, per dimostrare con quale riprovevole intenzione ciò sia stato immaginato, non c’è bisogno di un lungo discorso; basta non dimenticare la natura e l’origine della dottrina, che la Chiesa insegna. Su questo punto così afferma il concilio Vaticano: “La dottrina della fede, che Dio rivelò, non fu, quasi un’invenzione di filosofi, proposta da perfezionare alla umana ragione, ma come un deposito divino fu data alla sposa di Cristo da custodire fedelmente e dichiarare infallibilmente… Quel senso dei sacri dogmi si deve sempre ritenere, che una volta dichiarò la Santa Madre Chiesa, ne mai da tal senso si dovrà recedere sotto colore e nome di più elevata intelligenza” (Cost. Dei Filius c. IV). – Né affatto scevro di colpa deve reputarsi il silenzio, con cui, a ragion veduta, si passano inosservati e quasi si pongono in dimenticanza alcuni princìpi della dottrina cattolica. Di tutte le verità, quante ne abbraccia l’insegnamento cattolico, uno solo e uno stesso è infatti l’autore e il maestro, “l’unigenito Figlio che è nel seno del Padre” (Gv 1,18). E che tali verità siano adatte a tutte le età e a tutte le genti, chiaramente si deduce dalle parole che lo stesso Cristo disse agli apostoli: “Andate e ammaestrate tutte le genti, insegnando loro ad osservare tutte le cose che Io vi ho prescritto; e io sono con voi tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli” (Mt 28,19-21). Perciò, il citato concilio Vaticano dice: “Con fede divina e cattolica sono da credersi tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata, e che dalla chiesa, sia con solenne giudizio sia con l’ordinario e universale magistero, sono proposte da credersi come rivelate da Dio” (Dei Filius c. III). – Non avvenga pertanto che qualche cosa si detragga dalla dottrina ricevuta da Dio, o per qualunque fine si trascuri; poiché chi così facesse, anziché ricondurre alla Chiesa i dissidenti, cercherà di strappare dalla Chiesa i Cattolici. Ritornino, poiché nulla meglio desideriamo, ritornino pur tutti, quanti vagano lungi dall’ovile di Cristo; ma non per altro sentiero se non per quello che lo stesso Cristo additò. – La disciplina poi del vivere, che si prescrive ai Cattolici, non è certamente tale da escludere qualsiasi mitigazione, secondo la diversità dei tempi e dei luoghi. Ha la Chiesa, comunicatale dal suo Autore, un’indole clemente e misericordiosa; perciò, fin dal suo nascere, adempì di buon grado ciò che l’Apostolo Paolo di sé professava: “Mi sono fatto tutto a tutti, al fine di salvare tutti” (1 Cor IX, 22). – Ed è testimone la storia di tutte le età passate che questa sede apostolica, a cui fu affidato non solo il magistero ma anche il supremo governo di tutta la Chiesa, rimase bensì costante “nello stesso dogma, secondo lo stesso senso e la stessa opinione” (Dei Filius c. IV), e fu sempre solita regolare il modo di vivere così che, salvo il diritto divino, non trascurò mai i costumi e le esigenze di tanta diversità di popoli, che essa abbraccia. – E, se la salvezza delle anime lo richiede, chi dubiterà che anche ora non farà altrettanto? Vero è che il decidere di questo non spetta all’arbitrio di singoli uomini, che per lo più sono tratti in inganno da un’apparenza di rettitudine; ma spetta alla Chiesa giudicarne; e al giudizio della Chiesa è necessario che si conformi chiunque non vuole incorrere nella riprensione di Pio VI Nostro predecessore, che qualificò la proposizione 78 del Sinodo di Pistola come “ingiuriosa alla chiesa e allo Spirito di Dio che la regge, in quanto sottopone ad esame la disciplina stabilita e approvata dalla Chiesa, quasi che la Chiesa possa stabilire una disciplina inutile e più gravosa di quello che comporti la libertà cristiana”. – Ma, diletto figlio Nostro, ciò che nella materia di cui parliamo presenta maggiore pericolo, ed è più avverso alla dottrina e alla Disciplina Cattolica, è il disegno, secondo cui gli amanti di novità pensano che debba introdursi nella Chiesa una tal quale libertà, per la quale, diminuita quasi la forza e la vigilanza dell’autorità, sia lecito ai fedeli abbandonarsi alquanto più al proprio arbitrio e alla propria iniziativa. E ciò affermano richiedersi sull’esempio di quella libertà, che, posta in voga di recente, forma quasi unicamente il diritto e la base della convivenza civile. – Della quale libertà Noi discorremmo assai diffusamente nella lettera che indirizzammo a tutti i vescovi riguardo alla costituzione degli stati, dove dimostrammo ancora qual divario corra fra la Chiesa, che esiste per diritto divino, e le altre società, che debbono la loro esistenza alla libera volontà degli uomini. – Sarà dunque ora più utile confutare una opinione, portata quasi come argomento, per porre in buona vista ai Cattolici l’anzidetta libertà. Si dice infatti non doversi più oggi preoccupare tanto del Magistero Infallibile del Papa, dopo il giudizio solenne che ne diede il concilio Vaticano; posto questo Magistero perciò al sicuro, si può lasciare ad ognuno più largo campo, sia nel pensare, sia nell’operare. Strano modo, a dire il vero, di ragionare: poiché se si vuole essere ragionevoli, e tirare una conclusione dal fatto del magistero infallibile della chiesa, tale conclusione dovrebbe essere quella di proporre di mai allontanarsi dallo stesso magistero, ma di affidarsi interamente ad esso per venire ammaestrati e guidati, e così poter più facilmente serbarsi immuni da qualsivoglia errore privato. Si aggiunga che coloro che così ragionano molto si allontanano dalla sapienza di Dio provvidente; la quale, se volle asserita con più solenne giudizio l’Autorità e il Magistero della Sede Apostolica, lo volle innanzitutto per difendere più efficacemente l’intelligenza dei Cattolici dai pericoli dei tempi presenti. – La licenza che assai sovente si confonde con la libertà, la smania di parlare e sparlare d’ogni cosa, la facoltà di pensare ciò che si vuole e di manifestarlo con la stampa, portarono così profonde tenebre nelle menti, che, ora più che per l’innanzi, è utile e necessario un Magistero, per non andare contro la coscienza e contro il dovere. – Non intendiamo Noi certamente ripudiare tutte le conquiste del genio dei nostri tempi; che anzi quanto di vero con lo studio, o di buono con l’operosità, si ottenne, Noi lo vediamo con piacere aggiungersi e accrescere il patrimonio della scienza e dilatare i confini della pubblica prosperità. Ma tutto questo, perché non venga privato di solida utilità, deve esistere e svilupparsi nel rispetto dell’Autorità e della sapienza della Chiesa. – Dobbiamo ora passare ad esaminare quelle che si possono chiamare come le conseguenze delle opinioni finora esposte. Se in queste, l’intenzione, come Noi crediamo, non è biasimevole, difficilmente invece le cose potranno sfuggire ad ogni sospetto. Innanzitutto, per coloro che vogliono tendere all’acquisto della perfezione cristiana, si rigetta, come superfluo anzi come poco utile, ogni esterno Magistero; lo Spirito Santo, dicono, ora, meglio che nei tempi passati, effonde larghi e copiosi i suoi carismi sulle anime dei fedeli, e con un certo misterioso impulso le ammaestra e le conduce, senza alcun intermediario. È certamente non lieve temerità voler definire la misura, con cui Dio si comunica agli uomini; ciò dipende unicamente dalla volontà di Lui, ed è Egli liberissimo dispensatore dei doni suoi. “Lo Spirito spira dove vuole” (Gv III, 8). “A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo” (Ef IV,7). – E chi poi ripercorrendo la storia degli Apostoli, la fede della Chiesa nascente, le battaglie e i tormenti dei martiri eroici, di quelle antiche età così feconde di uomini santissimi, chi oserà porre a confronto i tempi passati con i presenti e affermare che quelli sono stati meno favoriti dalle effusioni dello Spirito Santo? Ma, pur tacendo di ciò, nessuno dubita che lo Spirito Santo, con azione misteriosa, agisca nelle anime dei giusti e le stimoli con illuminazioni e impulsi; se così non fosse, vano sarebbe ogni aiuto e magistero esterno. “Se taluno afferma di poter corrispondere alla salutare, cioè evangelica predicazione, senza la luce dello Spirito Santo, il quale dà a tutti la soavità nel consentire e nel credere alla verità, costui è ingannato dallo spirito ereticale”. – Ma, lo sappiamo pure per esperienza, questi avvisi e impulsi dello Spirito Santo, il più delle volte, non si sentono senza un certo aiuto e una specie di preparazione del Magistero esterno. A questo riguardo dice s. Agostino; “Lo Spirito Santo coopera al frutto dei buoni alberi, esternamente irrigandoli e coltivandoli per mezzo di qualche intermediario, e internamente dando Lui stesso l’incremento”.
Appartiene ciò infatti a quella legge ordinaria, con la quale Dio provvidentissimo, come decretò di salvare comunemente gli uomini per mezzo degli uomini, così stabilì di non condurre ad un grado più alto di santità coloro, che da Lui vi sono chiamati, se non per mezzo degli uomini, “affinché, come dice il Crisostomo, l’insegnamento di Dio ci giunga mediante gli uomini”. Di ciò abbiamo un esempio illustre negli stessi inizi della Chiesa: quantunque Saulo, “spirante minacce e stragi” (At IX, 1), avesse udita la voce dello stesso Cristo e gli avesse domandato: “Signore, che vuoi che io faccia?”, fu mandato in Damasco ad Anania; “Entra nella città, e quivi ti sarà detto ciò che tu debba fare” (At IX, 6). – Si aggiunga, inoltre, che coloro i quali tendono a cose più perfette, per il fatto stesso che si pongono per una via ai più sconosciuta, sono più soggetti ad errore, e hanno perciò più bisogno degli altri di un maestro e di una guida. E questa regola di operare fu sempre in vigore nella Chiesa; questa dottrina tutti, senza eccezione, professarono quanti lungo il corso dei secoli fiorirono per sapienza e per santità; né alcuno può disconoscerla senza temerità e pericolo. – Ma chi consideri la cosa più in profondità, tolta di mezzo ogni esterna direzione, non si scorge chiaramente a che debba servire, secondo la sentenza dei novatori, questo più ampio influsso dello Spirito Santo, che essi tanto esaltano. In verità, se è necessario l’aiuto dello Spirito Santo, ciò è innanzitutto necessario nell’esercizio delle virtù; ma questi amanti di novità lodano oltre misura le virtù naturali, quasi che queste rispondano meglio ai costumi e alle esigenze dell’età presente, e più giovi il possederle, perché rendono l’uomo più disposto e più alacre all’operare. Veramente è cosa difficile ad intendersi, come uomini cristiani possano anteporre le virtù naturali alle soprannaturali, e attribuire alle prime maggior efficacia e fecondità! Ma, dunque, la natura, aiutata dalla grazia, diverrà più debole, che se fosse lasciata con le sole sue forze? Forse che gli uomini santissimi, che la chiesa onora e venera pubblicamente, si dimostrarono nell’ordine naturale deboli e inetti, per essersi distinti nelle cristiane virtù? Ma chi fra gli uomini (benché talora non manchino insigni atti di virtù naturale da ammirare) possiede veramente “l’abito” delle virtù naturali? Chi infatti, non prova in sé le passioni, e ben veementi? Per superare le quali, costantemente, come pure per osservare tutta intera la legge naturale, abbisogna l’uomo di un aiuto divino. E quegli stessi atti singolari, ai quali ora abbiamo accennato, spesso, se meglio si osservano, hanno piuttosto l’apparenza che non la realtà della virtù, Ma ammettiamo pure che siano atti virtuosi. Se non si vuole “correre invano”, e dimenticare la beatitudine eterna, a cui Dio per sua benignità ci destina, quale utilità presentano le virtù naturali, senza la ricchezza e la forza che ad esse dona la grazia divina? Bene dice s, Agostino: “Sono grandi sforzi, un correre velocissimo, ma fuori di strada”. Infatti, come, con l’aiuto della grazia, la natura umana, che per il peccato originale era caduta nel vizio e nella degradazione, viene risollevata e a nuova nobiltà innalzata e corroborata, così le virtù, che si esercitano non con le sole forze naturali, ma con il sussidio della stessa grazia, diventano feconde per la beatitudine eterna, e nello stesso tempo più forti e più costanti. – Con questa opinione circa le virtù naturali molto concorda l’altra, che classifica tutte le virtù cristiane in due classi, in “passive”, come dicono, e “attive”. E soggiungono, che le prime furono più convenienti nelle età trascorse, e le altre si confanno meglio nell’età presente. Di questa divisione delle virtù è troppo ovvio quale giudizio si debba dare; infatti una virtù veramente passiva non vi è, ne vi può essere. “Virtù, così san Tommaso, dice una certa perfezione di potenza, il fine poi della potenza è l’atto; e l’atto della virtù altro non è che il buon uso del libero arbitrio” (Summa teol. I-II n.1), concorrendovi senza dubbio la grazia divina, se l’atto della virtù è soprannaturale. – Per asserire poi che vi siano virtù cristiane più adatte ad alcuni tempi e altre ad altri, bisogna aver dimenticato le parole dell’apostolo; “Coloro che Dio ha preveduti, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29). Maestro ed esemplare di ogni santità è Cristo; su di Lui si devono modellare quanti desiderano entrare in cielo. Ora Cristo non muta col passare dei secoli; ma è “lo stesso ieri, e oggi e nei secoli” (Eb XIII,8), È perciò agli uomini di ogni età che si dirigono quelle parole; “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt XI,29); in ogni tempo Cristo ci si presenta “fatto obbediente fino alla morte” (Fil II, 8); e vale per ogni età l’affermazione dell’apostolo: “Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la loro carne con i vizi e le concupiscenze” (Gal V, 24). Piacesse a Dio che queste virtù fossero oggi praticate da molti, come le praticarono i santi uomini dei tempi passati! Quelli, con 1’umiltà, con l’obbedienza, con l’abnegazione di sé furono potenti in opere e in parole, con vantaggio sommo della religione e della società civile! – Da questo per così’ dire disprezzo delle virtù evangeliche, che a torto sono chiamate “passive”, era naturale che penetrasse, a poco a poco, negli animi anche il disprezzo della stessa vita religiosa, E che ciò sia comune nei fautori delle nuove opinioni, lo cogliamo da certe loro affermazioni intorno ai voti che vengono emessi negli Ordini Religiosi. Infatti essi dicono che questi voti si allontanano moltissimo dall’indole dell’età nostra, perché restringono i confini dell’umana libertà; e sono più adatti per gli animi deboli che per i forti; ne molto giovano alla cristiana perfezione e al bene della società umana: anzi ad entrambi si oppongono e sono d’impedimento. Ma quanto di falso vi sia in tali affermazioni, si deduce dalla pratica e dalla dottrina della chiesa, che sempre altamente approvò la vita religiosa. Né senza ragione; poiché coloro che, chiamati da Dio, abbracciano spontaneamente tale vita, perché non sono paghi dei comuni obblighi dei precetti, e perciò si legano ai consigli evangelici, si dimostrano soldati strenui e generosi dell’esercito di Cristo. Ora questo si dirà che sia da animi fiacchi? O inutile? O dannoso alla perfezione della vita? Coloro, che in tal modo si legano con la santità dei voti, sono tanto lungi dal perdere la propria libertà, che anzi ne godono una assai più piena e più nobile, quella cioè “con cui Cristo ci ha liberati” (Gal IV, 31). – Ciò che poi si aggiunge, che la vita religiosa è poco o nulla giovevole alla Chiesa, oltre che essere un’affermazione ingiuriosa agli ordini religiosi, non può essere condivisa da quelli, i quali hanno conoscenza della storia della Chiesa. Le stesse vostre città confederate non ricevettero forse dai membri delle famiglie religiose i princìpi della fede e della civiltà? Ad uno di questi religiosi, con atto lodevole, voi stessi testé decretaste che fosse pubblicamente innalzata una statua. E ora, nei tempi in cui siamo, come alacre e fruttuosa prestano la loro opera al Cattolicesimo i Religiosi, dovunque essi sono! Tanti di loro vanno a portare l’Evangelo in nuove terre e ad estendere i confini della civiltà; e ciò con sommo ardore di volontà e fra grandissimi pericoli! Tra essi, non meno che tra il rimanente Clero, il popolo cristiano ha i banditori della divina parola e i moderatori delle coscienze; la gioventù ha gli educatori, la Chiesa, infine, esempi di ogni santità. Questa lode va tanto ai Religiosi di vita attiva quanto a coloro che, amanti di solitudine, attendono alla preghiera e alla penitenza. Quanto questi altresì abbiano meritato e meritino egregiamente dalla società umana, ben lo sanno coloro che non ignorano quel che valga a placare e a conciliare Dio “la preghiera assidua del giusto” (Gc V, 16), quella specialmente che è congiunta con la mortificazione corporale. – Se vi sono di quelli che preferiscono unirsi in società senza vincolo di voti, lo facciano pure, secondo che loro aggrada; un tale istituto di vita non è nuovo nella Chiesa, né riprovevole. Si guardino però dall’anteporlo agli Ordini Religiosi; che anzi, essendo ora gli uomini più che per il passato proclivi al godimento, assai maggiore stima è dovuta a quelli che “abbandonando tutto, hanno seguito Cristo” (cf. Lc V, 11). – Da ultimo, per non dilungarci troppo, perfino il modo e il metodo, che fino ad ora adoperarono i Cattolici per richiamare i dissidenti, pretendono che debba abbandonarsi e usarne quindi innanzi un altro. Nel che, diletto figlio Nostro, basterà che avvertiamo, che non è saggio disprezzare ciò che l’antichità con lunga esperienza approvò, seguendo pure gli apostolici insegnamenti, Dalle Scritture abbiamo (cf. Eccli XVI, 4), esser dovere di tutti l’adoperarsi per la salute dei prossimi, secondo l’ordine però e il grado che ciascuno ottiene. I fedeli del laicato molto utilmente adempiranno quest’obbligo imposto da Dio con l’integrità dei costumi, con le opere di cristiana carità, con la fervida e costante preghiera al Signore. – Coloro però che appartengono al clero devono adempierlo con la sapiente predicazione dell’evangelo, con la gravita e splendore delle sacre cerimonie, e soprattutto incarnando in sé medesimi gli insegnamenti, che l’Apostolo diede a Tito e a Timoteo, Che se fra le diverse forme di predicazione, sembri talora da preferirsi quella in cui si parli ai dissidenti, non già nei sacri templi, ma in un qualunque privato decente luogo, né a maniera di disputa ma di familiare colloquio, non è da riprendere siffatto metodo; purché però a tale officio di ragionare siano dall’autorità dei Vescovi destinati quei soli, dalla cui scienza e integrità abbiano già per innanzi fatto esperimento. Infatti siamo dell’avviso che moltissimi presso di voi dissentono dai cattolici più per ignoranza che per proposito di volontà; e questi più agevolmente forse si ricondurranno all’unico ovile di Cristo, se si proponga loro la verità con discorso amichevole e familiare. – Da quanto dunque finora abbiamo esposto appare chiaro, diletto Figlio Nostro, che Noi non possiamo approvare le opinioni, il cui complesso alcuni chiamano col nome di “americanismo”. Con tale nome se si vogliono significare le doti speciali d’animo, che, come ogni nazione le proprie, ornano i popoli americani; ovvero lo stato delle vostre città, le leggi e i costumi di cui usate; non v’è ragione perché stimiamo di rigettarlo. Ma se tal nome si debba adoperare, non solo per indicare, ma anche per coonestare le dottrine sopra esposte, qual dubbio v’è che i venerabili Nostri fratelli Vescovi dell’America saranno essi i primi a ripudiarlo e condannarlo come altamente ingiurioso a loro e a tutta la loro nazione? Sarebbe davvero quello sospettare esservi presso voi chi si immagini e voglia una chiesa in America, diversa da quella che abbraccia tutti gli altri Paesi. Una, per unità di dottrina come per unità di regime, è la Chiesa, e questa è Cattolica: il cui centro e fondamento avendo Dio stabilito nella cattedra del beato Pietro, a buon diritto ha il titolo di romana, infatti “dove è Pietro ivi è la Chiesa”. Perciò chiunque voglia essere ritenuto Cattolico, deve con sincerità ripetere le parole di Girolamo al papa Damaso; “Io nessun altro seguendo come capo se non Cristo, mi unisco alla tua beatitudine, cioè alla Cattedra di Pietro; su quella pietra so che è edificata la Chiesa; chi non raccoglie con te, dissipa”. – Queste cose, diletto figlio Nostro, che, con lettera personale, in ragione del nostro ufficio a te scriviamo, comunicheremo altresì a tutti gli altri Vescovi degli Stati Uniti; attestando nuovamente l’affetto con cui abbracciamo tutto il vostro popolo; il quale, come nei tempi andati molte cose operò per la religione, così promette di compierne ancor maggiori per l’avvenire, aiutandolo felicemente Iddio. – A te poi e a tutti i fedeli d’America, auspice delle grazie divine, impartiamo con grande affetto l’apostolica benedizione,

Roma, presso S. Pietro, 22 gennaio 1899, anno XXI del nostro pontificato.

 

DOMENICA DOPO L’EPIFANIA

Domenica dopo l’Epifania (2019)

Sanctæ Familiæ Jesu Mariæ Joseph

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Prov XXIII: 24; 25
Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te.

[Esulti di gàudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato].
Ps LXXXIII: 2-3
Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit et déficit ánima mea in átria Dómini.

[Quanto sono amabili i tuoi tabernacoli, o Signore degli eserciti: anela e si strugge l’ànima mia nella casa del Signore].

Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te. [Esulti di gàudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato].

Oratio
Orémus.
Dómine Jesu Christe, qui, Maríæ et Joseph súbditus, domésticam vitam ineffabílibus virtútibus consecrásti: fac nos, utriúsque auxílio, Famíliæ sanctæ tuæ exémplis ínstrui; et consórtium cónsequi sempitérnum: [O Signore Gesú Cristo, che stando sottomesso a Maria e Giuseppe, consacrasti la vita domestica con ineffabili virtú, fa che con il loro aiuto siamo ammaestrati dagli esempii della tua santa Famiglia, e possiamo conseguirne il consorzio eterno].

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col. III: 12-17
Fratres: Indúite vos sicut elécti Dei, sancti et dilécti, víscera misericórdiæ, benignitátem, humilitátem, modéstiam, patiéntiam: supportántes ínvicem, et donántes vobismetípsis, si quis advérsus áliquem habet querélam: sicut et Dóminus donávit vobis, ita et vos. Super ómnia autem hæc caritátem habéte, quod est vínculum perfectiónis: et pax Christi exsúltet in córdibus vestris, in qua et vocáti estis in uno córpore: et grati estóte. Verbum Christi hábitet in vobis abundánter, in omni sapiéntia, docéntes et commonéntes vosmetípsos psalmis, hymnis et cánticis spirituálibus, in grátia cantántes in córdibus vestris Deo. Omne, quodcúmque fácitis in verbo aut in ópere, ómnia in nómine Dómini Jesu Christi, grátias agéntes Deo et Patri per ipsum.
[Fratelli: Come eletti di Dio, santi e amati, rivestitevi di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza e di pazienza, sopportandovi e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno ha da dolersi di un altro: come il Signore vi ha perdonato, così anche voi. Ma al di sopra di tutto questo rivestitevi della carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché siete stati chiamati a questa pace come un solo corpo: siate riconoscenti. La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente, istruitevi e avvisatevi gli uni gli altri con ogni sapienza, e, ispirati dalla grazia, levate canti a Dio nei vostri cuori con salmi, inni e cantici spirituali. E qualsiasi cosa facciate in parole e in opere, fate tutto nel nome del Signore Gesú Cristo, rendendo grazie a Dio Padre per mezzo di Lui].

Graduale
Ps XXVI: 4
Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ.
Ps 83:5. Una sola cosa ho chiesto e richiederò al Signore: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita.

Alleluja
Beáti, qui hábitant in domo tua, Dómine: in sǽcula sæculórum laudábunt te. Allelúja, allelúja, [Beati quelli che àbitano nella tua casa, o Signore, essi possono lodarti nei secoli dei secoli. Allelúia, allelúia]
Isa XLV: 15
Vere tu es Rex abscónditus, Deus Israël Salvátor. Allelúja. [Tu sei davvero un Re nascosto, o Dio d’Israele, Salvatore. Allelúia].

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc II: 42-52
Cum factus esset Jesus annórum duódecim, ascendéntibus illis Jerosólymam secúndum consuetúdinem diéi festi, consummatísque diébus, cum redírent, remánsit puer Jesus in Jerúsalem, et non cognovérunt paréntes ejus. Existimántes autem illum esse in comitátu, venérunt iter diéi, et requirébant eum inter cognátos et notos. Et non inveniéntes, regréssi sunt in Jerúsalem, requiréntes eum. Et factum est, post tríduum invenérunt illum in templo sedéntem in médio doctórum, audiéntem illos et interrogántem eos. Stupébant autem omnes, qui eum audiébant, super prudéntia et respónsis ejus. Et vidéntes admiráti sunt. Et dixit Mater ejus ad illum: Fili, quid fecísti nobis sic? Ecce, pater tuus et ego doléntes quærebámus te. Et ait ad illos: Quid est, quod me quærebátis? Nesciebátis, quia in his, quæ Patris mei sunt, opórtet me esse? Et ipsi non intellexérunt verbum, quod locútus est ad eos. Et descéndit cum eis, et venit Názareth: et erat súbditus illis. Et Mater ejus conservábat ómnia verba hæc in corde suo. Et Jesus proficiébat sapiéntia et ætáte et grátia apud Deum et hómines.

[Quando Gesù raggiunse i dodici anni, essendo essi saliti a Gerusalemme, secondo l’usanza di quella solennità, e, passati quei giorni, se ne ritornarono, il fanciullo Gesú rimase a Gerusalemme, né i suoi genitori se ne avvidero. Ora, pensando che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di cammino, dopo di che lo cercarono tra i parenti e i conoscenti. Ma non avendolo trovato, tornarono a cercarlo a Gerusalemme. E avvenne che dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio, mentre sedeva in mezzo ai Dottori, e li ascoltava e li interrogava, e tutti gli astanti stupivano della sua sapienza e delle sue risposte. E, vistolo, ne fecero le meraviglie. E sua madre gli disse: Figlio perché ci ha fatto questo? Ecco che tuo padre ed io, addolorati, ti cercavamo. E rispose loro: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi di quel che spetta al Padre mio? Ed essi non compresero ciò che aveva loro detto. E se ne andò con loro e ritornò a Nazareth, e stava soggetto ad essi. Però sua madre serbava in cuor suo tutte queste cose. E Gesú cresceva in sapienza, in statura e in grazia innanzi a Dio e agli uomini].

OMELIA

 [A. Carmagnola: Stelle Fulgide, S. E. I. Editrice, Torino, 1904]

DISCORSO III.

(Detto nella Chiesa della Maddalena in Genova).

La Sacra Famiglia;

(Domenica dopo Epifania).

“Et descendit cum eis, et venit Nazareth, et erat subtitus illis”.

(Luc. II, 51).

Famiglia! E chi è mai, che a questo nome non si senta intenerire il cuore? Dopo la Religione, la famiglia è quanto vi ha di più bello, di più caro, di più dolce, di più attraente sulla terra. Iddio, che sebbene uno nella essenza, per essere trino nelle persone costituisce in cielo la famiglia più perfetta, ha voluto nel suo amore per noi riprodurla quaggiù sulla terra. Epperò dopo aver creato il cielo e la terra con tutte le meraviglie che l’adornano, dopo aver compiuto il capolavoro della creazione, l’uomo, volle coronare l’opera sua creando la famiglia. Egli mandava un dolce sonno ad Adamo, e mentre questi dormiva gli traeva dal fianco la donna facendogliene un aiuto simile a lui, e dopo d’avergliela condotta innanzi benediceva all’uno e all’altro dicendo: Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra: Crescite et multiplicamini, et replete terram (Gen. I, 28). – Ed è lì, nella famiglia creata e benedetta da Dio, che due cuori vivono dolcemente incatenati fra di loro, dividendo le gioie e le sofferenze, le fatiche ed i riposi, gli abbattimenti ed i conforti, le pene e le consolazioni. È lì, che lo sposo pur essendo superiore alla sposa, non fa altro tuttavia che riguardarla come dolce consorte; ed è lì, dove la donna forte, saggia, operosa, prudente, sommessa, affettuosa riempie di gioia il cuore del marito e raddoppia il numero dei suoi anni. È lì ancora dove un padre ed una madre vedendo i loro figliuoli, come novelli virgulti di olivo circondare la loro mensa, posano sopra di essi le più belle speranze, e in essi si allietano delle più pure consolazioni; ed è lì alla loro volta, dove i figliuoli stando umilmente soggetti al padre ed alla madre vivono beati nell’amore così intenso e così sicuro dei loro genitori! No, non vi ha pace, non vi ha felicità più bella, più pura, più grande di quella che si gode nel seno della famiglia; essa è l’immagine più viva della pace e della felicità, che si gode per sempre in cielo dalla famiglia dei Santi. Se non che è egli vero, che in tutte le famiglie regni tale pace e felicità? Ahimè! tutt’altro. Qua vi hanno mariti inumani, che violando le più sante promesse fatte appiè degli altari, mentre per la compagna avuta da Dio non hanno che odio, disprezzo, fastidio ed abbandono, gettano negli amori più infami sanità, sostanze, onore ed anima. Là sono mogli implacabili, le quali tengono sempre lo loro lingue armate di finissima punta per ribattere le osservazioni dei loro mariti e per ferire al vivo chi alla fin fine è il capo della casa e può e deve comandare. Altrove sono padri crudeli, che senza alcun giusto motivo trattano spietatamente i loro figliuoli o li lasciano nel più barbaro abbandono: ed altrove sono figliuoli, che arrivati appena ai primi anni dell’adolescenza più non piegano la fronte ad alcun comando di padre e di madre, insorgono anzi riottosi contro di loro e fanno a dispetto quel che ad essi è proibito. Insomma, qua per un membro, altrove per un altro, in non poche famiglie invece della pace regnano sovrani il disamore, la gelosia, l’odio, la lite, la discordia e per conseguenza l’infelicità. » – O Famiglie cristiane, voi, che volete davvero che regni in mezzo a voi la pace e la felicità, venite oggi in conformità al desiderio della Chiesa a specchiarvi in quella Divina Famiglia, che il Signore ha posto sulla terra per vostro modello. Di Gesù sta scritto nel Santo Vangelo che, ritrovato da Maria e da Giuseppe nel tempio di Gerusalemme, se ne andò con essi e fece ritorno a Nazareth, ed era ad essi soggetto: Et descendit cum eis et venit Nazareth, et erat subditus illis. Facciamo quello che Gesù ha fatto: andiamo per poco in compagnia di Lui, di Maria e di Giuseppe nella Santa casa di Nazareth e vedendo in essa risplendere il santo amore coniugale, la sollecitudine paterna e materna, la sudditanza figliale apprenderemo sempre meglio di qual guisa possa stabilirsi e mantenersi tra di noi quel dolce vivere, che è principio e pegno dell’eterna beatitudine. – Essendo ornai vicina la pienezza dei tempi, dovevasi perciò operare sulla terra il grande mistero della Divina Incarnazione. E la prima opera circostante a questo grande mistero fu lo sposalizio di S. Giuseppe con Maria Vergine; giacché sebbene il Signore avesse stabilito di nascere da una Madre vergine, voleva non di meno che questa sua Madre fosse da uno sposo aiutata, protetta, difesa, consolata e sostenuta in mezzo ai suoi bisogni e ai suoi travagli, ed egli durante i suoi trent’anni di vita privata avesse nello sposo di sua Madre una guida, un sostegno, un custode, un vice padre. Pertanto arrivato S. Giuseppe ad un’età virile e Maria raggiunti gli anni fissati dalla legge ebraica per il matrimonio, non ostante che l’uno e l’altra avessero fatto voto al Signore di perpetua verginità, per divino volere resosi a loro in modo certo manifesto, in conformità al rito ebraico si sposarono, e nello stato coniugale si diedero a vivere insieme nella umile e piccola casetta di Nazareth. Ma per dirsi il vicendevole e sacramentale sì, che doveva poscia tenerli uniti fino alla morte dell’uno di essi in perpetua concordia e dolcissima pace, a che badarono essi anzi tutto? Oggidì il più delle volte, avendosi a combinare un matrimonio, anziché cercare se lo sposo e la sposa siano illibati nei loro costumi, se frequenti alla Chiesa, se laboriosi, se ritirati e modesti, si cerca se lo sposo stia bene a quattrini, a possedimenti, se la sposa abbia ricca la dote, se la famiglia si trovi in relazioni splendide ed utili; si guarda ad un bel volto e non ad un bel cuore, e qual meraviglia poi che, spariti i giorni così detti della luna di miele, spariscano eziandio i sentimenti e gli affetti di benevolenza, di fedeltà e di rispetto, che pur dovrebbero durare per tutta quanta l a vita, e dai quali soltanto nasce e si mantiene la concordia e la felicità degli sposi? – Ben diversamente dall’odierno andazzo Giuseppe e Maria per congiungersi tra di loro nello stato coniugale non mirarono ad altro massimamente che alla santità della vita, allo splendore delle virtù, che vi era nell’uno e nell’altro. Essi, benché di stirpe regia, erano tuttavia decaduti; non avevano ricchezze di sorta, anzi erano poveri tanto da dover del continuo lavorare per guadagnarsi il sostentamento quotidiano, ma erano santi e ciò fu più che bastante perché i loro cuori si incontrassero e si unissero insieme nel vincolo indissolubile del matrimonio. – Ed ora come mai si potrebbe convenientemente esaltare il genere di vita, che presero a condurre insieme Maria e Giuseppe? Quel genere di vita intima e intimamente unita, che procedeva dallo straordinario amore reciproco che si portavano? S. Giuseppe amava Maria con quanto amore si può amare una creatura; l’amava tanto che volentierissimamente e senza esitazione di sorta avrebbe dato per lei il suo sangue e la sua vita, e nel tempo stesso l’amava di un amore santo e purissimo, in cui non entrava nulla di umano e sensuale. E Maria alla sua volta amava il suo sposo Giuseppe quanto lo poteva amare, di modo che dopo Gesù nessun altro al mondo fu amato con amore più ardente da Maria che S. Giuseppe. – E questo vicendevole amore si andava aumentando ogni giorno per la vicendevole comunicazione, che passava fra di essi, dei loro beni, per l’unione delle loro volontà e per il servizio che l’un l’altro si rendevano. Ed ecco nascere di qui quella fedeltà così grande, che non ebbe mai uguale in sulla terra e per la quale S. Giuseppe meritava d’essere lodato per eccellenza, conforme a quello che di lui fu detto profeticamente: Vir fidelis multum laudabitur; l’uomo fedele sarà molto lodato (Prov. XXVIII, 20). Ecco di qui sorgere quel vicendevole rispetto che S. Giuseppe e Maria si portavano e pel quale l’uno cercava di prevenire i desideri dell’altro e di assecondarli con la maggior esattezza. È vero S. Giuseppe, riconoscendosi ogni giorno più di gran lunga inferiore alla santità di Maria avrebbe voluto più volte, e più volte certamente gli dovette riuscire, di fare a lei da umilissimo servo. Ma la Vergine alla sua volta riconoscendo che S. Giuseppe come suo sposo era il suo capo ed il suo superiore, voleva a lui in tutto obbedire, epperò si può dire che non si metteva ad alcuna opera senza prima parlarne con Giuseppe e riceverne il consenso, non moveva un passo senza la sua licenza, non si dipartiva un filo dalla sua volontà, era del tutto con Giuseppe un cuor solo ed un’anima sola. – Oh! io non oserò certamente di dire che oltre al rispettarsi ed obbedirsi, in virtù del loro puro e ardente amore si usassero eziandio reciproco compatimento, perché è egli possibile di pensare che l’uno all’altro facesse mai cosa che si dovesse compatire? Essi erano due cetre così perfettamente armonizzate, che non producevano mai il minimo disaccordo; ma facendo pure, per un istante, e con la misericordiosa licenza di Giuseppe e di Maria, facendo pure, dico, la supposizione che in qualche cosa fosse o all’uno o all’altro capitato anche inavvertitamente di venir meno all’armonia perfetta, non è egli vero che tanto l’uno quanto l’altro, oltre al sopportare l’accaduto senza risentimento alcuno, se ne sarebbero ancora domandato prontissimamente perdono? Or dunque se tale fu la convivenza di Maria con Giuseppe, e mille volte più santa che noi non sappiamo immaginare, non è egli vero che la Sacra Famiglia fu per eccellenza la famiglia della concordia, della tranquillità, e della pace? E che questa famiglia si presenta anzitutto come l’esemplare degli sposi cristiani nell’adempimento dei loro reciproci doveri? – I quali ad altro alla fin fine non si riducono che ad un vero e santo amore. E non è questa la più calda raccomandazione che al riguardo fa l’Apostolo S. Paolo? « Uomini, egli dice, amate le vostre donne, come anche Cristo amò la Chiesa, sino a dare per lei se stesso affin di santificarla. E secondo il suo esempio amatele le vostre mogli come i corpi vostri. Imperocché se il Sacramento del matrimonio è grande, lo è appunto perché significa l’amore immenso che unisce santamente, intimamente e indissolubilmente Gesù Cristo alla Chiesa. Perciò a corrispondere alla grandezza di questo Sacramento, voi, o uomini amate davvero le vostre mogli, e voi o donne rispettate i vostri mariti » (Efes. V. 25-33). Cosi l’Apostolo. E ben a ragione, perché quando tra gli sposi vi è un vero e santo amore, allora vi ha eziandio la fedeltà, il rispetto, il compatimento, epperò la concordia, la pace e la felicità. – Ma questo vero e santo amore vi ha ora tra gli sposi Cristiani? Oh viva Dio! che delle famiglie, ove questo amore regna sovrano e con esso la concordia, la pace, e là tranquillità della Famiglia di Nazareth non mancano. Ma quante altre, dalle quali un tale amore è del tutto sbandito! Deh! o sposi Cristiani che mi ascoltate, che ciò non sia delle famiglie vostre! come Giuseppe e Maria amatevi sempre anche voi, e veramente, santamente, nel Signore, cercando di rendere gli uni agli altri meno grave la croce, che vi siete addossato. Nel vicendevole amore, vero e santo, sarà mai possibile che spunti nella vostra mente un pensiero d’infedeltà? E se mai vi spuntasse come per sorpresa, non lo ricaccereste prontamente, inorriditi al pensiero del grave delitto, che vi si è presentato dinanzi? Nel vicendevole amore, vero e santo, sarà mai possibile che vi manchiate del conveniente rispetto? No, per certo. La donna, come è suo dovere, sarà soggetta al marito e cercherà con ogni impegno di accontentarlo in tutto ciò che non è peccato: sarà anzi sommamente sollecita di prevenirne i desideri. E il marito alla sua volta non farà sentire sopra della sua moglie il peso della sua autorità, ricordando che nel Sacramento del matrimonio la donna non è più schiava come presso ai pagani, ma consorte, vale a dire ammessa a partecipare della sorte del marito. Le aprirà sovente il suo pensiero, la metterà a parte de’ suoi divisamenti, non ricuserà i suoi pareri, e, se dovrà correggerla, il farà con destrezza e con amore. Finalmente, se voi vi amerete d’amor vero e santo, vi compatirete a vicenda dei difetti e dei mancamenti vostri. Purtroppo tutti mancano quaggiù: è questa la condizione degli uomini in sulla terra, e nel mancare si può urtare il prossimo. Ciò quanto più facilmente può accadere tra marito e moglie, che devono convivere insieme! Certe differenze sono inevitabili. Ma l’amore vero e santo trionferà di tutte queste piccole miserie. Gettate adunque, o coniugi cristiani, gettate lo sguardo sopra gli sposi della Sacra Famiglia e da loro imparerete nello stato del matrimonio a pregustare l’armonia, la pace, e la gioia del cielo. – Ma la Sacra Famiglia non meno che agli sposi si presenta modello ai padri ed alle madri. Ed in vero essendo giunto il tempo preciso stabilito da Dio per mandare sulla terra l’Unigenito suo figliuolo, un Angelo del Paradiso, l’Arcangelo Gabriele, calava dal cielo a darne l’annunzio a Maria ed a chiamarne il consenso. E Maria, poiché fu rassicurata dall’Angelo che diventando madre di Gesù sarebbe rimasta ancora purissima vergine, ed ebbe detto il gran fiat, eccola per opera dello Spirito Santo concepire nel suo castissimo seno il Verbo divino ed a suo tempo darlo alla luce. Or chi sa dire le sollecitudini, le cure, le diligenze che da quel momento fino a che fu cresciuto all’età adulta ebbero per Gesù la sua santissima madre Maria e il suo santo custode Giuseppe? Maria, poiché il suo Gesù fu nato, tosto lo ravvolse nei poveri panni, che seco aveva, e lo pose a giacere nel presepio. In seguito lo nutrì del suo latte, lo vegliò di giorno e di notte, gli preparò e indossò la veste, lo addestrò a parlare e a camminare, usò sempre verso di lui tutte le cure della madre più affettuosa e diligente. E Giuseppe? Vi è forse funzione alcuna spettante ad ottimo padre, che non sia stata gloriosamente esercitata da questo servo fedele e prudente, quem constituit Dominus super familiam suam? E chi fu se non Giuseppe che preparò la prima culla a Gesù? Chi altri mai se non Giuseppe lo sottrasse alle furie di quell’Erode che lo cercava a morte? Chi lo provvide per trent’anni di vitto, di vestito, di abitazione con le fatiche delle sue braccia, con i sudori della sua fronte? Chi lo ricercò con tanto affanno allorché si fu smarrito all’età di dodici anni, se non Giuseppe? Insomma dal momento in cui venne al mondo Gesù, egli non visse più che per Lui; tutte le sue cure e sollecitudini, tutti i suoi lavori e tutte le sue fatiche non mirarono più ad altro che al sostentamento ed alla conservazione di Gesù. Ma non bisogna credere che la cura di Maria e di Giuseppe per il loro Gesù fosse solamente rivolta al corpo. Oh sì! Maria e Giuseppe sapevano bene che Gesù, non essendo solo vero uomo, ma pur vero Dio, non aveva alcun bisogno di essere ammaestrato dagli uomini e di essere da loro curato affine di essere virtuoso: ma sapendo altresì come pure in ciò Gesù Cristo non voleva parere da più degli altri uomini, ai quali in tutto si fece simile fuorché nel peccato, perciò eccoli a prendersi cura eziandio del suo spirito, e dopo d’avergli insegnato essi medesimi le cose più facili e più importanti a sapersi da chi vuol essere esatto nell’adempimento dei doveri che si hanno e verso Dio, e verso gli uomini, e verso di noi stessi, nel giorno di sabato condurlo seco loro alla Sinagoga, dove appunto facevasi la spiegazione della legge ed impartivasi, secondo il bisogno di quei tempi, l’istruzione religiosa. Eccoli mattina e sera pigliarlo tra loro nell’atto di volgere al cielo le loro preghiere. Eccoli, giunto che fu all’età di dodici anni, cominciare a condurlo seco in conformità alle prescrizioni ebraiche al tempio di Gerusalemme nelle feste della Pasqua e nelle altre principali solennità. Eccoli insomma, per quanto era da loro e non ostante il nessun bisogno che ne aveva Gesù, iniziarlo agli atti di religione, alle preghiere, alle opere bucane, allo studio della legge, al canto delle sacre laudi, al divino servizio, precedendolo almeno in quello che era loro possibile, cioè in quanto all’esterno, nell’adempimento di tutti questi doveri. Così Maria e Giuseppe esercitavano l’ufficio di madre e di custode di Gesù Cristo. – Ed è così appunto che ancor voi, o genitori cristiani dovete esercitare l’ufficio vostro nell’educazione dei vostri figli. E qui io non dico nulla della cura materiale che dovete avere per essi. Ah! un padre ed una madre si caverebbero il pan dalla bocca per non lasciarlo mancare ai loro figli. Ma io parlo sopra tutto della cura, che ai genitori incombe per lo spirito e pel cuore dei loro figli, di quella cura per cui allevandoli per Iddio, dal quale li ricevettero, sarà senza dubbio loro impegnò istruirli fin da bambini nelle preghiere e nelle verità di nostra fede, mandarli in seguito ai catechismi e in vigilare perché vi si rechino davvero e ne approfittino, condurli seco alla domenica ad ascoltare la santa Messa e la parola di Dio, dar loro in casa ogni qualvolta si presenta l’occasione dei saggi avvertimenti, far loro conoscere l’importanza di crescere su virtuosi, amanti di Dio, della Chiesa, dei Santi Sacramenti; e poi attentamente in vigilare perché non si associno con cattivi compagni, perché non leggano cattivi libri, perché stiano lontani da quei luoghi dove la virtù corre pericolo, ed ogni qualvolta si vedono a mancare in qualche cosa, correggerli, sgridarli, castigarli, non già per passione, per impeto di collera, ma unicamente per dovere e per fare il  loro vero bene. Senonché è questa propriamente la cura che tutti i genitori si pigliano dei loro figliuoli? Ah! padri e madri, che mi ascoltate, per carità intendete la grandezza dell’ufficio vostro e la gravezza della vostra responsabilità. Epperò riflettendo che al suo tribunale Dio vi chiamerà strettissimo conto dei vostri figli, dell’educazione che loro avete dato, mentre siete in tempo fate, fate per essi quel che dovete: siate loro genitori, sopra tutto col pigliarne diligente cura. E qui rammentate che le parole giovano, ma gli esempi traggono; che anzi nella famiglia ciò che assicura ad un padre e ad una madre il possesso e l’esercizio della propria autorità è solo il buon esempio. Sì, quando voi per i primi vi manteniate fermi nella pratica dei doveri cristiani, cioè quando voi continuiate a venir alla chiesa, a santificare la festa, a frequentare i sacramenti, a fuggire la bestemmia ed ogni indecente parola, a raccogliervi alcuni minuti il mattino e la sera insieme coi figli vostri a pregare Iddio, voi vi manterrete altresì il re e la regina nella vostra famiglia. Oh! la pratica esatta dei doveri cristiani, la preghiera soprattutto, quella fatta in famiglia, alla presenza dei figliuoli, anzi in comunanza coi medesimi, sono propriamente la base di granito su cui posa incrollabile l’autorità d’un padre e d’una madre. Nostro Signore ha detto, che dove sono due o tre congregati nel nome suo, ivi sarà in mezzo a loro: Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum (Matt. XVIII, 20). E la sua parola, che non vien meno giammai, tanto più si adempirà nel seno di quelle famiglie cristiane, che gli rappresenteranno allo sguardo il dolce spettacolo della Divina Famiglia, a cui appartenne quaggiù, quando Giuseppe, Maria e Gesù, insieme raccolti nella piccola stanza di Nazareth, facevano salire al cielo il profumo delle loro preghiere. Sì, Dio sarà tra quel padre e quella madre che pregano insieme coi loro figli, ed oltre allo spargere un soave balsamo sui piccoli vicendevoli disgusti della giornata, farà raggiare la loro fronte di una maestà severa ed amabile ad un tempo, per cui i figliuoli genuflessi loro d’accanto sentiranno di star vicini ai primi rappresentanti di Dio in sulla terra, e si verranno sempre più animando alla loro venerazione ed alla loro obbedienza. – Ma in quel giorno in cui voi padre, e peggio ancora voi madre, lascerete il buon esempio, e vi dimenticherete di essere cristiani e più non pregherete, più non andrete alla Chiesa e ai Sacramenti, e più non praticherete la Religione, in quel giorno la corona di re e di regina scadrà miseramente dalla vostra testa, e voi non sarete più i capi sicuri delle vostre famiglie. Avrete un bel dire: Mi farò temere; un figlio non è un servo e non si domina soltanto col timore: ci vuole qualche cosa di più, quel qualche cosa di più che amorosamente persuade e convince, quel qualche cosa che non potete avere senza della Religione. Quando un figliuolo, una figliuola può dire: Mio padre non obbedisce più a Dio: mia madre non obbedisce più alla Chiesa; mio padre e mia madre di Dio non riconoscono più l’autorità; può andare anche più avanti, e generalmente vi va, e dire: Ebbene neppur io ubbidirò a mio padre ed a mia madre, ancor io disprezzerò la loro autorità, ancor io mi riderò di loro. Un tal ragionamento è senza dubbio colpevole, che un figlio ed una figlia devono sempre obbedire ai loro genitori, anche allora che fossero malvagi, tranne che nel peccato; ma chi può impedire e rattenere la forza dello scandalo? O carissimi genitori, tenetevi dunque fermi qui, a questo Dio, a questa fede, a questa Religione: essa è per voi, per la vostra autorità, una rocca inespugnabile. Sì, purtroppo, questi vostri figliuoli che crescono, nel passare e vivere nel mondo, dove non risuonano al loro orecchio che le parole di libertà e indipendenza, un giorno troveranno duro lo stare a voi soggetti ed obbedirvi, e daranno delle scosse alla vostra autorità, e cercheranno di farla cadere, ma indarno… l’autorità vostra basata sulla fermezza della santa Religione fiaccherà la loro cervice superba. – Ma no, neppur voi, o figliuoli che mi ascoltate, neppur voi farete mai simile attentato; perciocché se i vostri padri e le vostre madri seguiranno soprattutto gli esempi, che nella Sacra Famiglia han dato loro Maria e Giuseppe, voi seguirete specialmente quello che vi ha dato lo stesso Gesù Cristo. Ed in vero, che cosa ha fatto Gesù per trent’anni nella casa di Nazaret? Che cosa ha fatto? È stato soggetto a Maria ed a Giuseppe: Ut descendit cum eis et venit Nazareth, et erat subditus illis: ecco tutto. Miratelo, miratelo, quel caro Gesù sempre intento a fare la volontà di Maria e di Giuseppe, a prevenirla anzi ed aiutarli in tutte le loro faccende. È vero, che tanto Maria come Giuseppe riconoscendo con vivissima fede che quel loro figliuolo era Dio, non avrebbero osato di fargli alcun comando, ma nel tempo stesso riconoscendo che era volere di Gesù che lo comandassero, perché obbedendo potesse lasciare a noi il suo ammirabile esempio, eccoli di tratto in tratto con tutta grazia e soavità chiamarlo e impartirgli degli ordini. E Gesù sorridente in volto, il cuore pieno di gioia, pronto subito ad eseguirli. Epperò eccolo per obbedire a Maria e porgerle aiuto ora accendere il fuoco, ora lavare con le sue mani divine le povere stoviglie, ora prendere con dolce violenza la scopa di mano a Lei, e mettersi a pulire la casa, ora correre sollecito al pozzo, che ancora presentemente si fa vedere presso di Nazaret, e attingervi l’acqua. Eccolo per obbedire a Giuseppe e lavorare con lui, ora segar qualche trave, ora piallar qualche tavola, ora verniciare quel mobile, ora uscire a far delle compre, ora a prendere delle misure, ed ora attendere ad altre cose somiglianti. Oh Dio! Che spettacolo sublime non doveva esser quello per gli Angeli del Paradiso vedere quel Dio, che è Re dei re, dominatore del mondo, al cui cenno tremano gli spiriti d’abisso, alla cui servitù si prostra riverente il cielo, soggetto ad un uomo e lavorare umilmente sotto la sua direzione in quella bottega di Nazaret! – Che spettacolo commovente doveva essere altresì per tutti coloro che si fermavano dinnanzi a quella bottega! Nel vedere un giovane di bellezza così celestiale, di una intelligenza così straordinaria, tutto intento a quei lavori sì grossolani e faticosi, e così pronto a fare la volontà di colui che essi credevano suo vero padre, anche senza sapere chi egli fosse, sentivano nel cuore la più viva e più grande ammirazione per lui, e senza dubbio nel partirsi di là con vero entusiasmo dovevano andar ripetendo: Che figlio! Che figlio è mai quello! – Or bene, se Gesù volle esercitare tale sudditanza verso Maria e Giuseppe, si fu propriamente per dare a tutti i figliuoli l’esempio, affinché stiano sottomessi ai loro genitori. Anche qui Gesù, come sta scritto negli Atti Apostolici, volle prima fare per poter poi più efficacemente insegnare. E poiché uno fra i più grandi precetti, che Egli colla sua dottrina doveva confermare, era pur questo, dell’onorare il padre e la madre, volle perciò anzi tutto, benché non obbligato, praticare un tal precetto Egli stesso. Chi non vede adunque l’importanza di prendere da Gesù questa importante lezione? E di prenderla tutti, siamo fanciulli, siamo giovanotti, siamo adulti, sol che abbiamo ancora la grande fortuna di avere un padre ed una madre, benché vecchi? Guai a quei malvagi figliuoli, i quali perché sono giunti ad una certa età e si sentono pieni di vigoria e di vita, non vogliono più sottostare ai loro genitori, ne sdegnano gli avvisi, crollano le spalle ai loro comandi, vanno e vengono, vivono come loro piace, vogliono insomma farla essi da padroni! La mano del Signore non tarderà a farsi pesante sopra il loro capo per castigarli terribilmente anche in questa vita. Nella Sacra Scrittura (Eccli. III, 18)è chiamato infame colui che abbandona suo padre ed è dichiarato maledetto da Dio colui che esaspera la sua madre. Cam manca di rispetto al suo vecchio padre Noè, e Dio maledice alla sua discendenza: maledictus Canaan (Gen. IX, 25), e il segno di quella tremenda maledizione sta tuttora scolpita sopra di essa. Ofni e Finees sprezzano gli avvisi del loro padre Eli, e tutti e due muoiono nello stesso giorno uccisi in battaglia. Assalonne si ribella al suo padre Davide e finisce di mala morte appeso ad una quercia e trapassato il cuore dalla lancia di Gioabbo. Tant’è, Dio riguarda come fatto a sé ogni oltraggio recato ai genitori. Deh! adunque, o figliuoli diletti, a somiglianza di Gesù professate sempre ai vostri genitori la più umile ed affettuosa sudditanza. Anzi a somiglianza di Lui, del quale sta scritto che crescendo negli anni cresceva altresì nella manifestazione della sapienza e della grazia presso Dio e presso gli nomini, crescete anche voi ogni giorno più nell’amore e nel rispetto al vostro padre e la vostra madre e nella pratica di tutti gli altri vostri doveri e di tutte le cristiane virtù, apportando per tal guisa ai medesimi le più dolci consolazioni. – Ormai si rimarranno più poco insieme con voi, Non vedete? I loro capelli si fanno grigi, la loro fronte si copre di rughe, i loro occhi si infossano e la loro vista si oscura, impallidisce il loro volto, le loro mani si fanno tremanti, vacillanti le loro gambe, curve le loro spalle, la forza vien meno, il respiro è corto, la memoria si perde. Ahimè! È il gelo della morte che comincia a serpeggiare nelle loro vene. Ancor pochi anni, forse… forse ancor pochi mesi e poi… lasceranno le vostre case per sempre per portare le loro quattro ossa al camposanto! Ma allora che non saranno più, allora sì intenderete appieno il gran tesoro che essi erano; allora sì vorreste aver fatto mille cose per loro, ma saranno rimpianti inutili, e che ad altro non serviranno che a rendere più cocente il rimorso di non averli trattati come si meritavano. O fratelli carissimi, nell’aver oggi rammentati e considerati gli ammirabili esempi della Sacra Famiglia, risolvete tutti di seguirli sempre ciascuno per la parte vostra. Ed a riuscire più facilmente in questo nobile proposito continuate a professare per la stessa Sacra Famiglia la più tenera divozione. Vi sia dolce il consacrarvi a Lei, il farvi ascrivere alla Pia Associazione che da Lei si intitola e praticarne fedelmente i facilissimi doveri, che altri non sono alla fin fine se non quelli che io vi ho accennati. Datevi premura di collocare nella vostra casa in vista di tutti la immagine della Sacra Famiglia ed oltre al recitarle innanzi quotidianamente le vostre preghiere, consideratela ancora di tratto in tratto per richiamare alla vostra mente il santo amore coniugale, la sollecitudine paterna e materna e la figliale sudditanza, onde praticare ancor voi, ciascuno nella propria condizione, sì belle virtù; ed allora certamente regnerà anche fra di voi il santo timor di Dio, la carità reciproca, il vicendevole rispetto, la dovuta obbedienza, e conseguentemente la pace, la concordia, la tranquillità, la gioia che regnò n ella Sacra Famiglia, ciò che io vi auguro e vi prego da Dio di tutto cuore.

Credo…

Offertorium
Orémus
Luc II: 22
Tulérunt Jesum paréntes ejus in Jerúsalem, ut sísterent eum Dómino. [I suoi parenti condussero Gesú a Gerusalemme per presentarlo al Signore.]

Secreta
Placatiónis hostiam offérimus tibi, Dómine, supplíciter ut, per intercessiónem Deíparæ Vírginis cum beáto Joseph, famílias nostras in pace et grátia tua fírmiter constítuas. [Ti offriamo, o Signore, l’ostia di propiziazione, umilmente supplicandoti che, per intercessione della Vergine Madre di Dio e del beato Giuseppe, Tu mantenga nella pace e nella tua grazia le nostre famiglie.]

Communio
Luc II: 51
Descéndit Jesus cum eis, et venit Názareth, et erat súbditus illis. [E Gesú se ne andò con loro, e tornò a Nazareth, ed era loro sottomesso.]

Postcommunio
Orémus.
Quos cœléstibus réficis sacraméntis, fac, Dómine Jesu, sanctæ Famíliæ tuæ exémpla júgiter imitári: ut in hora mortis nostræ, occurrénte gloriósa Vírgine Matre tua cum beáto Joseph; per te in ætérna tabernácula récipi mereámur:
[O Signore Gesú, concedici che, ristorati dai tuoi Sacramenti, seguiamo sempre gli esempii della tua santa Famiglia, affinché nel momento della nostra morte meritiamo, con l’aiuto della gloriosa Vergine tua Madre e del beato Giuseppe, di essere accolti nei tuoi eterni tabernacoli.]

 

 

LO SCUDO DELLA FEDE (XLV)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XLV.

IL CULTO DEI SANTI.

Che cosa sia la Comunione dei Santi ? — È possibile che i Santi pensino a noi ? — La loro invocazione non è contro la fede di Gesù Cristo nostro unico mediatore? — Non è una novità contraria alla Sacra Bibbia? — Il culto dei Santi, e più ancora delle loro immagini e reliquie non e idolatria ? — E se una reliquia si venisse a riconoscere falsa?

— È vero che la Chiesa di Gesù Cristo non sta tutta nella società visibile dei fedeli, che vivono quaggiù?

Ciò è verissimo. La Chiesa di Gesù Cristo è formata da tre grandi parti o famiglie. Vi ha la parte o famiglia che si vede qui in terra, e che si chiama Chiesa militante, perché ancora combatte per conseguire l’eterna corona, vi ha la parte costituita dagli Angeli e dai Santi, che sono già beati in cielo, godendo il trionfo delle vittorie riportate e chiamata perciò Chiesa trionfante, e poscia la parte costituita da quelle anime, che hanno già lasciata  la terra, ma sono ancora nel purgatorio, ed è chiamata Chiesa purgante.

— E fra queste tre parti o famiglie vi è una qualche relazione?

Senza dubbio. Siccome queste tre parti hanno, benché non allo stesso modo, i medesimi interessi, tutte godono o in una o in altra maniera gli stessi benefìci effetti della Redenzione di Gesù Cristo, e tutte sono sotto il suo amorossissimo governo, devono perciò essere in relazione tra di loro, amarsi come membri dello stesso corpo, essere solidali delle stesse glorie e delle stesse sventure, e tutte insieme concorrere alla prosperità e al benessere di tutta intera la società di Gesù Cristo. È quello appunto che nel modo più espressivo insegna l’Apostolo S. Paolo nelle sue Lettere e specialmente nella prima ai Corinti, dove dice che « come nel corpo umano tutte le membra sono piene di sollecitudine le une per le altre, cosi ha da essere in tutte le diverse parti della Chiesa di Gesù Cristo, affinché l’abbondanza delle une supplisca alla povertà ed ai bisogni delle altre » (V. capi XII e XIII).

— E ciò si effettua realmente?

Sì, per mezzo della Comunione dei Santi! che noi dobbiamo credere come verità di fede

— Ma che cos’è propriamente questa Comunione dei Santi secondo l’insegnamento cattolico?

Essa è la partecipazione, che, sebbene in modo diverso, hanno tuttavia tutte e tre le parti della Chiesa di Gesù Cristo ai beni, che nella Chiesa vi sono, e cioè le grazie dei Sacramenti e del Santo Sacrificio della Messa, i meriti infiniti del divin Redentore e quelli sovrabbondanti di Maria Vergine e dei Santi, i frutti delle preghiere, delle limosine, dei digiuni, delle virtù e di tutte le buone opere, che si compiono dai fedeli,

— Ma non capisco perché questa partecipazione o Comunione si chiami dei Santi?

Si chiama dei Santi, perché di essa godono perfettamente soltanto coloro, che sono santi ossia giusti per il possesso della grazia di Dio, e alla quale perciò, oltre che ne sono esclusi del tutto i dannati dell’inferno, che non appartengono più in alcun modo alla società di Gesù Cristo, e gli infedeli, gli eretici, gli scismatici, che non appartengono neppure essi alla vera Chiesa del divin Redentore, i poveri peccatori non vi partecipano che in modo imperfetto.

— E perché i peccatori non partecipano alla Comunione dei Santi che in modo imperfetto?

Vedi: come nel corpo il benefico influsso della circolazione del sangue in modo perfetto non si fa sentire che nelle membra che sono vive, e nelle morte, qualora ve ne sia, se non in modo imperfetto e come per riverbero, così quelli che si trovano in peccato, per la mancanza della carità e della grazia santificante essendo membri morti della Chiesa, benché non ne siano staccati, non possono ricevere perfettamente il frutto spirituale, che ricevono i membri vivi, ma possono solo essere sostenuti da Dio per le espiazioni e soprattutto per la virtù del santo Sacrificio della Messa, ed aiutati a convertirsi e a valersi del Sacramento della Penitenza, delle preghiere e delle buone opere di coloro, che sono giusti.

— Questo l’ho inteso. Ma ora mi dica un po’: se, come insegna la nostra fede, i santi del cielo stanno in relazione con loro, è bene ricorrere a loro per aiuto?

È cosa ottima ed utilissima.

— Ma non dicono i protestanti che ciò non serve, perché i Santi non si danno alcun pensiero di noi?

E ciò ti par vero? Supponi che in una società vi sia l’esercito, che combatta in paese lontano. Sarebbe credibile che i membri di quella società, che se ne stanno sicuri in patria, non si diano pensiero dei loro soldati che combattono nel paese lontano, e non pensino, massime quando ne sono richiesti, a inviar loro aiuti? Or bene, esercito di Gesù Cristo sempre in battaglia contro i nemici della nostra salute, noi imploriamo ed attendiamo dai Santi, che abitano la patria celeste, nella quale un giorno dovremo noi pure trionfare, un’assistenza necessaria ed efficace; È vuoi che i Santi facciano come certi volgari egoisti del mondo, che saliti dal basso all’alto, dalle miserie alle prosperità, dimenticano sì facilmente i parenti e gli amici rimasti allo stesso posto di prima, e non si curino punto di ascoltare ed esaudire le nostre preghiere?

— Ma non dice forse san Paolo, che un solo è il mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo?

Lo so, e questa per l’appunto è la fede nostra, checché ne dicano i protestanti, essere cioè un solo per natura il mediatore tra il cielo e la terra, un solo per natura il Salvatore del genere umano, un solo per natura il nostro avvocato presso il trono dell’Altissimo; ma ciò non toglie che altri mediatori ed avvocati vi possano essere per partecipazione e per grazia.

— Ma col rivolgerci ai Santi non facciamo affronto a Dio, quasi riconoscendo in essi e non in Dio i padroni ed i dispensatori delle grazie?

No affatto, perché noi ci rivolgiamo ai santi non come ad autori e padroni delle grazie, ma semplicemente come ad intercessori per ottenerle. Tanto è vero che la Chiesa nella S. Messa non mai si dirige con le sue orazioni ai Santi, ma si rivolge direttamente a Dio pregandolo a concederci le sue grazie per la intercessione dei Santi, e sempre per i meriti di Gesù Cristo. Il far rimettere nelle mani del re una supplica per mezzo di un suo favorito, sarà questo un affronto al re stesso e un riconoscere per autore della grazia, che si implora, il suo favorito?

— Ma se Dio è ottimo Padre, pronto sempre ad esaudirci, e Gesù Cristo per mezzo della sua passione e morte ci ha meritate tutte 1e grazie, di cui abbisogniamo, perché ancora ricorrere ai Santi?

Sì, certamente Iddio è ottimo Padre, ma noi siamo pur troppo figliuoli cattivi, ai quali può giustamente negare quello che noi gli chiediamo, per avere noi tante volte negato a Lui quello che da noi richiedeva; ed è perciò sommamente utile ad ottenere le grazie sull’interporre l’intercessione dei figliuoli santi che Iddio per la loro bontà predilige; e se Gesù Cristo basta senza alcun dubbio a meritarci ogni favore, ciò non impedisce che Egli si compiaccia di onorare i Santi, facendoci ottenere le grazie anche per la intercessioni degli stessi.

Tuttavia nella Chiesa Cattolica l’invocazione dei Santi non è forse una pratica nuova?

Tutt’altro. L’invocazione dei Santi è una pratica, che rimonta da noi sino ai primi secoli: e le chiare testimonianze di ciò si ritrovano nelle più antiche liturgie, nelle iscrizioni delle catacombe, negli atti dei martiri, negli scritti di Origene, di S. Cipriano, di Eusebio, di S. Gregorio Nazianzeno, di S. Cirilllo Gerosolimitano, scrittori tutti del ITI, IV e V secolo, nei Concili ecumenici Costantinopolitano III e Niceno II; e però ben a ragione il Concilio Tridentino comanda ai sacri Pastori di insegnare ai fedeli che « I Santi, i quali regnano con Cristo, offrono a Dio le loro orazioni per gli uomini; essere quindi cosa buona ed utile l’invocarli supplichevolmente ».

— Ma nella Bibbia non trovasi parola dell’invocazione dei Santi.

Questa è una menzogna. Nel vecchio testamento gli amici di Giobbe a lui si raccomandano, perché plachi Iddio con essi sdegnato; Mosè ed Aronne s’interpongono più volte in favore degli Israeliti prevaricatori; il popolo ebreo ricorre alle preghiere di Samuele; nel libro di Zaccaria si parla d’un Angelo, che prega Dio per i Giudei; nel libro II dei Maccabei si manifesta la cura che degli stessi presero Onia e Geremia già passati di questa vita. Nel nuovo testamento poi il Divin Salvatore compie il suo primo miracolo per intercessione di Maria; e per tacere di altro, S. Giovanni nella sua Apocalisse vede in cielo ventiquattro seniori, che prostrati dinanzi all’Agnello tengono in mano ampolle d’oro piene di soavi fragranze, che sono le orazioni dei Santi.

— Sia pur dunque cosa buona e utile invocare i Santi, ma l’onorarli come fa la Chiesa Cattolica non è una specie di idolatria?

L’idolatria è un rendere alle creature il culto supremo di adorazione dovuto a Dio solo. Ora è questo forse il culto, che noi rendiamo ai Santi? No certamente. Il culto supremo d’onore e di gloria è a Dio solo che lo rendiamo e i Santi li veneriamo soltanto, non già riconoscendo in essi altrettanti Dei, ma unicamente degli uomini sommamente di noi benemeriti e da Dio stesso grandemente amati e glorificati.

— Ma perché tributare il culto anche alle loro immagini e reliquie? In questo atto non c’è veramente il peccato d’idolatria?

Ci sarebbe se noi adorassimo le immagini e le reliquie dei Santi, come facevano i Pagani coi loro idoli, e se noi riponessimo nelle stesse una qualche fiducia. Ma se noi

baciamo e veneriamo le immagini e le reliquie dei Santi, non intendiamo forse di riferire culto e la venerazione nostra ai Santi medesimi? – Vedi strana incoerenza: si protesta che il culto delle immagini e reliquie dei Santi, ma si protesta forse contro il culto, che il soldato serba alla sua bandiera? Si protesta forse contro il rispetto, che il popolo serba alla casa, che vide nascere un uomo grande e ne raccolse l’estremo sospiro? si protesta forse contro del figlio, che guarda con riverenza una scritto del padre? si protesta forse contro la sposa, che serba con tenerezza l’anello dello sposo? contro l’amico, che tiene caro un fiore staccato dalla tomba dell’amico? contro la famiglia, che appende con affetto i ritratti dei maggiori? Ma che dico? si protesta forse contro i governi e i municipi che nei loro musei serbano e venerano capelli, calzoni, tabacchiere, bastoni, badili, e persino altri più vili istrumenti degli uomini, che si dicono grandi? Eh via! l’iniquità mentisce sempre a se stessa. – Del resto le immagini dei Santi, che noi veneriamo, ci parlano al cuore, ci ricordano le loro virtù, la loro potenza, ci stampano in mente il dovere, che noi abbiamo di imitarli, e ci spronano a seguire i loro esempi, e noi non rigetteremo giammai un culto per noi tanto utile. – I corpi poi e le reliquie dei Santi sono corpi e reliquie di coloro, che sono membra vive di Gesù Cristo e templi dello Spirito Santo per la grazia, onde furono ripieni; ed un giorno saranno con le anime glorificati in cielo, e noi non disprezzeremo giammai la voce della ragione, che ci dice di venerarli. La Chiesa in ogni tempo ebbe in uso il culto delle reliquie; i Cristiani serbarono sempre con venerazione l’arena inzuppata dal sangue dei martiri, e si gloriarono sempre d’inginocchiarsi nei santuari dinanzi agli avanzi gloriosi di quei Santi, che essi invocarono a difesa e tutela della loro patria; e Dio stesso più volte con grazie e miracoli ha mostrato come questo culto gli torni accettevole. Tutte le obbiezioni adunque, che tu hai fatte a nome del protestantesimo sia contro la invocazione, sia contro il culto dei Santi, sono obbiezioni vane, che si dissipano al più semplice ragionamento.

— Ciò è verissimo. Ma se una reliquia si venisse a riconoscere falsa?

Né avrebbe a patirne la fede, né sarebbe perduto il merito della venerazione, che le si è prestata. La certezza, per cui la Chiesa propone o permette la venerazione d’una reliquia qualsiasi, è certezza umana, vale a dire quella certezza morale, che noi ricerchiamo nelle cose della vita. Quindi è che anche allora che gli stessi Papi si occupano in certo modo del culto di qualche reliquia, scrivendone o parlandone, concedendo pure privilegi e indulgenze, essi stanno al giudizio delle persone gravi prudenti, che dopo le più accurate ricerche hanno conchiuso per l’autenticità di tali reliquie; ma non intendono con ciò di fare una definizione ex cathedra. Epperò qualora in seguito a prove irrefragabili una reliquia apparisse falsa, la fede rimarrebbe sempre integra; e il culto prestato alla medesima riterrebbe sempre il suo merito presso Dio, giacché, come ti dissi, nel culto delle immagini e reliquie non intendiamo già di onorare l’oggetto materiale, ma di rendere ossequio a Dio e ai Santi suoi.

— Benissimo! Questa spiegazione mi ha tolto dalla mente delle idee molto strambe.

CONOSCERE SAN PAOLO (40)

LIBRO QUARTO

CAPO III

GLI EFFETTI IMMEDIATI DELLA REDENZIONE

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

La redenzione degli uomini si compie in tre tempi: al Calvario, al Battesimo e alla parusia. Al Calvario essa si compie di diritto, in principio ed in potenza; al Battesimo si compie di fatto ed in atto, benché ancora imperfetta; nel giorno della parusia essa si termina e si consuma. Intrinsecamente legata alla morte di Cristo, la redenzione potenziale è indipendente dalle sue applicazioni più o meno estese e, per così dire, dal suo risultato storico. Gli effetti immediati ne sono la riconciliazione del genere umano con Dio e la vittoria del Cristo sopra i nemici dell’umanità.

I. LA RICONCILIAZIONE OPERATA

  1. L’IRA DI DIO. — 2. ASPETTI DELLA RICONCILIAZIONE.

1. Dio odia il peccato nella stessa misura con cui ama l’ordine morale, cioè infinitamente. L’odio del male gli è essenziale quanto l’amore del bene, poiché entrambi derivano dalla sua santità. Se all’offesa si aggiunge il disprezzo, l’ira di Dio si accende. È noto con quali colori immaginosi la Bibbia dipinge la collera divina. Dio monta in furore per rivendicare i suoi diritti calpestati; si slancia al combattimento come un guerriero; simile a un fuoco divoratore, dissipa e consuma i suoi nemici. Quando il suo popolo, dimentico dell’alleanza, preferisce a Lui divinità straniere, Egli si proclama il Dio geloso, e la sua gelosia si sfoga con terribili rappresaglie contro gl’infedeli e i loro seduttori. In fondo, l’ira non è più antropomorfica che l’amore, poiché essa altro non è che la reazione necessaria dell’amore offeso. Si può dunque epurare quanto si vuole il concetto della collera divina, ma bisogna guardarsi bene dall’eliminarla col pretesto che essa è incompatibile con la perfezione infinita. Appunto perché è trascendente, la perfezione infinita può abbracciare dei contrasti che, nell’essere finito, sarebbero contraddizioni. Ben lungi dall’escludere la misericordia, l’ira di Dio la suppone e la completa; essa sarà tanto più terribile, quanto più lenta è stata nel muoversi, e tanto più efficace nella distruzione del peccato, quanto più lascia aperta la porta al pentimento. Perciò gli scrittori sacri così sovente accoppiano la collera di Dio e la sua mansuetudine, il suo perdono e la sua vendetta, come se non vi fosse nulla di più conciliabile che tale contrasto. Il medesimo ordine di idee regna nel Nuovo Testamento. Senza dubbio, qui l’ira di Dio ha quasi sempre una mira escatologica ed ha come punto di convergenza il giudizio finale, chiamato per antonomasia il Giorno dell’ira; essa tende a diventare piuttosto individuale, invece di essere soprattutto collettiva; essa viene provocata da ogni infrazione al volere divino, invece di essere generalmente, come in altri tempi, provocata dalla violazione dell’alleanza. Ma lasciando da parte queste riserve che dipendono dalla differenza delle due economie, l’atteggiamento di Dio verso il peccatore resta identico. Prima della loro conversione, Ebrei e Gentili erano « naturalmente figli d’ira (Ephes. II, 3) »; ossia, secondo la forza del linguaggio biblico, degni dell’ira divina le cui terribili conseguenze pesavano su loro. I peccatori induriti « adatti alla perdizione », sono chiamati « vasi d’ira (Rom. IX, 22) » perché sono attualmente l’oggetto dell’ira di Dio, la quale si scatenerebbe immediatamente sopra di loro, se non vi fosse il contrappeso della longanimità. La Legge mosaica aggravando il peccato, « produce l’ira » (Rom. IV, 15); ogni iniquità l’attira, e il colpevole ammassa sul suo « capo tesori d’ira per il giorno della retribuzione (Rom. II, 5) ». Ma essa non è sempre neutralizzata, anche quaggiù, dalla misericordia; essa fin d’ora si scaglia contro gli Ebrei increduli (I Tess. II, 16) e applica ai Pagani, accecati dalle loro delittuose passioni, il rigore del taglione (Rom. I, 18). Non si può dunque dire che, nel Nuovo Testamento particolarmente nelle Epistole di san Paolo, l’ira di Dio sia un concetto puramente escatologico. Tuttavia, se essa comincia a manifestarsi sopra la terra, è quasi sempre controbilanciata dalla mansuetudine e soltanto nel giorno delle vendette avrà la sua manifestazione totale, universale, definitiva (Rom. II, 5). – L’ira, eccitata dall’offesa, implica necessariamente una certa ostilità della persona lesa nel suo onore e nei suoi diritti, contro la persona dell’offensore. Perciò la formula poco scritturale che « Dio odia il peccato pure amando il peccatore », non avrebbe la sanzione di san Paolo. Senza parlare della citazione di Malachia: « Ho odiato Esaù (Rom. IX, 13) », che non si può intendere di un amore relativo, l’Apostolo ci rappresenta Dio come nemico dell’uomo colpevole. È vero che Dio non diventa nemico dell’uomo se non dopo che l’uomo si è dichiarato nemico di Dio; ma da quel momento l’odio è reciproco, sebbene nell’essere infinito l’odio non escluda l’amore. « Se, essendo nemici, noi fummo riconciliati con Dio dalla morte di suo Figlio, quanto più, essendo riconciliati, noi saremo salvi nella sua vita (9)! ». Qui la parola « nemici » è opposta alla parola « riconciliati » la quale è spie spiegata con la frase « salvati dall’ira ». Egli dunque vuole designare non già l’inimicizia dei peccatori verso Dio, ma quella di cui i peccatori erano oggetto da parte di Dio: il bisogno dell’argomentazione, come pure il movimento del pensiero, impone questa esegesi: è infatti il mutato atteggiamento di Dio a nostro riguardo quello che ci garantisce l’avvenire le sue benevoli disposizioni e che colloca la nostra speranza sopra una base incrollabile. Quando Paolo, parlando degli Ebrei infedeli, dice ai pagani convertiti: Essi sono « nemici per causa vostra, secondo il Vangelo, ma amici secondo l’elezione per causa dei Patriarchi (Rom. XI, 28) », la medesima idea viene messa in luce con piena evidenza. Collettivamente e come nazione, gli Ebrei sono nel tempo stesso detestati e amati da Dio: detestati per causa del Vangelo che essi non vollero abbracciare; e tuttavia amati per causa dell’elezione gratuita di cui furono oggetto una volta, e perché sono della stirpe dei patriarchi. Se si obbietta che l’elezione teocratica è annullata in tutti i suoi effetti dall’incredulità presente d’Israele, Paolo risponde che « i doni di Dio sono senza pentimento (Rom. XI, 29) ». Israele è dunque nel tempo stesso, sotto due aspetti diversi, degno di amore e di odio: ora risente gli effetti dell’odio che lo esclude dal regno messianico; più tardi proverà gli effetti dell’amore, quando entrerà in massa nel grembo della Chiesa.

2. Questi preliminari ci portano direttamente al concetto biblico della riconciliazione. La riconciliazione è bilaterale o unilaterale, secondo che le querele sono reciproche o si trovano tutte in una sola parte: in tutti e due i casi, essa ristabilisce i buoni rapporti tra le parti opposte col sopprimere la causa del loro dissenso. Essendo il peccato un atto di ostilità diretto contro Dio, l’uomo è quello che prende l’offensiva, e Dio non fa altro che difendere il suo onore offeso; ma l’odio è reciproco, benché tali non siano i torti reali. Per conseguenza anche la riconciliazione dev’essere reciproca; e non basta che Dio deponga la sua ira, se l’uomo non prende verso Dio sentimenti nuovi. Per questa ragione la riconciliazione ora sembra una conseguenza diretta della conversione dell’uomo, ora un semplice cambiamento di atteggiamento da parte di Dio. E secondo che si considera l’uno o l’altro di questi due aspetti, si può correre il pericolo di vedere soltanto, col protestantesimo ufficiale, un atto arbitrario di Dio che dimentica il peccato senza badare alle disposizioni dell’uomo, oppure, con la scuola di Eitschl, soltanto la trasformazione graduale del peccatore di fronte a un Dio sempre egualmente ben disposto verso l’uomo, nonostante il peccato. Le parole « riconciliare » e « riconciliazione » si trovano riunite in quattro o cinque testi assai diversi tra loro (Rom. V, 10-11; Rom. XI, 15; II Cor. V, 18-20; Col. I, 20-21; Ephes, II, 16 ). Una volta la riconciliazione operata dal sangue del Cristo si dilata al punto di coprire tutto il complesso degli esseri creati: “Dio si compiacque di far abitare in lui la pienezza, e di riconciliare per mezzo di lui tutte le cose in lui, pacificando col sangue della sua croce, per mezzo di lui (dico), sia quello che vi è in terra, sia quello che vi è nei cieli” (Gal. I, 19-20). – Il senso non è oscuro, purché si voglia evitare ogni inutile complicazione. Dio, al quale appartiene sempre l’iniziativa della salute degli uomini e dei disegni della redenzione, si compiacque di mettere nel Cristo tutta la pienezza — pienezza di essere e pienezza di grazie — per pacificare e conciliare tutte le cose nel Cristo che è il centro della creazione e il vincolo che unisce tutti gli esseri. In tutti gli altri luoghi, lo sguardo dell’Apostolo non si spinga oltre la salute degli uomini, e la riconciliazione di cui parla, si fa con Dio. – “Se, quando eravamo nemici, fummo riconciliati con Dio mediante la morte di suo Figlio, quanto più, essendo riconciliati, saremo salvi nella sua vita! Ben più, noi ci gloriamo in Dio per mezzo di Nostro Signor Gesù Cristo, per mezzo del quale abbiamo ricevuto la riconciliazione” (Rom. V, 10). Dio è l’autore della riconciliazione; Gesù Cristo ne è lo strumento e la causa meritoria; l’uomo ne è il soggetto e come il recipiente. Sempre è Dio che riconcilia, e l’uomo che viene riconciliato. Non ne segue affatto che la riconciliazione sia unilaterale; ma questa maniera di parlare, certamente intenzionale, dimostra che l’iniziativa viene da Dio, che l’uomo non ha ragioni da far valere, che a lui dunque tocca ricevere la pace e non già l’offrirla. La riconciliazione infatti discende da Dio verso l’uomo e non sale dall’uomo verso Dio; essa comincia con l’abbandono delle querele del Creatore contro la sua creatura. Nemici di Dio e oggetto dell’ira sua che i nostri peccati avevano provocata e che noi non potevamo placare, fu assolutamente necessario che Dio, l’offeso, ci riconciliasse a sé. Vi è qui una finissima sfumatura di espressione che, senza sopprimere il concorso dell’uomo, lascia a Dio tutto l’onore del risultato: è per questo che l’uomo, se non ha il diritto di gloriarsi in se stesso, può gloriarsi in Dio il quale opera in lui grandi cose, ma non le fa senza di lui. Ai Corinzi, più ancora che ai Romani, l’Apostolo presenta la riconciliazione sotto i suoi molteplici aspetti: “Tutto questo viene da Dio il quale ci ha riconciliati con sé per mezze del Cristo e ci ha affidato il ministero della riconciliazione. Poiché è Dio che, nel Cristo, si riconciliò il mondo, non imputando agli uomini i loro peccati, e incaricandoci di annunziare la riconciliazione. » Noi portiamo dunque un messaggio nel nome del Cristo, come se Dio esortasse per bocca nostra. Noi ve ne scongiuriamo nel nome del Cristo: Lasciatevi riconciliare con Dio” (II Cor. V, 18). – Anche qui, come sempre, iniziativa viene dal Padre. Non è dunque l’uomo che si riconcilia con Dio, ma è il Padre che ci riconcilia con se stesso per mezzo del Cristo o nel Cristo. La riconciliazione ha diversi gradi. Anzitutto Dio, avendo costituito suo Piglio vittima di espiazione, dimentica i delitti degli uomini per riguardo a questo Figlio. Questa è soltanto ancora una riconciliazione in potenza; perché diventi attuale, s i richiede nell’uomo un movimento di ritorno verso Dio, movimento che si opera col concorso dell’uomo, alla chiamata e sotto l’impulso di Dio. Gli Apostoli sono i primi invitati alla riconciliazione della quale sono costituiti araldi e agenti, poiché ricevono l’incarico ufficiale di promulgarla e di trasmetterla. Il loro messaggio si riassume in questo: « Lasciatevi riconciliare con Dio »; oppure, se si vuole: « Siate riconciliati con Dio ». Finalmente, perché la riconciliazione sia effettiva, gli uomini devono preparare, col loro libero assenso alla fede, un terreno propizio all’azione divina. L’iniziativa del Padre celeste, messaggio apostolico e risposta dell’uomo a questo messaggio, sono le tre fasi o le tre tappe della riconciliazione. Dovunque è ricordata la riconciliazione, è Dio che la opera con la mediazione del Cristo; ma se essa comincia con un cambiamento dell’atteggiamento di Dio verso l’uomo, deve sempre essere completata con un cambiamento dell’uomo verso Dio. – Le lettere della prigionia ci presentano un concetto alquanto differente. Nell’Epistola agli Efesini sembra che una medesima parola esprima ad un tempo la reciproca riconciliazione degli Ebrei e dei Gentili tra loro, e la loro comune riconciliazione con Dio, senza che si possa dire se queste due riconciliazioni sono simultanee, oppure se l’una sia presentata come l’antecedente logico dell’altra (Ephes. VIII, 1-3). Ma la doppia riconciliazione è sempre compiuta dalla croce del Cristo e dall’unione col suo corpo mistico. Il passo dell’Epistola ai Colossesi è ancora più degno di nota (Col. I, 19-20): e in esso si tratta di una doppia riconciliazione che abbraccia ad un tempo la conversione degli uomini a Dio ed il mutuo riavvicinamento delle creature fino allora in guerra. – L’orizzonte della riconciliazione si allarga, e noi vediamo che tutte le cose ritrovano la concordia e l’armonia nel Cristo, il pacificatore universale.

II. I NEMICI VINTI.

1. IL PECCATO, LA CARNE E LA MORTE. — 2. LA LEGGE MOSAICA.

1. La morte del Cristo ha portato i suoi frutti, e il suo sacrificio non è stato vano. Perché venne egli su questa terra? Per distruggere il peccato e per abolirne le conseguenze funeste. Il suo scopo è ottenuto. – “Ora non vi è più condanna per quelli che sono nel Cristo Gesù. Difatti la legge dello Spirito di vita ti ha liberato, nel Cristo Gesù, dalla legge del peccato e della morte. Infatti — cosa impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente — Dio, mandando suo Figlio nella somiglianza della carne di peccato, ha condannato il peccato nella carne” (Rom. VIII, 1-3). Questa condanna è un decreto di morte: da quel momento il peccato resta senza forza; esso non regna più sopra l’umanità, e noi siamo liberati dalla sua tirannia. Abbiamo veduto nell’Epistola ai Romani quale fu la triste condizione della nostra schiavitù e quale è stato il metodo della nostra liberazione. Se Gesù Cristo, morendo per noi, si fosse proposto soltanto di restituirci quello che Adamo ci fece perdere, la morte redentrice dovrebbe rimetterci in possesso dell’integrità e dell’immortalità originale; ma il disegno della salvezza, adottato da Dio, invece di restituirci esattamente i beni perduti, vi sostituisce qualche cosa di più eccellente. La nostra condizione attuale è migliore, ma diversa: invece di abolire il decreto di morte, Dio ci concede l’immortalità gloriosa; invece di spegnere la concupiscenza, ci dà, con la certezza di vincerla, tutto il merito della vittoria. Nell’attesa del trionfo finale, « il nostro corpo è mortale per causa del peccato », ma la morte è impotente a custodire la sua preda; noi abbiamo da lottare contro la carne, ma non ne siamo gli schiavi; l’inclinazione al male continua i suoi assalti, ma noi siamo liberi dal suo dominio. « La legge dello Spirito di vita ci ha liberati, nel Cristo Gesù, dalla legge del peccato e della morte ». La forza con cui il peccato e la morte mantenevano il loro impero, è infranta da una forza superiore, la grazia; il peccato non può più soggiogarci nostro malgrado, né la morte tenerci nella sua stretta. Ecco perché san Paolo non esita a dire che « il nostro Salvatore, il Cristo Gesù, ha distrutto la morte ed ha portato la vita e l’immortalità ». La morte è stata distrutta, o meglio resa impotente; è un risultato acquisito, un primo frutto del Calvario, un benefìcio concesso nello stesso istante in cui scaturirono le sorgenti della vita. L’effetto non è immediato, poiché è troppo evidente che gli uomini continuano a senza dubbio d’ora innanzi « né la morte né la vita non ci possono separare dall’amore di Dio nel Cristo » e « sia che viviamo, sia che moriamo, noi siamo del Signore », ma la morte conserva tuttavia un resto del suo impero; vinta dal Cristo, essa non è però annientata; essa sarà sterminata per l’ultima, tra tutte le potenze nemiche, quando, nell’ora della risurrezione, sarà assorbita nel trionfo supremo del Redentore. Novissima autem inimica destruetur mors. La morte è naturale per l’uomo, perché risulta dalla sua costituzione organica; ma nello stato di elevazione soprannaturale, essa è pure un castigo del peccato. Coloro che considerano la morte del Cristo come un debito pagato per noi, o come un castigo subito al nostro posto, qui si trovano in un imbarazzo tale, che nessuna sottigliezza di ragionamento, ne li può cavar fuori; poiché un debito già saldato una volta, non è più esigibile, e un castigo già subito una volta non s’infligge più. E cristiano non dovrebbe dunque morire, e neppure l’infedele, perché Gesù Cristo è morto per tutti gli uomini. Ma noi già sappiamo che la morte del Cristo ha per noi un altro significato e un’altra specie di efficacia. Noi non vediamo dunque nulla di contradittorio in queste due affermazioni di san Paolo: « Ora non vi è più condanna in quelli che sono nel Cristo Gesù » e « il corpo è votato alla morte per causa del peccato ». Nel nostro attuale ordine di Provvidenza, la morte è bensì una conseguenza del peccato, perché senza il peccato essa non esisterebbe; ma bisognerà anche chiamarla castigo, anche nel giusto che non è oggetto di nessuna « condanna » in quanto è « nel Cristo Gesù? ». E una questione di parole, la quale non ha grande importanza teologica. – Sta sempre il fatto che la liberazione del Cristiano non è istantanea ma progressiva: ideale al Calvario dove il Cristo disfece l’opera di Adamo per rifare in meglio le sorti dell’umanità; reale, benché imperfetta, al Battesimo quando il Cristiano comincia a partecipare effettivamente alla sorte del Cristo; completa alla risurrezione nella quale si consuma il disegno divino.

2. Con la Legge mosaica, le condizioni sono ben diverse. Siccome la sua conservazione e la sua abolizione sono indipendenti dal concorso dell’uomo, non si possono cercare momenti successivi nella sua abrogazione. Essa scompare naturalmente all’apparire del Cristo che è il fine della Legge, quando questa non ha più ragione di essere, quando si compiono le promesse inconciliabili con essa. Ma ancorché essa conservasse per principio la sua validità, il Cristiano è sottratto al suo dominio per il fatto stesso del Battesimo: “Fratelli, anche voi moriste alla Legge per il corpo del Cristo, a fine di appartenere a colui che è risuscitato dai morti, e di portare frutti per Dio. Quando noi eravamo nella carne, le passioni peccatrici, provocate dalla Legge, agivano nelle nostre membra, di modo che portavamo frutti per la loro morte. Ma ora, liberati dalla Legge e morti a quella Legge nella quale eravamo trattenuti (prigionieri), noi serviamo (Dio) nella novità dello spirito e non nella vetustà della lettera” (Rom. VII, 4-6). – Se i particolari di questo testo si prestano alla discussione, il senso generale non è dubbio. Nel Battesimo il Cristiano « muore alla Legge » che non è più nulla per lui: se era Ebreo, la Legge perde ogni suo potere sopra di lui; se era pagano, la Legge non può più esercitare sopra di lui nessuna rivendicazione. Il Battesimo è infatti una morte mistica nella quale siamo uniti al Cristo morente. Ora la morte che è il termine degli obblighi passati, estingue il nostro debito; e così la Legge di Mosè non avrà più crediti da far valere contro di noi. Questo è pure il pensiero che si cela in fondo a questo testo enigmatico: « Per mezzo della Legge io sono morto alla Legge; io sono stato crocifisso con Gesù Cristo (Gal. II, 18) ». Si capisce facilmente che il fatto di essere crocifisso con Gesù Cristo è una morte alla Legge: san Paolo ci ha familiarizzati con questa idea; ma come mai « per mezzo della Legge sono morto alla Legge? » Vi è forse connessione tra questa frase e l’inciso seguente? e in tal caso, si tratta dell’unione ideale col Cristo crocifisso sul Calvario, oppure dell’unione mistica con Lui al Battesimo? Qualunque sia la spiegazione che si voglia dare a questo testo oscuro, resta sempre il fatto che se, per ipotesi impossibile, la Legge mosaica non fosse abrogata per tutti, sarebbe abrogata per il Cristiano. – Oltre la morte del Cristiano alla Legge e la morte, per così dire, naturale della Legge divenuta decrepita per l’età, vi è anche una morte violenta della Legge, che san Paolo ci descrive in due passi di una singolare energia. I due testi presentano grandi analogie di pensiero e di espressione insieme con profonde divergenze, il che spiega il diverso scopo dell’autore. Il pensiero fondamentale è il medesimo: i pagani, che una volta erano seppelliti sotto i loro peccati, debbono all’abolizione della Legge l’essere stati vivificati nel Cristo. Ma l’abolizione della Legge è presentata ai Colossesi come la liberazione da un giogo opprimente e odioso, agli Efesini invece come la cessazione di discordie passate e come un pegno di unione tra le due frazioni della nuova umanità; infatti l’Epistola ai Colossesi vuole stabilire la libertà cristiana sotto la mediazione unica del Cristo, e l’Epistola agli Efesini ha lo scopo di mostrare la perfetta uguaglianza degli elementi che compongono il suo corpo mistico. Il quadro disegnato in quest’ultima Epistola è di una grandiosità solenne e tragica. Eccone la traduzione leggermente parafrasata: « Ricordatevi che una volta, voi pagani nella carne, trattati come incirconcisi da coloro che si chiamano circoncisi (e che tali sono) nella carne per mano dell’uomo, (ricordatevi) che in quel tempo eravate senza il Cristo, esclusi dalla teocrazia d’Israele, estranei alle alleanze della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo. « Ma ora, nel Cristo Gesù, voi che eravate una volta lontani, siete stati avvicinati nel sangue del Cristo. « Poiché egli è la nostra Pace, egli che di due (popoli) ne ha fatto uno solo, avendo rovesciato il muro di separazione, (la causa dell’inimicizia, e annullato nella sua carne (immolata) la legge dei precetti (consistente) in ordinazioni (molteplici), a fine di formare in se stesso un solo uomo nuovo con i due (popoli) che Egli ha pacificati, e di riconciliare l’uno e l’altro in un solo corpo per mezzo della croce, distruggendo per mezzo di essa l’inimicizia. « Ed è venuto ad annunziare la pace a voi che eravate lontani, e la pace (anche) a quelli che erano vicini; poiché per mezzo di Lui noi abbiamo accesso gli uni e gli altri presso il Padre, in un medesimo Spirito (Ephes. II, 13) ». Il pensiero che si può ricavare da questo periodo così carico d’incisi, è in fin dei conti abbastanza semplice. L’Apostolo si rappresenta i due popoli la cui riunione formerà la Chiesa, gli Ebrei e i Gentili, come separati tra loro da una barriera insormontabile e animati l’uno contro l’altro da inimicizie irreconciliabili. La barriera è la Legge; la causa dei sentimenti ostili è ancora la Legge. Infatti la Legge dava agli Ebrei tutti i privilegi: speranze messianiche, teocrazia, alleanze divine, conoscenza del vero Dio. I Gentili, estranei a tutto questo, erano trattati con disprezzo dai figli della circoncisione; e, cosa ancora più grave, erano senza il Cristo, senza Dio, senza speranza. Essi erano lontani dagli Ebrei in tutte le maniere, e l’ostilità reciproca che regnava tra loro, aumentava ancora di più la distanza. L’idea che domina nella mente di Paolo, nello scrivere queste righe, è il disegno di Dio, di costituire con questi elementi eterogenei, una sola famiglia, un a sola casa, che sarà la Chiesa, una sola persona morale, un solo corpo, che sarà il Cristo mistico. Nel tempo stesso la sua mente è assediata da due testi scritturali che hanno col suo argomento una meravigliosa relazione; l’uno di Michea il quale predice che il Messia sarà la Pace, cioè il pacificatore per eccellenza, l’altro di Isaia il quale dice che il Messia porterà la pace a quelli che sono vicino e a quelli che sono lontano. Come si compirà questa doppia profezia? Eliminando tutte le cause di odio e di discordia, sopprimendo la distanza che separava i due popoli, rovesciando la barriera che li divideva, e la quale altro non era che la Legge mosaica con i suoi onerosi e odiosi privilegi. Gesù Cristo compie tutto questo fondendo i due popoli in uno solo, nell’identità del suo corpo mistico. La legislazione antica aveva oppresso gli Ebrei col suo intollerabile peso, e per i Cristiani della gentilità è un benefìcio insigne l’esserne liberati: questo essi devono al Cristo: Voi eravate morti per le vostre offese e per l’incirconcisione della vostra carne, voi Dio ha fatto rivivere con lui (il Cristo), perdonandoci tutte le nostre offese, scancellando l’atto dei precetti (scritto) contro di noi, che era contrario a noi; e lo ha fatto scomparire inchiodandolo alla croce (Col. II, 13-14). È cosa assolutamente certa che « l’atto autentico consistente in precetti » indica la Legge di Mosè. Tale atto era scritto « contro » gli Ebrei perché loro imponeva numerosi e rigorosi doveri e li esponeva, in caso di violazione, a severi castighi; esso era loro « contrario » per le medesime ragioni e anche perché ritardava l’adempimento delle promesso messianiche. Non era poi meno contrario ai Gentili che escludeva dalla teocrazia. Perciò « il codice dei precetti » è annullato; Dio lo fa scomparire affinché nessuno se ne possa valere contro i discepoli del Cristo; egli lo inchioda alla croce del Salvatore, come per punirlo del male che ha fatto e per dare maggiore pubblicità alla sua abrogazione. La Legge che portava in se stessa tanti germi di caducità, muore qui di morte violenta, e la sua tirannia finisce: « Nessuno vi giudichi in fatto di cibi o di bevande, o in ciò che riguarda le feste o le neomenie o i sabbati: questa è l’ombra delle cose future (Col. II, 16) ». La Legge mosaica termina su la croce la sua drammatica carriera: essa ha ucciso il Cristo, e il Cristo alla sua volta la uccide.

CONOSCERE SAN PAOLO (39)

LIBRO QUARTO

CAPO II.

La morte redentrice.

III. SINTESI DOTTRINALE.

1. IL PRINCIPIO DELLA SOLIDARIETÀ. – 2. VALORE SOTERIOLOGICO DELLA RISURREZIONE DEL CRISTO, – 3. UNITÀ E ARMONIA DELLA DOTTRINA DI PAOLO.

 [F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Quanto siano varie multipli gli aspetti della redenzione, si è potuto vedere dalle pagine che precedono. Tutti questi aspetti sono giusti in una certa misura, tutti devono essere messi in vista e non possono essere messi in vista se non uno dopo l’altro; ma tutti sono incompleti, e appunto perché furono isolati, esagerandosi l’uno a detrimento degli altri, si immaginarono sistemi contradittori, insufficienti nella loro strettezza e falsi soprattutto per il loro esclusivismo. Ciascuno di essi rappresenta una parte della verità, ma non tutta intera la verità. La teoria del riscatto è giusta, perché il peccato ci costituiva realmente debitori verso Dio, e noi non eravamo in grado di pagare il nostro debito; ma questo debito non viene pagato per noi da un estraneo: è lo stesso genere umano che lo paga per mezzo di Gesù Cristo suo rappresentante. La teoria della sostituzione è giusta, perché il Cristo subì per noi una pena che Egli non meritava; ma la sostituzione è incompleta, perché Colui che espia le nostre colpe è il capo della nostra famiglia, e così anche noi le espiamo in Lui e per mezzo di Lui. La teoria della soddisfazione è giusta, ma a condizione che non si appoggi esclusivamente sopra una sostituzione di persone, poiché un affronto non si può dire veramente scancellato, se non quando l’offensore prende parte alla riparazione come ebbe parte nell’offesa. Per conseguenza, qualunque via si prenda, se non ci vogliamo fermare a mezza strada, si deve sempre arrivare al principio della solidarietà. Questo principio rivelatore non solamente fu veduto, ma fu chiaramente formulato dai Padri della Chiesa. Tutti dicono con espressioni equivalenti, che Gesù Cristo dovette diventare quello che siamo noi, affinché noi diventassimo ciò che è Lui; che Egli si incarnò, affinché la liberazione avvenisse per mezzo di un uomo, come per mezzo di un uomo era avvenuta la caduta; che il Cristo, in quanto è redentore, riassume e compendia tutta l’umanità; che Dio volle rialzare la nostra natura per mezzo di essa medesima e con le sue facoltà, in grazia del Verbo fatto carne. Parecchi di essi, ben lungi dal non riconoscere il principio della solidarietà, sembra che ne esagerino anzi l’applicazione. I teologi moderni entreranno anch’essi sempre di più in quest’ordine d’idee: i Cattolici per cercarvi un complemento necessario alla dottrina della soddisfazione; i protestanti per cercarvi un correttivo non meno necessario alla teoria della sostituzione della quale essi conservano religiosamente la terminologia. È un buon sintomo: si va gradatamente verso una concezione della morte redentrice, la quale risolve numerose difficoltà e finirà con mettere d’accordo tutti quelli che attribuiscono alla redenzione un valore oggettivo. Noi vedremo che essa interpreta bene il pensiero dell’Apostolo. – “L’amore del Cristo ci spinge, quando noi consideriamo: che se Uno è morto per tutti, dunque tutti morirono; e che Uno è morto per tutti affinché coloro che vivono non vivano più per se stessi, ma per Colui che è morto e risuscitato per loro”. (II Cor. V, 14-15) La teoria della sostituzione penale obbligherebbe a conchiudere: Se uno è morto per tutti, dunque gli altri non hanno più da morire. San Paolo invece conchiude l’opposto: « Se uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti » idealmente e misticamente in Lui e con Lui. La ragione è che egli parte dal principio della solidarietà che della morte del Cristo fa la nostra morte, e della vita del Cristo la nostra vita. Invece di scrivere: « Uno è morto al posto di tutti »; egli scrive, forse con intenzione: « Uno è morto in favore ed a vantaggio di tutti. I commentatori che, indotti dall’autorità di sant’Agostino, intendono questa morte del peccato originale, vanno incontro a difficoltà inestricabili. La loro spiegazione è rigettata dalla stessa grammatica, poiché san Paolo non dice: « Se uno è morto per tutti, dunque tutti erano morti » prima di Lui, ma dice: « Se uno è morto per tutti, dunque tutti morirono » simultaneamente e per il fatto medesimo. Del resto che cosa verrebbe a fare qui il peccato originale, supposto anche che il peccato originale, senz’altra qualifica, si possa chiamare morte? E come mai il ricordo del peccato originale stimolerebbe l’abnegazione degli Apostoli? Al contrario, è facile capire che la morte mistica con Gesù Cristo c’impone il dovere di vivere in Lui e di modellare i nostri sentimenti sopra i suoi. Finalmente l’interpretazione di sant’Agostino ha come punto di partenza un errore di fatto suggerito dalla versione latina. Nella frase Et prò omnibus mortuus est Christus, per l’interpolazione della parola Christus, la congiunzione sembrerebbe quasi riprendere l’argomento lasciato incompiuto; ora non è così: il ragionamento è completo nella prima frase, e la copulativa introduce soltanto una seconda considerazione atta a sostenere l’Apostolo nella via della rinunzia. Per conseguenza il testo intero non desta l’idea di sostituzione, ma quella di solidarietà. Infatti perché Gesù Cristo ci associ alla sua morte, bisogna che noi formiamo con Lui una sola cosa nel momento in cui Egli muore per noi. Senza dubbio noi siamo associati al Cristo morente soltanto in una maniera ideale, in quanto Egli è nostro rappresentante, ma la sua morte si realizza misticamente in noi per mezzo della fede e del Battesimo, e san Paolo ci ha abituati a questo linguaggio: « Come tutti muoiono in Adamo », idealmente nell’Eden, nell’atto stesso della disobbedienza, e poi realmente, per il fatto della generazione naturale, « così tutti saranno vivificati nel Cristo », idealmente e in potenza, al Calvario, realmente e in atto, per il fatto della rigenerazione soprannaturale. È sempre il principio della solidarietà quello che viene fatto risaltare in un altro passo di un’arditezza che stupisce: « Colui che non conosceva il peccato, Dio lo ha fatto peccato per noi. Affinché noi diventassimo giustizia di Dio in Lui (2II Cor. V, 21) ». L’Apostolo ha detto prima: « Noi vi supplichiamo in nome del Cristo, riconciliatevi con Dio ». Ora si affretta a soggiungere che questa riconciliazione è possibile e facile, perché Dio ha fatto il primo passo ed ha preparate le vie. Il pensiero prende dunque questa forma paradossale: Per una sublime condiscendenza da parte di Dio, il giusto diventa peccato, affinché i peccatori diventino giustizia. Anche qui non vi è propriamente sostituzione di persone, ma vi è solidarietà di azione. Il peccato non è trasferito dagli uomini al Cristo, ma si estende dagli uomini sul Cristo rappresentante della natura umana; così pure la giustizia di Dio non è trasferita dal Cristo agli uomini, ma dal Cristo si estende agli uomini, quando questi, per mezzo della filiazione adottiva, rivestono la natura divina. Questa idea è espressa più chiaramente nel secondo inciso, perché noi non diventiamo giustizia di Dio se non nel Cristo, cioè in quanto siamo uniti con Lui; ma i due membri del periodo sono paralleli e si devono spiegare l’uno con l’altro. L’Apostolo, nel servirsi dei termini generici « peccato » e « giustizia », non adopera qui precisamente l’astratto per il concreto, che qui non potrebbe stare; egli vuole esprimere una nozione collettiva. Gesù Cristo, come capo del genere umano, del quale rappresenta la causa e abbraccia gli interessi, personifica il peccato; Egli è fatto « peccato per noi », non già al nostro posto, ma a nostro vantaggio, perché col rendersi solidale della nostra sorte, ci ha associati al suo destino: così diventando peccato per noi, ci fa diventare giustizia di Dio in Lui. Gesù Cristo non è né peccato né peccatore-personalmente, ma come membro di una famiglia peccatrice con la quale forma una cosa sola. Nello stesso senso egli diventerà « maledizione », come ramo di un albero maledetto. Similmente, per causa della nostra unione con Colui che è la stessa giustizia, noi partecipiamo alla sua « giustizia ». Gesù essendo di sua natura impeccabile, non può essere reso peccatore dal suo contatto con i peccatori, mentre la nostra unione morale col Giusto per eccellenza, rende veramente giusti noi medesimi. E questa giustizia, perché deriva dalla grazia e non da noi, con ragione è chiamata « giustizia di Dio ». – Lo stesso ordine di idee si trova, presso a poco, in questo passo dell’Epistola ai Galati: “Il Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge diventando per noi maledizione — poiché sta scritto: Maledetto è chi pende dal legno (del patibolo) — per far giungere ai Gentili la benedizione di Abramo in Gesù Cristo, per farci ricevere per mezzo della fede la promessa dello Spirito (Gal. III, 13). San Paolo ha detto prima, che tutti coloro i quali dipendono dalle opere della Legge, che mettono esclusivamente in essa la loro fiducia, sono sotto la maledizione. Infatti la Legge maledice tutti i suoi trasgressori e non offre il mezzo di sfuggire alla maledizione da essa pronunziata. Bisogna dunque che il Cristo intervenga per togliere questa maledizione, poiché essa è incompatibile con la benedizione di cui il loro padre Abramo li ha costituiti eredi presuntivi e di cui i Gentili non avranno il benefizio se non dopo che gli Ebrei saranno atti a riceverla. In che modo si diporterà il Salvatore? Per salvare gli uomini, Egli si era caricato del loro peccato, o piuttosto era entrato in comunione con la loro natura peccatrice; similmente per salvare gli Ebrei — ed i Gentili dopo gli Ebrei — Egli si carica della loro maledizione, o meglio si rende partecipe della loro maledizione. La maledizione che pesa sopra di Lui è ben diversa da quella che pesa sopra gli Ebrei: tutte e due sono pronunziate dalla Legge, ma questa è reale, e quella apparente; l’una è valida agli occhi di Dio, l’altra ha valore soltanto nella stima erronea degli uomini; l’una deriva da una trasgressione della Legge, l’altra risulta da un fatto esteriore senza rapporti con la Legge; l’una ha per effetto la giusta morte del colpevole, l’altra ha per causa la morte ingiusta di un innocente. Non bisogna completare arbitrariamente il pensiero di Paolo, col rischio di falsarlo o di svisarlo. Paolo non insinua punto che la Legge, nel maledire a torto l’innocente, perda poi il diritto di maledire i colpevoli; né che la Legge, ottenendo la morte del Cristo, riceva quanto le è dovuto e non abbia più nulla da esigere: queste sono pure fantasie degli esegeti ridotti a mal termine. Più semplice e meno enigmatico è il pensiero dell’Apostolo. La maledizione, materialmente pronunziata dalla Legge ed accettata dal Salvatore, non è il mezzo, ma la condizione della nostra salvezza. In altri termini, Gesù Cristo non libera gli Ebrei dal giogo della Legge col fatto stesso che prende sopra di sé la maledizione della Legge, ma prende sopra di sé la maledizione della Legge per rendersi idoneo a liberare gli Ebrei dal giogo della Legge. E perché? Perché, secondo san Paolo, come pure secondo il redattore dell’Epistola agli Ebrei, nel nostro ordine di Provvidenza nel quale la redenzione si opera secondo il principio della solidarietà, Gesù Cristo dev’essere uomo per riscattare gli uomini, soggetto alla Legge per liberare i soggetti alla Legge, membro di una famiglia peccatrice per salvare i peccatori, rivestito della carne per vincere la carne nel suo stesso dominio, strettamente associato ai colpevoli per far riversare su loro la sua giustizia, in una parola, soggetto a tutte le nostre infermità e a tutte le nostre miserie, per poter essere il pontefice ideale, capace di aprirci le porte del cielo.

2. Questo ci porta a una constatazione della più alta importanza, voglio dire il valore soteriologico della risurrezione: « Il Cristo fu dato per causa delle nostre colpe e fu risuscitato in vista della nostra giustificazione (Rom. IV, 25) ». Il primo inciso è una citazione tacita di Isaia, e il contesto indica che si tratta del Messia dato alla morte come rimedio ai peccati del popolo. Questa è un’idea familiare a tutto il Nuovo Testamento. Gesù Cristo diede se stesso alla morte (Gal. II, 2°; Ephes. V, 2), e se Egli fu dato alla morte da Giuda e dagli Ebrei (Matth. XX, 19; Giov. XX, 11), vi fu dato pure da suo Padre (Rom. VIII, 22; Giov. III, 16). Questo ultimo significato è qui imposto dal parallelismo. Il Cristo fu dato da Dio per causa delle nostre colpe che la sola sua morte, nell’ordine attuale della provvidenza, poteva espiare. Qui non vi è difficoltà. Ma perché mai Egli fu risuscitato in vista della nostra giustificazione, oppure, il che poi viene a dire la stessa cosa, perché Dio lo risuscitò in vista della nostra giustificazione? Non è già che il Cristo ci abbia meritata la giustificazione col risuscitare, poiché dopo la sua morte non poteva più meritare. Neppure sarà perché la remissione dei peccati e la giustificazione siano separabili; se è lecito distinguerle come il lato positivo e il lato negativo della nostra salvezza, non si possono però disgiungere in modo che l’una possa mai stare senza l’altra. Certi autori eterodossi propongono questa esegesi: « Gesù Cristo è giustificato nella sua risurrezióne, e anche noi, per causa della nostra intima unione con lui, siamo giustificati nello stesso tempo (Candlish, Everett, Otto, Menègoz, etc.) ». Che confusione d’idee e che guazzabuglio! Come mai Gesù Cristo è giustificato alla sua risurrezione? Forse perché allora Dio lo proclama giusto? Ma non lo aveva già proclamato giusto durante la sua vita mortale e particolarmente al suo battesimo? Sarà forse perché allora Egli appariva giusto agli occhi degli uomini? Ma che relazione può avere questo con la nostra giustificazione? La spiegazione seguente, benché abbia sedotto qualche autore cattolico, non è però migliore: « Come i nostri peccati portarono moralmente alla morte del Cristo, così la nostra giustificazione ha portato moralmente alla sua risurrezione. La nostra condanna lo aveva ucciso, la nostra giustificazione lo ha risuscitato (Godet et al.) ». Che cosa significa questo enigma? Si vuole forse dire che, dopo di averci giustificati morendo per noi, il Cristo non aveva più ragione di restare nella morte, e che dunque noi, una volta giustificati, siamo in certo modo le cause involontarie della sua risurrezione? Ma come mai questo commento così stiracchiato si può trarre dalle parole di san Paolo? Parecchi interpreti cattolici, seguendo le orme di sant’Agostino, cercano la chiave del mistero in questo fatto, che essendo la risurrezione del Salvatore, il fondamento della nostra fede ed il motivo principale di credibilità, se Gesù Cristo non fosse risuscitato, noi non crederemmo in Lui e, non credendo in Lui, non saremmo giustificati; oppure in quest’altro fatto, che il Vangelo, nei disegni di Dio, doveva essere predicato soltanto dopo la risurrezione del Cristo, e che perciò la nostra fede — e per conseguenza la nostra giustificazione — dipendono da essa. Ma il vincolo stabilito tra la risurrezione del Cristo e la nostra giustificazione — il secondo soprattutto — è troppo fragile, troppo esteriore, troppo superficiale, e come si può supporre che l’Apostolo lasci tante cose da leggersi tra le righe? San Giovanni Crisostomo stringe più da vicino la questione. Per lui, la morte e la risurrezione del Cristo non sono altro che i due aspetti di un medesimo atto redentore, tanto che gli effetti della redenzione si possono indifferentemente attribuire all’una e all’altra. Se la nostra giustificazione è attribuita alla risurrezione piuttosto che alla morte, si è perché, dirà san Tommaso, nella sua morte Gesù Cristo è causa meritoria, e nella sua risurrezione è causa esemplare della nostra giustificazione; Egli è dunque risuscitato per servirci come modello nell’acquisto di una nuova vita. Tutto questo ci appare già assai conforme allo spirito di Paolo; però forse vi manca ancora un ultimo tocco. – Gesù Cristo non veniva su questa terra semplicemente per morire, ma veniva per unirci a Lui e per associarci al suo trionfo. Non gli bastava dunque il morire per noi, ma doveva anche risuscitare per noi (II Cor. V, 15). La morte è appena la metà dell’opera redentrice ed esige la risurrezione come suo complemento necessario. Infatti la giustificazione di ciascuno di noi è prodotta dalla fede e dal Battesimo; ora è facile il vedere come la risurrezione di Gesù influisca sopra queste due cause; poiché la nostra fede nel Cristo non è una fede nel Cristo morto, ma nel Cristo vivente, nel Cristo risuscitato; e il Battesimo non è solamente il simbolo efficace della morte del Cristo, ma anche quello della sua vita gloriosa. Dunque l’atto e il rito che ci incorporano al Cristo sono messi in relazione costante con la sua risurrezione. Nel nostro medesimo testo, l’Apostolo ha detto prima, che la fede ci sarà imputata a giustizia, come fu imputata ad Abramo, « se crediamo in Colui che ha risuscitato dai morti Gesù Cristo nostro Signore (Rom. IV, 24) ». E poco dopo dice: « Se tu confessi con la bocca il Signore Gesù e se credi nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, tu sarai salvo (Rom. X, 9; cfr. II, 24; I Tess. IV, 14) ». Senza la risurrezione, la fede non ha il suo vero oggetto; senza la risurrezione, il Battesimo non ha il suo completo simbolismo. Nel Battesimo infatti noi moriamo e risuscitiamo con Gesù Cristo: moriamo misticamente con Lui in quanto siamo associati alla sua morte, e risuscitiamo in quanto siamo sacramentalmente associati alla sua risurrezione. Se si sopprime la risurrezione, il Battesimo e la fede medesima, che non giustifica senza qualche relazione col Battesimo, perdono il loro significato e perciò la loro efficacia. Questa è una delle ragioni per cui Gesù Cristo « risuscita » in vista della nostra giustificazione. – Ma ve n’è un’altra più profonda. Che la risurrezione del .Cristo sia per noi il più saldo motivo della nostra fede, la condizione provvidenziale della missione degli Apostoli, il pegno sicuro della nostra risurrezione; che essa sia per Lui la giusta ricompensa dei suoi meriti, il risultato naturale della sua pienezza di grazie, la degna incoronazione dell’opera redentrice; che essa sia per Dio il sigillo messo alla redenzione, una dichiarazione di pace fatta agli uomini, l’espressione del suo favore finalmente ricuperato, queste sono verità ammesse da tutti. Ma essa è ancora più e meglio di tutto questo: essa è intimamente legata al frutto della morte redentrice e al dono dello Spirito Santo. Al momento della risurrezione Gesù Cristo diventa « spirito vivificante (I Cor. XV, 45) ». Prima egli aveva bensì lo Spirito nella sua pienezza; ma lo Spirito che abitava in Lui, impedito dalle limitazioni inerenti all’economia della redenzione, non poteva esercitarvi tutto il suo potere vitale. Soprattutto il Cristo stesso non era ancora in grado di comunicare agli altri la pienezza della vita; questo privilegio aveva per condizione, che prima avvenissero la morte e la risurrezione. « Per voi conviene che io me ne vada, aveva detto Gesù; perché se Io non me ne vado, il Paraclito non verrà a voi; ma se Io me ne vado, ve lo manderò (Giov. XVI, 18) ». E siccome col Paraclito Egli stesso doveva venire, soggiungeva: « Io non vi lascerò orfani ma verrò a voi (Giov. XIV, 18) ». San Paolo esprime la stessa cosa in questa forma concisa ed enigmatica: il Cristo glorificato diventa « spirito vivificante »; Egli diventa per i suoi una fonte perenne di grazie e di vita. « L’opera del Cristo comprende due cose: quello che ha fatto per tutti gli uomini e quello che fa per ciascuno di essi; quello che ha fatto una volta per sempre e quello che continua a fare senza interruzione; quello che ha fatto per noi e quello che fa in noi; quello che ha fatto sopra la terra e quello che fa in cielo; quello che ha fatto in Persona e quello che fa per mezzo del suo Spirito: Egli riconcilia offrendo se stesso sopra la croce, giustifica col mandarci il suo Spirito (Newman:   … Justif. Londra 1892, IX, 1) » ed operando Egli stesso in noi come spirito.

3. Questo doppio compito complementare spiega naturalmente la curiosa dualità rilevata con compiacenza da molti teologi eterodossi (Holtzmann). Secondo questi, san Paolo avrebbe due teorie della redenzione, differenti se non disparate, le quali ora corrono parallele tra loro senza nessuna tendenza ad unirsi, ora invece si avvicinano fino a toccarsi ed a confondersi; l’una che si può chiamare giuridica perché è fondata sul principio della compensazione, della sostituzione penale e della soddisfazione vicaria, attribuisce alla morte del Cristo un valore oggettivo, indipendente dall’applicazione individuale; l’altra che si chiamerà morale perché è fondata sul fatto del rinnovamento interiore, riconosce alla redenzione solamente un valore soggettivo, in quanto l’uomo se lo appropria con la fede e con l’unione al Cristo. Nella prima, la riconciliazione avviene fuori dell’anima e si compie in virtù di una specie di contratto tra Dio e l’umanità, col Cristo come mediatore; nella seconda, è invece un prodotto della stessa coscienza. La teoria giuridica opera con le idee di espiazione, di propiziazione, di sacrificio, di sostituzione, insomma, con le categorie del giudaismo popolare, ed è un residuo dell’educazione farisaica di Saulo; la teoria morale dipende piuttosto dal pensiero ellenico e riflette l’esperienza religiosa di Paolo, dopo la trasformazione che si compì in lui sulla via di Damasco. Questa medesima dualità si ritroverebbe ancora nella spiegazione dell’origine del peccato, ora collegata al fatto storico della prima caduta, ora riferita al determinismo psicologico della carne; essa si ritroverebbe pure nel concetto della giustificazione, della salute, del giudizio; insomma, essa dominerebbe tutto quanto l’insegnamento dell’Apostolo. – Parecchi dichiarano che è impossibile la conciliazione, e sostengono che la sintesi così fatta non si trovava nella mente di Paolo; altri si sforzano di risolvere l’antinomia, ma lo fanno con sopprimere uno dei due aspetti; alcuni sono di parere che bisogna lasciare ai due sistemi la loro indipendenza, senza cercare di fonderli insieme o di subordinarli l’uno all’altro, per timore di snaturarli col tentativo di unirli. Questi scrupoli a noi sembrano vani. San Paolo infatti ebbe cura di confrontare i due aspetti dell’opera redentrice e di farne vedere gli stretti rapporti: « Noi siamo giustificati gratuitamente dalla grazia di Dio, mediante la redenzione che è nel Cristo Gesù. Dio lo ha esposto come propiziazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, per mostrare ora la sua giustizia, a fine di essere (riconosciuto) giusto e fonte di giustizia per chiunque crede i n Gesù (Rom. III, 24-26) ». Secondo questo passo, concorrono all’opera redentrice tre iniziative di Dio, tre operazioni del Cristo, tre sentimenti dell’uomo. Dio, vedendoci incapaci di uscire da noi medesimi dal peccato, decreta di giustificarci gratuitamente: questa è l’iniziativa della grazia. Egli decide di stabilire il Cristo come strumento della propiziazione e di esporlo come tale agli sguardi del mondo: questo è il trionfo della sapienza. Egli vuole anche dimostrare che è giusto e che fu sempre giusto, nonostante l’apparente sua indifferenza di altri tempi verso il peccato: questa è la rivendicazione della giustizia. Il Cristo per parte sua opera la redenzione, ossia la liberazione dei peccatori; e questa redenzione, ben lungi dall’essere contraria alla grazia, agisce d’accordo con essa. Egli opera la propiziazione quando, espiando il peccato che innalzava una barriera tra Dio e noi, ci rende Dio propizio. Egli opera la redenzione e la propiziazione in qualità di vittima: l’efficacia della salute è nel suo sangue. L’uomo pertanto non rimane passivo; l’affare della sua salvezza non si conchiude senza di Lui: il suo contributo è la fede, la fede nel Cristo salvatore; egli medita la lezione del Calvario e comprende che deve corrispondere a tanto amore con la riconoscenza; finalmente, davanti a tale dimostrazione della giustizia divina, egli impara a temere l’ira di Dio ed a confidare nella sua misericordia. – In questo modo la dottrina della redenzione forma un tutto coerente i cui aspetti più diversi si armonizzano tra loro. Il fatto del rialzamento è in un rapporto esatto con la storia della caduta: il Calvario è la ripetizione dell’Eden; l’umanità cade e si rialza nel suo rappresentante; un atto di disobbedienza la perde, e un atto di obbedienza la salva. Quanta luce di qui si diffonde sopra l’unità del disegno della redenzione, sopra la fraternità umana e sopra la comunione dei santi! Dio non è più il creditore avido di riavere quello che gli è dovuto, né il sovrano geloso di vendicare a qualunque costo i suoi diritti; ma è il Padre infinitamente buono, santissimo, giustissimo e sapientissimo il quale, nel suo ostinato amore per l’uomo colpevole, prende l’iniziativa di salvarlo e mette in opera la sua onnipotenza per eseguire un disegno che concilia nel miglior modo tutti i suoi attributi: bontà, santità, giustizia e sapienza. Gesù Cristo è sempre la vittima il cui sangue espia il peccato, opera la propiziazione, suggella l’alleanza e apre il cielo; ma non è più una vittima inerte, dotata di una specie di virtù magica; il suo sangue, per quanto prezioso, ha valore soltanto per la libera e amorosa offerta che Egli ne fa a suo Padre, in nome dell’umanità contenuta in Lui come nel suo capo. Non si tratta più di una sostituzione mediante la quale l’innocente subirebbe il castigo del colpevole, ma di una condiscendenza sublime che porta il Figlio di Dio a identificare la sua causa con quella dei peccatori; non si tratta neppure di una soddisfazione esterna data a Dio per strappargli il perdono dei colpevoli, ma di un omaggio filiale che, per mezzo di Gesù Cristo, il genere umano presenta a Dio, e che Dio gradisce perché Egli stesso ne ebbe l’iniziativa e vi ha la parte principale. – La risurrezione di Gesù non è più un lusso soprannaturale offerto all’ammirazione degli eletti, né una semplice ricompensa data ai meriti di Lui, e neppure soltanto il sostegno della nostra fede e il pegno della nostra speranza; essa è un complemento essenziale e una parte integrante della stessa redenzione. Finalmente l’uomo non è più il testimonio passivo di un dramma che si svolgerebbe senza di lui e dove egli non avrebbe nessuna parte: egli muore idealmente sul Calvario col Cristo che muore, e rivive misticamente in Lui nell’atto di fede e nel sacro rito che gli applicano i frutti della morte redentrice. La redenzione degli nomini si compie in tre tempi: al Calvario, al Battesimo e alla parusia. Al Calvario essa si compie in diritto, in principio e in potenza; nel Battesimo si compie di fatto e in atto, benché ancora imperfetta; nel giorno della parasta essa si termina e si consuma. Intrinsecamente legata alla morte del Cristo, la redenzione potenziale è indipendente dalle sue applicazioni più o meno estese e, per così dire, dal suo risultato storico. Gli effetti immediati ne sono la riconciliazione del genere umano con Dio e la vittoria del Cristo sopra i nemici dell’umanità. [Continua …]

 

CONOSCERE SAN PAOLO (38)

LIBRO QUARTO

CAPO II.

La morte redentrice.

II. IL VALORE DELLA MORTE REDENTRICE.

1. VALORE SOGGETTIVO O MORALE. — 2. TRE SPIEGAZIONI DEL VALORE OGGETTIVO: RISCATTO, SOSTITUZIONE, SODDISFAZIONE. — 3. DOTTRINA DEI PADRI.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. La passione del Cristo è una manifestazione che, nei disegni di Dio, dev’essere riconosciuta e apprezzata dagli uomini. Quando la coscienza del peccatore è obliterata, gli fa bisogno una nuova rivelazione della santità divina, e Dio gli dà questa nuova rivelazione nello spettacolo del Giusto che porta la pena del peccato altrui. Ma se il giusto che soffre per il colpevole fosse puramente passivo e non accettasse, con sommissione filiale, il compito di mediatore, il suo patire non sarebbe un reale omaggio alla santità infinita. « La soddisfazione offerta alla giustizia divina dal sacrificio del Cristo, non consiste dunque solamente nella morte, ma nella morte unita con i due fatti morali che l’accompagnano, uno dei quali si compie nella coscienza del mediatore, e l’altro nella coscienza del credente (Godet) ». Tale è la spiegazione, meno nuova forse di quanto si pensano, che ci propongono certi teologi moderni. Il pericolo e l’errore starebbero nel credere che essa illumini tutto il mistero o che esaurisca l’argomento: essa anzi lo esaurisce così poco, che la passione del Cristo — sempre nell’ordine dell’efficacia soggettiva — si può con altrettanto buon diritto considerare come un esempio di abnegazione e come uno stimolo dell’amore. Il dramma del Calvario, a tutti i cuori nobili, parla un linguaggio assai eloquente: se il Cristo è morto per noi che non eravamo nulla per Lui, quanto più noi dobbiamo vivere per Lui che per noi è tutto! e se il Cristo diede la sua vita per estranei, quanto più noi dobbiamo spendere il nostro per i nostri fratelli! Gesù nel darsi per noi, voleva che questo esempio di abnegazione non andasse perduto; Egli voleva vincere così il nostro egoismo, ed è questa una delle considerazioni che l’Apostolo fa valere quando dice che l’amore del Cristo lo spinge e non gli lascia riposo (II Cor. V, 14-15). Gesù Cristo non ci riscatta altrimenti che con identificarsi alla nostra razza, e noi non abbiamo parte alla sua redenzione se non con l’identificarci con Lui per mezzo della fede: di qui risulta l’imperioso dovere di conformarci alla sua condotta e di modellarci sopra la sua vita. Quando san Pietro stabilisce il gran principio dell’imitazione di Gesù Cristo, fondato sopra l’esempio della sua passione (I Piet. II, 21), si trova in armonia perfetta con san Paolo che si compiace di proporre come modello, ai neofiti, il Crocifisso (Fil. II. 8) del quale egli medesimo si sforza di riprodurre lo stato di morte (II Cor. IV, 10) e del quale è fiero di portare nel suo corpo l’immagine sanguinosa (Gal. VI, 17). È dunque cosa evidente, che la morte redentrice ha per noi il valore di un esempio, di una lezione e di un incoraggiamento. Il grave errore dì Abelardo fu di credere che essa fosse soltanto questo: una manifestazione di amore destinata a produrre in noi una reazione di amore. Se il sistema di Abelardo è talora nebuloso, la professione di fede che gli fu imposta, la ritrattazione del suo antico discepolo Goffredo di Chiaravalle, le confutazioni di san Bernardo e di Guglielmo di Saint-Thierry, lo rischiarano e lo precisano. Poco seguito dai contemporanei e quasi caduto nell’oblio, fu risuscitato da Socino e dai suoi seguaci; ma tale patrocinio compromettente non era tale da poterlo raccomandare agli occhi dei protestanti, e meno ancora a quelli dei Cattolici. Chi gli diede una certa pubblicità tra gli eterodossi, fu Eitschl. L’opera redentrice del Cristo consisterebbe unicamente nel rivelarci, con la sua vita e specialmente con la sua morte, l’amore del Padre celeste, così essenzialmente Padre, che è sempre disposto a perdonare il peccatore. Questa rivelazione, col restituirci la confidenza, distrugge in noi il peccato il quale altro non è che una mancanza di confidenza verso Dio; in questa maniera essa ci giustifica e ci riconcilia; essa ci libera anche dal castigo del peccato, perché il castigo non è altro, secondo Eitschl, che il sentimento della nostra colpa e la convinzione che i mali della vita ne sono la giusta pena. La maggior parte dei teologi protestanti, bisogna dirlo, respinge tale teoria troppo apertamente contraria all’insegnamento di san Paolo. Essi confessano che la morte del Cristo ha per l’Apostolo un valore oggettivo che risulta dallo stesso atto redentore e che esiste indipendentemente dalle nostre considerazioni e dalla nostra conoscenza.

2. La redenzione è essenzialmente la distruzione del peccato. Quanti sono gli aspetti del peccato, altrettanti sono quelli della redenzione: se il peccato è una caduta, la redenzione è un rialzamento; se il peccato è un’infermità, la redenzione è un rimedio; se il peccato è un debito, la redenzione sarà un pagamento; se il peccato è una colpa, la redenzione sarà una espiazione; se il peccato è una schiavitù, la redenzione sarà una liberazione; se il peccato è un’offesa, la redenzione sarà una soddisfazione da parte dell’uomo, una propiziazione da parte di Dio, una mutua riconciliazione tra Dio e l’uomo. Il rialzamento dell’umanità da parte del Verbo fatto carne, è quella che di preferenza considerava la speculazione alessandrina guidata da considerazioni apologetiche. L’incarnazione era perciò messa più in vista, e la redenzione propriamente detta, per mezzo della morte del Cristo, era messa al secondo posto. Si soleva ripetere che il Verbo si è incarnato per deificare — si diceva anche verbificare

— la natura umana, per onorarla con la sua presenza e per guarirla col suo contatto, per restituirle l’immortalità e l’incorruttibilità perdute nella caduta originale, e così pure per rischiarare le sue tenebre e per dissipare i suoi errori. Tutto questo rendeva sensibile il benefizio dell’incarnazione, ma non diceva né il perché né il come della morte redentrice. – Le teorie immaginate per spiegare il valore oggettivo di questa morte, si possono ridurre a tre: teoria del riscatto o della redenzione, teoria dell’espiazione e della sostituzione penale, teoria della soddisfazione. È necessario esporre brevemente le prove che le corroborano, e di mostrarne, dove occorre, i punti deboli e l’insufficienza.

Teoria del riscatto o della redenzione. — Il valore della morte del Cristo è abbastanza frequentemente espressa nella Scrittura con una metafora commerciale. Paolo dice che Gesù Cristo ci ha acquistati, comprati, riscattati; il prezzo è indicato chiaramente; è il sangue del Piglio di Dio. Anzi una volta, in un passo, che ha il suo esatto parallelo nei due primi Sinottici, è adoperata la parola riscatto; altrove l’idea di riscatto è contenuta nel senso etimologico dei termini riscattare e redenzione . Per apprezzare giustamente il valore di questo concetto, bisogna risalire alla sua origine. Israele era la proprietà, il peculio di Jehovah; questa era una delle conseguenze della teocrazia mosaica: « Tu sei un popolo consacrato a Jehovah tuo Dio; egli ti ha scelto per essere suo dominio particolare tra tutti i popoli (Deut. VII, 6) ». Però Dio metteva una condizione: « Se voi ascoltate la mia voce e conservate la mia alleanza, sarete mio dominio tra tutti i popoli; poiché la terra mi appartiene (Esod. XIX, 6) ». Dio fondava questo dominio sopra il suo diritto supremo e sopra la sua libera scelta: Jehovah si elesse Giacobbe, Israele è suo dominio (Ps. CXXXIV, 4). Ma Egli si era pure adoperato per assicurarselo, e poteva dire per bocca d’Isaia: « Mi sono formato questo popolo; esso annunzierà la mia gloria (Is. XLIII) », e per bocca di Mosè e del Salmista poteva dire che lo possedeva per diritto di conquista (Es. XV, 16; Ps. LXXIII, 2). Egli ne poteva dunque disporre a suo talento e per questo appunto minaccia frequentemente di disfarsene, di cederlo ai suoi nemici (Giud. II, 14, etc,): Altrimenti la Roccia li venderà; e Jehovah li abbandonerà (Deuter. XXXII, 30). Dio applicava al suo popolo infedele la legge del taglione: lo abbandonava nella misura in cui Egli stesso ne era abbandonato. Non era un abbandono totale, assoluto, consumato, senza speranza di ritorno, ma un abbandono parziale, temporaneo, revocabile nel giorno della resipiscenza. Dio non rinunziava mai al diritto di riscattare il suo popolo pentito e reso saggio dalla sventura; Egli anzi vi si impegnò per due titoli: in forza dell’alleanza conchiusa con la posterità di Abramo e con i figli d’Israele, alleanza che lo obbliga a ricondurre il suo popolo dall’Egitto — e più tardi da Babilonia — a liberarlo dai suoi oppressori ed a preservarlo dalla rovina; poi nella sua qualità di redentore, che gl’impone di liberare il suo popolo caduto nella schiavitù, e di vendicarlo contro i suoi nemici. In tutte queste metafore, non occorre preoccuparsi del prezzo da pagarsi, perché Dio è il padrone; e come l’atto di alienazione non conferiva agli avversari d’Israele un vero diritto, così il nuovo atto di liberazione che annulla il primo contratto, non conferisce loro il eredito di un compenso: Dio stesso lo dichiara formalmente: Voi foste venduti per nulla; Voi sarete riscattati gratuitamente (Isai. LII, 3).- Una volta soltanto compare l’idea di compenso: « Io sono il Signore tuo Dio, il Santo d’Israele, tuo Salvatore; io ho dato per te, come riscatto, l’Egitto, l’Etiopia e Saba (Isai. XLIII, 3) ». Ma questa allusione isolata, abbastanza spiegata dal fatto storico delle conquiste del liberatore degli Ebrei, non fa altro che mettere in maggiore rilievo il numero dei casi in cui il riscatto e la redenzione si compiono senza la più piccola menzione del pagamento di un compenso, e con la manifesta impossibilità di stabilire il soggetto al quale si dovrebbero pagare il debito o il riscatto. Vediamo ora quale parte abbiano le idee di acquisto, di compra, di riscatto, di prezzo e di redenzione, negli scritti di san Paolo. Si possono dividere i testi in due serie: quelli in cui si parla di prezzo e di compera; quelli in cui si parla di redenzione e di riscatto. Nel discorso che rivolge agli anziani di Efeso, l’Apostolo dice loro: Pascete « la Chiesa di Dio che Egli si acquistò col proprio sangue (Act. XX, 28) ». Questa è un’allusione chiara ai passi dell’Antico Testamento, che fecero dare a Israele il nome di « popolo di acquisizione (Tit. II, 14) », cioè di popolo acquistato dal Signore come suo dominio particolare; ma siccome qui si tratta della Chiesa, il prezzo dell’acquisto non può essere altro che il sangue del Cristo. Le Epistole non ci offrono esempi interamente simili a questo; tuttavia l’asserzione ripetuta due volte: « Voi foste comprati con un (gran) prezzo (I Cor. VI, 20; VII, 23) » si deve considerare come parallela, poiché non vi è dubbio che il prezzo di cui si parla, è il sangue stesso del Salvatore. In forza di questa compera, noi diventiamo il bene inalienabile di Dio, e non è più in nostro potere l’asservirci ad altri. Parlando specialmente degli Ebrei, san Paolo dice ancora: « Il Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge diventando per noi maledizione (Ga. III, 13) »; e altrove: « Dio mandò suo Figlio, fatto da una donna, messo sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, (Gal. IV, 5) ». Dunque Gesù Cristo, come il Jehovah dell’antica alleanza, acquista, compra e riscatta il suo popolo; Egli, per fare questo, paga un prezzo inestimabile, il suo sangue, oppure assume una condizione onerosa ed infamante, l’osservanza e la maledizione della Legge. Ma la metafora non è spinta più oltre, e non vi è nessuno che intervenga ad esigere o a ricevere il prezzo. – Due volte san Paolo dà alla parola « redenzione » un senso escatologico: noi aspettiamo « la redenzione del nostro corpo (Rom. VIII, 23) », ossia la liberazione dalle miserie della mortalità; e lo Spirito Santo ci ha segnati col suo sigillo « per il giorno della redenzione (Ephes. IV, 30) » che è quello della liberazione definitiva e del trionfo completo della vita sopra la morte. In tutti gli altri passi, la redenzione si riferisce all’opera attuale della salvezza; è « la redenzione nel Cristo Gesù » oppure, il che è poi la stessa cosa, « la redenzione per mezzo del suo sangue (Rom. III, 24; etc.)». L’Apostolo, certamente facendo allusione a una parola del Maestro, dice pure che « Gesù Cristo si diede (come) riscatto per noi (I Tim. II, 6) » abbandonandosi alla morte. Qual è il valore esatto di queste affermazioni? Nell’Antico Testamento la redenzione operata da Dio contiene solamente l’idea di un prezzo da pagarsi o da riceversi. Lo stesso dev’essere, ed a più forte ragione, nel Nuovo Testamento nel quale la redenzione acquista un senso tecnico, completo per se stesso, che riassume l’opera intera della nostra salute, la remissione dei peccati, la santificazione, la glorificazione (Col. I, 14), senza che vi sia specialmente notata la liberazione. In ogni caso, il prezzo del quale si fa talora menzione, non può essere che una condizione onerosa la quale dev’essere adempita dal redentore. Infatti se si trattasse di soddisfare o di risarcire dei danni qualcuno, questi sarebbe evidentemente colui che ci teneva in schiavitù, al quale il Cristo Gesù ci strappa. Ora, secondo san Paolo, noi eravamo schiavi del peccato, dei vizi, delle passioni (Rom. VI, 6); noi siamo liberati da ogni iniquità (Tit. II, 14); gli Ebrei sono riscattati dalla maledizione della Legge (Gal. III, 13); i pagani erano asserviti agli elementi del mondo e Dio li aveva abbandonati ai loro desideri impuri (Rom. I, 24). Si potrà dire che il prezzo del riscatto sia pagato al peccato, all’iniquità, alle passioni carnali! In questo affare il diavolo non compare mai; a più forte ragione la concezione grottesca di un mercato col demonio che si riuscirebbe ad accontentare mediante un equo compenso, è affatto assente dagli scritti di san Paolo. Se si volesse spingere fino alla fine la metafora, il prezzo del nostro riscatto sarebbe pagato a Dio; poiché è Dio che viene placato e reso propizio dall’opera della redenzione, e soltanto riguardo a Dio il Cristo è « propiziatore ». Il Salvatore è il nostro riscatto (λύτρον= lutron), e si sa che questa parola, nel codice mosaico, indica la tassa o il sacrificio che Dio esige per il riscatto dei primogeniti (31). Ma, ripetiamo ancora una volta, nulla ci permette di affermare che la metafora sia spinta tanto innanzi. Lavorando con queste idee di compera, di prezzo e di riscatto, veniva forte la tentazione di trasformare la metafora in allegoria e di completare la similitudine supplendo al silenzio degli autori sacri. Parecchi Padri non seppero resistere a tale tentazione e si lasciarono sfuggire espressioni poco felici le quali attirarono sopra di loro gli anatemi dei nostri moderni storici del dogma. I fatti però non giustificano troppo queste virulente diatribe: la buffa teoria dei diritti del demonio non fu mai comune nella Chiesa; anzi non si dovrebbe neppure parlare mai. di teorie, ma di allusioni fatte alla sfuggita o di amplificazioni oratorie, corrette poi poco dopo con spiegazioni di una precisione impeccabile. Se lasciamo in disparte san Giustino e sant’Ireneo, incriminati a torto, poiché essi si limitano a parafrasare le espressioni degli Apostoli, se sopprimiamo in Origene, in san Basilio e in san Gerolamo alcune righe meno felici, non restano che i passi ben noti e troppo commentati di sant’Ambrogio e di san Gregorio Nisseno. Soltanto in due lettere, nelle quali meno rigorosamente si deve esigere l’esattezza teologica, sant’Ambrogio spinge l’allegoria fino agli estremi, affermando che il prezzo del riscatto fu da Gesù Cristo pagato al demonio. L’uomo che si era venduto a satana, era un debitore insolvibile; essendo egli prigioniero per debiti, bisognò che il Cristo pagasse per lui e lacerasse così l’atto autentico nel quale era scritta la sua obbligazione. A chi dunque il Cristo ha sborsato il prezzo del suo sangue? Al creditore infernale: il vescovo di Milano non indietreggia davanti a questa orribile conseguenza. San Gregorio Nisseno arriva allo stesso punto, ma per altra via: la redenzione del genere umano deve salvaguardare tutti gli attributi di Dio, perciò tanto la giustizia, quanto la sapienza o la bontà. Ora noi, abbandonati al demonio con un atto in buona forma legale, eravamo sua proprietà, ed egli non consentiva ad abbandonare il suo credito senza un equo compenso. Credette di trovare questo compenso nella morte del Saldatore; ma si accorse troppo tardi di aver fatto un contratto da sciocco: l’uomo rimaneva fuori del suo dominio e delle sue rivendicazioni. Per non giudicare troppo severamente questi negoziati giuridici, questo bizzarro mercanteggiare, bisogna ricordare che il santo dottore qui si rivolge a lettori infedeli, che egli non intende di fare dell’esegesi e neppure, propriamente parlando, della teologia, ma fa dell’apologetica razionale; e se si vuole diciamo pure che fa della cattiva apologetica. Il suo esempio pertanto ci deve insegnare quanto è pericoloso, in queste delicate materie, avventurarsi « oltre quello che è scritto ».

Teoria della sostituzione penale. — Sono molti i teologi che in fondo ad ogni sacrificio trovano l’idea di sostituzione. Il sacrificio avrebbe essenzialmente lo scopo di riconoscere il supremo dominio di Dio e anche, nell’attuale stato di decadenza, l’indegnità dell’uomo. In tali condizioni, l’istinto religioso suggerirebbe al colpevole, conscio delle sue colpe e della pena che queste meritano, il pensiero di sostituire a se stesso una vittima innocente, scelta tra gli animali più necessari alla sua sussistenza. Se è difficile constatare tale sentimento nei popoli primitivi, presso i quali il sacrificio riveste molte volte un carattere di gioia, si crede almeno poterne stabilire l’esistenza negli Ebrei i quali lo avrebbero avuto dalla rivelazione. Il rituale comune ai sacrifici per il peccato, sembra che indichi chiaramente questa sostituzione: la vittima dev’essere immacolata; colui che la offre le impone le mani per indicare la trasmissione della colpa; essa viene uccisa invece del colpevole; il suo sangue sparso dinanzi a Dio ed il suo corpo consumato dalle fiamme completano il simbolismo dell’espiazione. In appoggio della teoria, si cita il testo del Levitico: « Nel sangue è la vita degli esseri viventi, e per l’altare io ve lo do, per fare propiziazione per voi; poiché è il sangue che fa propiziazione, perché è la vita (Rom. V, 6, 7, 8.) ». Bisogna astenersi dal sangue, perché la vita sta nel sangue: la vita si ferma col fermarsi del sangue, sfugge quando sgorga il sangue; questo fatto di esperienza basta perché il sangue sia considerato come il veicolo della vita, come il simbolo della vita, come la stessa vita. Ora la vita degli animali appartiene unicamente a Dio; Egli la riserva a sé e ne concede l’uso all’uomo soltanto in vista del sacrificio. Offrire il sangue è offrire la vita, e Dio l’accetta sopra l’altare, ma solamente come mezzo di espiazione o di propiziazione: l’ebraico kipper significa l’una e l’altra. Questa ingegnosa teoria fa nascere molte obbiezioni: come si può, per esempio, applicare ai sacrifici pacifici, ai sacrifici votivi, ai sacrifici di ringraziamento? Anche se ristretta al sacrificio per il peccato, essa va incontro a gravi difficoltà. La Legge mosaica non ammetteva sacrifici per le trasgressioni che meritassero la pena di morte. Il sacrificio non consisteva tanto nell’immolazione che talora poteva essere fatta da un laico, quanto nella manipolazione del sangue, che era riservata al solo sacerdote. Si è forse dimostrato mai che l’imposizione delle mani, suscettibile di un simbolismo così vario, significasse precisamente la trasmissione della colpa? E se significava proprio questo, perché mai la vittima, invece di venirne macchiata, diventava tanto santa, che soltanto i sacerdoti potevano parteciparne? La morte cruenta è proprio quella che manca nella cerimonia del capro emissario, nella quale l’idea della sostituzione è più sensibile e nella quale, come era da aspettarsi, l’animale caricato simbolicamente delle colpe del popolo, diventava impuro e maledetto. La teoria della sostituzione penale, isolata o esagerata, presenta inoltre gravi pericoli: essa tende a stabilire un conflitto ripugnante tra la giustizia e l’amore di Dio, tra la sua ira e la sua misericordia. Dio perseguita un Dio; procede contro di Lui con tutto l’apparato della giustizia; lo considera come un nemico, come un oggetto meritevole di tutte le sue vendette; gli dichiara una guerra aperta; lo abbandona ai furori della sua giustizia sdegnata e gl’infligge in certo modo la pena del danno. A queste figure oratorie, a queste immagini grandiose, delle quali bisogna ridurre le dimensioni, quanto è preferibile la semplice dottrina di san Tommaso, che cioè Dio ha dato suo Figlio col decretare la sua morte per la salute del mondo, con l’ispirargli la volontà di morire per noi, col non proteggerlo contro i suoi nemici. Si dice che l’innocente è punito invece del colpevole; ma questo non è esatto e neppure intellegibile. Il castigo non si può trasferire da una persona all’altra senza cambiare natura. Si può bensì pagare un debito per mezzo di intermediari, ma non già subire una pena per procura. Il castigo è cosa essenzialmente personale, inseparabile dalla colpa; se cade sopra un estraneo non è più un castigo. Se il diritto delle genti ha qualche volta permesso d’imputare a una famiglia, a una città, a una nazione, la colpa di uno dei loro membri, questo avvenne perché la famiglia, la città o la nazione erano considerate come uno stesso ente morale; questo non avvenne in forza del principio della sostituzione penale, ma in forza del principio ben diverso della solidarietà. Supposto che san Paolo avesse in mente la teoria della sostituzione, perché non l’ha mai formulata? Perché mai egli dice sempre che il Cristo fu crocifìsso per noi, per tutti gli uomini, per peccatori (Rom. V, 6, 7, 8), che andò alla morte per noi (Rom. VIII, 32, etc.) che diventò maledizione per noi (Gal. III, 13), che è stato fatto peccato per noi (II Cor. V, 21), che si diede per i nostri peccati (Gal. I, 4)? E perché non dice mai che il Cristo è morto in nostra vece, il che, secondo la buona logica, ci dispenserebbe dal morire? Senza dubbio, quello che si fa per qualcuno, molte volte si fa in sua vece, si fa quello che avrebbe dovuto fare lui, si supplisce alla sua impotenza, uno insomma si sostituisce a lui in qualche maniera; ma non ne segue punto che le due espressioni abbiano lo stesso valore. Non si cita, nel Nuovo Testamento, neppure un esempio di tale equivalenza; e se morire per gli uomini, rigorosamente parlando, si può intendere di una sostituzione dell’innocente ai colpevoli, morire per i loro peccati, si potrà ancora intendere così? E questo non è forse un segno evidente che l’idea di sostituzione non rende tutto il pensiero dell’Apostolo, e che bisogna correggerla o completarla con una nozione di altro ordine? Dal momento che si applicava il principio della sostituzione, era molto facile esagerarlo; e così fecero appunto molti teologi protestanti, specialmente luterani. Costoro sostennero che il Cristo aveva sofferto identicamente la pena dovuta al peccato: la morte, la maledizione divina, la dannazione stessa. Gesù soffriva i dolori dell’inferno al Getsemani, quando la sua anima era triste di una tristezza mortale; soffriva il supplizio del danno al Calvario, quando innalzava quel grido di angoscia: « Mio Dio, perché mi hai abbandonato? ». Tutto questo soffriva non già extensive e in quanto alla durata, ma intensive e in quanto all’essenza. Generalmente questo sistema non è più seguito, ma le sue assurde conseguenze hanno gettato su la teoria della sostituzione un discredito che non sarà facilmente superato.

Teoria della soddisfazione. — Sant’Anselmo, nel suo celebre Cur Deus homo, ragiona così: Il peccato è un’offesa di Dio; ma la sapienza e la santità dell’Altissimo non possono lasciare impunita un’offesa fatta al suo onore. Il peccatore rimane dunque tributario della giustizia divina finché l’offesa sia riparata. Ora nessun essere creato, né uomo né Angelo, può restituire a Dio la gloria estrinseca che il peccato gli toglie; infatti l’atto di ogni essere finito è di sua natura finito, mentre il peccato, riferendosi a Dio, contrae per questo una malizia infinita. Dunque ne seguiva una di queste due cose: o l’uomo peccatore era perduto irremissibilmente, oppure bisognava che un Uomo-Dio gli venisse in aiuto. Ma alla bontà divina ripugna l’abbandonare i suoi disegni di amore e di misericordia: di qui la necessità morale dell’incarnazione del Verbo per offrire a Dio, a nome dell’umanità colpevole, una soddisfazione uguale all’offesa. In virtù dell’unione ipostatica, la persona divina conferisce agli atti della natura umana un valore infinito, e la morte redentrice, volontariamente accettata da Gesù, come testimonianza suprema di obbedienza filiale, ha l’effetto di riparare l’onore di Dio, e lo ripara con usura.A questa costruzione dialettica, della quale nessuno può negare la forza e l’armonia, si può forse fare l’appunto di svolgersi nelle sfere della speculazione pura. Se fosse spinta alle sue estreme conseguenze andrebbe a finire nell’ottimismo filosofico e nella necessità dell’Incarnazione. Ma l’autore del Cur Deus homo ha saputo evitare questi scogli, e la sua interpretazione della morte redentrice segna un vero progresso. Aggiungiamo anche che essa trova in san Paolo una solida base. È cosa incontestabile che, nell’attuale disegno della salvezza, Dio voleva far risplendere la sua sapienza e la sua giustizia. Si dirà che si tratta della giustizia giustificante; ma la giustizia giustificante è soltanto un aspetto particolare dell’attributo divino della giustizia; è la giustizia che avendo inflitto al peccato il trattamento che si merita, risparmia il peccatore unito a Gesù con la fede. Il sangue del Cristo è uno « strumento di propiziazione » (ἱλαστήριον = ilasterion). Sia che la propiziazione sia un effetto diretto della morte redentrice, sia che nasca immediatamente dall’espiazione prodotta dal sacrificio della croce, il risultato è sempre identico: in qualunque maniera il sangue del Cristo ripara l’offesa fatta a Dio e ce lo rende propizio. Esso inoltre fa la riconciliazione e mette fine all’odio vicendevole che prima esisteva tra l’uomo peccatore e Dio offeso; e questa riconciliazione suppone che l’offesa di Dio non esiste più, in altre parole, che Dio ha ricevuto soddisfazione delle offese fattegli.La teoria della soddisfazione completa e corregge in gran parte quella della sostituzione penale. Considerando il peccato non più come un debito da pagare o come un castigo da subire, ma come un’offesa da riparare, essa rende superflua la proporzionalità materiale tra la colpa e l’espiazione; è sufficiente una proporzione morale la quale risulta con sovrabbondanza dal valore conferito alla natura umana del Cristo dalla sua ipostasi divina. Essa inoltre spiega la necessità di unire all’obbedienza passiva del Redentore la sua obbedienza attiva; infatti la riparazione di un’offesa si può fare soltanto con un atto cosciente e libero. Tuttavia, nella forma in cui generalmente viene presentata, essa dà luogo a gravi critiche. Essa suppone, in primo luogo, che ogni peccato deve necessariamente essere o punito o riparato: Necesse est ut omne peccatum satisfactìo aut pœna sequatur; è questo l’assioma più volte ripetuto da sant’Anselmo. Ora il peccato può anche essere perdonato, oppure rimesso in seguito ad una riparazione inadeguata. Non è così nell’ordine attuale, perché  la soddisfazione del Cristo è sovrabbondante, ma così potrebbe essere, e allora la teoria che si appoggia sopra la speculazione filosofica e non sopra i dati positivi della rivelazione, sarebbe difettosa. In secondo luogo il merito, al pari del castigo, non si può trasferire da un soggetto all’altro. Se una famiglia è onorata o ricompensata per riguardo di uno dei suoi membri, questo avviene perché essa forma un’unità morale, ed i suoi membri non sono estranei tra loro. Nella stessa maniera, la riparazione di un’offesa non si può fare che dall’offensore in persona o da qualcuno che formi con lui una stessa persona morale. In qualunque ipotesi, noi usciamo dal principio della sostituzione per entrare in quello della solidarietà, il solo che ci dia la chiave della dottrina di san Paolo. Si possono dunque portare ancora nuovi perfezionamenti, e l’ultima parola non è ancora detta.

3. Quest’ultima parola però non dobbiamo cercarla negli scritti dei Padri. Essi molte volte furono accusati di dare troppo poco rilievo a questo dogma fondamentale, ma l’accusa è ingiusta; infatti nei loro scritti si trovano altrettante e più allusioni all’opera redentrice, che a qualunque altro articolo di fede; ma diverse circostanze spiegano il loro laconismo. Nei primi secoli, nessuna eresia attaccò direttamente il dogma della redenzione; i Padri non ebbero perciò occasione di difenderlo e in generale si limitarono a ripetere le formole tradizionali, senza preoccuparsi di armonizzarle né di scrutarne il senso profondo. Dato il pubblico al quale si rivolgevano e lo scopo che si proponevano, i Padri apostolici e gli apologisti non ebbero molto da dire riguardo la morte redentrice. Più tardi, in presenza di pagani increduli, il problema capitale fu questo: Perché un Dio si è fatto uomo? Parecchi, dietro l’esempio di Origene nella sua confutazione di Celso, credettero di rendere più accessibile il mistero di un Dio incarnato, col dimostrare le necessità della redenzione. Tale è pure l’idea dominante delle due prime opere in cui la redenzione è trattata ex professo. – Sant’Atanasio intitola il suo lavoro De Incarnatione Verbi; se a nostro modo di vedere egli insiste troppo sopra la redenzione fisica, cioè sul rialzamento della natura umana per mezzo dell’unione del Verbo con la nostra, carne, bisogna ricordare che il suo scopo ed i suoi lettori gli imponevano così. Le mire apologetiche di san Gregorio Nisseno, nella sua grande catechesi, sono pure ben marcate. Non avremo nessuna difficoltà a confessare che egli abusa dei paragoni dell’arte medica e si compiace troppo nel descrivere i procedimenti farmaceutici impiegati per guarire il genere umano; ma la dottrina cattolica della salvezza, per mezzo della croce di Gesù Cristo non è né dimenticata né dissimulata: essa passa in seconda linea, ora questo è quanto si può dire. « La nostra natura era ammalata, dice san Gregorio, ed aveva bisogno di un medico; l’uomo decaduto aspettava una mano soccorritrice che lo rialzasse; colpito a morte, aveva bisogno che gli fosse restituita la vita; traviato nei sentieri del male, aveva bisogno di chi lo guidasse al bene; chiuso nelle tenebre, sospirava la luce. Al prigioniero occorreva un redentore; al carcerato, un sostegno; allo schiavo, un liberatore ». Tutto questo tende a dimostrare la convenienza dell’incarnazione, ma non illumina abbastanza la natura dell’azione redentrice.

CONOSCERE SAN PAOLO (37)

LIBRO QUARTO

CAPO II.

La morte redentrice.

I. SACRIFICIO DELLA CROCE.

1. SACRIFICIO VERO. — 2. SACRIFICIO CHE REALIZZA LE FIGURE ANTICHE. — 3. SACRIFICIO VOLONTARIO.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Il sacrificio, rito religioso nel quale si distrugge un oggetto sensibile in onore della divinità, differisce dalle offerte immateriali — preghiere, voti, astinenze volontarie — e dalle semplici offerte di ordine materiale — doni in denaro e in natura, monumenti votivi, erezione di templi e di oratori, consacrazione di persone — insomma differisce da tutte le offerte destinate a perpetuare le cerimonie liturgiche ed a mantenere il servizio permanente della divinità. Non occorre specificare di più, con far entrare nella definizione del sacrificio la maniera di offrirlo e lo scopo immediato che si propongono gli adoratori, o il modo di operazione, reale o supposto, del rito sacro; poiché una definizione troppo esplicita ha il doppio inconveniente di non convenire a qualunque sacrificio e di poggiare sopra teorie contestabili. Il sacrificio è una preghiera in azione. Con esso l’uomo si propone sempre di piacere alla divinità e di rendersela propizia; ma i mezzi che s’impiegano, variano all’infinito secondo le concezioni grossolane, ingenue, elevate o sublimi che il fedele si fa delle sue divinità e secondo i sentimenti di gratitudine, di omaggio, di rispetto, d’impetrazione, di pentimento o di obbedienza che vuole esprimere. Quando la materia del sacrificio è un essere vivente, la morte di questo è una condizione ordinaria: di qui le due specie di sacrifici, i sacrifici cruenti e i sacrifici incruenti. Cosi nell’un caso come nell’altro, la distruzione parziale della vittima basta al simbolismo, e la distruzione totale non è richiesta che per certi sacrifici speciali. Dopo che una porzione dell’oggetto sacrificato è stata consumata col fuoco, sparsa in libazione o distrutta in altra maniera qualunque, il resto serve generalmente al banchetto sacro, complemento naturale del sacrificio, oppure è riservato all’uso esclusivo dei sacerdoti che sono i rappresentanti titolati della divinità. – Che la morte del Cristo sia per San Paolo un sacrificio è cosa tanto evidente, che non si capisce come si sia potuta negare senza una teoria preconcetta e senza un partito preso dommatico. Prima di venire alle testimonianze formali, è bene che si passino in rivista i testi, meno espliciti, se considerati isolatamente, ma la cui impressione complessiva tende irresistibilmente a evocare l’idea di sacrificio e di sacrificio cruento.

Tutti gli effetti della redenzione sono riferiti al sangue del Cristo.

Noi abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue (Ephes. I, 7) … Dio ha pacificato per mezzo del sangue della sua croce quello che è in terra e quello che è in cielo (Col. I, 20)… Voi (Gentili) che una volta eravate lontani, siete stati avvicinati nel sangue del Cristo (Ephes. II, 13)… Giustificati ora nel suo sangue, quanto più per mezzo di lui saremo salvi dall’ira (Rom. V, 9). Bere il calice consacrato è comunicare col sangue del Cristo (I Cor. X, 16), e chi si comunica indegnamente profana il sangue del Cristo, perché il calice consacrato contiene il sangue che suggella la nuova alleanza (I Cor. XI, 27).

Quando gli effetti della redenzione non sono attribuiti direttamente al suo sangue, sono attribuiti alla morte violenta del Cristo: « Il Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture (I Cor. XV, 3)… Egli è morto per tutti, affinché coloro che vivono non vivano più per se stessi ma per colui che è morto ed è risuscitato per loro (II Cor. V, 15)… Quando eravamo ancora peccatori, il Cristo morì per noi. Se, essendo nemici, noi fummo riconciliati con Dio con la morte di suo Figlio, quanto più, essendo riconciliati, saremo salvi nella sua vita (Rom. V, 8-10)! Ora Egli ci ha riconciliati nel suo corpo di carne, con la morte, per costituirci santi, senza macchia e senza rimprovero (Col. I, 22)… Gesù Cristo è morto per noi affinché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo con lui (I Tess. V, 10) ». Gesù Cristo « diede se stesso come redenzione per tutti » (I Tim. II, 6); noi siamo « stati riscattati col prezzo » del suo sangue (I Cor. VI, 20; VII, 23); « Egli ci ha riscattati dalla maledizione della Legge diventando per noi maledizione (Gal. III, 13); sul legno della croce; se la giustizia, frutto della redenzione, ci venisse da altra parte, « il Cristo sarebbe morto invano (Gal. II, 21) ». Tutto questo converge verso una medesima idea di sacrificio cruento.

2. La dottrina apostolica del Cristo vittima era, per i contemporanei di san Paolo, una strana novità. Gli Ebrei conoscevano bensì il valore delle prove accettate con rassegnazione, l’efficacia delle preghiere del giusto, la reversibilità dei meriti e dei demeriti, ma non ammisero mai, se non con estrema ripugnanza, l’idea di un Messia sofferente, e per lo meno non attribuirono mai a tali patimenti nessun valore espiatorio. I dolori del Messia (Marc. XIII, ; Matth. XXIV) non sono i patimenti personali del Messia, ma le calamità della terra e le commozioni cosmiche che devono precedere la sua venuta; sono in certo modo i dolori di parto del mondo che sta per produrre il Messia. Alla questione: gli Ebrei di allora credevano che il Messia fosse destinato a soffrire, e che i suoi patimenti avessero l’effetto di espiare i peccati degli uomini? — bisogna rispondere risolutamente che no. – Né il Targum né il Talmud di Gerusalemme non fanno la più piccola allusione ad un Messia sofferente. Assai curioso è il Targum di Jonathan sul capo LIII d’Isaia riconosciuto come messianico: « Tutto ciò che si dice dei patimenti del servo è violentemente stornato dal senso naturale e applicato al popolo (Condamin, Le Livre d’Isaie, 1905) ». Se il Talmud di Babilonia, compilazione del quinto secolo, fa tre volte menzione dei patimenti del Messia, si tratta dei patimenti che il Messia sostiene prima di cominciare il suo compito di Salvatore. Baymond Martin credeva di aver trovato un testo in cui si tratta di un Messia sofferente (Pugio fidei, fol. 675); ma è assai probabile che il dotto domenicano si servisse di un esemplare interpolato da mano cristiana, perché il suo famoso passo non si trova più in nessun manoscritto. Non si ha neppure nessun fondamento per sostenere che gli Ebrei avessero sdoppiato il loro Messia primitivamente unico, per attribuire al Messia figlio di Giuseppe i patimenti espiatori, mentre avrebbero riservato al Messia figlio di Giuda la gloria ed i trionfi. « Il Messia figlio di Giuseppe non è un Messia sofferente, ma è un Messia ucciso (Lagrange: Le Messianisme chez les Juifs, 1909) ». – In san Paolo invece l’immolazione di Gesù Cristo è espressamente assimilata al sacrificio dell’agnello pasquale, al sacrificio che suggella la nuova alleanza, al sacrificio del gran giorno dell’espiazione e ad un altro sacrificio che forse è l’olocausto, ma che non è possibile determinare con certezza.

Agnello pasquale. — San Paolo scrive ai Corinzi: « Non sapete che un poco di lievito fa levare tutta la pasta? Allontanate il lievito antico per essere una pasta nuova, come siete azimi; poiché il Cristo, nostra pasqua, è stato immolato (I Cor. V, 7). » Due circostanze davano a tali raccomandazioni maggiore attualità e opportunità. Si era verso la Pasqua, e, in quella circostanza, i Cristiani della gentilità celebravano la solennità commemorativa della loro salvezza, non già alla maniera degli Ebrei, con l’astenersi dal pane lievitato, ma in una maniera spirituale, facendo se stessi azimi, cioè puri da ogni corruzione morale. Ora la presenza di un incestuoso in mezzo ai Cristiani di Corinto era una macchia per tutta la Chiesa. L’Apostolo ordina l’espulsione dello scandaloso: « Scacciate da voi il perverso »; poiché egli finirebbe col corrompervi, come un pugno di lievito basta a far fermentare una massa di pasta fresca. Se per se stessa questa esortazione conviene a tutti i tempi, essa fa un’impressione ben maggiore nel giorno anniversario del sacrificio della croce: « Il nostro agnello pasquale, il Cristo, è stato immolato; perciò facciamo festa non col vecchio lievito, lievito della malizia, ma con gli azimi della purezza ». Quello che è la Pasqua per gli Ebrei, è per noi il Cristo immolato; è il sacrificio della nostra liberazione, è il banchetto sacro che mette termine alla nostra schiavitù; così i tipi hanno avuto il loro compimento, le ombre sono svanite, e noi siamo oramai nella regione delle realtà spirituali.

Sacrificio della nuova alleanza. — Il Cristo, vero agnello pasquale, è la vittima che suggella la nuova alleanza. Nel momento di conchiudere l’antica alleanza, Mosè offrì olocausti e vittime di pace, sparse ai piedi dell’altare una parte del sangue e col rimanente asperse il popolo dicendo: « Ecco il sangue dell’alleanza che Jehovah ha concluso con voi ». Imbevuti del racconto dall’Esodo, i testimoni dell’ultima Cena non si poterono ingannare quando intesero Gesù che diceva loro, nel presentare il calice eucaristico: « Questo calice è il sangue della nuova alleanza », oppure: Questo calice è la nuova alleanza (conchiusa) nel mio sangue (I Cor. XI, 25) ». Sia che alludesse direttamente al sacrificio dell’altare, sia che alludesse a quello del Calvario, per la questione presente poco importa; poiché in fondo il sacrificio è il medesimo, e le parole del Salvatore non avrebbero senso, se il sangue dell’eucaristia non fosse il medesimo sangue della croce. Ora questo sangue divino ha la virtù di sigillare l’alleanza predetta da Geremia, come il sangue delle vittime offerte da Mosè sigillò l’alleanza del Sinai: con questa doppia differenza, che esso purifica le anime toccando i corpi e che produce le disposizioni sante invece di confermarle solamente.

Sacrifizio di espiazione o di propiziazione. — Il sacrificio per il peccato era il più caratteristico e il più comune del rituale mosaico. L’Epistola agli Ebrei ne sviluppa la tipologia. A questa categoria di sacrifici si riferiscono sovente due passi di san Paolo, i quali appartengono ad un ordine d’idee affatto diverso (II Cor. V, 21); in cambio però l’Epistola ai Romani paragona la morte di Gesù al sacrificio dell’Espiazione, che era per eccellenza il sacrificio per il peccato: « Dio ha esposto il Cristo Gesù come propiziazione, per mezzo della fede, nel suo sangue (Rom. III, 25) ». Qualunque sia il senso preciso di ἱλαστήριον (= ilasterion), vittima di propiziazione, strumento di propiziazione, oppure propiziatorio — da questo testo risulta invincibilmente che il sacrificio della croce è per i Cristiani, e in modo più eccellente, quello che era per gli Ebrei il giorno solenne del Kippourim, il sacrificio annuale dell’espiazione o della propiziazione: « È impossibile, dice Sanday, nel suo Commentario, eliminare da questo passo la doppia idea di un sacrificio e di un sacrificio di propiziazione ». Anche Godet scrive: « L’idea del sacrificio, se non si trova nella stessa parola, risulta dall’espressione per mezzo del mio sangue: infatti un mezzo di propiziazione nel quale c’entra il sangue, che altro è, se non un sacrificio! ». – La voce discorde di teologi eterodossi, desiderosi di eludere un testo che li incomoda, non è più molto ascoltata.

Sacrifizio in generale. — « Il Cristo vi ha amati e si è dato per noi come oblazione e come vittima (immolata) a Dio, in odore di soavità (Ephes. V, 2) ». Qui si vede un’allusione chiara alla parola del Salmista: « Tu non hai gradito la vittima e l’offerta… né hai domandato l’olocausto e il sacrificio ». Ma se è certo che Paolo parla del Cristo che si offre in sacrificio, la natura del sacrificio non è qui indicata.

Delle quattro parole del passo citato — la vittima (pacifica), l’oblazione, l’olocausto, il sacrificio per il peccato — che corrispondono alle quattro specie principali del sacrificio mosaico, l’Apostolo ritiene soltanto le due prime che, in realtà, comprendono le altre due. È dunque probabile che, avendo in vista l’idea generale del sacrificio di cui Gesù Cristo è il perfetto antitipo, voglia intendere per « vittima » (θυσία = tusia) l’immolazione cruenta del Calvario, e per « oblazione » (προσφορά = prosfora) l’offerta spontanea ed amorevole che il Cristo fa di se stesso a suo Padre. Qui dunque si troverebbero riunite le due nozioni di sacerdote e di vittima e, come nell’Epistola agli Ebrei, riunite nella persona di Gesù (Hebr. IX, 22-26).

3. Certi teologi credono di aver fatto abbastanza quando hanno dimostrato che la morte del Cristo è un vero sacrificio che realizza il senso tipico dei sacrifici dell’antica Legge, e si affrettano a conchiudere che l’immolazione della croce opera alla maniera delle vittime del rituale ebraico, benché in modo più eccellente, in quanto che l’antitipo ecclissa la figura, e la realtà scancella i simboli. Qui vi è un difetto di logica e di metodo. Sul Calvario Gesù Cristo non è solamente vittima ma è anche sacrificatore, ed è tale per volere di suo Padre. Queste tre cose — l’immolazione passiva del Cristo, l’oblazione che fa di se stesso e l’ordine di Dio — formano un atto unico del quale si possono bensì distinguere gli elementi, ma senza avere il diritto di separarli. Vediamo in che modo san Paolo presenta questi due nuovi aspetti del dramma della redenzione. Gesù Cristo si abbandonò volontariamente alla morte; vi si abbandonò per salvarci; vi si abbandonò per amore: così si riassume la sua parte attiva nella tragedia del Calvario. San Paolo non si stanca di ripeterlo: « Il Cristo vi ha amati e si è dato per noi, oblazione e ostia (gradita) a Dio, in odore di soavità (Ephes. V, 2) ». — Il Cristo ha amato la Chiesa e si è dato per lei, per santificarla (Ephes. V, 25). — Io vivo nella fede del Figlio di Dio, il quale mi ha amato ed ha dato se stesso per me (Gal. II, 20). — Gesù Cristo ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci al secolo presente dominato dal male, secondo la volontà di Dio nostro Padre (Gal. I, 4). — Il mediatore tra Dio e gli uomini, il Cristo Gesù uomo, ha dato se stesso (come) redenzione per tutti (I Tim. II, 6) ». Questi testi non hanno bisogno di commento. Paolo incorona l’opera ricordandoci la manifestazione gloriosa « del nostro gran Dio e Salvatore, il Cristo Gesù, il quale ha dato se stesso per noi, per liberarci da ogni iniquità (Tit. II, 13) ». In questo insegnamento tratto a bella posta da tutti i gruppi di lettere, bisogna rilevare due cose: anzitutto se Gesù Cristo si offre per noi in sacrificio per salvarci, è perché Egli solo ha la capacità di farlo, poiché Egli è il mediatore unico tra Dio e gli uomini; in secondo luogo Egli lo fa per disposizione e con la sanzione di suo Padre che gliene ha dato il mandato formale. Quest’ultima considerazione ci porta alla seconda serie di testi nei quali appare l’iniziativa divina. Col fatto stesso che Dio mandava suo Piglio a salvare il mondo, lo istituiva suo plenipotenziario. Gesù Cristo non aveva più che da consultare la volontà di suo Padre e conformarvisi. Per questo l’offerta che Egli fa di se stesso, per ordine di Dio, ha il valore di un atto di obbedienza, atto meritorio che da una parte annulla e ripara la disobbedienza di Adamo (Rom. V, 19), dall’altra vale al suo autore una ricompensa: il Cristo Gesù « si abbassò col farsi obbediente fino alla morte e fino alla morte di croce; perciò Dio lo ha esaltato (Filip. II, 8-9) ». In virtù dell’ordine divino ricevuto ed eseguito dal Figlio, l’Apostolo può dire indifferentemente o che il Cristo si offre come vittima per la nostra salvezza, o che il Padre suo lo dà per noi alla morte: « Egli non risparmiò suo proprio Figlio ma lo diede per tutti noi. — Dio fa risplendere il suo amore per noi in questo, che quando ancora eravamo peccatori, il Cristo morì per noi (Rom. VIII, 32; V, 8) ». L’idea dominante di questi passi è che l’ordine intimato dal Padre e l’obbedienza del Figlio sono, da parte del Figlio e del Padre, una uguale e somma manifestazione di amore. Occorre appena ricordare che san Giovanni segue molto da vicino la dottrina di san Paolo (Giov. III, 16). – Il redattore dell’Epistola agli Ebrei le si avvicina più ancora per il pensiero, se non per l’espressione. La pittura del sacerdote vittima, consacrato dal Padre, corrisponde esattamente e in ciascuna linea al quadro che abbiamo tracciato più sopra, seguendo il Dottore dei Gentili. Il nome di sacerdote qui manca, è vero, ma l’atto sacerdotale non vi è meno chiaramente descritto. Da tutte e due le parti vi è una vittima la quale non è altri che Gesù Cristo; è la vittima stessa che si offre, si abbandona, si dà; e il Padre interviene non soltanto per accettare l’offerta ma per comandarla. Da tutte e due le parti l’oblazione costituisce un atto di obbedienza, e di obbedienza amorevole; da tutte e due le parti il sacrificio ha lo scopo e l’effetto di espiare, di scancellare, di distruggere il peccato, di rendere Dio propizio, di aprire agli uomini l’entrata del cielo. Ciò posto, la menzione del sacerdote, nell’Epistola agli Ebrei, non ha più che un’importanza secondaria, un’importanza più sotto l’aspetto della terminologia speciale, che non per la sostanza stessa della dottrina. – La morte redentrice è da parte del Cristo un atto di obbedienza; e questo atto è meritorio in rapporto con l’umanità che ne viene salvata, in rapporto col Padre che rende propizio, in rapporto col Figlio che a quello deve la sua esaltazione. Perciò si conchiude direttamente e per via di analisi, che tale atto era libero, poiché senza la libertà non si concepisce il merito; così pure che esso rispondeva ad un precetto divino, poiché non vi può essere obbedienza dove non vi è un comando. San Giovanni afferma espressamente queste due conclusioni, ma neppure lui non c’insegna il mezzo di conciliarle con l’impeccabilità di Gesù Cristo. Questa è una questione puramente scolastica la cui soluzione non si deve cercare negli autori ispirati. Dico puramente scolastica, perché essa dipende da cinque o sei problemi discussi dalla Scuola e che la rivelazione da sola non può risolvere. – Da che cosa deriva l’impeccabilità di Gesù Cristo? Deriva dalla visione beatifica o dall’unione ipostatica? E in questo secondo caso, deriva essa dal fatto stesso dell’unione, oppure da una provvidenza speciale dovuta all’Uomo-Dio? Suppone forse la libertà, non già il potere di fare l’atto cattivo, il che è evidentemente una imperfezione, ma il potere di sospendere l’atto buono o indifferente, e questo in sensu composito, come si dice, di tutte le condizioni richieste per agire? La libertà che hanno i beati del cielo, di scegliere tra diversi beni — eccetto quello essenziale della beatitudine — basterebbe a rendere meritori i loro atti, se Dio, con una disposizione positiva, non avesse fissato con la morte il termine del merito? In quale misura Gesù era ad un tempo viator e comprehensor? E in quali limiti gli effetti naturali della visione beatifica erano in Lui neutralizzati per lasciargli compiere la parte sua di redentore? L’ordine divino al quale Egli si sottomise morendo, era un precetto propriamente detto, oppure la manifestazione di un semplice desiderio? E se era un precetto, era esso assoluto o condizionale, subordinato all’accettazione del Verbo incarnato, oppure anteriore a qualunque accettazione? E finalmente riguardava esso il fatto medesimo della morte, oppure le circostanze della passione? Per parte nostra noi crediamo che il Cristo non solamente fu senza peccato, ma assolutamente impeccabile, e questo in virtù dell’unione ipostatica; che l’ordine di morire fu un vero precetto, dal momento in cui il Verbo fatto carne ebbe accettata la morte per la nostra salvezza; che tale accettazione del Cristo fu veramente libera e perciò meritoria; che essa bastava a costituire il Cristo obbediente fino alla morte, ancorché non gli fosse più stato possibile il ritrattarla; ma noi ci guardiamo bene dall’attribuire a san Paolo tutte queste deduzioni teologiche.