LIBRO QUARTO
CAPO III
GLI EFFETTI IMMEDIATI DELLA REDENZIONE
[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA, S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]
La redenzione degli uomini si compie in tre tempi: al Calvario, al Battesimo e alla parusia. Al Calvario essa si compie di diritto, in principio ed in potenza; al Battesimo si compie di fatto ed in atto, benché ancora imperfetta; nel giorno della parusia essa si termina e si consuma. Intrinsecamente legata alla morte di Cristo, la redenzione potenziale è indipendente dalle sue applicazioni più o meno estese e, per così dire, dal suo risultato storico. Gli effetti immediati ne sono la riconciliazione del genere umano con Dio e la vittoria del Cristo sopra i nemici dell’umanità.
I. LA RICONCILIAZIONE OPERATA
- L’IRA DI DIO. — 2. ASPETTI DELLA RICONCILIAZIONE.
1. Dio odia il peccato nella stessa misura con cui ama l’ordine morale, cioè infinitamente. L’odio del male gli è essenziale quanto l’amore del bene, poiché entrambi derivano dalla sua santità. Se all’offesa si aggiunge il disprezzo, l’ira di Dio si accende. È noto con quali colori immaginosi la Bibbia dipinge la collera divina. Dio monta in furore per rivendicare i suoi diritti calpestati; si slancia al combattimento come un guerriero; simile a un fuoco divoratore, dissipa e consuma i suoi nemici. Quando il suo popolo, dimentico dell’alleanza, preferisce a Lui divinità straniere, Egli si proclama il Dio geloso, e la sua gelosia si sfoga con terribili rappresaglie contro gl’infedeli e i loro seduttori. In fondo, l’ira non è più antropomorfica che l’amore, poiché essa altro non è che la reazione necessaria dell’amore offeso. Si può dunque epurare quanto si vuole il concetto della collera divina, ma bisogna guardarsi bene dall’eliminarla col pretesto che essa è incompatibile con la perfezione infinita. Appunto perché è trascendente, la perfezione infinita può abbracciare dei contrasti che, nell’essere finito, sarebbero contraddizioni. Ben lungi dall’escludere la misericordia, l’ira di Dio la suppone e la completa; essa sarà tanto più terribile, quanto più lenta è stata nel muoversi, e tanto più efficace nella distruzione del peccato, quanto più lascia aperta la porta al pentimento. Perciò gli scrittori sacri così sovente accoppiano la collera di Dio e la sua mansuetudine, il suo perdono e la sua vendetta, come se non vi fosse nulla di più conciliabile che tale contrasto. Il medesimo ordine di idee regna nel Nuovo Testamento. Senza dubbio, qui l’ira di Dio ha quasi sempre una mira escatologica ed ha come punto di convergenza il giudizio finale, chiamato per antonomasia il Giorno dell’ira; essa tende a diventare piuttosto individuale, invece di essere soprattutto collettiva; essa viene provocata da ogni infrazione al volere divino, invece di essere generalmente, come in altri tempi, provocata dalla violazione dell’alleanza. Ma lasciando da parte queste riserve che dipendono dalla differenza delle due economie, l’atteggiamento di Dio verso il peccatore resta identico. Prima della loro conversione, Ebrei e Gentili erano « naturalmente figli d’ira (Ephes. II, 3) »; ossia, secondo la forza del linguaggio biblico, degni dell’ira divina le cui terribili conseguenze pesavano su loro. I peccatori induriti « adatti alla perdizione », sono chiamati « vasi d’ira (Rom. IX, 22) » perché sono attualmente l’oggetto dell’ira di Dio, la quale si scatenerebbe immediatamente sopra di loro, se non vi fosse il contrappeso della longanimità. La Legge mosaica aggravando il peccato, « produce l’ira » (Rom. IV, 15); ogni iniquità l’attira, e il colpevole ammassa sul suo « capo tesori d’ira per il giorno della retribuzione (Rom. II, 5) ». Ma essa non è sempre neutralizzata, anche quaggiù, dalla misericordia; essa fin d’ora si scaglia contro gli Ebrei increduli (I Tess. II, 16) e applica ai Pagani, accecati dalle loro delittuose passioni, il rigore del taglione (Rom. I, 18). Non si può dunque dire che, nel Nuovo Testamento particolarmente nelle Epistole di san Paolo, l’ira di Dio sia un concetto puramente escatologico. Tuttavia, se essa comincia a manifestarsi sopra la terra, è quasi sempre controbilanciata dalla mansuetudine e soltanto nel giorno delle vendette avrà la sua manifestazione totale, universale, definitiva (Rom. II, 5). – L’ira, eccitata dall’offesa, implica necessariamente una certa ostilità della persona lesa nel suo onore e nei suoi diritti, contro la persona dell’offensore. Perciò la formula poco scritturale che « Dio odia il peccato pure amando il peccatore », non avrebbe la sanzione di san Paolo. Senza parlare della citazione di Malachia: « Ho odiato Esaù (Rom. IX, 13) », che non si può intendere di un amore relativo, l’Apostolo ci rappresenta Dio come nemico dell’uomo colpevole. È vero che Dio non diventa nemico dell’uomo se non dopo che l’uomo si è dichiarato nemico di Dio; ma da quel momento l’odio è reciproco, sebbene nell’essere infinito l’odio non escluda l’amore. « Se, essendo nemici, noi fummo riconciliati con Dio dalla morte di suo Figlio, quanto più, essendo riconciliati, noi saremo salvi nella sua vita (9)! ». Qui la parola « nemici » è opposta alla parola « riconciliati » la quale è spie spiegata con la frase « salvati dall’ira ». Egli dunque vuole designare non già l’inimicizia dei peccatori verso Dio, ma quella di cui i peccatori erano oggetto da parte di Dio: il bisogno dell’argomentazione, come pure il movimento del pensiero, impone questa esegesi: è infatti il mutato atteggiamento di Dio a nostro riguardo quello che ci garantisce l’avvenire le sue benevoli disposizioni e che colloca la nostra speranza sopra una base incrollabile. Quando Paolo, parlando degli Ebrei infedeli, dice ai pagani convertiti: Essi sono « nemici per causa vostra, secondo il Vangelo, ma amici secondo l’elezione per causa dei Patriarchi (Rom. XI, 28) », la medesima idea viene messa in luce con piena evidenza. Collettivamente e come nazione, gli Ebrei sono nel tempo stesso detestati e amati da Dio: detestati per causa del Vangelo che essi non vollero abbracciare; e tuttavia amati per causa dell’elezione gratuita di cui furono oggetto una volta, e perché sono della stirpe dei patriarchi. Se si obbietta che l’elezione teocratica è annullata in tutti i suoi effetti dall’incredulità presente d’Israele, Paolo risponde che « i doni di Dio sono senza pentimento (Rom. XI, 29) ». Israele è dunque nel tempo stesso, sotto due aspetti diversi, degno di amore e di odio: ora risente gli effetti dell’odio che lo esclude dal regno messianico; più tardi proverà gli effetti dell’amore, quando entrerà in massa nel grembo della Chiesa.
2. Questi preliminari ci portano direttamente al concetto biblico della riconciliazione. La riconciliazione è bilaterale o unilaterale, secondo che le querele sono reciproche o si trovano tutte in una sola parte: in tutti e due i casi, essa ristabilisce i buoni rapporti tra le parti opposte col sopprimere la causa del loro dissenso. Essendo il peccato un atto di ostilità diretto contro Dio, l’uomo è quello che prende l’offensiva, e Dio non fa altro che difendere il suo onore offeso; ma l’odio è reciproco, benché tali non siano i torti reali. Per conseguenza anche la riconciliazione dev’essere reciproca; e non basta che Dio deponga la sua ira, se l’uomo non prende verso Dio sentimenti nuovi. Per questa ragione la riconciliazione ora sembra una conseguenza diretta della conversione dell’uomo, ora un semplice cambiamento di atteggiamento da parte di Dio. E secondo che si considera l’uno o l’altro di questi due aspetti, si può correre il pericolo di vedere soltanto, col protestantesimo ufficiale, un atto arbitrario di Dio che dimentica il peccato senza badare alle disposizioni dell’uomo, oppure, con la scuola di Eitschl, soltanto la trasformazione graduale del peccatore di fronte a un Dio sempre egualmente ben disposto verso l’uomo, nonostante il peccato. Le parole « riconciliare » e « riconciliazione » si trovano riunite in quattro o cinque testi assai diversi tra loro (Rom. V, 10-11; Rom. XI, 15; II Cor. V, 18-20; Col. I, 20-21; Ephes, II, 16 ). Una volta la riconciliazione operata dal sangue del Cristo si dilata al punto di coprire tutto il complesso degli esseri creati: “Dio si compiacque di far abitare in lui la pienezza, e di riconciliare per mezzo di lui tutte le cose in lui, pacificando col sangue della sua croce, per mezzo di lui (dico), sia quello che vi è in terra, sia quello che vi è nei cieli” (Gal. I, 19-20). – Il senso non è oscuro, purché si voglia evitare ogni inutile complicazione. Dio, al quale appartiene sempre l’iniziativa della salute degli uomini e dei disegni della redenzione, si compiacque di mettere nel Cristo tutta la pienezza — pienezza di essere e pienezza di grazie — per pacificare e conciliare tutte le cose nel Cristo che è il centro della creazione e il vincolo che unisce tutti gli esseri. In tutti gli altri luoghi, lo sguardo dell’Apostolo non si spinga oltre la salute degli uomini, e la riconciliazione di cui parla, si fa con Dio. – “Se, quando eravamo nemici, fummo riconciliati con Dio mediante la morte di suo Figlio, quanto più, essendo riconciliati, saremo salvi nella sua vita! Ben più, noi ci gloriamo in Dio per mezzo di Nostro Signor Gesù Cristo, per mezzo del quale abbiamo ricevuto la riconciliazione” (Rom. V, 10). Dio è l’autore della riconciliazione; Gesù Cristo ne è lo strumento e la causa meritoria; l’uomo ne è il soggetto e come il recipiente. Sempre è Dio che riconcilia, e l’uomo che viene riconciliato. Non ne segue affatto che la riconciliazione sia unilaterale; ma questa maniera di parlare, certamente intenzionale, dimostra che l’iniziativa viene da Dio, che l’uomo non ha ragioni da far valere, che a lui dunque tocca ricevere la pace e non già l’offrirla. La riconciliazione infatti discende da Dio verso l’uomo e non sale dall’uomo verso Dio; essa comincia con l’abbandono delle querele del Creatore contro la sua creatura. Nemici di Dio e oggetto dell’ira sua che i nostri peccati avevano provocata e che noi non potevamo placare, fu assolutamente necessario che Dio, l’offeso, ci riconciliasse a sé. Vi è qui una finissima sfumatura di espressione che, senza sopprimere il concorso dell’uomo, lascia a Dio tutto l’onore del risultato: è per questo che l’uomo, se non ha il diritto di gloriarsi in se stesso, può gloriarsi in Dio il quale opera in lui grandi cose, ma non le fa senza di lui. Ai Corinzi, più ancora che ai Romani, l’Apostolo presenta la riconciliazione sotto i suoi molteplici aspetti: “Tutto questo viene da Dio il quale ci ha riconciliati con sé per mezze del Cristo e ci ha affidato il ministero della riconciliazione. Poiché è Dio che, nel Cristo, si riconciliò il mondo, non imputando agli uomini i loro peccati, e incaricandoci di annunziare la riconciliazione. » Noi portiamo dunque un messaggio nel nome del Cristo, come se Dio esortasse per bocca nostra. Noi ve ne scongiuriamo nel nome del Cristo: Lasciatevi riconciliare con Dio” (II Cor. V, 18). – Anche qui, come sempre, iniziativa viene dal Padre. Non è dunque l’uomo che si riconcilia con Dio, ma è il Padre che ci riconcilia con se stesso per mezzo del Cristo o nel Cristo. La riconciliazione ha diversi gradi. Anzitutto Dio, avendo costituito suo Piglio vittima di espiazione, dimentica i delitti degli uomini per riguardo a questo Figlio. Questa è soltanto ancora una riconciliazione in potenza; perché diventi attuale, s i richiede nell’uomo un movimento di ritorno verso Dio, movimento che si opera col concorso dell’uomo, alla chiamata e sotto l’impulso di Dio. Gli Apostoli sono i primi invitati alla riconciliazione della quale sono costituiti araldi e agenti, poiché ricevono l’incarico ufficiale di promulgarla e di trasmetterla. Il loro messaggio si riassume in questo: « Lasciatevi riconciliare con Dio »; oppure, se si vuole: « Siate riconciliati con Dio ». Finalmente, perché la riconciliazione sia effettiva, gli uomini devono preparare, col loro libero assenso alla fede, un terreno propizio all’azione divina. L’iniziativa del Padre celeste, messaggio apostolico e risposta dell’uomo a questo messaggio, sono le tre fasi o le tre tappe della riconciliazione. Dovunque è ricordata la riconciliazione, è Dio che la opera con la mediazione del Cristo; ma se essa comincia con un cambiamento dell’atteggiamento di Dio verso l’uomo, deve sempre essere completata con un cambiamento dell’uomo verso Dio. – Le lettere della prigionia ci presentano un concetto alquanto differente. Nell’Epistola agli Efesini sembra che una medesima parola esprima ad un tempo la reciproca riconciliazione degli Ebrei e dei Gentili tra loro, e la loro comune riconciliazione con Dio, senza che si possa dire se queste due riconciliazioni sono simultanee, oppure se l’una sia presentata come l’antecedente logico dell’altra (Ephes. VIII, 1-3). Ma la doppia riconciliazione è sempre compiuta dalla croce del Cristo e dall’unione col suo corpo mistico. Il passo dell’Epistola ai Colossesi è ancora più degno di nota (Col. I, 19-20): e in esso si tratta di una doppia riconciliazione che abbraccia ad un tempo la conversione degli uomini a Dio ed il mutuo riavvicinamento delle creature fino allora in guerra. – L’orizzonte della riconciliazione si allarga, e noi vediamo che tutte le cose ritrovano la concordia e l’armonia nel Cristo, il pacificatore universale.
II. I NEMICI VINTI.
1. IL PECCATO, LA CARNE E LA MORTE. — 2. LA LEGGE MOSAICA.
1. La morte del Cristo ha portato i suoi frutti, e il suo sacrificio non è stato vano. Perché venne egli su questa terra? Per distruggere il peccato e per abolirne le conseguenze funeste. Il suo scopo è ottenuto. – “Ora non vi è più condanna per quelli che sono nel Cristo Gesù. Difatti la legge dello Spirito di vita ti ha liberato, nel Cristo Gesù, dalla legge del peccato e della morte. Infatti — cosa impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente — Dio, mandando suo Figlio nella somiglianza della carne di peccato, ha condannato il peccato nella carne” (Rom. VIII, 1-3). Questa condanna è un decreto di morte: da quel momento il peccato resta senza forza; esso non regna più sopra l’umanità, e noi siamo liberati dalla sua tirannia. Abbiamo veduto nell’Epistola ai Romani quale fu la triste condizione della nostra schiavitù e quale è stato il metodo della nostra liberazione. Se Gesù Cristo, morendo per noi, si fosse proposto soltanto di restituirci quello che Adamo ci fece perdere, la morte redentrice dovrebbe rimetterci in possesso dell’integrità e dell’immortalità originale; ma il disegno della salvezza, adottato da Dio, invece di restituirci esattamente i beni perduti, vi sostituisce qualche cosa di più eccellente. La nostra condizione attuale è migliore, ma diversa: invece di abolire il decreto di morte, Dio ci concede l’immortalità gloriosa; invece di spegnere la concupiscenza, ci dà, con la certezza di vincerla, tutto il merito della vittoria. Nell’attesa del trionfo finale, « il nostro corpo è mortale per causa del peccato », ma la morte è impotente a custodire la sua preda; noi abbiamo da lottare contro la carne, ma non ne siamo gli schiavi; l’inclinazione al male continua i suoi assalti, ma noi siamo liberi dal suo dominio. « La legge dello Spirito di vita ci ha liberati, nel Cristo Gesù, dalla legge del peccato e della morte ». La forza con cui il peccato e la morte mantenevano il loro impero, è infranta da una forza superiore, la grazia; il peccato non può più soggiogarci nostro malgrado, né la morte tenerci nella sua stretta. Ecco perché san Paolo non esita a dire che « il nostro Salvatore, il Cristo Gesù, ha distrutto la morte ed ha portato la vita e l’immortalità ». La morte è stata distrutta, o meglio resa impotente; è un risultato acquisito, un primo frutto del Calvario, un benefìcio concesso nello stesso istante in cui scaturirono le sorgenti della vita. L’effetto non è immediato, poiché è troppo evidente che gli uomini continuano a senza dubbio d’ora innanzi « né la morte né la vita non ci possono separare dall’amore di Dio nel Cristo » e « sia che viviamo, sia che moriamo, noi siamo del Signore », ma la morte conserva tuttavia un resto del suo impero; vinta dal Cristo, essa non è però annientata; essa sarà sterminata per l’ultima, tra tutte le potenze nemiche, quando, nell’ora della risurrezione, sarà assorbita nel trionfo supremo del Redentore. Novissima autem inimica destruetur mors. La morte è naturale per l’uomo, perché risulta dalla sua costituzione organica; ma nello stato di elevazione soprannaturale, essa è pure un castigo del peccato. Coloro che considerano la morte del Cristo come un debito pagato per noi, o come un castigo subito al nostro posto, qui si trovano in un imbarazzo tale, che nessuna sottigliezza di ragionamento, ne li può cavar fuori; poiché un debito già saldato una volta, non è più esigibile, e un castigo già subito una volta non s’infligge più. E cristiano non dovrebbe dunque morire, e neppure l’infedele, perché Gesù Cristo è morto per tutti gli uomini. Ma noi già sappiamo che la morte del Cristo ha per noi un altro significato e un’altra specie di efficacia. Noi non vediamo dunque nulla di contradittorio in queste due affermazioni di san Paolo: « Ora non vi è più condanna in quelli che sono nel Cristo Gesù » e « il corpo è votato alla morte per causa del peccato ». Nel nostro attuale ordine di Provvidenza, la morte è bensì una conseguenza del peccato, perché senza il peccato essa non esisterebbe; ma bisognerà anche chiamarla castigo, anche nel giusto che non è oggetto di nessuna « condanna » in quanto è « nel Cristo Gesù? ». E una questione di parole, la quale non ha grande importanza teologica. – Sta sempre il fatto che la liberazione del Cristiano non è istantanea ma progressiva: ideale al Calvario dove il Cristo disfece l’opera di Adamo per rifare in meglio le sorti dell’umanità; reale, benché imperfetta, al Battesimo quando il Cristiano comincia a partecipare effettivamente alla sorte del Cristo; completa alla risurrezione nella quale si consuma il disegno divino.
2. Con la Legge mosaica, le condizioni sono ben diverse. Siccome la sua conservazione e la sua abolizione sono indipendenti dal concorso dell’uomo, non si possono cercare momenti successivi nella sua abrogazione. Essa scompare naturalmente all’apparire del Cristo che è il fine della Legge, quando questa non ha più ragione di essere, quando si compiono le promesse inconciliabili con essa. Ma ancorché essa conservasse per principio la sua validità, il Cristiano è sottratto al suo dominio per il fatto stesso del Battesimo: “Fratelli, anche voi moriste alla Legge per il corpo del Cristo, a fine di appartenere a colui che è risuscitato dai morti, e di portare frutti per Dio. Quando noi eravamo nella carne, le passioni peccatrici, provocate dalla Legge, agivano nelle nostre membra, di modo che portavamo frutti per la loro morte. Ma ora, liberati dalla Legge e morti a quella Legge nella quale eravamo trattenuti (prigionieri), noi serviamo (Dio) nella novità dello spirito e non nella vetustà della lettera” (Rom. VII, 4-6). – Se i particolari di questo testo si prestano alla discussione, il senso generale non è dubbio. Nel Battesimo il Cristiano « muore alla Legge » che non è più nulla per lui: se era Ebreo, la Legge perde ogni suo potere sopra di lui; se era pagano, la Legge non può più esercitare sopra di lui nessuna rivendicazione. Il Battesimo è infatti una morte mistica nella quale siamo uniti al Cristo morente. Ora la morte che è il termine degli obblighi passati, estingue il nostro debito; e così la Legge di Mosè non avrà più crediti da far valere contro di noi. Questo è pure il pensiero che si cela in fondo a questo testo enigmatico: « Per mezzo della Legge io sono morto alla Legge; io sono stato crocifisso con Gesù Cristo (Gal. II, 18) ». Si capisce facilmente che il fatto di essere crocifisso con Gesù Cristo è una morte alla Legge: san Paolo ci ha familiarizzati con questa idea; ma come mai « per mezzo della Legge sono morto alla Legge? » Vi è forse connessione tra questa frase e l’inciso seguente? e in tal caso, si tratta dell’unione ideale col Cristo crocifisso sul Calvario, oppure dell’unione mistica con Lui al Battesimo? Qualunque sia la spiegazione che si voglia dare a questo testo oscuro, resta sempre il fatto che se, per ipotesi impossibile, la Legge mosaica non fosse abrogata per tutti, sarebbe abrogata per il Cristiano. – Oltre la morte del Cristiano alla Legge e la morte, per così dire, naturale della Legge divenuta decrepita per l’età, vi è anche una morte violenta della Legge, che san Paolo ci descrive in due passi di una singolare energia. I due testi presentano grandi analogie di pensiero e di espressione insieme con profonde divergenze, il che spiega il diverso scopo dell’autore. Il pensiero fondamentale è il medesimo: i pagani, che una volta erano seppelliti sotto i loro peccati, debbono all’abolizione della Legge l’essere stati vivificati nel Cristo. Ma l’abolizione della Legge è presentata ai Colossesi come la liberazione da un giogo opprimente e odioso, agli Efesini invece come la cessazione di discordie passate e come un pegno di unione tra le due frazioni della nuova umanità; infatti l’Epistola ai Colossesi vuole stabilire la libertà cristiana sotto la mediazione unica del Cristo, e l’Epistola agli Efesini ha lo scopo di mostrare la perfetta uguaglianza degli elementi che compongono il suo corpo mistico. Il quadro disegnato in quest’ultima Epistola è di una grandiosità solenne e tragica. Eccone la traduzione leggermente parafrasata: « Ricordatevi che una volta, voi pagani nella carne, trattati come incirconcisi da coloro che si chiamano circoncisi (e che tali sono) nella carne per mano dell’uomo, (ricordatevi) che in quel tempo eravate senza il Cristo, esclusi dalla teocrazia d’Israele, estranei alle alleanze della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo. « Ma ora, nel Cristo Gesù, voi che eravate una volta lontani, siete stati avvicinati nel sangue del Cristo. « Poiché egli è la nostra Pace, egli che di due (popoli) ne ha fatto uno solo, avendo rovesciato il muro di separazione, (la causa dell’inimicizia, e annullato nella sua carne (immolata) la legge dei precetti (consistente) in ordinazioni (molteplici), a fine di formare in se stesso un solo uomo nuovo con i due (popoli) che Egli ha pacificati, e di riconciliare l’uno e l’altro in un solo corpo per mezzo della croce, distruggendo per mezzo di essa l’inimicizia. « Ed è venuto ad annunziare la pace a voi che eravate lontani, e la pace (anche) a quelli che erano vicini; poiché per mezzo di Lui noi abbiamo accesso gli uni e gli altri presso il Padre, in un medesimo Spirito (Ephes. II, 13) ». Il pensiero che si può ricavare da questo periodo così carico d’incisi, è in fin dei conti abbastanza semplice. L’Apostolo si rappresenta i due popoli la cui riunione formerà la Chiesa, gli Ebrei e i Gentili, come separati tra loro da una barriera insormontabile e animati l’uno contro l’altro da inimicizie irreconciliabili. La barriera è la Legge; la causa dei sentimenti ostili è ancora la Legge. Infatti la Legge dava agli Ebrei tutti i privilegi: speranze messianiche, teocrazia, alleanze divine, conoscenza del vero Dio. I Gentili, estranei a tutto questo, erano trattati con disprezzo dai figli della circoncisione; e, cosa ancora più grave, erano senza il Cristo, senza Dio, senza speranza. Essi erano lontani dagli Ebrei in tutte le maniere, e l’ostilità reciproca che regnava tra loro, aumentava ancora di più la distanza. L’idea che domina nella mente di Paolo, nello scrivere queste righe, è il disegno di Dio, di costituire con questi elementi eterogenei, una sola famiglia, un a sola casa, che sarà la Chiesa, una sola persona morale, un solo corpo, che sarà il Cristo mistico. Nel tempo stesso la sua mente è assediata da due testi scritturali che hanno col suo argomento una meravigliosa relazione; l’uno di Michea il quale predice che il Messia sarà la Pace, cioè il pacificatore per eccellenza, l’altro di Isaia il quale dice che il Messia porterà la pace a quelli che sono vicino e a quelli che sono lontano. Come si compirà questa doppia profezia? Eliminando tutte le cause di odio e di discordia, sopprimendo la distanza che separava i due popoli, rovesciando la barriera che li divideva, e la quale altro non era che la Legge mosaica con i suoi onerosi e odiosi privilegi. Gesù Cristo compie tutto questo fondendo i due popoli in uno solo, nell’identità del suo corpo mistico. La legislazione antica aveva oppresso gli Ebrei col suo intollerabile peso, e per i Cristiani della gentilità è un benefìcio insigne l’esserne liberati: questo essi devono al Cristo: Voi eravate morti per le vostre offese e per l’incirconcisione della vostra carne, voi Dio ha fatto rivivere con lui (il Cristo), perdonandoci tutte le nostre offese, scancellando l’atto dei precetti (scritto) contro di noi, che era contrario a noi; e lo ha fatto scomparire inchiodandolo alla croce (Col. II, 13-14). È cosa assolutamente certa che « l’atto autentico consistente in precetti » indica la Legge di Mosè. Tale atto era scritto « contro » gli Ebrei perché loro imponeva numerosi e rigorosi doveri e li esponeva, in caso di violazione, a severi castighi; esso era loro « contrario » per le medesime ragioni e anche perché ritardava l’adempimento delle promesso messianiche. Non era poi meno contrario ai Gentili che escludeva dalla teocrazia. Perciò « il codice dei precetti » è annullato; Dio lo fa scomparire affinché nessuno se ne possa valere contro i discepoli del Cristo; egli lo inchioda alla croce del Salvatore, come per punirlo del male che ha fatto e per dare maggiore pubblicità alla sua abrogazione. La Legge che portava in se stessa tanti germi di caducità, muore qui di morte violenta, e la sua tirannia finisce: « Nessuno vi giudichi in fatto di cibi o di bevande, o in ciò che riguarda le feste o le neomenie o i sabbati: questa è l’ombra delle cose future (Col. II, 16) ». La Legge mosaica termina su la croce la sua drammatica carriera: essa ha ucciso il Cristo, e il Cristo alla sua volta la uccide.