LIBRO III.
La persona del Redentore (2)
[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA, S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]
III. GESÙ CRISTO DIO.
1. LA DIVINITÀ DEL CRISTO E LE APOTEOSI PAGANE. — 2. QUATTRO TESTI RIVELATORI. — 3. RIASSUNTO SINTETICO.
1. Tutte le civiltà antiche — in Caldea, in Egitto, in Cina, in Persia, nell’India — divinizzarono i loro re. Alessandro Magno, impadronendosi dei territori di quelle antiche monarchie, si appropriò dei titoli onorifici dei loro sovrani, e naturalmente i generali che si divisero i suoi stati, ne ereditarono anche i titoli. Dopo di loro i Cesari, pure evitando da principio di offuscare le idee romane, ben presto non tardarono a prestarsi ad un’apoteosi che serviva alla loro politica senza urtare i costumi orientali. Si cominciarono a divinizzare gl’imperatori morti, poi si resero gli onori divini anche agl’imperatori viventi. Se non sembra che essi abbiano fatto gran caso del titolo di « signore », caro ai Tolomei e agli Erodi, si lasciarono chiamare senza scrupolo « dio salvatore, salvatore e dio, dio » semplicemente, ed anche, quando il loro padre già godeva dell’apoteosi, « Dio figlio di dio ». Pare tutta via che Domiziano sia stato il primo, dopo quel pazzo di Caligola, a farsi chiamare dominus et deus noster persino nella sua capitale. I Cristiani respinsero sempre sdegnosamente queste empie pretese: la profanazione dei nomi e degli attributi divini ispirava loro un invincibile orrore. Quando l’autore dell’Apocalisse dice all’Angelo di Pergamo, che egli « abita presso il trono di Satana (Apoc. II, 13) », non si può fare a meno di pensare al primo tempio eretto al dio Augusto e alla dea Roma, tempio di marmo rilucente che sorgeva nella vetta dell’Acropoli di Pergamo, dominante la pianura del Caico e visibile da lontano in tutte le direzioni. Non meno energica è la protesta di san Paolo contro la deificazione degli uomini. “Nessuno è Dio se non (Dio) solo. Vi sono bensì in cielo e sopra la terra degli esseri che sono chiamati dèi (per abuso di linguaggio); di modo che si parla di parecchi dèi e di parecchi signori, ma per noi unico è Dio il Padre, dal quale tutto (viene) ed al quale noi (andiamo), e unico è il Signore Gesù per mezzo del quale tutto (esiste) e per mezzo del quale noi (siamo cristiani” (I Cor. VIII, 5-6) . Così quando sentiamo l’Apostolo dare al Cristo il nome e gli attributi di Dio, noi non pensiamo affatto alle apoteosi pagane da lui riprovate con tanta forza, e lasciamo a quelle espressioni il solo significato che è permesso dal monoteismo ebraico congiunto con le distinzioni personali stabilite dalla rivelazione cristiana, nel seno della vita divina.
2. Quattro testi scelti appositamente in tutti i gruppi di Epistole, potranno farci vedere qual è l’idea che Paolo si fa. sempre del Cristo preesistente. Gesù Cristo è « innalzato sopra tutte le cose, Dio benedetto per sempre »; egli è « il nostro gran Dio e Salvatore »; in Lui « abita la pienezza della divinità »; finalmente Egli è « sussistente nella forma di Dio ». Esaminiamo brevemente la portata di queste testimonianze. Dal seno d’Israele è uscito « secondo la carne, il Cristo che è sopra tutte le cose, Dio benedetto nei secoli (Rom. IX, 5) ». Questa espressione si riferisce così chiaramente al Cristo, del quale spiega la natura tra scendente e divina, che non fu mai intesa diversamente dalla tradizione cristiana. In Oriente san Dionigi Alessandrino ed i vescovi firmatari della lettera sinodale contro Paolo di Samosata, sant’Atanasio, san Basilio, san Gregorio Nisseno, sant’Epifanio, san Cirillo Alessandrino; in Occidente sant’Ireneo, sant’Ippolito, Tertulliano, Novaziano, san Cipriano sant’Ilario, sant’Ambrogio, san Gerolamo; i commentatori greci e latini, Origene, l’Ambrosiastro, Pelagio, il Crisostomo, Teodoro di Mopsuesta, Teodoreto e gli altri, non suppongono neppure che le si possa dare un altro significato. Bisogna arrivare fino a Fozio per trovare una voce dissidente; poiché tutto ciò che è lecito conchiudere dal silenzio di Ario, di Diodoro di Tarso e degli scrittori infetti di arianesimo del quarto secolo, è che il nostro testo li metteva nell’imbarazzo, e che evitavano di citarlo come un’obiezione fatale per la loro tesi. Certi esegeti moderni hanno meno scrupoli: essi mettono arbitrariamente un punto o dopo « il Cristo secondo la carne », o prima di « Dio benedetto per sempre »; e così ottengono un periodo monco che traducono così:
A) Colui che è sopra tutte le cose (è) Dio benedetto per sempre.
B) Il Dio che è sopra tutte le cose (è o sia) benedetto per sempre.
C) Dio (è o sia) benedetto per sempre.
Tutti converranno che questo spezzamento dà al testo un aspetto goffo e un’andatura strana. Certamente non sarebbe venuto in mente a nessuno di farlo, che non fosse stato prima fermamente persuaso che Paolo non può chiamare Dio il Cristo e che a Lui non applica mai una dossologia. Ancorché questa doppia ipotesi fosse giusta, la conclusione che se ne trae sarebbe pur sempre un paralogismo, e per la stessa ragione bisognerebbe radiare dall’insegnamento di san Paolo tutte le asserzioni che nei suoi scritti si trovano soltanto una volta; ma la doppia ipotesi è falsa e gratuita: l’Apostolo dà qualche volta al Cristo il nome di Dio e gli applica dossologie. E poi il nostro testo non è propriamente una dossologia, ma è piuttosto un’affermazione pura e semplice della dignità sovreminente del Cristo, terminata con un amen di benedizione e di lode. Il solo amen, se assolutamente si vuole, formerebbe tutta la dossologia. E facile dimostrare che la costruzione immaginata dai razionalisti è contraria alla logica e alla grammatica. Non è l’eccellenza del Padre, ma quella del Figlio che il passo deve far risaltare. Ora le parole « secondo la carne » ci preparano a un’antitesi; noi ci aspettiamo un secondo aspetto del ritratto del Cristo; e l’inciso « che è sopra tutte le cose, Dio benedetto per sempre », è proprio quello che risponde alla nostra attesa; esso finisce l’immagine del Salvatore e completa mirabilmente il quadro delle prerogative degli Ebrei: discendenza da Israele, filiazione adottiva, presenza sensibile di Dio, legislazione trasmessa per mezzo degli Angeli, culto legittimo, promesse messianiche, sangue dei patriarchi parentela umana con Gesù Cristo la cui natura superiore ridonda in loro gloria. Perché la frase staccata fosse una dossologia riferita al Padre, bisognerebbe che o la parola « benedetto » fosse messa bene in vista, invece di essere affogata nella proposizione, oppure che la frase cominciasse con un verbo di modo ottativo: una dossologia come quella che ci si propone, per correggere il senso naturale, di san Paolo, sarebbe senza esempi in lingua greca. Questa costruzione inusitata nella quale viene a urtare la terza spiegazione, nelle altre due viene a complicarsi con un solecismo. Non farà dunque meraviglia, se i Padri greci i quali dovevano conoscere la loro lingua un po’ meglio che i moderni esegeti, non ne fanno menzione, neppure per confutarla. Gesù Cristo non è Dio in una maniera impropria, partecipata, analogica; Egli è sopra tutte le cose che non sono Dio. Siccome questa qualità di Dio supremo non può convenire che ad un essere unico, il Figlio deve necessariamente essere consostanziale al Padre e identico con Lui in natura. Paolo al termine della sua carriera non troverà nulla di più eccellente da dire del Cristo: « Noi aspettiamo, scrive egli a Tito, la manifestazione gloriosa del nostro gran Dio e Salvatore Gesù Cristo (τοῦ μεγάλου Ξεοῦ καί σωτῆρος ἡμῶν Κριστοῦ Ιησοῦ (= Tou megàlou Teou kai sotéros emòn Cristou Iesou) – (Tit. II, 13-14) ». – È cosa consolante il vedere gli esegeti dei nostri giorni ritornare sempre più all’interpretazione tradizionale. Se si trattasse del Padre, l’Apostolo non aggiungerebbe a Dio l’epiteto di « grande » che è già compreso nel principio della divinità; e poi la parousia è sempre la manifestazione gloriosa del Figlio il quale viene a giudicare il mondo, non mai quella del Padre. Finalmente — e questo argomento è decisivo — i due titoli titoli « gran Dio » e « Salvatore », trovandosi in greco compresi sotto il medesimo articolo determinativo, si devono riferire alla medesima Persona: perché fosse possibile isolarli, e attribuire soltanto il secondo a Gesù Cristo, bisognerebbe che questo nome si trovasse tra i due titoli. Il rifiutare anche questa testimonianza col pretesto che Gesù Cristo non è Dio, e che san Paolo non dovette chiamarlo Dio, è rinunziare a fare il lavoro dell’esegeta per trincerarsi dietro un partito preso di negazione testarda. – Ma per quanto già siano rivelatori, questi testi non sono che rapidi bagliori e sprazzi di luce: nelle lettere della prigionia si trova meravigliosamente descritta l’immagine del Cristo preesistente. Non vi è nulla che somigli di più al Prologo di san Giovanni, che i passi cristologici dell’Epistola ai Colossesi. Il parallelismo oltrepassa l’ordine delle idee e arriva fino all’espressione: da una parte e dall’altra, il Cristo si presenta come un serbatoio di grazie la cui pienezza si riversa sopra tutto il genere umano, e l’unione, nella persona di Lui, della divinità con l’umanità, è affermata con una formula egualmente ardita. Ma mentre san Giovanni si compiace di considerare il Logos in seno alla luce divina di cui è l’irradiazione eterna, san Paolo preferisce contemplare il Cristo come capo dell’umanità che riscatta, e della creazione cui restituisce la sua primiera armonia. Infatti il suo scopo principale, determinato dalla controversia con i falsi dottori di Colossi, è di far vedere che il Cristo primeggia in tutte le cose, come uomo e come Dio, nel tempo e nell’eternità; egli perciò accumula nella persona di Lui, senza troppo preoccuparsi dell’ordine logico o cronologico, i titoli onorifici, le qualifiche eccezionali, le dignità e le prerogative che lo mettono assolutamente fuori di ogni confronto e gli conferiscono un primato sovreminente. Così il Cristo è « il Figlio prediletto », necessariamente unico, il quale, in tale qualità, dispone del regno di suo Padre come del suo regno. — Egli è « l’immagine del Dio invisibile », ritratto vivente del Padre celeste, il solo perfettamente simile al suo archetipo e il solo capace di rivelarlo agli uomini, perché Egli solo lo conosce come ne è conosciuto. — Egli « è il Primogenito di ogni creatura » perché « esiste prima di ogni creatura ». — Egli è il creatore e il conservatore di tutte le cose; e nessun essere creato, per quanto elevato nelle sfere celesti, sfugge alla sua attività creatrice né alla sua provvidenza. — Egli è « il capo supremo della Chiesa », autore della redenzione e della remissione dei peccati, primogenito tra i morti e primizia della risurrezione, perché, dovendo primeggiare in tutto, non gli può mancare nessuna preminenza. — Egli possiede la pienezza delle grazie richieste per compiere la sua parte di riconciliatore e di pacificatore universale (Col. I, 17). — Finalmente, come per compiere il quadro, « tutta la pienezza della divinità abita in Lui corporalmente (Col. II, 9) ». Non bisogna confondere questa formula con la precedente, poiché esse sono totalmente diverse: nella prima si tratta della pienezza delle grazie, nella seconda della pienezza della divinità; là si tratta di una pienezza che sta sopra la persona del Cristo, qui di una pienezza che risiede nel corpo del Cristo. La parola adoperata da san Paolo non è punto equivoca: « tutta la pienezza della divinità » non può essere che la stessa natura divina. – Tuttavia l’espressione più completa del pensiero di san Paolo, è il celebre testo cristologico dell’Epistola ai Filippesi. L’Apostolo volendo proporre ai suoi discepoli un esempio di abnegazione e far loro vedere che l’abbassamento volontario è un seme di gloria, presenta loro le tre tappe di vita divina, di vita di prova e di vita glorificata, percorse da Gesù Cristo « il quale essendo nella forma di Dio non considerò come una preda l’essere (trattato) alla pari di Dio; — ma si spogliò prendendo la forma di schiavo, diventando simile agli uomini; e, riconosciuto uomo al suo esteriore, si abbassò facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce; — perciò Dio lo ha esaltato e gli ha dato un nome che è sopra tutti i nomi, affinché al nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, in terra e negli inferni ed ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è (entrato) nella gloria del Padre (Fil. II, 6-11) ». I n ciascuna di queste tre tappe, di maestà, di umiliazione e di gloria, vi sono come due fasi distinte. Prima di tutti i secoli il Cristo era nella forma di Dio e per questo appunto era Dio, perché la forma di Dio appartiene alla sua essenza; e come Dio egli aveva diritto agli onori divini quanto suo Padre. Questa maestà non gl’impedisce di abbassarsi fino a noi: egli si spogliò, non deponendo la forma divina che era inseparabile dal suo essere, ma nascondendo la sua forma divina sotto la sua forma umana e rinunziando così per un certo tempo agli onori divini che gli erano dovuti; Egli si abbassò più ancora di quanto lo esigesse la sua condizione di uomo, sottomettendosi alla morte, e alla più ignominiosa delle morti. Per dare alla sua rinunzia volontaria una ricompensa proporzionata, Dio costringe ora ogni essere creato a rendergli omaggio ed a confessare il suo trionfo.
3. A costo di fare qualche anticipazione sul capitolo seguente, cerchiamo di abbozzare le linee principali di questa immagine. Il Cristo è di un ordine superiore ad ogni essere creato (Ephes. I, 21), è Egli stesso creatore (Col. I, 16) e conservatore del mondo (Col. I, 17); tutto è per mezzo di Lui, in Lui e per Lui (Col. I, 16-17). Come causa efficiente, esemplare e finale di tutto ciò che esiste, Egli è dunque Dio. Il Cristo è l’immagine del Padre invisibile (II Cor. IV, 4; Col. I, 15); Egli è il Figlio di Dio, ma non come gli altri figli; egli è Figlio in una maniera incommensurabile; Egli è il Figlio, il proprio Figlio, il Prediletto, e tale è sempre stato (II Cor. I, 19). Egli dunque procede dall’essenza divina, Egli è consostanziale al Padre. – Il Cristo è oggetto delle dossologie riservate a Dio (Rom. IX, 5); a Lui si rivolgono preghiere come al Padre (II Cor. XII, 8-9); da Lui si attendono beni che Dio solo ha il potere di conferire, come la grazia, la misericordia, la salvezza (Rom. I, 7, etc.); davanti a Lui deve piegarsi ogni ginocchio in cielo, in terra e negli inferni (Fil. II, 10), come si piega ogni ginocchio per adorare la maestà dell’Altissimo. – Il Cristo possiede tutti gli attributi divini: Egli è eterno perché è il primogenito di ogni creatura ed esiste prima dei secoli (Col. I, 15-17); è immutabile, perché è nella forma di Dio (Fil. II, 6); è onnipotente perché ha il potere di fecondare anche il nulla (Col. I, 16); è immenso perché tutto riempie con la sua pienezza (Ephes. IV, 10); è infinito perché il pleroma della divinità abita in Lui, o meglio, perché Egli stesso è il pleroma della divinità (Col. II, 9); tutto quello che è proprietà speciale di Dio, appartiene a Lui come sua proprietà: il tribunale di Dio è il tribunale del Cristo (Rom. XIV, 10), il Vangelo di Dio è il Vangelo del Cristo (Rom. I, 1), la Chiesa di Dio è la Chiesa del Cristo (I Cor. I, 2), il regno di Dio è il regno del Cristo (Ephes. V, 5), lo Spirito di Dio è lo Spirito del Cristo (Rom. VIII, 9).– Il Cristo è il Signore unico (I Cor. VIII, 6); Egli si identifica col Jehovah dell’antica alleanza (I Cor. X, 4-9); Egli è il Dio che ha conquistato la Chiesa a prezzo del suo sangue (Act. XX, 28); Egli è il « nostro gran Dio e Salvatore Gesù Cristo (Tit. II, 12)»; Egli è anzi « il Dio innalzato sopra tutte le cose (Rom. IX, 5) », che con la sua trascendenza infinita domina il complesso delle cose create. Se Egli non è chiamato Dio senza epiteti, è perché Dio, nel linguaggio di san Paolo, designa la Persona del Padre, e un’identità personale tra il Padre e il Figlio è contradittoria.