DISCORSO XIV.
[p. V. Stocchi: “Discorsi sacri”, Befani ed. ROMA, 1884]
I. SOPRA LA CONCEZIONE IMMACOLATA DI MARIA
Venite, audite, et narrabo, omnes qui timetis Deum, quanta fecit animæ meæ.
Ps. LXV, 16.
Se è istinto naturale e legittimo del cuore dell’uomo, che risaluti con nuova esultanza l’anniversario ricomparir di quei giorni, che un desiderato avvenimento gli fece belli e memorabili, abbiamo o signori manifesta e chiarissima la ragione, perché fra le tante solennità onde la santa Chiesa onora Maria, nessuna rifulge al popolo cristiano così piena di giocondità e di letizia quanto questa dolcissima della Immacolata Concezione di Lei. Ricevemmo le altre dalla pietà e dalle mani dei padri nostri già perfette e mature, onde nulla fu aggiunto ad esse per noi, né crebbero fra le nostre mani, né si abbellirono: ma di questa i maggiori altro non potettero tramandarci che i desideri, l’anticipazione e i principi, che, veggenti noi e cooperanti, raggiunsero il compimento, e toccarono il segno. Cosa nostra è dunque in peculiar modo la odierna solennità, nostra perché la affrettammo coi nostri voti, nostra perché la sollecitammo colle nostre suppliche, nostra perché contemplammo cogli occhi nostri e salutammo coi nostri applausi il novello diadema intrecciato alla fronte di Maria, nostra in una parola, perché questa seconda metà del secolo decimonono fu quella pienezza dei tempi nella quale il gran privilegio emerse dalle ombre terrene che lo offuscavano e guadagnò la pienezza del suo splendore. Ma tanta soavità di memorie, che a tutti noi fa caro questo giorno sopra l’usato, a me rende più dell’ usato penoso e difficile il debito di favellare, non perché sopra ogni tema non mi sia dolce il favellar di Maria, ma perché avendo già fatto restremo della lor possa non meno il Magisterio apostolico nel definire e la scienza nel propugnare, che la sacra eloquenza nel celebrare la originale santità di Maria, ad orecchie come sono le vostre usate da più anni al nobilissimo assunto e piene delle voci di tanti uomini dottissimi e facondissimi, sento di non potere nella mia povertà arrecar nulla, che possa essere ascoltato non dico con diletto, ma con pazienza. Ma che fare, poiché né è in potestà mia il sottrarmi oggi a questo ufficio del favellare, né la vostra pietà né il cuor mio sosterrebbero, che favellando, d’altro favellassi fuorché di Maria Immacolata? Di Maria Immacolata pertanto favellerò, poiché conviene così, e darò opera di pascolare il cuor vostro spiegandovi a parte a parte dinanzi agli occhi qual sia e quanto quel gran tesoro di grazie che nel primo istante dell’Immacolata sua Concezione abbellì la Vergine. Prima che l’oracolo del Vaticano accertasse il gran privilegio, i sacri oratori si studiavano in propugnarlo: dopo la memorabile definizione a noi non rimane altro fuorché illustrarlo.
1. Se la divina maternità è la radice e la sorgente di tutti i doni onde venne privilegiata Maria, e ad essa mirò il sommo Artefice quando architettò questo capo di opera delle sue mani; l’immunità e la franchigia dalla macchia di origine è la base e il fondamento sopra il quale punta ed erge tutta la mole. Fondamento ineffabile di questa celeste Gerusalemme, gettato dalla mano medesima del Signore, che vi profuse ogni più eletta ragione di pietre preziose e di gemme, le quali ai dì nostri per la voce del Vicario di Gesù Cristo rivelandosi, forbendosi e scintillando, mostrano col loro fulgore quanto fosse contro ogni ragione il pur sospettare ad un’opera di tanta eccellenza sottoposto per fondamento il fango e la putredine del peccato. No, Fundamenta muri civitatis omni lapide pretioso ornata, (Apoc. XXI, 19.) possiamo ora dir noi appropriando a Maria quello che l’Estatico di Patmos cantò della Gerusalemme che scendeva dal Cielo, e considerare che bella vista dovesti dare di te medesima agli occhi del Signore o Maria adorna di queste gemme fin dall’istante primissimo che fosti concetta. Erano quaranta secoli che Iddio tenendo d’occhio le umane generazioni e spiandone e governandone il corso, altro non vedeva fuorché peccatori e peccati. Come della terra uscita allora allora dal nulla, è scritto che era grama, era vuota, e la notte orrenda che copriva la faccia dell’abisso la ravvolgeva, così per l’uomo l’esser concetto era un medesimo coll’esser compreso e assorbito dal nulla tenebroso ed orribile della colpa. Rimirando pertanto il Signore l’opera sua non la ravvisava per quella che Egli la fece, e come chi in luogo di amata donzella, che ha destinato di assumere al consorzio delle nozze e del talamo trovasse un cadavere inerte, squallido, putrefatto, fuggirebbe inorridito da quella vista volgendosi egli in oggetto di abbominazione, ciò che gli fu fiaccola di desiderio ed incentivo di amore, così Dio guardando l’umana natura caduta dalla nobiltà nativa e giacente nell’abbiezione della colpa, lacera, tronca, dissoluta come cosa fulminata e maledetta, la respingeva da sé. Quando a un tratto, stanco per così dire della vista e dello spettacolo di tanta miseria, “… spunti finalmente, gridò, spunti fra tanta notte un raggio di luce. Fiat lux”. E la luce fu fatta, non luce piena no, né come di meriggio, che questa recata avrebbe tra poco il sol di giustizia, ma luce rosea e gentile, e quale di aurora che si affacci al balcone di oriente allorché inaugurando il mattino sembra chiedere ai mortali che vagheggino lei foriera bellissima, mentre addita l’astro sovrano e gli infiora la via. E tu fosti questa aurora o Maria, Tu che presente all’intelletto divino fin da quando architettava i cieli, tirava un vallo all’intorno e costringeva a certa legge gli abissi, e librava i fonti delle acque, pargoleggiasti al cospetto di quella maestà col vezzo di garzonetta innocente. Fosti Tu che dai più sublimi splendori del Paradiso scendesti al dolce connubio delle membra in compagnia delle quali dovevi, pellegrina celeste, fornire il viaggio di questa valle. Fosti Tu, e all’ingresso del corpo, valico formidabile dove quanti furono avanti e saranno dopo di Te figliuoli di Adamo incorsero e incorreranno la catena e il giogo di satana, Tu trovasti la grazia che ti aperse le porte, trovasti il Padre, il Figliuolo e lo Spirito che presiedettero al benedetto connubio, che santificarono l’abitacolo e l’abitatrice, che Ti cinsero alle tempie la corona della vittoria ed abitaron con Te.
2. Dico la corona della vittoria, imperocché, per esprimere secondo la bassa e terrena facoltà delle nostre fantasie con immagini sensibili cose che eccedono la tenuta del senso, non vide appena satanasso quest’anima pellegrina calar dal Cielo alla terra, che le tese tosto quei lacci onde mai nessuno campò, e a baldanza di tanti secoli di esperimento infallibile, fidente e sicuro apprestava già la catena ed arrotava l’artiglio: ma che ? A modo di colomba, che con le ali ferme ed aperte si tragitta oltre la opposta riviera delle acque, travolò Maria, tutti i lacci trascorse, tutti gli agguati, e mentre il fellone stordiva di questa preda che per la prima volta gli fuggiva di pugno. Ella con tal impeto del virgineo piede gli calcò la testa che lo conquise, onde ricordò la minaccia che nell’Eden gli avvelenò la gioia della vittoria, sospettò suscitata nella novella concetta la fatale nemica, e gli parve udire il primo crollo e il primo scroscio del suo trono che rovinava. Immagini grossolane son queste che non hanno col vero più proporzione di quel che abbia l’ombra con la luce, il corpo con lo spirito, la terra col Cielo, ma che pur sono le prescelte nelle Scritture, ad adombrare la gran vittoria della Vergine sopra il serpente nemico. Vergine veramente privilegiata e felice, che per la prima volta offerse agli occhi del Signore lo spettacolo di una figlia di Adamo franca ed immune da quella maledizione che l’infelice padre lasciò doloroso retaggio ai suoi figli, onde Iddio abbracciò in Essa una primizia incontaminata di quella umana natura che avrebbe tutta quanta riabbracciata di poi nel benedetto portato di questa fanciulla, le stampò in fronte un soavissimo bacio di pace, la dichiarò Figliuola sua primogenita, ed erede del Regno, del quale l’avrebbe, procedendo e moltiplicando in privilegi e in favori, incoronata Regina. E questa compiacenza del Signore intende di adombrare la Chiesa, quando nelle solennità di Maria, ci ripete gli accenti amorosi dello Sposo delle sacre canzoni; il quale standosene a contemplare la sua diletta tra nascosto e palese dietro alla parete domestica, e dalla finestra sguardandola e di fra le sbarre dei socchiusi cancelli; o quanto sei bella, le dice, quanto sei bella. vinci di leggiadria Gerosolima: come quelli delle colombe sono i tuoi occhi, i tuoi capelli assembrano i folti velli dei greggi che pasturano sui monti di Galaad, i tuoi denti sono a vedere un drappelletto di agnelli, che ascendono candidi e rugiadosi dall’argentino lavacro della fontana, ti sollevi come la palma fra i minori arboscelli, la maestà della tua fronte pareggia il fronzuto dorso del Carmelo, la luna non è più vaga, il sole non è più luminoso di Te.
3. Già vi accorgete o signori, che nulla si conviene aspettare di comunale né di usitato dopo questi principi, e chi può dire a che altezza condurrà il Signore quest’opera che ha cominciato con lo infrangimento della legge più universale della decaduta natura? È gran cosa l’essere preservato dall’incorrere l’obbrobrio della colpa e la miseria della schiavitù del demonio, e questo solo basterebbe perché Tu a noi di tratto infinito soprastessi o Maria, noi dovremmo pur sempre avvallare la fronte davanti a Te, e confessare che fummo schiavi e mostrare il solco dei ceppi e i lividi di della catena: Tu potresti procedere come Regina nel mezzo a noi, e vantare che redenta con una redenzion che preserva, mai non chinasti il capo al cospetto del nemico di Dio. Ma ahimè, in noi anche redenti, lavati e fatti membra di Gesù Cristo rimane un’orribile traccia e un monumento obbrobrioso del peccato che fece la sua dimora dentro di noi, traccia e monumento che suggella questo nostro corpo, e rende testimonianza che è carne di quella massa che in Adamo prevaricò. Dico la concupiscenza ribelle, il fomite della carne, la legge delle membra, quella che faceva piangere l’Apostolo Paolo, che la chiamò peccato, non perché peccato sia veramente, ma perché proviene dal peccato e inclina al peccato, e se avvenga che concepisca, genera morte. Questa è quella nemica che tiene noi con noi medesimi in continua battaglia, questa opera che nel cuor nostro raro sia calma e sereno, sempre o quasi sempre tempesta, mentre la carne insorge contro lo spirito, l’appetito contro la ragione, e ora con le tenebre che esala ad oscurar l’intelletto, ora con le lusinghe che adopera per travolgere la volontà, ora con le querele che mena, e coi fremiti e coi ruggiti che mette, ripugnanti quasi e tergiversanti ci trascina o minaccia di trascinarci al suo desiderio. Ahimè uomo infelice, gridava l’Apostolo, bersagliato e percosso da questa guerra, chi mi libererà da questo corpo di morte? Fortunata Maria! Quella mano medesima, che la scampò agli artigli di Satana, quella medesima estinse nel medesimo istante nella sua carne, e sterpò questo fomite obbrobrioso; e si vide in Lei disusato miracolo, la carne di Adamo senza le turbolenze e i tumulti della carne di Adamo. Privilegio grande fu questo che da Gesù in fuori, altri non ebbe mai che Maria, l’ebbe Gesù per natura, Maria per grazia: impossibile che nel distruttor del peccato abitasse questo maligno consigliere e sollecitator di peccato; impossibile che lo specchio della luce eterna, sostenesse che nella Vergine suo futuro abitacolo, nella sua carne futura andasse in volta anche per un istante un abitatore cosi laido. Che terra dunque è questa, domanda Riccardo da S. Vittore, dai confini della quale tutte sono sterminate le guerre? È quella terra, risponde, che è serbata a germogliare la santità. In cæteris sanctis, seguita a dire, magnificum est quod a vitiis non possunt expugnari. Agli altri Santi è gloria magnifica il non lasciarsi espugnare dai vizi. In Virgine mirificum videtur quod a vitiis non potest vel in modico impugnari. Alla Vergine questa gloria sarebbe poco, se al primo non si aggiungesse l’altro miracolo, che esser non possa neppure per un istante impugnata. Nessuno dunque domandi dove sia il Paradiso terrestre dovuto a tanta innocenza e santità di creatura. Paradiso fu a sé medesima l’anima purissima di Maria, e chi può dire la pace beata e la serenità di quel Paradiso? Non erano in Lei passioni che si ribellassero, in Lei non erano appetiti che si accendessero; in Lei non erano sensi che tumultuassero; l’ignoranza non offuscava l’intelletto colle sue tenebre, la malizia non inceppava la volontà con le sue nequizie; la ragione illuminata sempre dal sommo vero, il cuore sempre occupato dal sommo bene, tutto era delizia in questa abitazione futura del Principe della pace.
4. O bella dunque nella sua concezione, e tanto bella da innamorare gli occhi della terra e del Cielo l’anima di Maria, immune di ogni peccato, immune di tutto ciò che incita e sprona al peccato; ma crediamo noi che l’Altissimo si sia tenuto in questi termini, per dir così negativi, e non abbia altri tesori profuso per abbellir questa Vergine assortita a così eccelsi destini? Mandato da Dio si presentò un giorno al re Acaz il profeta Isaia, “ … e Re, gli disse, pete Ubi signum a Domino Deo tuo, sìve in pròfundum inferni sive in excelsum supra. (Is. VII, 11) Domanda un segno al Signore Dio tuo e dimandalo dove vuoi. Se lo domandi nell’alto dei cieli lo avrai nei cieli, e lo avrai nell’inferno se lo domandi nel profondo medesimo dell’inferno. No, rispose Acaz, non domanderò questo segno, né sarà mai che io tenti il Signore. Non vuoi tu questo segno? Or bene, il Signore quasi a tuo dispetto te lo darà, ed ecco una Vergine concepirà e partorirà un figliuolo che sarà Dio. e permanendo vergine diverrà Madre. “Dabit Dominus ipse vobis signum: ecce Virgo concipiet et pariet filium.” (Is. VII, 14.) Un portento deve esser dunque Maria ordinata a concepire e partorire un divino portato, e tal portento che preluda e si proporzioni alla divina Maternità. Quindi ogni grazia per prodigiosa che sia non deve parerci in questa Vergine né eccessiva né strabocchevole, siccome in Colei che apparecchiandosi a una dignità che tiene dell’infinito, sembra che la onnipotenza divina debba, per così dire, esaurir se medesima per ingrandirla. – Fate grandi, diceva Salomone, gli apparecchi per la gran mole del tempio, fateli sontuosi, nessuna profusione di tesori vi sembri troppa. Non enim hominibus præparatur inabitatio sed Deo. (I. Par. XXIX,) Non si appresta la stanza per l’abitazione degli uomini, si appresta la casa per la dimora di Dio. Oh! con quanta più di ragione potettero dirsi queste parole quando l’Altissimo santificava Maria. Verrà tempo che Costei che si raccoglie ora e nasconde pargoletta nell’augusto claustro del seno materno, sarà sublimata alla parentela e al consorzio delle divine Persone tanto strettamente quanto è possibile che creatura si innalzi a Dio senza dismettere la sua condizione di creatura. Il Padre le darà per figliuolo il suo Figliuolo unigenito, e in diversa natura ma nella stessa persona la farà tanto vera Madre del Verbo quanto Egli ne è vero Padre. Il Figlio generato ab eterno dal Padre negli splendori dei Santi, sarà da Maria generato in terra con generazione temporale e da Lei portato nove mesi nel seno, da Lei partorito, allattato e nutricato da Lei, la chiamerà tanto veracemente Madre, quanto chiama veracemente Padre il suo Padre celeste. Lo Spirito Santo amore personale e increato del Padre e del Figlio sopraintenderà quest’opera che eccede ogni comprensione umana ed angelica, e sopravvenendo a fecondare il sen della Vergine la farà sua sposa. Ecco dunque, o signori, che le divine Persone santificando Maria, concorrono alla propria gloria, dovendo Ella con Esse intrecciarsi, intromettersi e intrinsecarsi per modo, da essere cosa tutta singolare, tutta divina, creatura sì certo ma tal creatura che formi un ordine, un ceto, un grado da se con nomi e privilegi incomunicabili, come quelli di Dio. Chi può dubitare pertanto che oltre la grazia necessaria a farla immune dalla colpa di origine e cara al Signore, oltre a sterminare ogni fomite da quella carne che doveva diventar carne del Figlio di Dio; un cumulo, un soperchio, uno strabocco, un tesoro non aggiungessero di grazie e di doni, che la santità di Maria facessero fino dal primo istante una santità tanto singolare da quella di tutti gli Angeli e di tutti i Santi, quanto sovrasta a quella di tutti gli Angeli e di tutti i Santi la dignità e l’ufficio di Madre di Dio? O sì, sì, rispondono un gran numero di Dottori e di Santi, si. Il Signore dilesse le porte e la prima soglia di questa eletta Sionne più che tutti i tabernacoli di Giacobbe. Mettete quindi tutti insieme gli Angeli e i Santi; la grazia che li arricchisce raccolta in un cumulo, non pareggia quella che fece bella Maria nel primo istante che fu concetta. Stupite forse? Ma che stupire, dice il pontefice S. Gregorio. È Maria un monte piantato sulle cime dei monti, e dove la santità dei Santi finisce, ivi comincia quella della Vergine. Mons Domini in vertice montium: montìs nomine intelligimus beatam Virginem designari. – Negli altri Santi, segue S. Girolamo, l’infusione della grazia si fece per parti: in Maria no, in Maria tutta in un tempo se ne traboccò la pienezza, come un regio fiume nel mare con tutta la mole delle onde. Cæteris per partes, in Maria simul se tota infudit, plenitudo gratiæ. Non se ne dubiti, conclude S. Bernardino:
Mariæ, plenitudo perfectionis Sanctorum omnium non defuit. La pienezza della perfezione di tutti i Santi, non mancò quando fu fatta bella Maria. Ma udiamo, se vi piace, favellare Maria medesima con le parole che le pone sul labbro in questo giorno la Chiesa e questa sovraeminenza di grazia sulla grazia di tutti i Santi fin dalla sua concezione vedremo adombrata con tanta leggiadria di immagini, che ci empirà di diletto. Io procedetti, dice Ella, dalla bocca dell’Altissimo primogenita di ogni creatura. Io dischiusi in Cielo una fontana indeficiente di luce, e quasi aereo vapore tutta adombrai la terra. Posi mia stanza su nell’empireo e il mio trono piantai sovra una colonna di nubi. Feci soletta il giro dei Cieli, penetrai in seno agli abissi, passeggiai sui flutti del mare. Strinsi su tutta la terra lo scettro, e colsi in ogni popolo i primi onori. I cuori dei sublimi e degli umili soggiogai in mia possanza, e il Signore che riposò nel mio tabernacolo, abita, mi disse, con Giacobbe, sia tuo retaggio Israele, e gettai negli eletti le tue radici. E io le gettai in mezzo a un popolo glorioso, nella eredità del mio Dio, nella pienezza dei Santi. Sublimai me medesima come cedro del Libano, come cipresso di Sion: spinsi al cielo la fronte come palma di Cades, spiegai l’onore delle foglie come rosa di Gerico, lussureggiai vivace come platano lunghesso la corrente dell’acque, al modo di terebinto distesi i rami, mandai fragranza di balsamo, di cinnamomo, di mirra, e di profumo soavissimo vaporai la dimora in cui mi pose il Signore. Che vuoi dirci con questo o Maria se non che Tu sei la colomba, la perfetta dello Spirito Santo, e che se le leggiadre garzonette di Sion non hanno numero, Tu di bellezza e di grazia tutte le vinci.
5. Maria franca ed immune dalla macchia di origine; Maria libera dal fomite del peccato; Maria fatta ricca di tanta grazia, che quella eccede di tutti insieme gli Angeli e i Santi, e tutto ciò in un istante, nell’istante primissimo che fu concetta. Chi non si accorge che questa eccellenza di principio presagisce un esito, che deve eccedere ogni misura? Sì. Quando pure di Te o Maria altro non ci fosse noto che questo soperchio di prodigi accumulati sul primo istante dell’esser tuo, presentiremmo e argomenteremmo gran cose, e per poco non sospetteremmo la divina maternità. Che meraviglia pertanto se io aggiunga, che Maria nella sua concezione fu confermata in grazia per modo, che la sua volontà stabilita nel bene, fosse capace di ogni eccellenza di merito, fosse incapace di ogni mutazione colpevole? Ripugnava tanto il peccato alla futura dignità di Maria, che ogni colpa anche minima l’avrebbe, al dir dell’Angelico, fatta sproporzionata alla divina maternità. Quindi il Signore non solo non volle neppure per un istante il peccato in Maria, ma neppur ci volle la possibilità del peccato, e tal siepe le fece intorno di doni e di grazie, che stordirono gli Angeli del Paradiso, vedendo in una pellegrina di questa terra, ciò che non credevano possibile, altro che nei comprensori del Cielo. Così fu un orto Maria nel quale ogni più eletto fiore germogliava di virtù pellegrina, ma quest’orto era chiuso né vi poteva avere accesso per disertarlo il peccato. Così fu un fonte Maria, e sgorgava con vena indeficiente un tesoro di opere sante, ma questo fonte era suggellato, né contaminazione di polvere o di immondezza terrena ne poteva intorbidare gli argenti. Così era una porta Maria, ma questa porta serbata all’ingresso del Santo dei Santi, era chiusa per sempre ad ogni piede profano. O spettacolo bellissimo la nostra Madre che piena tutta di grazia non la poteva perdere; né mai neppure una macchia, neppure un neo di quelli medesimi che son portato naturale della nostra miseria, giunse ad offendere l’intemerato candore di quell’anima. O quanto si sublima agli occhi nostri, quanto cresce passo passo questa eletta creatura concetta appena: e bene sta, dice Sofronio. Talibus decébat Virginem oppignorari muneribus,
quæ dedit cœlis gloriam, terris Deum. Con questo arredo di doni, con questa pompa di grazie si convenivano infiorare i primi istanti di questa Vergine; arra e pegno delle nozze future del Santo Spirito e della maternità del Verbo del Padre.
6. Ma se è così, un’altra grazia, corona e compimento di tutte, desidera a questa dolce concetta il nostro cuore: ed è che per Lei per la quale tante leggi si rompono, si rompa anche quella che condanna chi dimora nel sen materno, alla stupidezza e alla inerzia. Sia questa la sorte nostra in quel claustro che bene sta. Imperocché se si aprissero gli occhi del nostro intelletto, non vedremmo altro fuorché la sordida veste del peccato che ci ravvolge. Ma Maria piena di tanta grazia, circondata di tanta magnificenza, apra o apra gli occhi della mente, e si accenda di santi affetti, e sciolga un inno di lode a chi la fé santa. Rallegriamoci, dice Bernardo, che così fu. Era nel claustro tenebroso del seno materno Maria, ma né quelle tenebre infoscavano la luce dell’intelletto, né quelle angustie inceppavano la libertà dell’arbitrio. Potette, seguita il Cartusiano, al suono della voce di Maria esultare nel seno materno il Battista, e perché non dovremo credere prevenuta dal lume della ragione la prediletta di Dio? Ebbero gli Angeli, ebbero Adamo ed Eva insieme con l’essere l’uso spedito e libero dell’intelletto, chi vorrà negare a quest’Eva novella che lavò l’onta e riparò il fallo dell’antica, un dono che privilegiò quella prima? O soave pensiero! Maria che aprendo gli occhi nell’istante medesimo che fu concetta si trova santa, e comincia a trafficare il tesoro che la fa ricca, né un istante le passa di quel tempo medesimo che corre ozioso per noi, nel quale con ineffabil moltiplico non operi per farsi piena di grazia. Prodigi sono questi ma non son tali che superino Maria medesima. Fecit mihi magna qui potens est. (Luc. I , 49) ci dice Ella di sua bocca, licenziandoci a pensare ogni gran cosa, perché la misura si serba cogli altri Santi, ma con Maria, non erat impossibile apud Deum omne verbum, (Luc. I. 37.) non ci è altra misura che l’Onnipotenza divina. Figliuola di Adamo, ma senza colpa, vestita di carne ma senza fomite, nel primo istante dell’essere è Sovrana fra i Santi, impeccabile ma con merito, concetta appena e dotata già di ragione. Vi sgomenta la pugna di tanti contraddittori ? Aggiungete adunque: Incorrotta ma senza sterilità, feconda ma senza lesione, gravida ma senza peso, partoriente ma senza doglie, Madre ma sempre Vergine, moribonda ma senza angosce, defunta ma senza putrefazione, beata ma insieme col corpo, e che è dir tutto in uno, Creatura e pur Madre, Figliuola e Sposa di Dio. O Maria, miracolo di tutti i miracoli noi non abbiamo mente per comprenderti e ne gioiamo, perché la nostra ignoranza medesima rende testimonianza alla tua grandezza, che Dio solo conosce quanta è, Soli Deo cognoscenda reservatur.
7. Maria dunque figliuola di Adamo né più né meno di noi, è stata dalla grazia del Signore nobilitata ed innalzata così, che a malo stento si riconosce in Lei questa nostra natura, in noi fiacca, vulnerata, inferma, peccaminosa, in essa sana ed intatta. Ma che perciò? Crederem noi che come nel mondo coloro che di basso stato ed abbietto si sollevarono ad alta fortuna, sogliono riguardare con occhio disdegnoso chi un giorno andava del pari con essi, quasi la vista di lui getti loro in faccia la nativa viltà; così Maria privilegiata dalle vergogne e dal danno della stirpe di Adamo, non degni sì basso da raccomunarsi con noi miseri eredi della miseria e della colpa del comun padre? No certamente: e come di Gesù è detto dall’apostolo Paolo, che non è tal Pontefice che non possa compatire alle nostre miserie circondato come fu anch’egli su questa terra d’infermità; così Maria privilegiata mentre visse mortale da ogni peccato, privilegiata da quegli effetti del peccato che importano corruzione e vergogna, subì quelli che hanno ragione di mera pena, e santissima e innocentissima sempre fu pur soggetta come Gesù ai dolori e alla morte. E ora assisa nel Paradiso in soglio eccelso di gloria, vestita di sole e coronata di stelle, la fa da Madre per noi, e mentre Gesù offre all’Eterno Padre le piaghe ed il sangue per la nostra salute, Maria perora la causa nostra al cospetto di Gesù, mostrandogli, al dir di Bernardo, il grembo che lo portò e le mammelle che lo allattarono. Ed oh! se noi amassimo Maria come Ella ci ama, se la amassimo signori miei noi beati! Che manca mai ad un’anima che ama Maria? Tutti i tesori della divina Onnipotenza sono aperti per lei, essendo che Maria ne ha le chiavi, e tanto non è ritrosa di aprirli e profonderli, che nulla tanto desidera quanto di arricchire altrui delle ricchezze, le soprabbondano. Permettetemi dunque che levi la voce qui su quest’ultimo e domandi. Quanto è grande l’amore che noi portiamo a Maria? Giovane che hai tanti nemici rabbiosi che ti combattono, tante passioni imperversate che fremono, tanti desideri irrequieti che bollono, che hai latto della devozione che fece tanto soave e pacifico l’esordio della tua gioventù? Dove è andato o fanciulla quel sì tenero affetto verso Maria che tante volte ti ha cavato per consolazione dagli occhi le lacrime, e infiorò di gioia ineffabile gli anni beati della tua innocenza? Ahimè! Cominciò l’amore delle vanità, e menomò quella fiamma. Colla vanità si congiunse quella passione e la spense. Infelici avete scacciato dal cuore Maria, ma con Maria è sparita l’innocenza e la pace, e menate i giorni nel rimorso e nel rodimento. Padri e madri di famiglia, che è stato nelle vostre case della divozione a Maria? Perché più non si recita alla sera il Rosario della Vergine Vergine? Perché si sono intermesse quelle novene? Perché quelle devozioni che da tanti anni empivano di benedizioni la casa sono andate in disuso? Infelici, avete cacciato Maria. Ma uscita Maria ci è entrata la discordia, ci è entrata la disgrazia. Dio non voglia che ci sia entrata l’empietà e il disonore. Che è stato insomma, lo domando a chiunque ha incorso questa gran perdita, che è stato della divozione a Maria? Infelice chi più non ama Maria! A chi si volgerà nei pericoli? Chi invocherà nelle tribolazioni? Con chi sfogherà il suo cuore nei dolori? Chi lo sosterrà nelle miserie della vita? Chi lo aiuterà nelle agonie della morte? O Madre Maria non sia te ne scongiuriamo, non sia mai che alcuno di noi incorra una perdita così funesta come quella dell’amor tuo! Oggi è giorno memorando per noi. È il giorno anniversario di quello in cui noi medesimi esultammo per giubilo alla corona novella che ti cinse la fronte, e ti rinnovammo il dono dei nostri cuori. In questo giorno pertanto detestiamo le negligenze passate, in questo giorno te ne chiediamo perdono, in questo giorno a te ci consacriamo e promettiamo di amarti. Tu ricevi la nostra offerta, ascolta la nostra preghiera, e afforza e premunisci il cuor nostro contro l’amore del secolo acciocché regni in esso con te il tuo divino figliuolo Cristo Gesù che è Dio benedetto sopra tutte
le cose nei secoli dei secoli.